storia di venti anni/6

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storia di venti anni/6
FONDATA DA FILIPPO TURATI NEL 1891
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Grafica: Gianluca Quartuccio Giordano
Rivista di Cultura Politica, Storica e Letteraria
Anno CXXI – N. 12 / 2012
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■ SEI FASCICOLI CON UN’ANTOLOGIA DI DOCUMENTI, DI ANALISI E DI DENUNCE MAI ASCOLTATE. MA OGGI PROFETICHE
STORIA DI VENTI ANNI/6
LA CRITICA SOCIALE E LA SECONDA REPUBBLICA
SOMMARIO
Selezione 2000 - 2005 (segue nei prossimi numeri)
ANTONIO VENIER
pag. 10
Maastricht, un patto
di recessione
GIANLUIGI DA ROLD
pag. 11
Poveri di democrazia
LUCA ANTONINI
pag. 12
I padroni delle imposte
ANGELO M. PETRONI
pag. 14
Una nuova idea di Welfare
TONY BLAIR
MASSIMO PINI
pag. 16
pag. 3
Welfare e partecipazione
L’Iri e il saccheggio dell’Italia
GRAZIANO TARANTINI
STEFANO CARLUCCIO
Banche, transizione incompiuta
Per una costituzione liberale
UGO FINETTI
GIULIANO PISAPIA
pag. 17
pag. 6
pag. 18
pag. 8
Il socialismo di Craxi
La pena deve rieducare
ANGELO M. PETRONI
pag. 22
C. MARTELLI E S. CARLUCCIO pag. 9
POSTE ITALIANE S.p.A. Spedizione
in a.p.D.L. 353/03 (conv. L. 46/04) Art. 1
comma 1, DCB Milano - Mens.
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9
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Il futuro è nell’autogoverno
Nuova Unione Europea
e federalismo competitivo
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CRITICAsociale ■ 3
12 / 2012
■ 2000 - NUMERO 6
L’IRI E IL SACCHEGGIO DELL’ECONOMIA
Massimo Pini
Dalla nascita nel 1933, fino alla messa in
liquidazione del 28 giugno 2000 l’Istituto
per la Ricostruzione Industriale, meglio conosciuto con la sigla IRI, è stato il protagonista più emblematico del sistema economico “misto” italiano, in cui pubblico e privato (ma anche economia e politica) si sono
fin troppo spesso intrecciati.
Eppure per tutti gli anni Sessanta l’IRI è
stato il motore dello sviluppo economico per
poi trasformarsi in strumento di interventi
contro la disoccupazione e per rimediare
agli errori di gestione degli imprenditori
privati. Con questa analisi, Massimo Pini
ripercorre le vicende spesso oscure della
storia dell’IRI: dalle realizzazioni delle origini alle circostanze che ne determinarono
la crisi finanziaria, fino alla singolare vicenda di colui che durante gran parte degli
anni Ottanta ha guidato un IRI non risanato, nonostante la gigantesca iniezione di denaro pubblico. Sette anni di presidenza
quelli di Romano Prodi nei quali l’Istituto
non ha certo mostrato il suo volto migliore:
dal “pasticciaccio brutto” della SME alla
vendita dell’Alfa Romeo, dal crac del settore siderurgico allo scandalo dei fondi neri.
Infine l’IRI è stato l’illustre vittima della
globalizzazione dei mercati e della realizzazione dell’Unione Europea: si decise allora
che il sistema misto italiano non avrebbe
potuto sopravvivere.
Pini racconta i retroscena delle decisioni
economiche che, prese dopo la caduta del
Muro di Berlino, puntarono alla privatizzazione delle banche e delle industrie dell’IRI,
in condizioni che portarono spesso a casi di
svendite. La caduta dell’Istituto ha trascinato con sè una classe di governo che ne
aveva voluto lo sviluppo senza poterlo adeguatamente finanziare.
Il libro (I giorni dell’Iri, Storie e misfatti da
Beneduce a Prodi Mondadori) si avvale di
una vasta documentazione per buona parte
inedita ed è costruito su un solido complesso
di fatti, cifre, nomi e date che ne provano e
ne confermano l’intento: far luce finalmente
su una variegata e a volte torbida realtà, inquadrandola nella sua interezza. Di queste
pagine pubblichiamo gli ultimi due capitoli,
“I seppellitori” e “La fine dell’IRI”.
N
el febbraio 1996, quando
sembrava che il pullman elettorale di Romano Prodi fosse
stato spinto in un fosso dal governo delle «larghe intese» di quell’Antonio Maccanico che
era stato presidente di Mediobanca, avvenne
l’ultimo tentativo dei «boiardi alla seconda
crociata» per invertire il trend liquidatorio iniziato da Ciampi e proseguito con qualche riserva da Lamberto Dini. Il presidente dell’IRI
Tedeschi non sapeva decidersi tra due ipotesi
di privatizzazione dei due grandi gruppi STET
e Finmeccanica: prima smembrare, e poi vendere azienda per azienda? Oppure cedere in
blocco i pacchetti delle due finanziarie? Nel
primo caso, si sarebbe potuto ottenere un incasso maggiore, ma a farne le spese sarebbero
stati i piani industriali dei due gruppi. Contro
questa visione cinicamente finanziaria insorsero Ernesto Pascale, amministratore delegato
della STET, e Fabiano Fabiani, presidente di
Finmeccanica, mobilitando settori del Parlamento.
I membri di quel consesso eletto nel 1994,
ma non meno delegittimato di quello eletto nel
1992, perché si era realizzata una maggioranza
che non rientrava nei piani degli ottimati, tanto
che era stato necessario ribaltarla per mettere
in piedi alla meno peggio un governo tecnico
affidato all’ex direttore generale della Banca
d’Italia, tentarono quindi di sostenere le ragioni del mondo del lavoro e della produzione
contro i liquidatori del ministero del Tesoro:
un centinaio di parlamentari protestarono. Ma
poiché il Parlamento non aveva ormai più alcuna competenza sulle privatizzazioni, quella
protesta non sarebbe stata sufficiente a fermare
lo «spezzatino»: invece arrivarono altri segnali, molto più autorevoli. Eugenio Scalfari fece
sapere di essere dalla parte di Fabiani, Tedeschi ricevette, a quanto riportava la stampa,
pressioni dallo stesso D’Alema, segretario dei
post-comunisti. Scongiurato lo «spezzatino»,
di fatto la privatizzazione dei due gruppi era
rinviata sine die, dal momento che appariva
molto difficile trovare chi volesse comprarli
così com’erano. «L’IRI» commentò sconsolato l’avvocato Agnelli «ha avuto un senso
quando è stato creato. Poi, già nel dopoguerra,
ha assunto delle dimensioni improprie ed è
stato difficile da ridimensionare. E così sarà
ancora». Ma il progetto di Maccanico che prevedeva un nuovo ministero per le infrastrutture da affidare all’avvocato Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato non decollò: era ormai aperta nuovamente
la strada delle elezioni anticipate. Di quell’interregno approfittò il focoso Nino Andreatta,
il quale portava come fiore all’occhiello l’accordo con Van Miert sulla riduzione dei debiti
degli ex enti di Stato, da lui negoziato in qualità di economista prestato al dicastero degli
Esteri del governo Ciampi: se gli fosse stato
attribuito un ministero economico, più adatto
alle sue competenze, forse l’Italia avrebbe evitato di essere trattata come l’ultimo dei partner
europei.
Intervistato dal sempre vigile quotidiano
della Confindustria il 3 febbraio 1996, Andreatta si fece minaccioso: «L’IRI si sbrighi a
vendere la STET. Altro che rinegoziare l’accordo del luglio ‘93... È un’idea, quest’ultima,
che sento circolare anch’io, ma che mi manda
in bestia, perché è una vera follia». Secondo
l’economista, l’accordo aveva posto fine a uno
stato di guerriglia fra l’Italia e la burocrazia
comunitaria, che durava da molti anni, causata
dalle inadempienze italiane.
L’IRI doveva ben sapere che la sua politica
di dismissioni doveva essere sincronizzata con
le intese del 1993: «Doveva pensarci prima».
Il collerico e polivalente Andreatta sarà ministro della Difesa nel governo Prodi per il momento privo di poltrona ma ben certo della
giustezza delle proprie idee in materia di politica comunitaria, dipinse un quadro apocalittico, nel quale l’Italia sarebbe sprofondata in
caso di inadempienza alle scadenze fissate in
quella notte del luglio 1993:
«L’Unione europea potrebbe portare il nostro paese davanti all’Alta Corte di Giustizia
che verosimilmente condannerebbe l’Italia a
modificare l’articolo 2362 del codice civile
sulla responsabilità illimitata dell’azionista
unico, in questo caso del Tesoro, per i debiti
delle società da esso interamente detenute».
Nessuno replicò, neppure per far notare che
l’Italia era ancora uno Stato sovrano, nonostante i suoi Andreatta. Timidamente un membro del consiglio di amministrazione dell’IRI
spa, Enrico Zanelli, suggerì sul «Corriere della
Sera» che il vincolo di gran lunga più paralizzante per l’Istituto era quello assunto con Bruxelles di ridurre l’indebitamento in limiti e
tempi ormai strettissimi. Nessuno intendeva
rinnegare l’accordo del 1993, ma almeno fosse
concessa la par condicio con qualsiasi gruppo
privato che realizzasse un programma di dismissioni «anche radicale, ma senza che ricorrano o siano artificialmente indotte scadenze
e condizioni liquidatorie fallimentari».
Parole di buonsenso, inascoltate in quella
Italia che dopo Mani pulite aveva abbandonato
la strada dell’obiettività per tracimare nei torrenti dell’intolleranza e dei giudizi sommari.
Appena installato Prodi a Palazzo Chigi, Van
Miert fece sapere che gli sarebbe piaciuto che,
una volta affrontate le priorità del Paese, venisse chiuso anche il capitolo IRI. Egli contava
su Prodi, con il quale aveva lavorato «molto
produttivamente» quando questi era stato presidente a via Veneto nel 1993: sebbene non
escludesse una proroga del termine fissato per
fine 1996 nell’accordo concluso con Andreatta
tre anni prima, Van Miert richiamava gli «impegni chiari» presi dall’Italia, e volle ricordare
minacciosamente il caso EFIM, quella liquidazione voluta da Amato, dalle cui conseguenze erano nate le condizioni iugulatorie dell’accordo del 1993. «Van Miert fa il duro solo con
l’Italia», notò Pietro Armani, responsabile per
l’economia di Alleanza Nazionale. «Gli accordi fatti da governi tecnici senza vera rappresentanza vanno rinegoziati»: Armani si riferiva al governo Ciampi. Quando Prodi infine
prese decisamente la strada di assolvere a tutti
gli impegni necessari per entrare al primo turno nella moneta unica, ed ebbe fatto di questo
obiettivo il fulcro della politica del suo governo, egli dovette di necessità superare i problemi che l’Istituto gli gettava fra i piedi: pur essendo stato di volta in volta il protetto e il protettore degli Agnes e dei Fabiani, né la STET
né la Finmeccanica dovevano creare intralci
sulla strada dell’euro, fino al traguardo raggiunto nel maggio 1998. Il 21 novembre 1996
il governo emise il decreto-legge 598, che però
venne bocciato alla Camera nel gennaio 1997.
Il governo Prodi allora presentò un disegno di
legge, ridotto a quindici righe, al Senato, dove
disponeva di un’am pia maggioranza: in esso
venne inserita anche una interpretazione autentica dell’esclusione delle offerte pubbliche
di acquisto (OPA) per le operazioni infragruppo. Anche lo Stato e gli enti pubblici dovevano
essere considerati parte di uno stesso gruppo:
ciò significava che per la privatizzazione della
STET non sarebbe stato necessario applicare
l’OPA alle azioni non controllate dall’IRI, qualora il pacchetto di maggioranza fosse stato acquisito, come poi avvenne, dal Tesoro. Di fatto, era l’ennesima risposta negativa ai piccoli
risparmiatori che in passato avevano creduto
nei titoli delle PPSS. Essendo il decreto-legge
immediatamente operativo, la presidenza del
Consiglio emise il 6 dicembre una direttiva, e
infine il Tesoro il 16 dicembre 1996 emanò un
decreto di sei articoli: l’IRI avrebbe ceduto le
sue partecipazioni nella STET al Tesoro, incassando come acconto 14.530 miliardi, in
modo da portare nel bilancio 1995 una plusvalenza di 3496 miliardi. Ciampi, che era entrato
nel governo Prodi come ministro del Tesoro,
versò 3000 miliardi pronta cassa alla girata dei
titoli, il 21 dicembre 1996: ma quei soldi erano
destinati «in via esclusiva», come precisava
con puntiglio il decreto, al rimborso dei debiti,
cui l’Istituto avrebbe dovuto provvedere «sen-
za indugio, nei termini tecnici strettamente necessari, dandone conferma al Tesoro a pagamento avvenuto». Addirittura, l’IRI era obbligato a comunicare preventivamente al Tesoro
quali fossero le partite debitorie che intendesse
estinguere.
Sia Prodi che Ciampi tennero quindi fede alle promesse di Andreatta a Van Miert: entro il
1996 i debiti dell’IRI vennero abbattuti, grazie
alla frettolosa vendita della STET al Tesoro.
L’Istituto si trovava quindi nella condizione di
liquidazione coatta, il cui commissario non era
Michele Tedeschi, ma il ministro del Tesoro
Carlo Azeglio Ciampi. D’altronde il presidente
dell’IRI era riuscito ad allinearsi ancora prima
del decreto-legge: il 19 novembre aveva scritto
una lettera al «Corriere della Sera», nella quale
si dichiarava d’accordo su tutto, dal prezzo
delle azioni STET al travaso dei soldi contestuale dalle proprie casse a quelle dei creditori.
Nella stessa occasione replicando ad Alessandro Penati, Tedeschi ricordava che i debiti dell’IRI erano scesi dai 33.000 miliardi di fine
1992, ai 21.900 di fine 1995: e ora con l’incasso di 14.350 dal Tesoro, l’indebitamento si
avvicinava al rapporto di 1,2 sul patrimonio
netto di circa 6000 miliardi, che poteva essere
considerato fisiologico per un investitore privato, secondo i parametri della Commissione
europea messi in auge da Brittan.
Per le rimanenti partecipazioni dell’IRI spa,
Tedeschi valutava un incasso possibile di
27.500 miliardi, più 5000 di crediti finanziari:
«Risulterebbe quindi un margine ampio, oltre
10.000 miliardi, che conferma la solvibilità
dell’IRI e la capacità di far fronte all’intero indebitamento». Le considerazioni di Tedeschi
confermavano che l’IRI non era mai stato in
condizioni catastrofiche, che gli investimenti
avevano creato un patrimonio in grado di coprire i debiti e di garantire una notevole plusvalenza allo Stato, al contrario di quanto una
pluriennale campagna di stampa aveva fatto
credere alla opinione pubblica. La crisi tutta
finanziaria dell’IRI era da imputare ai ritardi
e alle inadempienze dell’azionista Stato, il
quale aveva sempre approvato i programmi in
nome dello sviluppo dell’occupazione, ma non
aveva dato i mezzi necessari. Ora da quella
crisi era nata l’occasione del secolo per i privati: i governi tecnici degli anni Novanta, figli
di Mani pulite, si erano mossi in modo opposto
al Mussolini degli anni Trenta, il quale aveva
tolto ai privati seguendo le indicazioni di quei
veri grands commis dello Stato che furono Beneduce e Menichella.
Il ministero del Tesoro era divenuto una
nuova superholding: si calcolava che le sue
partecipazioni raggiungessero il valore aggregato di 400.000 miliardi, analogo alla capitalizzazione complessiva di Borsa. Soppresso il
ministero delle PPSS, a capo dell’impero delle
partecipazioni dello Stato si trovava ora Mario
Draghi. Secondo Sabino Cassese, nella direzione generale del Tesoro si era venuta a creare una centrale di guida più potente e con compiti ancora più vasti. Draghi, nato nel 1947, era
figlio di un collaboratore di Donato Menichella; allievo di Federico Caffè, l’economista misteriosamente scomparso, e di Franco Modigliani al Massachusetts Institute of Technology (MIT), nel 1986 era stato nominato direttore esecutivo della Banca Mondiale; in quei
cinque anni strinse rapporti di amicizia con
Jack Rubin, uno dei capi della Goldman Sachs
e fino alla primavera del 1999 ministro del Tesoro del presidente Clinton.
Nel 1990 Draghi tornò a Roma e ottenne
una consulenza alla Banca d’Italia da Guido
Carli, il quale lo raccomandò a Nobili per una
posizione all’IRI. Richiesto da Nobili quali
fossero le sue ambizioni, Draghi aveva risposto che gli sarebbe parsa adeguata la carica di
4 ■ CRITICAsociale
direttore generale, ma alla risposta che il posto
era già occupato, il colloquio finì senza sviluppi. Nel gennaio 1991 Carli riuscì a sistemare Draghi nell’incarico di direttore generale
del ministero del Tesoro, nonostante che Andreotti e Cirino Pomicino sostenessero una
candidatura diversa: così Draghi era divenuto
uno degli uomini più potenti d’Italia, perché
oltre che delle privatizzazioni, la direzione generale del Tesoro si occupa anche del debito
pubblico. Membro di diritto dei consigli di
amministrazione di IRI ed ENI, Draghi era anche membro del «G10 deputies», l’organismo
di concertazione dei paesi più ricchi dell’OCSE, e del Comitato monetario europeo. Molto
riservato, Draghi non era uso a rilasciare interviste; una volta però, per alcune dichiarazioni sulla riforma del diritto societario, venne
ripreso da Eugenio Scalfari, che lo paragonò
a un «giovane yuppie»: «Solo che gli yuppies
avevano come obiettivo la ricchezza e da quella misuravano il loro successo, mentre per
Draghi il successo coincide con l’estendersi
del potere da lui amministrato».
Il 24 gennaio 1997 il Tesoro licenziò Biagio
Agnes ed Ernesto Pascale e mise a capo di Telecom Italia, la società nata dalla fusione della
STET con Telecom già SIP, Guido Rossi, in
passato senatore del PCI e presidente della
Consob. Se era stato relativamente facile per
il Tesoro liquidare i due, la questione di Fabiano Fabiani si presentava ben diversa. Nonostante il rapporto di 2,3 lire di debiti per ogni
lira di patrimonio, la Finmeccanica rappresentava uno dei pochi gruppi nazionali di alta tecnologia: dopo l’acquisto per oltre 1000 miliardi dell’azienda tedesca Hartman & Braun dalla
Mannesmann nel 1995, che aveva lasciato
strabiliati gli analisti per l’entità del prezzo,
Finmeccanica era divenuta il secondo produttore mondiale di sistemi per l’automazione industriale. In previsione che andasse a buon fine l’acquisto della Breda dal liquidatore dell’EFIM, Alberto Predieri, il treno veloce italiano sarebbe stato tutto prodotto dalla azienda
di Fabiani: così il gruppo avrebbe aggiunto
due posizioni di rilievo internazionale a quelle
già ottenute nell’aerospazio e nella difesa con
Alenia, negli elicotteri con Agusta, nell’energia con Ansaldo.
A Fabiani non era certo mancato il favore
dei governi, dopo Andreotti: Ciampi gli aveva
ricapitalizzato le aziende ex EFIM perché potesse prendersele sane; Berlusconi gli aveva
garantito commesse per 10.000 miliardi in otto
anni; l’IRI lo aveva sostenuto finanziariamente
per l’espansione nel settore difesa, quando la
guerra con l’EFIM era stata vinta inglobandone le aziende; il governo Dini aveva approvato
un piano di finanziamenti di 2700 miliardi per
il gruppo. Tutto questo consentiva ad Alessandro Penati di affermare sul «Corriere della Sera» del 4 maggio 1997 che i governi avevano
«sempre appoggiato e finanziato la galoppata
di Fabiani verso il dissesto». Ma con queste
favorevoli premesse, perché mai l’«etrusco»
non avrebbe dovuto sentirsi tranquillo, ora che
il suo vecchio amico Prodi si trovava installato
a Palazzo Chigi? Il sostegno non solo degli antichi sodali democristiani di sinistra, risparmiati da Mani pulite, ma anche degli eredi del
comunismo, nonché del gruppo giornalistico
di Scalfari e De Benedetti e del suo circolo di
relazioni personali tra le quali spiccava il ministro del Tesoro, non gli sarebbe mancato in
caso di necessità.
Tuttavia, alla fine del 1996, i debiti raggiungevano quasi il fatturato: 11.016 miliardi contro 14.950.
Le banche che vantavano crediti San Paolo,
Comit, Credit, Banca di Roma, BNL, IMI, Popolare di Milano, Popolare di Novara e Banca
Toscana li avevano convertiti piuttosto di ma-
12 / 2012
lavoglia nel 22,62 per cento del capitale sociale: ma nel corso del 1997 svalutarono le loro
partecipazioni di quasi un quarto.
Già nel maggio 1996 l’Istituto aveva ribadito a Fabiani in una direttiva il progetto di scorporo, lo «spezzatino» sventato alla fine del
1995, e cioè la messa in vendita di Alenia, Elsag Bailey e Ánsaldo per far cassa e saldare
almeno una parte dei debiti: ma Fabiani aveva
fatto orecchi da mercante, osservando con distacco e forse con disprezzo quell’agitazione
inconcludente. Nel settembre 1995, alla cerimonia di inaugurazione della Fiera del Levante a Bari, Massimo D’Alema aveva fatto al ministro dell’Industria Alberto Clò le sue lodi.
Però i veri padroni abitavano al ministero del
Tesoro, primo fra essi Mario Draghi che aveva
studiato al liceo dei Gesuiti a Roma, il Massimiliano Massimo.
Quando Fabiani nel bilancio 1996 evidenziò
una perdita di 540 miliardi, quella mossa audace voleva significare che ormai erano necessari capitali freschi, e che il gruppo quotato in
Borsa doveva mettere fine alla politica degli
utili inadeguati rispetto al giro di affari, se voleva crescere su basi sane. Però gli amici di
Fabiani questa volta riuscirono soltanto, sia
nell’Ulivo che nel Polo, a chiedere all’unisono
il 29 aprile 1997 il rinvio dell’assemblea di bilancio: essi non sapevano che pesci pigliare di
fronte all’improvvisa novità di perdite così ingenti, e contavano di prendere tempo con un
dibattito alle Camere sulla vicenda. Ma il Tesoro fu irremovibile: non si poteva consentire
un ritorno al passato, al peggiore periodo delle
PPSS, alla mescolanza di politica e gestione
delle aziende pubbliche.
Il 24 aprile 1997, un giovedì, il consiglio di
amministrazione dell’IRI aveva bocciato il bilancio 1996 della Finmeccanica, senza neppure citare le ragioni di pulizia dei conti, che avevano portato alla perdita. Via Veneto impose
il ritorno allo schema organizzativo di holding
finanziaria, ma Fabiani a quel punto dichiarò
che si sarebbe presentato dimissionario all’assemblea. Il 27 aprile il giornalista Bruno Manfellotto, amico di Fabiani, tirò fuori dall’oblio
sul «Mattino» di Napoli un episodio accaduto
quando Sette era succeduto a Petrilli, e Fabiani, all’epoca direttore delle Relazioni esterne
dell’Istituto, sosteneva la candidatura interna
del direttore generale Alberto Boyer. Micheli,
sottosegretario alla Presidenza di Prodi a Palazzo Chigi, ma all’epoca capo del personale
dell’IRI, aveva convocato Fabiani: «Il nuovo
presidente l’accusa di non aver dimostrato sufficiente fedeltà al gruppo». «Dica al presidente
che la fedeltà è dei cani, la lealtà degli uomini.» Questo scambio di battute sembrava indicare in Micheli l’autore del complotto: Palazzo
Chigi fece allora sapere, attraverso una nota di
«ambienti vicini», che la decisione fatale che
aveva messo Fabiani con le spalle al muro era
stata presa d’intesa fra Istituto e Tesoro; Ciampi a sua volta si affrettò a smentire, sottolineando che l’IRI era ormai una società per azioni; non più un ente pubblico.
Il 29 aprile Mario Draghi scrisse da Washington a Tedeschi sostenendo che nell’assemblea
della Finmeccanica l’IRI avrebbe dovuto annunciare «la propria strategia in merito al futuro della società» e, se Fabiani avesse confermato le dimissioni, il rappresentante dell’Istituto avrebbe dovuto invitarlo a ritirarle «immediatamente». A queste disposizioni del padrone, Tedeschi così replicò sconcertato: «Se,
come dici tu, l’IRI deve tenere ferme le proprie valutazioni sulle strategie della Finmeccanica, non vedo come possa al tempo stesso
invitare a ritirare le dimissioni, che Fabiani
motiva proprio con il dissenso su quelle strategie». Ma quella lettera di Draghi aveva proprio il compito di rivelare un messaggio obli-
quo: il mittente non aveva partecipato, così come né Micheli né il ministro del Tesoro, alla
detronizzazione del presidente di Finmeccanica. Il cerino acceso restò nelle mani di Tedeschi, che non aveva studiato dai Gesuiti.
L’onda d’urto della caduta di Fabiani si propagò inesorabile: il pupillo di Draghi, Francesco Giavazzi, si affrettò a rilevare sul «Corriere della Sera» che, «se l’IRI non condivideva
quel bilancio, era suo dovere imporre al consiglio di amministrazione diversi criteri di redazione dei conti, non bocciarli una volta approvati». Non sedevano forse nel consiglio di
Finmeccanica i rappresentanti dell’Istituto?
Giavazzi ipotizzava, per il povero Tedeschi,
un «doveroso pensionamento». Il missile a due
testate raggiunse quindi dopo Fabiani il presidente dell’IRI. Convocato alla Commissione
industria del Senato, il ministro del Tesoro da
una parte affermò di condividere con via Veneto il piano di riordino della Finmeccanica,
dall’altra dichiarò che «il governo considera
conclusa la missione industriale dell’IRI».
La vicenda dimostrava, se vi fossero ancora
stati dei dubbi, che l’Italia non disponeva di
alcun progetto per presentarsi da protagonista
nel mercato globale e che anche le poche aree
di eccellenza di cui l’industria nazionale era
partecipe, sarebbero state sacrificate alle esigenze del liquidatore Tesoro. D’altra parte la
situazione di Finmeccanica era davvero critica: il 25 novembre 1997 il nuovo consiglio di
amministrazione registrò al 30 settembre un
«rosso» di 2045 miliardi. Il presidente Sergio
Carbone e l’amministratore delegato Alberto
Lina portarono in assemblea una proposta per
un aumento di capitale di duemila miliardi, necessari per coprire gli oltre 1600 di svalutazione dei cespiti patrimoniali.
Per risolvere il problema creato dalle dimissioni di Fabiani, Michele Tedeschi aveva avuto l’idea di proporre quella posizione al professor Gian Maria Gros-Pietro, un torinese di
cinquantasette anni, docente di Economia industriale all’Università di Torino nonché dal
1995 vicepresidente del comitato scientifico
della creatura di Prodi, Nomisma. Ma invece
di sedersi sulla poltrona che era stata
dell’«etrusco», Gros-Pietro andò a piazzarsi
proprio su quella di Tedeschi: fu il suo amico
Romano Prodi a telefonargli, un sabato pomeriggio, da Palazzo Chigi.
Come ha raccontato lo stesso Gros-Pietro al
giornalista Luigi Locatelli dello «Specchio
economico», Prodi usò per vincere le sue esitazioni una formula simile a quella che Eugenio Scalfari aveva utilizzato con lui quindici
anni prima: «In una certa misura ti sei goduto
gli studi, adesso è il momento di pagare il conto» disse Prodi. «Non puoi rifiutare, fai conto
di essere stato chiamato a fare il servizio militare.» Non occorreva tanto un manager, concluse il presidente del Consiglio, quanto una
competenza atta a «rimodellare una struttura
industriale».
Nuovo presidente dell’IRI dal giugno 1997,
Gros-Pietro si trovò alle prese con la contraddizione tra un mandato liquidatorio, e quell’idea del «rimodellare» attraverso le privatizzazioni un capitalismo nazionale che egli stesso definiva «poco consistente».
«Nel nostro paese... i risparmiatori risparmiano moltissimo e sono pronti a mettere questo capitale nelle mani degli operatori. Ma
quelli che mancano sono proprio gli operatori»
chiariva a Locatelli.
Il mite ed equilibrato amico torinese di Prodi vedeva come in una palla di vetro i guai presenti e futuri delle privatizzazioni, ma non
aveva gran desiderio di prendere posizione.
All’atto dell’ingresso nella storica sede di via
Veneto, il 23 giugno, Gros-Pietro si lasciò
scappare una dichiarazione: «Mi atterrò al
mandato: effettuare le dismissioni in un triennio... Comunque, l’IRI non è l’EFIM...».
Il giornalista Giuseppe Turani finalmente
esultava: «E venne il giorno dei seppellitori...
Di fatto, con oggi, si chiude la storia dell’industria pubblica nel nostro paese. Entro il
2000 l’IRI, che dell’intervento pubblico in Italia è stato il simbolo più vistoso (e anche il più
importante), verrà spazzato via». I «seppellitori» appartenevano in parte al circolo degli
amici di Prodi, cresciuto attorno a Nomisma,
così che sembrava essersi incarnata la battuta
che qualcuno aveva coniato: «Si dice Nomisma ma si legge nomine». Patrizio Bianchi da
lì veniva; Piero Gnudi, definito «il Cuccia di
Bologna», era da sempre vicino a Prodi. Gli
altri tre consiglieri di amministrazione dell’IRI
erano Piero Barucci; Alberto Tripi, già amministratore della Centrale del Latte di Roma; e
infine Roberto Tana, unico superstite del precedente consiglio.
Alla fine del 1999 Gnudi sostituì alla presidenza dell’Istituto Gros-Pietro, trasferito al
vertice dell’ENI. La storia dell’Istituto per la
Ricostruzione Industriale ormai non fa più
parte della Storia.
LA FINE DELL’IRI
P
er valutare adeguatamente il clima di vero
e proprio annichilimento che avvolse per tutti
gli anni Novanta il mondo delle PPSS, favorendo così lo sviluppo di un «pensiero unico»
a favore delle privatizzazioni, è necessario fare
un passo indietro nel tempo. Fino agli inizi
dell’operazione Mani pulite ai primi del 1992,
i dirigenti delle società per azioni controllate
dalla mano pubblica non erano considerati
pubblici ufficiali né incaricati di pubblico servizio: sotto l’ombrello protettivo di questa giurisprudenza costante, le PPSS potevano stare
sul mercato senza i lacci e i laccioli della Pubblica amministrazione.
Quando, nel gennaio 1990, la Procura della
Repubblica di Milano, diretta da Francesco
Saverio Borrelli, aveva inviato al Senato una
richiesta di autorizzazione a procedere nei
confronti del senatore Antonio Natali, già presidente della Metropolitana Milanese, nel
maggio successivo se la vide respingere con
125 voti contro 76: il Senato confermava così
la tesi corrente che la MM non era considerata
ente pubblico e che quindi i suoi amministratori non potevano essere accusati del reato di
corruzione, tipico del pubblico ufficiale. La
Procura di Milano non sollevò alcun conflitto
davanti alla Corte Costituzionale per questa interpretazione né diede inizio, come avrebbe
dovuto, ad azione penale per il reato di illecito
finanziamento dei partiti.
A partire dal 1992 in poi, le norme saranno
interpretate in tutt’altro modo: gli amministratori di enti economici pubblici furono parificati a incaricati di pubblico servizio.
Gerardo D’Ambrosio, allora vice di Borrelli
alla Procura di Milano, sottolineò in un’intervista che «quando è palese l’influenza dominante della mano pubblica, vuoi per i metodi
di nomina dei consigli di amministrazione o
perché lo Stato detiene la proprietà, le normative europee parlano chiaro: l’amministratore
è considerato pubblico ufficiale incaricato di
pubblico servizio». La nuova interpretazione
della legge si appoggiava quindi all’Unione
europea, istituzione coerente nella sua intenzione di garantire al massimo la concorrenza,
e tale da non lasciare alcuno spazio agli escamotages giuridici. Si rendeva così possibile
contestare i gravi reati di corruzione e concussione, invece di limitarsi alla violazione della
legge sul finanziamento pubblico dei partiti,
in vigore dal 1974.
CRITICAsociale ■ 5
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Le inchieste penali che vanno sotto il nome
di Mani pulite non avevano tanto lo scopo di
perseguire i responsabili di specifici atti illeciti, ma rivoluzionando l’interpretazione dell’essenza giuridica delle imprese a capitale
pubblico, presentavano all’opinione pubblica,
mediante arresti e incriminazioni a catena, il
quadro della cosiddetta «corruzione ambientale». Il pubblico ministero Antonio Di Pietro
si chiedeva se le società di diritto privato con
capitale pubblico fossero nate «solo per ragioni di efficienza e di imprenditorialità, o non
anche per creare oasi di impunità, luoghi cioè
dove lontane dal controllo delle minoranze e
al riparo dalle norme di diritto pubblico talune
persone vengono ad assumere il ruolo di amministratori non per rendere un servizio alla
collettività ma per “ripulire” e “lavare” interessi personali».
La totale squalificazione del sistema politico
ed economico portò addirittura all’equazione
«corruzione diffusa-Stato criminale», illustrata
dal professor Federico Stella, legale di fiducia
del nuovo capo dell’ENI voluto da Amato
Franco Bernabè, al convegno di studi su Tangentopoli tenutosi all’Università Statale di Milano il 14 settembre 1994.
Nel corso del primo semestre del 1993 furono arrestati su richiesta della Procura di Milano sia l’ex ministro delle PPSS dal 1983 al
1987, Clelio Darida (poi riconosciuto innocente e risarcito dallo Stato con cento milioni per
la ingiusta detenzione); sia il presidente dell’ENI, Gabriele Cagliari, il quale trovò un’orribile morte per soffocamento nel carcere di
San Vittore, qualificata come suicidio; sia infine il presidente dell’IRI, Franco Nobili, sulle
cui vicende ci siamo già soffermati fino alla
totale riconosciuta innocenza.
Con queste decapitazioni dei vertici, alle
quali altre se ne aggiunsero per l’EFIM e
l’ENEL, il sistema delle PPSS era in ginocchio: non poteva opporre alcuna resistenza ai
progetti di privatizzazione che il governo
Ciampi e il ministero del Tesoro si apprestavano a realizzare. Quando un giornalista inglese
chiese a Piero Barucci, già ministro del Tesoro,
se senza Di Pietro le privatizzazioni sarebbero
mai decollate, egli seppur di malavoglia dovette rispondere che «il clima conseguente a certe
vicende giudiziarie ci aveva probabilmente dato un certo aiuto». Al di là delle minimizzazioni
di Barucci, bisogna invece ricordare il clima di
vero e proprio terrore dal 1992 al 1994, quando
un’accusa a esponenti politici o delle PPSS
equivaleva a una condanna. D’altronde lo stesso Francesco Saverio Borrelli sosteneva che
«in questo specifico contesto di investigazione
che va sotto il nome di Mani pulite forse le
conseguenze possono essere tratte ancora prima di attendere la verifica dibattimentale...».
In quegli anni non fu possibile alcun confronto
di idee né di programmi, anche perché i due
statisti che avevano sempre rivendicato il primato della politica sull’economia, Giulio Andreotti e Bettino Craxi, erano fuori gioco per
le accuse loro rivolte.
Nel gioco si erano inseriti i grandi gruppi finanziari e industriali, i quali disponevano di
un’arma decisiva per farsi rispettare dai magistrati: la stampa. Se da una parte la pratica del
finanziamento illecito della politica era andata
avanti per quasi vent’anni sotto gli occhi di tutti, dall’altra la pratica dei fondi riservati aveva
rappresentato una costante per gli imprenditori
privati. Nel 1970 Cesare Merzagora, già presidente del Senato, venne nominato presidente
della Montedison: il suo predecessore Giorgio
Valerio in quell’occasione gli consegnò 17 miliardi «neri» in libretti al portatore. Grande fu
lo stupore dell’élite industriale e finanziaria,
quando Merzagora impose di far rientrare i
fondi nella contabilità ufficiale.
Per venire ai giorni nostri, Enrico Cuccia fa
mettere a verbale a Ravenna, davanti ai magistrati che indagano sul crollo del gruppo Ferruzzi, una inequivocabile dichiarazione: «Nella mia lunga vita professionale non ho mai visto un bilancio che non fosse falso». Così il
pubblico ministero di Milano Francesco Greco
dichiara al giornalista Fabio Tamburini: «Abbiamo trovato fondi neri in tutti i grandi gruppi
italiani. Dalle tangenti ai politici siamo risaliti
ai fondi neri...».
Schierando la grande stampa di informazione a fianco di Mani pulite, in quello che Paolo
Cirino Pomicino definisce uno «scambio tacito», i cosiddetti «poteri forti» in quei momenti
in condizione di grande debolezza ottennero
«una gestione discreta delle indagini sulla
grande impresa». Il 17 aprile 1993 al teatro La
Fenice di Venezia Gianni Agnelli colse l’occasione del convegno dei piccoli e medi imprenditori della Confindustria per legittimare
l’azione di Mani pulite: «È errato e fuorviante
pensare che le indagini giudiziarie siano parte
di un complotto». Nessuno dopo di allora
avrebbe potuto opporsi alla cosiddetta «redazione giudiziaria unificata»: un flusso di notizie, opportunamente filtrate e dirette, di grande
effetto per l’amplificazione di alcuni aspetti
delle indagini, e devastante per gli indiziati.
Quando le direzioni dell’epoca del «Corriere della Sera» e della «Stampa» si furono collegate a «la Repubblica» e all’organo del PCIPDS, «l’Unità», si realizzò quella voce unica
dell’«opinione pubblica» che da una parte
avrebbe sostenuto a spada tratta le inchieste, e
dall’altra avrebbe portato a fondo l’offensiva
a favore delle privatizzazioni.
Tutto questo avvenne nonostante che tra il
1990 e il 1996 i quotidiani nazionali totalizzassero un calo nelle vendite di più del 12 per
cento.
Si trattò dunque di una guerra di élites senza
esclusioni di colpi, sul bubbone del finanziamento illecito della politica che tutti aveva
coinvolto: ma i dirigenti politici non avevano
armi per potersi difendere, mentre quelli che
erano stati loro associati non solo potevano barattare il sostegno dei loro giornali, ma coglievano l’occasione per ridurre al silenzio chiunque si opponesse ai loro progetti di conquista
degli antichi latifondi economici dello Stato.
Nel groviglio delle delazioni, delle chiamate
in correità, dei veri o falsi pentiti, nessuno poteva sentirsi più al sicuro, e tutti cercavano di
farsi dimenticare: «La gente è portata a condannare apoditticamente e senza appello i politici», osservava l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, «ma non sembra
chiedersi quanto gli imprenditori abbiano guadagnato da questo sistema».
Chiamiamolo terrore, chiamiamolo pensiero
unico del neoliberismo: sta di fatto che dal
1992 alla caduta del governo Prodi nell’autunno 1998, la gestione degli affari economici e
finanziari, nonché la ristrutturazione industriale per mezzo delle privatizzazioni sono state
nelle mani di un ristretto gruppo di tecnocrati,
liberati dal peso delle norme sulla contabilità
dello Stato, affiancati da una pletora di consulenti ed esperti che in otto anni hanno incassato dallo Stato 350 miliardi di prebende.
Bisogna pur chiedersi come l’Italia, nella
cui finanza e industria lo Stato, per motivi storici sui quali già ci siamo soffermati, esercitava un’influenza dominante, sia potuta entrare
al secondo posto tra i Paesi privatizzatori nella
graduatoria dell’OCSE: con una cifra complessiva dal 1990 al 1998 di 63,47 miliardi di
dollari, preceduta dalla Gran Bretagna per poco più di mezzo miliardo di dollari. Distrutta
la presenza politica dei cattolici muniti della
loro dottrina sociale che risaliva al «Codice di
Camaldoli» del 1943 e al solidarismo della
Chiesa; scomparsi i socialisti di Bettino Craxi
che nelle PPSS vedevano lo strumento per realizzare grandi opere strutturali interconnesse
con il piano di Jacques Delors per le infrastrutture europee; ingabbiati i sindacati nella politica neocorporativa della concertazione con
grande industria e finanza, messa in piedi dai
«nittiani del 2000» sotto il governo Ciampi:
non restavano che i post-comunisti, miracolati
di Tangentopoli, i quali nel 1993 con la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto
erano comunque l’unico partito della sinistra.
In effetti essi, durante tutta la prima fase di
preparazione ideologica e propagandistica delle privatizzazioni, erano rimasti freddini, ancora legati al modello di economia pubblica,
e avevano tardato ad afferrare il nesso tra la
loro legittimazione a governare e l’adesione
senza limitazioni ai progetti dei «poteri forti»
economici non solo nazionali. In un convegno
organizzato dalla sezione economica del PCIPDS, diretta da Alfredo Reichlin, tenutosi a
Roma al Residence Ripetta nel settembre
1992, le tesi dominanti erano state di riserva
sulle privatizzazioni. «Nel 1992... gli unici liberalizzatori e privatizzatori eravamo Filippo
Cavazzuti e io» confermerà alcuni anni dopo
Vincenzo Visco, futuro ministro delle Finanze
e del Tesoro.
All’avvento del governo Ciampi si venne a
stringere un accordo, come spiega Paolo Cirino Pomicino nelle vesti di commentatore del
«Giornale», Geronimo: «il PDS avrebbe dato
mano libera alla grande borghesia finanziaria...
e l’establishment finanziario e giornalistico
avrebbe appoggiato, appassionatamente, la
battaglia dei progressisti». Il patto prevedeva,
«da un lato una sorta di fideiussione e di sdoganamento dei post-comunisti sul piano internazionale (Occhetto alla NATO, Occhetto alla
City) e l’appoggio della grande stampa padronale; dall’altro il via libera per acquisire grandi
società pubbliche a prezzi stracciati».
Nonostante l’incidente di percorso delle elezioni politiche del 27 marzo 1994 e il governo
di Silvio Berlusconi, i post-comunisti non rinnegarono la loro totale abiura di qualunque tipo
di «politica industriale». Però il patto faustiano
non poteva non far nascere qualche ripensamento: quando Massimo D’Alema, di fronte
alla pretesa della IFIL degli Agnelli di scegliere
gli amministratori di Telecom Italia pur possedendo solo lo 0,6 per cento delle azioni, faceva
notare che il capitalismo non doveva pretendere di governare le aziende senza comprarle né
di trasformare un monopolio pubblico in una
rendita privata, Diego Novelli, già sindaco comunista di Torino, gli rispondeva che «gli
Agnelli fanno il loro mestiere: sono dei capitalisti, usano le leggi per realizzare i loro affari.
E oltretutto cavalcano il vento favorito proprio
da Massimo D’Alema con la sua conversione
al capitalismo sfrenato».
Divenuto presidente del Consiglio, D’Alema
criticò il suo predecessore: «Romano Prodi
pensava che, centrato l’obiettivo del risanamento e dell’ingresso nell’euro, il meccanismo
dello sviluppo si sarebbe rimesso in moto da
solo. Sbagliava. Il meccanismo è inceppato, e
non ripartirà senza una coraggiosa azione pubblica...». Per colpa della pura logica di cassa,
perseguita dal Tesoro fin dal 1992, si era impedito che attraverso le dismissioni delle aziende pubbliche si facesse una nuova politica industriale. Così sul «Corriere della Sera» del 1°
marzo 1999 il giornalista economico Dario Di
Vico notava che si stava ritornando a parlare di
«interesse nazionale». Il fatto è che a un convegno della Fondazione Italianieuropei l’esponente dei DS Alfredo Reichlin aveva lanciato
un grido d’allarme per il rischio che l’Italia, in
una posizione di «internazionalizzazione passiva», diventasse preda e mai cacciatore.
Un tentativo effimero, questo di D’Alema,
collegato a un ruolo decisionista di Palazzo
Chigi subito contestato dalla grande stampa, e
irriso da Francesco Cossiga che dichiarava di
sentire nelle privatizzazioni «uno strano odore... un tanfo». E poco prima della caduta del
governo D’Alema, lo stesso Cossiga aveva
raccontato ai giornalisti una battuta di un «autorevole fiscalista di sinistra»: «Qual è la differenza che passa tra Mediobanca e Palazzo
Chigi: entrambi sono merchant bank, solo che
a Palazzo Chigi non si parla l’inglese».
Comunque ormai i buoi erano scappati dalla
stalla.
Nonostante che il presidente dell’IRI, Gian
Maria Gros-Pietro, ai primi del 1999, avesse
in un’intervista auspicato «strumenti di tutela
per i settori strategici» un termine messo fuori
moda da Guido Carli dieci anni prima, come
abbiamo visto -, da molti anni ormai l’Istituto
seguiva fedelmente le disposizioni del Tesoro,
trasferendogli gli utili di gestione. Nel 1996
gli utili erano stati di soli 193 miliardi, ma l’indebitamento era sceso a poco più di 3500, al
punto che Gros-Pietro poteva annunciare che
nel gennaio 1998 il prestito della Cassa Depositi e Prestiti i 10.000 miliardi che avevano salvato la gestione di Prodi nel 1993 sarebbe stato
estinto. Nel 1997 gli utili raggiunsero la considerevole cifra di 5174 miliardi, 2700 dei
quali girati al Tesoro: nell’esercizio 1998 di
3158 miliardi, quasi totalmente prelevati dal
Tesoro.
Infine nell’ultimo anno di gestione, il 1999,
il presidente Piero Gnudi poteva annunciare
un utile di 7226 miliardi erogato con valuta al
28 giugno 2000 per 5865 miliardi al Tesoro.
All’Istituto restano liquidazioni da completare,
il contenzioso non indifferente da sbrogliare,
e aziende da privatizzare: Fincantieri, Tirrenia,
Iritecna fra le altre. Le ultime privatizzazioni
hanno riguardato Autostrade, Aeroporti di Roma (società finita alla Gemina di Cesare Romiti) e Finmeccanica, azienda nella quale il
Tesoro è rimasto presente con una quota del
32 per cento del capitale. Alitalia, RAI e Cofiri
passano al Tesoro, nonostante le perplessità
del ministro Visco che prevede per la liquidazione «tempi biblici». Ma egli può consolarsi
con un attivo di 50.000 miliardi e una liquidità
di 22.000: l’ultimo lascito dell’IRI.
Nonostante le nere previsioni, l’IRI scomparendo ha dimostrato di non essersi comportato così male nei suoi sessantasette anni di vita. Quando Giuliano Amato nel 1992 lo trasformò dall’oggi al domani in società per azioni, il vertice di via Veneto si riunì, racconta Enrico Micheli, oggi sottosegretario alla presidenza con Amato ma all’epoca direttore generale dell’Istituto: «Facemmo due conti e scoprimmo che, con 80.000 miliardi di debiti a
fronte di un patrimonio esiguo, l’IRI era già
fallita». La stessa considerazione fece Enrico
Cuccia: ma tutto era nato dalla fretta e dalla
leggerezza con la quale il governo Amato aveva proceduto alla trasformazione. Non si è
trattato di un «autentico miracolo», come definisce la vicenda infine conclusa Micheli al
giornalista dell’«Unità» Pasquale Cascella, ma
della realizzazione degli attivi patrimoniali
dell’IRI, aziende che hanno portato un valore
di 106.000 miliardi dal 1992 a oggi. Bisognerebbe semmai chiedersi se quel valore non
avrebbe potuto, in circostanze diverse, essere
maggiore: ma questa indagine sarà possibile
forse solo con un rivolgimento politico.
Con orgoglio, il direttore generale dell’Istituto Pietro Ciucci afferma: «Il bilancio su ciò
che l’IRI è stato non si può fare con l’atteggiamento del ragioniere dell’ultima ora... Abbiamo rimborsato tutti i debiti... La soddisfazione
maggiore è un’eredità di grandi imprese che
rappresentano il 35 per cento della capitaliz-
6 ■ CRITICAsociale
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zazione di Borsa». E il presidente di Autostrade Giancarlo Elia Valori considera che «il fatto
che i risparmiatori italiani abbiano fatto e continuino a fare la coda per sottoscrivere le azioni partecipate dalla mano pubblica può voler
dire che quelle aziende non erano insanabili o
decotte come, con interessata malizia, si è cercato di far credere».
La liquidazione dell’IRI è avvenuta nei termini fissati dagli accordi fra il governo italiano
e l’Unione europea: un percorso di sottomissione iniziato nel 1993 con l’intesa fra l’allora
ministro degli Esteri Beniamino Andreatta e il
commissario UE alla concorrenza Karel Van
Miert. Ridotto a fine 1997 il rapporto tra indebitamento finanziario e capitale netto al di sotto del parametro 1/1 previsto, il governo italiano avrebbe potuto con qualche espediente
che in altri tempi non sarebbe mancato aggirare l’ostacolo costituito dalla sua presenza nel
capitale dell’IRI come azionista unico: ma evidentemente il governo Prodi intendeva professare la sua assoluta lealtà al diktat di Bruxelles,
al fine di entrare alla prima tornata nella moneta unica, obiettivo questo che precedeva
qualsiasi interesse nazionale.
Seppur costretto nella veste di debitore coatto, l’IRI è riuscito a chiudere la sua posizione
finanziaria con un sostanziale pareggio: dimostrazione che la crisi dell’Istituto era finanziaria, di eccessivo sviluppo in relazione ai mezzi
propri, e insostenibile per un padrone indebitato lo Stato il quale tuttavia approvava i piani.
Secondo le analisi dell’istituto, lo Stato avrebbe versato 90.000 miliardi, e l’IRI ne restituisce 87.700, così che il saldo negativo sarebbe
alla fine di 2300, ben lontano dalle previsioni
di 20.000 a suo tempo avanzate. D’altronde
l’analista dell’«Espresso» Massimo Mucchetti, pur contestando queste cifre, riconosce che
considerando IRI, ENI ed ENEL, lo Stato si è
trovato in tasca un attivo di 50.000 miliardi:
una cifra macroeconomica, che comunque dimostra come la gestione della mano pubblica
sia stata, senza considerare i benefici per il sistema-Paese, e dal solo punto di vista della
soddisfazione finanziaria dell’azionista, cosa
ben lontana da quelle descrizioni, sprezzanti e
spesso anche infamanti, che costituiscono uno
dei capitoli della «storia bugiarda» sull’Italia
contemporanea. s
Massimo Pini
■ 2000 - NUMERO 8
UNA COSTITUZIONE LIBERALE
SENZA LA FIRMA DI TOGLIATTI
Stefano Carluccio
“N
on nego che vi siano alcuni che si professano liberalsocialisti, ma nei
fatti essi sono dei liberali”.
La vicenda della sinistra italiana alla fine del
`900 porta a ritenere che l`affermazione per
certi versi estrema di Ralf Dahrendorf, rilasciata nel libro intervista a Vincenzo Ferrari
per i Saggi di Laterza circa vent`anni orsono,
sia in realtà esatta ed attualissima.
Nel saggio conclusivo dell`edizione Einaudi
di “Socialismo liberale” di Carlo Rosselli,
Norberto Bobbio traccia una cronologia della
nozione di “liberalsocialismo” ricordando proprio all` inizio del suo lavoro lo scetticismo
del filosofo inglese.
Dalla sua ottica, infatti, Dahrendorf vede tra
i termini “liberale” e “socialista” una antitesi,
sia che essi indichino un`ideologia o un movimento politico. “E un fatto - dice Bobbio - che
tutta la storia del pensiero politico dell’Ottocento e in parte anche del Novecento potrebbe
essere raccontata come la storia del contrasto
tra liberalismo e socialismo”.
Ma Dahrendorf parla dall`lnghilterra, dove
il socialismo laburista ha subito minore influenza dal marxismo rispetto al socialismo
continentale, quello che ha dominato l`intero
secolo di storia del movimento.
Infatti la serie delle antitesi “classiche” tra
liberalismo e socialismo (I`individuo o la società, il privato o il pubblico, la parte o il tutto,
destra o sinistra) che hanno segnato i due versanti contrapposti filosoficamente, economicamente, politicamente, è destinata ad attenuarsi, sino a scomparire del tutto, e a rovesciarsi in una successione di sintesi mano a
mano che ci si allontana dai movimenti socialisti influenzati dal marxismo.
E dall`lnghilterra, appunto, la prospettiva
cambia se è vero, come ormai da molti studiosi
è sostenuto apertamente, che la storia della nozione di liberalsocialismo si potrebbe far co-
minciare con John Stuart Mill, cioè proprio
con uno dei massimi rappresentanti del pensiero liberale.
Cosa intendo sottolineare? Due questioni. La
prima, che l`antitesi a cui Dahrendorf accenna
e che lo rende scettico su una specifica possibilità liberale del socialimo ( “non c`è una prospettiva ideologica unitaria”) è in realtà un`antitesi tra liberalismo e marxismo.
La seconda, che l’idea liberalsocialista, come si vedrà, ha, al contrario, una tradizione
minoritaria ma propria all`interno del pensiero
politico europeo, altrettanto antica e separata
da quella marxista.
E’ a questa tradizione che attinge in modo
creativo Carlo Rosselli, il quale non “inventa”
affatto uno slogan eclettico, ma ripropone in
pieno fascismo una via di uscita alternativa a
quella socialcomunista nella crisi dello Stato
liberale.
Ma occorre sottolineare, inoltre, con tutta la
forza polemica che la questione merita, che in
tutto il Novecento italiano dopo Rosselli, ucciso dai fascisti, (e Saragat, diffamato come è
stato anche da Presidente) solo Bettino Craxi
(finito come è finito) ha fatto dell’idea liberalsocialista una ispirazione di governo, preannunciando questa intenzione con due legislature di anticipo rispetto a quella che lo avrebbe
visto primo ministro, con il suo ormai celebre
saggio su Proudhon che dette I’avvio al “nuovo corso” del socialismo italiano. Contro il segretario del Psi si scatenò un putiferio dogmatico memorabile da parte delle sinistre comunista e marxista (quindi non solo del Pci, ma
anche nel Psi, “giolittiani” compresi, e nel cattolicesimo post-conciliare) i cui epigoni
tutt`ora su questo punto essenziale non hanno
mai fatto autocritica, nonostante le nuove vestigia dell`ex Pci, i primi, e ben accomodati al
potere per anni, i secondi: la persecuzione dei
tribunali giudiziari nell`Inquisizione “rivoluzionaria” della Seconda Repubblica che altro
è stata se non l’esecuzione politica della condanna già pronunciata dall`Inquisizione dei tribunali ideologici di quella caccia alle streghe?
La nostra storia dà cos” purtroppo ragione
al politologo inglese: il socialismo marxista
(non solo il comunismo leninista) non puo essere liberale. Ma, sulla prima delle due questioni, è sempre la nostra storia, seppure attraverso la prova di una tragedia, che indica qualcosa di più: che esiste una tradizione liberalsocialista, che essa non può essere compatibile
con quella di ispirazione marxista, che anzi la
considera sua nemica mortale, e che occupa
una posizione specifica anche all`interno deila
tradizione liberale.
Tornando infatti a Craxi, che va considerato
anche come un grande pensatore politico europeo in forza della sua grande conoscenza
della storia politica europea, sempre Dahrendorf ebbe modo di giudicare gli anni del suo
governo come anni di “governo liberale” dell’Italia. Noi sappiamo, però, che questo non
basta poichè è evidente che si è trattato di un
tipo particolare di “governo liberale”, ovvero
di un governo di ispirazione “socialista
anti-marxista”. Di un socialismo che, secondo
i principi di Rosselli, “condivide” il potere e
che consapevole di questa sua identità ha permesso al Psi di associarsi ai laici e alla Dc pur
mantenendo la propria autonomia e concorrenzialità: il dato di fondo, I`appartenere ad un
unico insieme democratico nazionale, non è
mai stato messo in discussione, anzi, proprio
sul terreno internazionale esso ha trovato la
sua maggiore forza e coesione.
Esattamente il contrario di quanto è avvenuto al Pci che nelle intese con la Dc ha sempre
cercato un passaggio tattico provvisorio, un
“compromesso tra diversi” per giungere, infine, a cambiare di segno il sistema, per opposti
fini internazionali.
In queste settimane, inoltre, si è aperta una
polemica sull`inattualità dell`anticomunismo
verso la sinistra diessina. Il punto storico-teorico della questione, le “due sinistre”, non ci
inganna, come accade ai palati raffinati: la genesi marxista dell`attuale gruppo post-comunista, anche dieci anni dopo il Pci, non gli consente di aderire nei fatti al principio della
“condivisione” del potere con altri che non siano ad esso subordinati e quindi parte organica
del sistema di controllo politico.
Resta una sinistra illiberale, ancorchè socia
dell`Intenazionale socialista, e fino ad oggi, allo scopo, blindata nel bipolarismo.
Se dunque non c`e antitesi tra liberalismo e
socialismo non marxista, allora quella di Rosselli non è stata una combinazione tutta italiana, un “ircocervo” come la definiva Croce.
Il socialismo liberale, passando alla seconda
questione sottolineata poco fa, ha proprie fonti
autonome, addirittura precedenti al socialimo
marxista e alle stesse scuole “revisioniste”: è
in sostanza una teoria della società e dell`uomo di forma compiuta che unifica la sostanza
dei due principi, liberale e socialista, in un
“continuum” unitario.
Secondo Guido Calogero, che (questi dal
versante liberale) con Rosselli (per quello socialista) è stato tra i padri del liberalsocialismo
italiano, il termine era qià in uso da tempo in
Germania. Tale informazione, che risale ai primi del `900, è confermata nel Dizionario di
politica della Utet: “In Germania, mentre
Marx dettava il Manifesto del partito comunista, I`espressione Liberal Sozialismus già circolava nel dibattito politico”.
Una conferma viene dal testo di R. Opitz,
“Il liberalsocialismo tedesco, 1917-1933”
(Koln,1973) che non lascia dubbi sull`esistenza della nozione e sul suo uso politico.
Sembra dunque che Rosselli, che ne scrisse
per la prima volta su Critica Sociale nel luglio
del 1923 (“Il liberalismo socialista”) abbia attinto a fonti contemporanee e, addirittura,
“concittadine” a Carlo Marx, ovvero che una
declinazione “liberale” dell`idea socialista fosse già in corso e parallela alla declinzione
“classista”. Che poi abbia prevalso quest`ultima, non cambia la verità storica dell’esistenza
di due sinistre europee, una liberale e l’altra illiberale, da sempre distinte e confliggenti, e
che della prima, oltre a quella liberalsocialista,
ha fatto parte (nel filone socialista) la scuola
revisionistra e riformista, oltre alla tradizione
anarchica e a quella democratica mazziniana.
Si è citato prima Stuart Mill. In una lettera a
K.D.H. Rav egli scrive: “A me pare che il principale fine del miglioramento sociale debba essere preparato attraverso l`educazione per uno
stato della società che “combini” la più grande
libertà personale con la giusta distribuzione di
frutti del lavoro che le vigenti leggi sulla proprietà non permettono di raggiungere”.
Per il liberale Stuart Mill il superamento
dell`antitesi tra liberalismo e socialismo avviene attraverso la “combinazione” dei loro rispettivi principi sul terreno della lotta politica
concreta. E nel suo saggio (incompiuto) sul socialismo, quali fonti del socialismo che può essere “combinato”, cita Blanc, Considerant,
Owen, Fourier. Mai cita Marx.
Quello di Mill, ben inteso, non è un saggio
socialista, ma un saggio sul socialismo, alle
cui correnti gradualiste va la sua simpatia, così
come il suo rifiuto va a quelle rivoluzionarie.
Mill giunge ad ammettere che “i difetti del
sistema vigente possono ricevere emendamenti in modo da ottenere i vantaggi del comunismo (inteso come socializzazione) per mezzo
di disposizioni compatibili con la proprietà
privata e con la concorrenza individuale”.
Secondo la figlia Hellen, che pubblicherà il
saggio postumo, il padre rimase colpito dallo
sviluppo delle idee socialiste tra i lavoratori e
si dedicò al loro studio.
Il saggio di Mill (“Frammenti sul socialismo”, 1879) venne pubblicato nel 1880 con la
prefazione di Osvaldo Gnocchi Viani, il fondatore della Società Umanitaria di Milano.
Ma è l`inglese Hobhouse (1864-1929), professore di sociologia all`Università di Londra,
la fonte diretta di Carlo Rosselli e di Guido Calogero. Hobhouse è noto a Croce, che ne parla
nel 1928 rilevando la possibilità di superare il
dualismo tra socialismo e liberalismo.
Ma prima di Croce ne parla De Ruggero
nella sua “Storia del liberalismo europeo”:
sottolinando come Hobhouse difenda, oltre
i diritti di libertà, I`eguaglianza delle opportunità, I`eguaglianza di fronte alla legge, il diritto al lavoro e un salario decente, cosi commentava: “Si dirà che questo non è liberalismo, ma
socialismo. Però socialismo significa più cose
ed è possibile che vi sia un socialismo liberale
e ve ne sia uno illiberale”.
Qusta concezione della società, De Ruggero
la definisce “armonica”, in contrapposizione
all’estremismo individualista e all`estremismo
collettivista.
In Francia c`è Charles Renauvier, in Germania Oppenheimer, in Spagna Fernando de los
Rios e Pablo Iglesias, fondatore nel 1879 del
Psoe.
In tutti c`è l`idea che il socialismo non sia
l`antitesi del liberalismo, ma, viceversa, ne sia
in qualche modo la continuazione ed il compimento.
In Italia Rosselli si ispirò a Mondolfo di cui,
pur dichiarandosi marxista, coglie il tratto
umanitario per collocarlo nella tradizione della
“filosofia della libertà”.
Ma precedente allo stesso Rosselli, il caso
più interessante in Italia è quello di Francesco
Saverio Merlino, la cui opera venne rivalutata
da Aldo Venturini e “rimane all`onor del mon-
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do - come scrive Bobbio - dopo che essendo
prevalso nel movimeto operaio del nostro paese il pensiero marxista, era stato quasi completamente dimenticato, pur essendo stato preso
in considerazione da personaggi come Durkeim, Bernstein, Guglielmo Ferrero, Michels,
Arturo Labriola”.
Merlino fu sostenitore di un “socialismo
senza Marx” e “contro Marx”. Un fondatore
del socialismo forse più libertario che liberale,
per le sue origini anarchiche.
Come si vede, dunque, il socialismo liberale
non è una trovata geniale “all`italiana” per coniugare due opposti, bensì una corrente di pensiero politico che attraversa sia la tradizione
socialista che quella liberale almeno sin dalla
metà dell`Ottocento.
Nella tradizione socialista il liberalsocialismo attinge dal socialismo “pre-scientifico”
che delinea la società giusta non in virtù di un
dottrina dello Stato ma nella fede in valori morali. Questa distinzione, sottolineata da Salvemini, corre su due binari e fa della storia della
sinistra, una storia di “due sinistre”: laddove
il socialismo diventa “tecnica” esso diventa illiberale anche senza assumere la forma del comunismo leninista.
Un ultimo punto. “I liberalsocialisti sono nei
fatti dei liberali”, affermava all`inizio Dahrendorf: ciò è tanto vero che essi hanno una posizione propria e specifica all`interno anche della tradizione liberale. Ed è proprio al socialista
Rosselli che questo punto non sfugge e ne rivendica l`esito.
Nel suo “testamento” in 13 punti, Rosselli
si dichiara “non marxista”, anzi vede nel marxismo un ostacolo allo sviluppo ulteriore del
pensiero socialista. Il quale non solo non può
prescindere dal principio di libertà, ma ne è
anzi il compimento ultimo. L`estensione del
principio liberale alla classe proletaria, sostiene, è il destino del liberalismo, che in
quell`istante diventa socialismo. Se esso si ferma prima, come spesso accade per opera dei
ceti borghesi che - sottolinea - avendo potuto
affrontare il tema della libertà da una posizione di maggiore forza sociale rispetto alla classe operaia di questo privilegio intendono farsi
gelosi conservatori, allora il liberalismo si contraddice.
Se dunque non diventa socialismo, il liberalismo non è più se stesso, esattamente come
accade al socialismo se nella lotta di emancipazione materiale limita le libertà personali.
Entrambi, negando il valore universale del
principio su cui si fondano, negano il principio
e negano se stessi. s
Stefano Carluccio
P.S.: Nella storia italiana di questi anni, la liquidazione del socialismo liberale non ha danneggiato anche la medesima sinistra post-comunista che intendeva liberarsene, ma ha privato le stesse forze di tradizione liberale di uno
dei suoi filoni più essenziali e moderni.
Il problema della riabilitazione e di una ricostruzione della sinistra italiana su basi liberali è quindi un problema di tutte le forze liberali, anche se non socialiste, e si presenta come
un problema di democrazia nazionale.
Abbandonare la sinistra al suo destino illiberale, viceversa, significa accettare di convivere con un`infezione che tanti danni ancora
provocherà indubbiamente in futuro.
La ricostruzione democratica nazionale sarà
compiuta solo quando lo scontro tra le due sinistre vedrà finalmente il prevalere (anche nelle coscienze di chi è stato comunista) dei valori della sinistra liberalsocialista, e assumerà
una forma stabile solo in una nuova Costituzione pienamente liberale che dopo
cinquant`anni, per semplificare con uno slogan, “non porti più la firma di Togliatti”.
NOTA BIOGRAFICA
DI CARLO ROSSELLI
1899 16 novembre. Carlo Rosselli nasce a Roma da Giuseppe Emanuele e Amelia Pincherle. Sia i Rosselli, di origine ebraica,
sia i Pincherle erano famiglie dell’alta
borghesia che avevano preso parte al
movimento per l’indipendenza e l’unità
nazionale.
1911 Muore Giuseppe Rosselli. Carlo Rosselli
trascorre gli anni della sua formazione
intellettuale nella Firenze di inizio secolo, ricca di suggestioni culturali e politiche. Nel capoluogo toscano si pubblicavano «Il Leonardo» (1903-1907) di Giovanni Papini, «Il Regno» (1903-1906) di
Enrico Corradini, «La Voce» di Giuseppe Prezzolini (1908-1924), «L’Unità» di
Gaetano Salvemini (1911-1920) e «Lacerba» (1913-1915). L’ambiente fiorentino ma, soprattutto, la forte presenza
della madre Amelia, vicina ai liberali del
gruppo Salandra-Sonnino, esercitano su
Carlo una profonda influenza.
1915 24 maggio. L’Italia entra nel conflitto
mondiale dichiarando guerra all’Austria.
I fratelli Rosselli, accesi interventisti, sono coinvolti in prima persona: Carlo comincia a lavorare come volontario all’Ufficio notizie per le famiglie dei soldati.
1917 Gennaio. Per iniziativa di Nello, nasce il
giornale studentesco «Noi giovani» (gennaio-giugno 1917). Carlo vi pubblica i
primi articoli politici e letterari. 13 giugno. È chiamato alle armi.
1918 15 marzo. Termina il corso allievi ufficiali. Luglio. È nominato sottotenente e
inviato in zona di guerra.
1919 Marzo-luglio. Usufruisce di un temporaneo trasferimento presso la divisione di
fanteria del capoluogo toscano e si iscrive all’Istituto superiore di Scienze Sociali «Cesare Alfieri» di Firenze. Sul settimanale «Vita», di chiara ispirazione
salveminiana, diretto da Jean Luchaire,
pubblica l’articolo Compito nostro (20
maggio) nel quale esorta i giovani della
borghesia ad «andare al popolo».
1920 12 febbraio. Congedo ad Asiago e ritorno a Firenze dopo quasi tre anni di servizio militare. Grazie all’amicizia con
Alessandro Levi, conosce Claudio Treves e Filippo Turati e si avvicina, pur con
molte riserve, al socialismo riformista.
Primavera. Conosce (Gaetano Salvemini, allora docente di storia moderna all’università di Firenze ed animatore della
Lega democratica per il rinnovamento
della politica nazionale.
1921 Gennaio. La scissione del Partito socialista italiano e la nascita del Partito comunista d’Italia durante il congresso di
Livorno non lo coinvolgono in maniera
diretta.
1921 Dicembre. Inizia la sua collaborazione a
«Critica sociale», la rivista socialista
fondata e diretta a Milano da Filippo Turati, con l’articolo Lineamenti della crisi
sociale, recensione dell’omonimo libro
di Eugenio Artom.
1922 I° ottobre. Si riunisce a Roma il XIX
Congresso del Partito socialista che decreta l’espulsione dei riformisti di Turati,
Treves e Matteotti. Rosselli si schiera
con la corrente riformista che dà vita al
Partito socialista unitario, ma la nuova
spaccatura accresce la sua sfiducia nella
capacità del socialismo di contrapporsi
alle forze della destra.
1921 8 dicembre. Compie un primo viaggio a
Torino. Nei dieci giorni del soggiorno to-
rinese incontra Piero Gobetti ed il gruppo di giovani intellettuali che dal 12 febbraio pubblicano il settimanale «La Rivoluzione Liberale». Conosce, inoltre,
Luigi Einaudi, Pasquale Jannacone e
Achille Loria, già collaboratore di «Critica sociale», ma non riesce ad inserirsi,
come sperava, nell’ambiente universitario torinese.
1923 Febbraio. Torna per due settimane a Torino. Attraverso la famiglia Lombroso,
cui i Rosselli erano legati da antica amicizia, conosce Gaetano Mosca e ne segue le lezioni all’università. Frequenta
assiduamente i «gobettiani» e inizia la
collaborazione con «La Rivoluzione Liberale». Vi pubblica: Per la storia della
logica. Economia liberale e movimento
operaio (15 marzo) e Contraddizioni liberiste (24 aprile) che costituiscono una
dura critica al liberismo di Luigi Einaudi
e di gran parte della sinistra moderata
italiana. Pubblica su «Critica Sociale»
Liberalismo socialista (1-15 luglio).
1921 Agosto-ottobre. Soggiorna a Londra. All’origine del viaggio sta l’aperta simpatia
di Carlo per il socialismo inglese. A Londra segue le riunioni della Società Fabiana e studia nella biblioteca della London
School of Economics. Al ritorno dall’Inghilterra si trasferisce a Milano. È assistente di Einaudi e Cabiati alla Facoltà
di Economia dell’Università Bocconi.
1921 Novembre-dicembre. Escono su «Critica
Sociale» gli articoli Bilancio marxista:
la crisi intellettuale del partito socialista
(1-15 novembre) e Aggiunte e chiose al
bilancio marxista (1-15 dicembre). Rosselli sostiene la dissociazione del socialismo dal marxismo e propone un socialismo etico, non classista, attento alle
«esigenze morali e alle tendenze volontaristiche».
1924 Maggio. Su «Critica sociale» pubblica
Luigi Einaudi e il movimento operaio.
1921 Giugno. Aderisce all’associazione «Italia Libera», nata all’indomani del delitto
Matteotti su iniziativa di un gruppo di ex
combattenti.
1921 Luglio. Si iscrive al Partito socialista
unitario. In una lettera a Gobetti spiega
le ragioni della propria decisione: «E un
tentativo che si deve fare tanto piú che è
venuta l’ora per tutti di assumere il proprio posto di battaglia in seno ai partiti».
Pubblica su «La Rivoluzione Liberale»
il saggio Liberalismo socialista (15 luglio).
1925 Gennaio. Con il fratello Nello, Salvemini ed Ernesto Rossi fonda a Firenze il
bollettino clandestino «Non mollare»,
distribuito dall’associazione «Italia libera». A Spingere Rosselli sul terreno
dell’azione illegale è la convinzione che,
dopo il discorso di Mussolini del 3 gennaio alla Camera e la soppressione dei
partiti e dei giornali d opposizione, si
possa combattere il fascismo solo attraverso la cospirazione e la lotta clandestina. Sul primo numero si legge: «Non ci
è concessa la libertà di stampa: ce la
prendiamo. Nel titolo è il nostro programma».
1925 8 giugno. In seguito alla delazione di un
tipografo, tale Pinzi, la polizia fiorentina
si mobilita contro il gruppo di «Non
mollare». Ernesto Rossi fugge all’estero.
Salvemini, invece, viene arrestato.
1925 13 luglio. Processo di Salvemini per il
«Non mollare». Il tribunale rinvia il processo e gli concede la libertà provvisoria.
La decisione provoca una violenta reazione fascista.
1925 14 luglio. Casa Rosselli, dove Salvemini
aveva trascorso la prima notte di libertà,
è devastata dai fascisti.
1925 4 agosto. A seguito dell’amnistia per i
reati politici, concessa il 25 luglio, Salvemini raggiunge clandestinamente la
Francia. Rosselli riesce a sfuggire alle
spedizioni punitive organizzate dai fascisti fiorentini, rifugiandosi prima nella
villa dell’amico Umberto Morra a Cortona, poi a Milano, infine a Genova.
1925 5 ottobre. Esce l’ultimo numero di «Non
mollare».
1926 27 marzo. Esce a Milano il primo fascicolo del settimanale «Il Quarto Stato»,
la «rivista socialista di cultura politica»
fondata da Rosselli e Pietro Nenni. A «Il
Quarto Stato», di cui uscirono 30 fascicoli, collaborano massimalisti come Lelio e Antonio Basso, riformisti come
Giuseppe Saragat e Piero e Paolo Treves,
gobettiani, liberali e salveminiani come
Mario Vinciguerra e Santino Caramella.
1925 27 aprile. È aggredito dagli squadristi
genovesi per una sua aperta presa di posizione contro le intimidazioni fasciste ai
professori ed agli studenti contrari al regime.
1925 31 ottobre. «Il Quarto Stato» è soppresso
in seguito all’attentato Zamboni. La violentissima reazione fascista convince i
dirigenti socialisti della necessità di costituire un’organizzazione per l’espatrio.
Con la collaborazione di Ferruccio Parri
e Riccardo Bauer, Rosselli prepara la fuga all’estero di decine di socialisti, tra i
quali Treves, Saragat e Turati.
1925 13 dicembre. Fuga di Turati. Dopo aver
raggiunto la costa ligure in auto, il gruppo formato da Rosselli, Parri, Sandro
Pertini, Italo Oxilia e Turati muove dal
porto di Savona, a bordo di una piccola
barca, in direzione della Corsica. Sbarcato a Calvi, il leader socialista ottiene
l’asilo politico e con Pertini e Oxilia prosegue il viaggio per Nizza. Rosselli e
Parri, malgrado le insistenze di Turati,
decidono di tornare in Italia.
1925 14 dicembre. È arrestato, insieme a Parri,
a Marina di Carrara e tradotto a Como,
dove resterà fino a maggio dell’anno
successivo.
1927 Maggio. Con l’accusa di complicità nel
mancato espatrio di Giovanni Ansaldo e
Carlo Silvestri, è confinato nell’isola di
Ustica.
1925 Giugno. Viene imprigionato Nello Rosselli, che chiede di essere destinato a
Ustica. Carlo è nuovamente arrestato,
questa volta per la fuga di Turati, e trasferito, con Parri, nel carcere di Savona.
1925 9-13 settembre. Si svolge a Savona il
processo contro Carlo Rosselli e Parri
per la fuga di Turati. Per intervento diretto di Mussolini, Rosselli viene condannato a 5 anni di confino nell’isola di
Lipari.
1929 23 giugno. La moglie Marion ed il figlio
lasciano l’isola.
1925 27 luglio. Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Nitti evadono dalla colonia di Lipari
a bordo di un motoscafo e raggiungono
Parigi. La fuga è organizzata da Alberto
Tarchiani con l’aiuto di Oxilia e Dolci,
il quale, liberato nel dicembre, era fuggito nella capitale francese (Fuga in
quattro tempi, «Almanacco socialista»,1931). La fuga ebbe un eco europea.
Per reazione Mussolini decretò l’arresto
di Nello e Marion Rosselli. Grazie alla
mobilitazione della stampa inglese, Nello restò al confino pochi mesi e Marion
poté raggiungere il marito a fine anno.
8 ■ CRITICAsociale
1925 Agosto. A Parigi i fuggiaschi di Lipari,
Salvemini, Tarchiani, Alberto Cianca,
Facchinetti e Rossetti, danno vita alla
formazione rivoluzionaria «Giustizia e
Libertà» (GL). Obiettivo del movimento
è l’instaurazione in Italia, con metodi rivoluzionari, di un regime libero, democratico e repubblicano, l’apertura alla
classe lavoratrice ed il collegamento con
la tradizione risorgimentale. Leader indiscusso del movimento è Rosselli, cui
tocca il difficile compito di mediare le
diverse tendenze presenti in «Giustizia e
Libertà» all’estero come in Italia. L’attività del movimento è orientata, principalmente, alla stampa di opuscoli, volantini, manifesti ed all’organizzazione di
voli dimostrativi.
1925 Autunno. Sono attivi in quasi tutte le
grandi città settentrionali i primi gruppi
di GL. Il piú numeroso, attivo e diffuso
nelle varie categorie sociali è quello di
Milano. A garantire il collegamento tra i
diversi gruppi a livello nazionale e con
l’estero sono, principalmente, Ernesto
Rossi e Riccardo Bauer.
1925 Novembre. Appare il primo numero del
mensile «Giustizia e Libertà». Non vinceremo in un giorno, ma vinceremo è la
parola d’ordine del movimento: «Provenienti da diverse correnti politiche, archiviamo per ora le tessere dei partiti e
creiamo un’unità d’azione. Movimento
rivoluzionario, non partito, «Giustizia e
Libertà» è il nome e il simbolo. Repubblicani, socialisti e democratici, ci battiamo per la libertà, per la repubblica,
per la giustizia sociale. Non siamo piú
tre espressioni differenti, ma un trinomio
inscindibile».
1930 30 ottobre. Arresto del nucleo dirigente
di GL in Italia (24 membri) di cui facevano parte, tra gli altri, Parri, Bauer e
Rossi.
1925 Dicembre. Esce a Parigi Socialisme liberal.
1931 Marzo. Pubblica l’articolo Agli operai, un
invito alla classe lavoratrice a farsi protagonista di una «rivoluzione della libertà».
1925 29-30 maggio. Processo al nucleo dirigente di GL in Italia e condanna di Rossi
e Bauer a vent’anni di carcere.
1925 Novembre. Adesione di GL alla Concentrazione antifascista sulla base di una precisa distinzione dei compiti: l’organizzazione e la rappresentanza all’estero alla
Concentrazione, l’azione in Italia a GL.
1932 Gennaio. Inizia la pubblicazione dei
«Quaderni di “Giustizia e Libertà”», concepiti come lo strumento ideologico per
una piú stretta collaborazione con i gruppi italiani. Con l’edizione dei «Quaderni»
(due serie di sei numeri ciascuna: I, gennaio 1932-marzo 1933; II, giugno 1933gennaio 1935) il movimento acquista una
più precisa fisionomia e una maggiore incisività politica. Sul primo numero compare lo Schema di programma rivoluzionario, manifesto del movimento. Rosselli
vi pubblica due articoli particolarmente
significativi: la Risposta a Giorgio Amendola, che aveva aderito al comunismo,
dove sostiene che la «rivoluzione liberale» è animata da uno spirito «ben lontano
da quello del comunismo ufficiale»; l’articolo Liberalismo rivoluzionario, di ispirazione gobettiana, in cui ribadisce il nesso inscindibile tra rivoluzione e libertà:
«Tutte le forze attive, rivoluzionarie della
storia, sono per definizione liberali».
1925 Giugno. Ricorda Filippo Turati, scomparso il 29 marzo, con l’articolo Filippo
Turati e il socialismo italiano, in cui
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traccia un ritratto del leader scomparso
e delinea, a grandi tratti, la storia del Partito socialista italiano.
1933 Novembre. Esce sul «Quaderno 9» l’articolo La guerra che torna. In seguito all’elezione di Hitler a cancelliere (31 gennaio) ed all’uscita della Germania dalla
Società delle Nazioni (14 ottobre), auspica la «rivoluzione antifascista» per
scongiurare la minaccia hitleriana. Si
può prevenire il pericolo di un nuovo
conflitto, non coltivando l’illusorietà
della pace ma «con un’azione risoluta,
con un intervento rivoluzionario che nei
paesi dove il fascismo domina rovesci le
parti nella guerra civile».
1934 6 maggio. A Parigi si scioglie la Concentrazione antifascista a causa del profondo dissidio sul piano operativo e ideologico tra GL ed il Partito socialista, ormai
orientato verso il patto d’unità d’azione
con i comunisti. GL si qualifica come
movimento pienamente autonomo.
1925 18 maggio. Dà vita al settimanale «Giustizia e Libertà» (Parigi 1934-1940). Gli
scopi sono: «formare i quadri e parlare
alla massa; stabilire un legame ideale tra
emigrazione e movimento in patria; preparare l’antifascismo emigrato ai compiti che riserba in Italia il domani ma soprattutto, combattere con assoluta intransigenza il fascismo che anche all’estero
spinge insolente i suoi tentacoli» (Fronte
verso l’Italia).
1935 Febbraio-ottobre. Nel periodo compreso
tra la mobilitazione delle truppe per la
spedizione in Africa orientale (5 febbraio) e l’inizio dell’aggressione italiana in
Etiopia (3 ottobre), la questione abissina
diventa uno dei temi centrali della pubblicistica rosselliana.
1925 15 maggio. Arresti e perquisizioni nel
gruppo torinese di GL. Tra i fermati figurano Michele Giua, Vindice Cavallera e
alcuni studenti del prof. Augusto Monti:
Massimo Mila, Vittorio Foa, Cesare Pavese e Giulio Einaudi. Monti subisce una
perquisizione, ma non viene fermato.
1936 1° febbraio. Arresto di Augusto Monti
che, benché munito di regolare passaporto e «invitato» piú volte dalle autorità a
lasciare il paese, si era sempre rifiutato
di espatriare.
1925 Agosto. Nei primi giorni del mese arriva
in Spagna dove, il 17 luglio, è iniziata la
sedizione militare. Il 22 raggiunge il
fronte d’Aragona per combattere a fianco delle truppe repubblicane. Il suo Diario di Spagna sarà pubblicato postumo
su «Giustizia e Libertà» (7 luglio, 16 luglio e 23 agosto 1937).
1925 13 novembre. In un discorso pronunciato
alla radio di Barcellona, lancia la parola
d’ordine «Oggi in Spagna, domani in
Italia».
1937 Gennaio. Torna a Parigi per curarsi una
flebite.
1925 Gennaio-maggio. Continua a sostenere
dalle colonne di «Giustizia e Libertà» la
causa spagnola. Scrive la serie di articoli
Per l’unificazione politica del proletariato, rinnovata espressione del progetto
di unità antifascista e suo testamento spirituale. Avanza la proposta del «partito
unico del proletariato», inteso come
«una larga forza sociale», al di là dei partiti, come «una sorta di anticipazione
della società futura».
1925 9 giugno. Carlo e Nello Rosselli sono assassinati a Bagnoles-de-l’Orne, ad opera
di affiliati dell’organizzazione terroristica di destra «La Cagoule», su preciso
mandato dei vertici supremi del regime.
■ 2002 - NUMERO 11
LA PENA DEVE RIEDUCARE
Enrico Buemi e Giuliano Pisapia
L
a discussione che stanno attraversando le Istituzioni ed il Paese sulla necessità di interventi,
ormai improcrastinabili, tesi a risolvere le problematiche che, da troppo tempo, affliggono le
carceri del nostro Paese e più in generale la giustizia penale è un segnale che non possiamo
ignorare e che impone, a tutti noi, la necessità
di arrivare ad un primo atto risolutore.
Il primo elemento di cui dobbiamo tener
conto nell’affrontare l’esame della seguente
proposta di legge è la situazione attuale nel
pianeta carcere. I numeri che mi accingo, brevemente, ad illustrare provengono dai dati statistici elaborati dall’Amministrazione penitenziaria e danno un quadro reale della situazione
all’interno delle carceri dal quale si evince,
con evidenza, l’urgenza di un intervento da
parte del legislatore.
I dati si riferiscono al 31 dicembre del 2001
e da allora, come è a tutti noto, la situazione è
ulteriormente peggiorata.
Detenuti presenti (suddivisi tra case di reclusione, case circondariali e istituti per le misure di sicurezza): 55,275.
Totale ingressi dalla libertà nell’anno 2001:
28114.
Durata delle pene inflitte ai soggetti ristretti
negli istituti penitenziari: 31% fino a 3 anni,
30% da 3 a 6 anni, 16% da 6 a 10 anni, 14%
da 10 a 20 anni, il 9% da oltre venti anni all’ergastolo.
Durata della pena residua per soggetti ristretti negli istituti penitenziari: il 61% fino a
3 anni, il 20% da 3 a 6 anni, il 15% da 6 a venti
anni, il 4% da oltre venti anni all’ergastolo.
Situazioni di tossicodipendenza calcolate rispetto ai detenuti presenti: 27,9% tossicodipendenti, 1,4% alcoldipendenti, 3,1% in trattamento metadonico.
Detenuti affetti da HIV (il test è volontario
e di conseguenza il dato è sottostimato): 2,6%.
A fronte di questa situazione la percentuale
dei detenuti lavoranti è passata dall’oltre il
35% del 1990 al 24% del 2001.
Questi crudi numeri ci dicono fin da subito,
al di là delle nostre personali opinioni politiche
in materia, che si è fallito rispetto al dettato costituzionale che all’art. 27 così recita: “...Le
pene non possono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità e devono tendere
alla rieducazione del condannato”.
Vi è poco spazio, nonostante gli sforzi e
l’impegno di cloro che operano ogni giorno all’interno dei nostri istituti penitenziari, per
l’umanità e la rieducazione in un sistema carcerario che fa del sovraffollamento non un’eccezione ma la regola.
Dobbiamo dirci con coraggio che lo Stato
oggi è in debito nei confronti dei cittadini detenuti che espiando la pena, come previsto dalla legge e dalle sentenze specifiche, non ricevono, durante la loro permanenza in carcere,
quanto previsto dalla nostra Carta Costituzionale, ovvero la funzione rieducativa.
Oggi il carcere, per le condizioni in cui si
trova, certamente non espleta questa fondamentale funzione e spesso contribuisce al peggioramento delle propensioni agli atteggiamenti criminali.
Questa particolare drammatica situazione ci
porta a ritenere che non si può più attendere
oltre e che vi è, anche, una convenienza della
collettività a rimettere in libertà, in una fase di
avanzata espiazione della pena, quanti sono interessati alla sospensione della stessa, consci
che la commissione di nuovi reati comporterà
l’espiazione completa della pena con l’esclusione di ogni ulteriore beneficio.
La proposta di legge n. 3323 si basa sulla
valutazione che lo Stato per la sua inadempienza deve riconoscere un credito di buon
comportamento al detenuto che avendo espiato, in buona parte, la pena detentiva si vuole
predisporre al rispetto delle regole della convivenza civile.
Le particolari severità contenute, per chi
continuasse a delinquere, sono la dimostrazione che il provvedimento che proponiamo non
è un atto di clemenza buonista, ma un concreto
patto di fiducia reciproca tra cittadino che beneficia della sospensione della pena e lo Stato
che fa un investimento sul futuro di chi dimostrerà di essere veramente capace di utilizzare
questa opportunità. Un provvedimento, quindi,
che si può inquadrare in una attenta politica
detentiva che valuta le condizioni oggettive
del detenuto, che applica una sospensione condizionata, per un massimo di tre anni, nella fase terminale della detenzione e che vincola tutto ciò ad un corretto comportamento nei cinque anni successivi, sottoponendolo a misure
di controllo quotidiano per la durata della sospensione della pena.
Da molti parlamentari, appartenenti a varie
aree politiche, sono stato presentate proposte
di legge in tema di indulto revocabile, amnistia
e amnistia condizionata, con l’obiettivo di trovare una soluzione legislativa che contemperi
a varie necessità: da quella di rendere più vivibili e meno disumani gli istituti penitenziari
nel nostro Paese a quella di tutelare le esigenze
di sicurezza della collettività e di far diminuire
la recidiva.
La proposta di legge che stiamo per affrontare non è certo un tentativo di eludere quanto
previsto dall’art. 79 della Costituzione, ma
rappresenta un atto concreto per risolvere l’insostenibilità del sovraffollamento carcerario,
per migliorare le condizioni di detenzione, che
non assicurano attualmente il rispetto della dignità umana e per garantire, contemporaneamente, le esigenze di tutela e sicurezza della
collettività.
Quindi non un provvedimento “tampone”
per risolvere una situazione di emergenza ma
un tentativo di dare una risposta concreta,
prendendo spunto da analoghi istituti in vigore
in altri Paesi e che hanno dato esiti particolarmente positivi (ad esempio la probation negli
Stati Uniti), all’obiettivo di rendere più umane
e vivibili le nostre carceri non solo per i detenuti ma anche per tutti coloro che quotidianamente vi operano e vi lavorano.
Voglio qui, infine, ricordare due passaggi
del discorso pronunciato dal Santo Padre Giovanni Paolo II durante la sua storica visita al
Parlamento italiano che ritengo rappresentino
non solo lo spirito cristiano ma una profonda
lungimiranza sociale e politica: “Alla luce della straordinaria esperienza giuridica maturata
nel corso dei secoli a partire dalla Roma pagana, come non sentire l’impegno, ad esempio,
di continuare ad offrire al mondo il fondamentale messaggio secondo cui, al centro di ogni
giusto ordine civile, deve esservi il rispetto per
l’uomo, per la sua dignità e per i suoi inalienabili diritti?”.
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E l’altro che più è inerente al tema che stiamo trattando: “Tale solidarietà, tuttavia, non
può non contare soprattutto sulla costante sollecitudine delle pubbliche Istituzioni. In questa
prospettiva, e senza compromettere la necessaria tutela della sicurezza dei cittadini, merita
attenzione la situazione delle carceri, nelle
quali i detenuti vivono spesso in condizioni di
penoso sovraffollamento. Un regno di clemenza verso di loro mediante una riduzione della
pena costituirebbe una chiara manifestazione
di sensibilità, che non mancherebbe di stimolarne l’impegno di personale recupero in vista
di un positivo reinserimento nella società”.
Esigenza di sicurezza, spirito umanitario e
rispetto per l’uomo, la sua dignità e i suoi inalienabili diritti sono tre passaggi di cui non
possiamo non cogliere lo spirito e il legame
con il lavoro che noi siamo chiamati qui a
svolgere e che credo siano espressamente richiamati nella proposta di legge che ci accingiamo a discutere.
Il meccanismo introdotto appare parzialmente riconducibile a quello di cui all’art. 656,
comma 5, c.p.p. che prevede, da parte del Pubblico ministero, la sospensione d’ufficio dell’esecuzione della pena (da iniziare o già iniziata) inferiore a 3 anni (4 anni nei reati connessi all’uso di stupefacenti) anche se residuo
di maggior pena, volta a permettere l’accesso
alle misure alternative alla detenzione.
Il procedimento è d’ufficio e muove ad iniziativa del Pubblico Ministero dell’esecuzione
al quale spetta l’emanazione del provvedimento (decreto) di sospensione dell’esecuzione
della pena, successivamente convalidato dal
giudice dell’esecuzione (art. 2, comma 1).
Il provvedimento può essere disposto una
sola volta ed è generale, non facendo riferimento ad alcuna categoria di detenuti in relazione all’illecito commesso.
Con il provvedimento di sospensione dell’esecuzione della pena è sempre disposto il
divieto di espatrio (articolo 3) e sono altresì
applicate ulteriori specifiche prescrizioni, indicate dall’articolo 4, comma 1, della proposta
di legge.
In particolare, è previsto l’obbligo di presentazione e di firma presso gli uffici di polizia e
di dimora in determinato comune. In relazione
a tale obbligo va rilevato che prescrizioni diverse sono previste in ragione dell’entità della
pena sospesa: se quest’ultima non supera un anno il condannato avrà solo l’obbligo di firma
(presentazione presso il più vicino ufficio di polizia giudiziaria, comma 1, lettera a); diversamente, oltre a tale obbligo è disposto un obbligo di dimora (articolo 4, comma 1, lettera b).
E’, inoltre, previsto l’obbligo di presenza in
casa tra le 21,00 e le 7,00 (articolo 4, comma
1, lettera c) e l’obbligo di adoperarsi quanto
possibile in favore della vittima del reato (articolo 4, comma 1, lettera c).
Va osservato, peraltro, come tale pacchetto di
ulteriori obblighi a carico del condannato non
sia immodificabile, prevedendo l’articolo 4,
comma 2, su istanza dell’interessato o del pubblico ministero la possibile variazione (a cura
del giudice dell’esecuzione) delle prescrizioni
di cui al comma 1 dettate col provvedimento.
Il solo divieto di espatrio rimane quindi
escluso da possibili deroghe o modifiche.
Per quanto riguarda poi la revoca della sospensione anche il condono di pena che deriva
dall’applicazione del beneficio proposto dalla
proposta di legge in esame è revocabile.
In particolare, la revoca di diritto del provvedimento consegue al mancato rispetto delle
prescrizioni imposte con la concessione della
sospensione della pena (divieto di espatrio, obblighi di firma e di dimora ecc.) di cui artt. 3 e
4 della p.d.l., nonché alla commissione di un
nuovo reato non colposo entro cinque anni
dalla data di entrata in vigore del provvedimento in esame per il quale il condannato subisca una nuova condanna alla detenzione non
inferiore a sei mesi.
In seguito alla revoca della misura il condannato dovrà scontare la pena della reclusione senza possibilità di godere delle misure alternative alla detenzione.
Al decorso dei cinque anni senza la commissione da parte del condannato di ulteriori reati
e senza la violazione delle prescrizioni imposte in sede di concessione della sospensione
dell’esecuzione consegue la dichiarazione di
estinzione della pena (articolo 6 della proposta
di legge). s
■ 2002 - NUMERO 6
IL FUTURO È AUTOGOVERNO
G
Stefano Carluccio e Claudio Martelli
iuseppe De Rita ha sempre ritenuto che “il potere è un luogo
vuoto dove bisogna avere il coraggio di non entrare mai”; e a questa convinzione è rimasto fedele, sempre più ancorandosi
al suo mestiere di ricercatore socioeconomico.
Su questo lucido sfogo di indignazione civile De Rita un anno dopo ha steso un pamphlet (“Il regno inerme. Società e crisi delle
istituzioni”) che è una fredda riflessione sulla
crisi di quel paradigma statuale su cui istituzioni e classi dirigenti si sono più o meno consapevolmente arroccate.
L’intervista è di un anno fa, ma abbiamo atteso questo suo lavoro per pubblicare il lungo
colloquio.
«Sono convinto in questo momento che c’è
un rapporto tra istituzione e società più in crisi
che nel passato, per il fatto che nella società si
vanno sviluppando schemi di comportamento
che in qualche modo vanno contro corrente ri-
spetto ad una dimensione istituzionale quale
quella che si è andata configurando in questi
anni. Cosa sta succedendo in Italia?
Primo, un forte ritorno del policentrismo istituzionale – comuni, autonomie funzionali e altro, (le fiere, i porti, gli interporti) una realtà
forte di autonomia.
Secondo, una realtà forte di territorializzazione. Questo è un paese territorializzato, in
modo tale che difficilmente può essere ricondotto alla regione, alla provincia: il 60% della
produzione industriale italiana è fatta in distretti, realtà giuridicamente inesistenti.
Ricordo che quando sono andato alla Bicamerale il mio primo quarto d’ora di audizione è stato sulla rappresentanza e sul valore della rappresentanza nella condizione sociale in Italia.
D’Alema mi interruppe e disse: “De Rita,
noi non stiamo qui a fare un discorso sulla rappresentanza, noi la Costituzione la dobbiamo
rendere più decisionista”.
Ma questo rientra nella logica della verticalizzazione del potere, dell’elezione diretta del
sindaco, dei presidenti delle regioni e delle
province, l’uninominale, il bipartitismo più o
meno perfetto, lo schieramento, la decisionalità. L’attuale Parlamento è sostanzialmente
inesistente di fronte alle decisioni governative.
Siamo ai “sindaci sceriffi”, siamo ai presidenti
di regione “governatori”, mentre la rappresentanza è stata messa da parte.
Ma la rappresentanza è stata messa da parte
al punto tale che consigli comunali, provinciali
e regionali sono ormai anime perse, diciamo
così. Mentre i governatori fanno tutto. La rappresentanza di un paese molto articolato ha
tanti canali più o meno sfumati. Oggi invece
essa è una “verticalità” in chi ha la decisione.
La decisionalità è anche il fattore della rappresentanza.
Secondo punto, era naturale che il decisionismo diventasse personalizzazione, perché se
c’è una piramide del potere, chi sta in cima
personalizza.
Questa caratteristica degli anni ‘90, se vogliamo storicizzare, va contro tutta la realtà
italiana, va contro la storia, contro la territorializzazione, va contro l’individualizzazione
delle attese, dei bisogni, dei meriti, dei doveri,
va contro tutto. Va contro la territorializzazione, perché il 60% della produzione industriale
viene fatta in 70 distretti industriali. Dove li
metti? Cosa fai?
L’impennata del decisionismo e della personalizzazione è stata accentuata negli anni fra
il ‘92 e oggi, ma è destinata a declinare. Non
si può andare più in là, perché dopo la punta
della piramide dove vai? In cielo? Devi ricominciare a guardarti di sotto. Ricominciare
“dal basso”, dalla società. Questo è il modo
della democrazia di oggi.
Oggi la cultura collettiva è prevalentemente
localistica.
Ma la difficoltà di questa scommessa è grande. In più c’è una cultura giuridico-istituzionale, in questo caso di origine cattolica, che è
quella della “sussidiarietà”. E’ una cosa da buttare nel cestino, perché sussidiarietà significa
non avere il senso di una società che cerca come un albero disperatamente la luce per prendere un po’ di clorofilla. La “sussidiarietà verticale” è lo Stato, la regione, è a “cassetti”. La
“sussidiarietà orizzontale” è molto più generica, ‘quello che non fa lo Stato lo fa il privato’,
l’azienda, il terzo settore. In pratica è una specie di scansia, cassetti verticali o orizzontali
dove non entrerà mai una società territorializzata, individualizzata, policentrica, una società
che in qualche modo vuole un’autonomia, una
società che ha voglia di scoprire il pubblico
funzionale.
Cosa crea la sussidiarietà se non un rabbioso
sindacalismo istituzionale? Se non lotta delle
province contro le regioni, delle province contro i comuni ecc.? Ognuno vuole il pezzo suo.
Per non parlare della lotta tra l’Unione
Europea e gli Stati nazionali.
Esatto. Quando al Congresso delle Regioni
che si è tenuto nella Sala della Regina ho detto: “Andiamo in Europa e rendiamoci conto
che ci dobbiamo andare con una cultura dell’arcipelago”, perché noi abbiamo una cultura
d’arcipelago, siamo mediterranei, non di
un’Europa della tundra nordica. Bossi, parlando dopo di me ha detto: “sono stupidaggini”.
Lui, localista da sempre. E’ chiaro che lui ha
un’esigenza di sindacalismo istituzionale.
Posso chiederle un chiarimento? Lei parla di autonomie funzionali, che differenzia,
se non addirittura contrappone, a quelle
elettive. E accenna ad un repertorio di queste autonomie funzionali che mi sembra lei
faccia rientrare in una ripresa di pluralismo, come sintomo di una nuova democra-
zia: camere di commercio, autonomia sanitaria, fondazioni bancarie, enti portuali, interportuali, enti fiere, ecc.. Questo vuol dire
che la società produce le proprie strutture,
le proprie istituzioni che si connettono tra
loro direttamente? E’ una “democrazia
sommersa”?
Il problema è, come dicevo prima, che noi
abbiamo prima goduto e poi sofferto di uno
Stato pienamente “soggetto”.
Anni fa per esempio mi chiamavano giobertiano. Hanno avuto ragione, invece, Mazzini,
Garibaldi e compagni.
Questo Stato ha fatto l’Italia, ha fatto gli italiani, ha fatto le ferrovie pubbliche, le poste,
perché anche avere la cassetta rossa in ogni comune di 500 abitanti è fare l’Italia. Nel dopoguerra questo Stato è andato lentamente declinando, non solo perché era uno Stato ormai
vecchio di quasi cento anni, ma perché la società è molto più cresciuta di quanto fosse cresciuto lo Stato. Quando c’è il suffragio universale alla fine qualche cosa succede. Quando hai
il boom economico del ‘58/’63 qualche cosa
succede. Quando c’è il maggio del ‘68 qualche
cosa succede. Questa società è cresciuta in numero di interessi, di soggetti. Quando uno ha
cinque milioni e mezzo di aziende cioè un’impresa ogni dieci abitanti, non c’è più lo Stato
nazionale prefascista che faceva gli accordi con
l’Ansaldo. E’ una società molto più ricca.
Questa società molto più ricca, mette in crisi
quel modello di Stato, e a quello Stato non
chiede più interventi coerenti con lo Stato stesso ma con le proprie attese. Faccio un esempio: io non chiedo più alla scuola italiana di
fare l’Italia, o gli italiani, o di unificare la lingua. Gli italiani ci sono, la lingua l’ha unificata
la scuola, la televisione, l’abbiamo unificata
tutti. Chiedo alla scuola italiana di insegnare
ai miei figli informatica, inglese, la preparazione alla carriera, di indicargli magari una
cultura innovativa e creativa. Chiedo altre cose. In questo caso chiedo che lo Stato non sia
più uno “Stato soggetto” che deve dire a me
quello che devo essere, ma uno “Stato funzione” che risponda alla domanda di una società
più ricca, anche in termini di domanda di intervento pubblico. Quindi non chiedo più l’assistenza all’orfano di guerra o all’ex combattente ma chiedo la libertà della pensione integrativa, della polizza integrativa di salute,
chiedo altro.
Si diceva una volta: “Chiedo un rapporto
con le mie istanze”. Era il marxismo florido
che trasformava il bisogno in desiderio, e che
lo Stato doveva risolvere. “Desidero guarire”.
Ma il bisogno di guarire non esiste, c’è il bisogno e il diritto di essere curato ma non quello di guarire.
C’è stato uno sfondamento della domanda
verso cose che forse lo Stato non avrebbe potuto dare, e comunque non erano già più quelle
che lo Stato faceva per l’Italia.
Lo spostamento non è soltanto verso uno
Stato molto oscuro, lontano e potente, ma si
attua verso quello che si ha di fronte. Io non
chiedo più l’Ice, chiedo che la mia fiera di Vicenza funzioni bene. Che mi importa del Ministero del Commercio con l’Estero? So benissimo che la mia capacità mercantile passa anche attraverso la mia fiera, la mia mostra a Valenza Po degli orafi. E’ lì che arrivano i miei
compratori, i giapponesi che vengono a vedere
i gioielli e forse comprano. Non mi importa
nulla dello Stato soggetto con i suoi dicasteri.
Questo porta ad esempio a uno spostamento
del mondo scolastico ad un’autonomia ormai
già esistente all’università, alla competizione.
Avete mai visto negli ultimi cento anni università che comprano pagine di giornali per fare
pubblicità, dicendo “venite da noi perché siamo i più bravi, abbiamo un rapporto stupendo
10 ■ CRITICAsociale
tra studenti e professori, facciamo ricerca?”
Nella scuola elementare certo non possiamo
pensare a questo, però quando fra trent’anni ci
sarà l’autonomia scolastica, sarà come oggi per
l’università, che ancora prende i soldi dal Ministero, ma sempre di meno e deve cominciare
a lavorare sulle tasse. Quindi la rabbia, aumentano le tasse. Lo hanno capito i Laburisti inglesi che le tasse all’università non è classismo.
L’autonomia funzionale, è una fungaia di interventi che da pubblici diventano interventi
“customerizzati”, cioè legati all’attesa del
cliente. Questo cambia il discorso sulla democrazia.
Certo, come fenomeno procedurale però,
non come fatto ideologico, non come fatto
di ispirazione istituzionale.
Non farei per ora nessuna riforma costituzionale seria, lascerei crescere questa dialettica, perché non si può pensare che tu due o tre
anni cambi un rapporto tra società e istituzione
che in questo momento è molto problematico.
Qualsiasi cosa si faccia è vecchia: oggi l’art.
5 del centro sinistra è vecchio, ma anche la
legge Bossi è vecchia, perché entrambe sfuggono a tutte le cose che ho detto prima.
Naturalmente loro dicono che sono lì per decidere, per fare le riforme. Non possono dire:
“Non ci sono le condizioni concettuali per farle”. Se fossi presidente del Consiglio e dicessi:
“Non si fa più una riforma” saprei che la fucilazione per tradimento sarebbe immediata.
Io credo che la dinamica reale sia molto più
forte e avanzata della dinamica istituzionale,
e di quella politica in particolare.
Volevo fare tre domande brevissime. Se il
fenomeno che ha descritto non sia anche internazionale, mutuato dall’esperienza americana e francese e in generale, se, addirittura, l’Italia non arrivi tardi all’inseguimento di questo modello.
La seconda è se i due esempi forse più preoccupanti di questa deriva decisionistica
non siano per un verso il riconoscimento del
rapporto tra consenso e potere, nel senso che
oggi è il potere che genera il consenso.
La terza domanda è se nella stessa dimensione della democrazia politica il fenomeno
più allarmante non sia quello della “designazione” dei rappresentanti anziché della
loro elezione.
Sul primo punto certamente, ogni società
complessa cerca disperatamente la personalizzazione. La paura del potere in una società
complessa è quella di non padroneggiare e allora dice, “semplifichiamo”. E la semplificazione è chiaramente una verticalizzazione: non
controllo la società complessa però il punto di
vertice lo scelgo.
Noi abbiamo, in qualche modo, mutuato più
dalla Thatcher, con dieci-dodici anni di ritardo,
piuttosto che dall’esperienza americana.
Dal punto di vista internazionale, però, mi
pongo sempre il problema se oggi la cultura europea non debba fare i conti con l’”arcipelago”,
cioè se a un certo punto una semplificazione in
verticale, il superstato europeo, non sia un errore. Occorre uno Stato europeo che sia abbastanza unitario ma anche che dia spazio.
Il vecchio professor Benvenuti diceva “cosa
c’è stato dopo il miceneo nei monumenti del
mondo?” C’è stato il tempio greco. Il policentrismo è il tempio greco, oppure il sistema
pubblico è quello che Cassese oggi chiama
l’”arena pubblica”. Non è più la piramide, ma
un’arena. Non ha più il senso della gerarchia,
ma il senso di una poliarchia vissuta anche con
le sostituzioni, le sussidiarietà, ma in rete. Se
avessimo fatto l’Europa nel ‘55-’56, la superstrada “a sei” era possibile. Ma una superstrada a venti/venticinque è impossibile, con Heider e i baschi! O hai una cultura dell’arcipelago o non ce la fai.
12 / 2012
Secondo punto: il potere crea consenso. Certo, è del tutto vero. Concettualmente è così visto che non ci sono più le cinghie di trasmissione del consenso, il filtro verso il vertice.
Non funzionano i partiti, anzi non ci sono più.
Però nessuno ha studiato abbastanza bene il carattere prefascista delle ultime elezioni: in tutto
il sud hanno vinto solo i notabili. Se si va a vedere sono tutti notabili trasversali. E’ il farmacista del luogo, il notaio del luogo che organizza, dopodiché va da Berlusconi o da Rutelli.
Mi diceva il mio vecchio amico Pietro Longo: “Guarda che io ti so dire i nomi e i cognomi di tutti gli eletti berlusconiani del mezzogiorno che sono eletti di collegio, prefascisti”,
nel senso dell’Italia giolittiana. Questa è una
cosa che va studiata, perché il punto terzo, che
poi riguarda anche il secondo, è sì il potere che
dà il consenso, ma se invece è il collegio che
viene contrattato con l’etichetta? Se l’etichetta
Berlusconi o Rutelli viene messa su un notabile di collegio? Vale l’etichetta o il lavoro che
quel notabile ha fatto mettendo insieme le forze del collegio? Possono essere sindacalisti, il
direttore dell’associazione industriale; c’è una
logica che riguarda una trasversalità più occulta ma molto presente nel Paese. Quindi molto
spesso il verticismo di facciata nasconde anche
un potere orizzontale.
Anche qui non voglio essere così pessimista
da dire che stiamo tornando al prefascismo,
ma certamente è un punto che va controllato.
E’ un passo indietro? Personalmente ritengo
di sì, è figlio del partito di massa.
Volevo chiederle ancora una cosa. In questa realtà che segue un corso differente da
quello in cui si ritrova attualmente il sistema istituzionale, in questa realtà orizzontale, nell’arcipelago, si può pensare, per sintesi e in prospettiva, a una riduzione dei
contenuti della delega e invece ad una valorizzazione dell’autogoverno?
E’ quello che dicevo prima. Nella contrapposizione fra decisionismo e rappresentanza, tra
verticalizzazione personalizzata e partecipazione, la speranza di chi vuole cambiare - se qualcuno vuole cambiare, per carità – è di fare “partecipazione” e “rappresentanza”, costruire i processi di partecipazione lì dove sono. C’è un
sommerso, la gente oggi vuole contare. Ma
quanta gente vuole contare e quanta gente si diverte a Porta a Porta pensando di fare politica?
Può darsi che questo paese sia, come dice il
cardinale Ruini, così antropologicamente segnato da questi ultimi anni che la gente preferisce “Porta a Porta” piuttosto che partecipare,
andare al consiglio comunale o andare in consiglio regionale a fare una battaglia, a star dentro forme di partecipazione. Può darsi, questo
non lo so.
Da un punto di vista sociale ritengo che oggi
c’è molta gente che vuole contare, partecipando e cercando rappresentanza nuova. Penso ai
due milioni di persone che fanno parte delle associazioni delle nuove professioni, loro hanno
un interesse a rappresentarsi e a partecipare
Quindi ci può essere una nuova generazione di istituzioni pubbliche che nascono
dalla società stessa.
Io penso di sì. Però può darsi invece che abbia ragione Ruini a dire che questo è un paese
antropologicamente decaduto. Del resto basta
far zapping in televisione che uno vede quiz,
quiz, quiz. Ma penso che qualche cosa c’è.
Sono convintissimo che il decisionismo e la
“verticalizzazione personalizzata” ha dato tutto, perché si è impennata così rapidamente negli anni ‘90 che non può che flettere: si chiama
curva logistica, per uno che abbia studiato un
po’ di matematica. O ritrova un’altra finestra
per impennarsi ulteriormente o è difficile, perché dopo la punta della piramide inizia la discesa sul lato opposto.
Per chiarire ancora meglio. Lei parla della sussidiarietà dall’alto verso il basso con
la progressiva cessione di funzioni dallo Stato centrale alle regioni, alle province, ai comuni etc., e della piramide rovesciata, viceversa, dall’individuo, alla famiglia, al comune, alla provincia, alla regione, allo Stato.
Sì, non è così ordinato.
Lei, in questo modo critica proprio l’assetto verticale?
Sì, l’assetto verticale. La mia testa è vissuta
nell’orizzontalità del sistema d’impresa, nell’orizzontalità del territorio, nel policentrismo
dei poteri, nella diffusione.
Può allora chiarire meglio questo concetto con cui siamo abituati a chiamare il pluralismo? E cioè quello per il quale, partendo dalle realtà locali, familiari, associative,
comunali e via via salendo verso l’alto non
descrive più quella che è ormai la nuova dinamica in corso che lei ha osservato?
Da orizzontale parto dal basso, non parto in
mezzo al mare. Parto da quello che c’è in realtà. Quello che nego è che questa realtà diffusa
possa essere un mattone su mattone per costruire una piramide. Perciò uso la parola “arena”,
tipicamente orizzontale. Perciò uso il termine
“tempio greco”, perché dall’orizzontalità sorgono tre colonne, cinque colonne, sei colonne.
Per dieci anni saranno tutte sghembe, perché
una colonna è alta, una è bassa, perché la rappresentanza delle professioni è cresciuta molto
più della rappresentanza dei lavoratori individuali che stanno lì ancora alle partite Iva. Però
il meccanismo non può che essere quello dell’arena e del tempio greco. Non può più essere
quello della ricostruzione della piramide dal
basso. La piramide è la cultura logico deduttiva, organicistica che oggi è stata superata.
Gli interessi, le rappresentanze, le parteci-
pazioni sono a livello di arena o di prime colonnine. Quanto durerà? Credo che questo
processo durerà un paio di decenni. Mentre
nell’informatica o nella telematica e anche nel
potere è diventata architettura distribuita, nel
modo di fare politica non lo è ancora. E’ ancora tutto legato al “faccio tutto mì” perché ho
il cervellone, il sistema nervoso centrale. Questa è una cosa da liceo degli anni ‘50, in cui ci
hanno insegnato che Menenio Agrippa era un
grande intellettuale, secondo cui tutto sta nel
sistema nervoso centrale e i terminali sono soltanto di avviso, ma la decisione poi sta nel cervello. Oggi invece ciascuno si prende il suo
spazio di potere: l’imprenditore se ne frega di
Galan presidente del Veneto, lui va a Timishoara. Galan, o chi per lui, riguarda la piramide e lui sta fuori dalla piramide.
C’è la possibilità che queste autonomie
funzionali trovino in qualche modo voce attraverso la capacità di essere nell’ordinamento, cioè di fare la legge? Essere nel potere legislativo diffuso in unico ordinamento con il riconoscimento della personalità
giuridica pubblica di queste realtà? E, se
questo è pansabile è follia quella dell’autogoverno anche sotto il profilo fiscale della
“collaborazione” pubblico-privato in materia di tasse?
Io sarei d’accordo. Ma in questo momento
mi sembra un’utopia se penso al disastro della
finanza sanitaria, ad esempio perché poi trasferite le competenze, non hanno i soldi, fanno
i disperati e allora dovranno fare il federalismo
fiscale. Ma per emettere tasse nuove per pagare la sanità. Uno dei problemi che ho scritto è
che la riforma del Titolo V così come è fatta è
inapplicabile, sul piano finanziario. s
Stefano Carluccio e Claudio Martelli
■ 2003 - NUMERO 11
ERA UN PATTO DI RECESSIONE
Antonio Venier
D
opo oltre un decennio dalla firma del trattato di Maastricht, finalmente nel novembre 2003 i
governi dei due maggiori paesi della cosidetta
“Eurolandia” sembrano finalmente decisi a
porre un freno agli effetti devastanti dei “parametri” di stabilità incautamente sottoscritti.
Vogliamo avere una tenue speranza che anche il nostro paese, che è stato il più colpito
dalla follia “europeista” (ma in realtà veramente contro l’Europa), voglia seguire Francia
e Germania sulla via della ragionevolezza.
Abbiamo detto che l’Italia è stato certamente il paese più danneggiato, durante il decennio
iniziato nel 1992 con la sottoscrizione del trattato di Maastricht. Infatti, il nostro paese è stato il più zelante osservatorio dei criteri fissati
con il patto di stabilità (e mai il termine fu il
meno appropriato), incurante delle conseguenze economiche e sociali di tanto zelo. Ma ancora peggio, in perfetta coincidenza temporale,
il decennio iniziato con la svalutazione del settembre 1992 fu per l’Italia il periodo del saccheggio, denominato “privatizzazione” e della
demolizione del patrimonio industriale esistente e sotto la guida di personaggi forse soltanto incompetenti.
In verità qualche flebile ed inascoltata voce
si era levata, già parecchio tempo fa, per denunciare la insensatezza e la pericolosità dei
criteri maastrichtiani, ed anche i connessi effetti facilmente prevedibili della moneta unica,
tanto entusiasticamente accolta dal nostro buon
popolo, oltre che da “esperti”, giornalisti, etc.
Fra queste voci vogliamo ricordare anche la
nostra, poiché sia “Critica” che “L’Avanti!”
nel 1998 pubblicarono alcune nostre pagine di
dissenso verso gli entusiasmi liberisti ed europeisti; pagine non certo dovute a grande sapienza o a doti profetiche, ma più modestamente ad una moderata capacità di ragionamento basata sui dati di fatto, [Citiamo su
“Critica Sociale” maggio 1998 “Il mito della
stabilità”, ottobre 1998 “Recessione globale”,
su “L’Avanti!” 17/05/1998 “Patto di stabilità
della disoccupazione”].
Sembra che ora, in verità molto tardivamente, qualche nostro governante cominci a prendere atto della realtà, mettendosi in sintonia
con Francia e Germania. Tuttavia sembra che
sia tuttora ben folta la schiera degli “euroentusiasti”, evidentemente desiderosi di apportare altri danni all’Italia.
Danni da aggiungere a quelli enormi della
de-industrializzazione (neo-liberista e giustizialista), che ha colpito soprattutto i settori di
tecnologia più elevata.
Pertanto è da considerare pura fantasia pensare ad esportazioni di alto valore per ostacolare la recessione in atto.
CRITICAsociale ■ 11
12 / 2012
Resta quindi soltanto la possibilità di intervento pubblico, che rianimi la domanda interna, ovviamente riducendo la pressione fiscale
sulle fasce medio-basse di reddito (sulle più
alte è già fatto), e con vigoroso programma di
spesa pubblica. Conseguenza ovvia sarà l’aumento del deficit nel bilancio dello Stato, come è sempre avvenuto in ogni parte del mondo
per ottenere il rilancio dell’economia.
Non ci sembra inutile qui richiamare quanto
scritto su “ Critica Sociale” cinque anni fa
sull’argomento, per mostrare quanto tempo è
stato perduto:
“Sia l’analisi iniziale del problema, sia
l’esperienza del passato dimostrano ampiamente che il solo modo possibile per rilanciare l’attività economica consiste in un massiccio intervento da parte dello Stato, soprattutto per mezzo di spese per infrastutture, opere pubbliche e
materiale militare. In proposito basta ricordare
l’uscita dalla grande depressione degli anni’30,
ottenuta allo stesso modo da Germania e Stati
Uniti (per altri aspetti, paesi tanto diversi).
L’intervento di rilancio dello Stato non può
evidentemente essere finanziato da un aumento della pressione fiscale: questo aumento, necessariamente molto elevato, provocherebbe,
infatti, una depressione dei consumi appunto
contraddittoria con gli scopi desiderati. La ripresa economica deve quindi essere finanziata
altrimenti, con deficit di bilancio ed aumento
del debito pubblico, che sono precisamente gli
strumenti di intervento espressamente proibiti
dal “patto di stabilità”, come dai precedenti
criteri di Maastricht, confermati nonostante (o
per appunto?) i risultati ottenuti. Possiamo
quindi affermare che i criteri di stabilità (forse
imprudentemente così denominati), se osservati assicureranno un lungo periodo di depressione economica, anzi di recessione. Questo
soprattutto per quei paesi – tipicamente l’Italia
– che non hanno autorità sufficiente per utiliz-
zare le risorse comuni della Banca Centrale
Europea a favore dei propri particolari interessi nazionali. Non vale certo la pena di spendere troppe parole per contestare la bizzarra affermazione, da taluno espressa, che la riduzione del deficit annuale di bilancio e conseguentemente del debito pubblico accumulato sia
condizione utile per migliorare l’attività economica. Si tratta di evidente sciocchezza, o
meglio di deliberata mistificazione: non è, infatti, pensabile alcun miglioramento dell’economia se le entrate fiscali dello Stato superano
le sue spese, poiché evidentemente vengono
sottratte risorse sia ai consumi che agli investimenti, pubblici e privati.
Facile conferma, i risultati ottenuti da una
simile politica economica nel nostro paese,
con cinque anni di tagli alle spese ed aumento
di tassazione.
In conclusione, conclusione tanto semplice
quanto sgradevole, il “patto di stabilità” tanto
appezzato da governanti ed esperti è del tutto
incompatibile con la ripresa dell’economia, e
particolarmente con la riduzione della nostra
disoccupazione.
Incompatibilità intrinseca, non eliminabile,
poiché appunto il citato patto esclude esplicitamente proprio l’utilizzo dei mezzi necessari
per tale rilancio, vale a dire la spesa pubblica,
il famigerato”deficit spending”.
Ovviamente non è detto che i patti assurdi
debbano essere da tutti osservati: ma per fare
questo, è necessario avere autorità e volontà di
governo, e soprattutto avere la possibilità di
manovrare le istituzioni monetarie europee in
funzione degli obiettivi ed interessi nazionali.
Volontà dimostrata da Francia e Germania, come ha ben confermato la recente disputa sul
governo della futura Banca Europea, ma certo
non dai nostri eurogovernanti sostenuti da opinione pubblica tanto poco informata quanto
euroentusiasta.” s
■ 2003 - NUMERO 3
POVERI DI DEMOCRAZIA
I SOGGETTI DEL NUOVO RIFORMISMO
Gianluigi Da Rold
Q
uando, affermatosi il fascismo in
Italia, il giovane Giorgio Amendola fugge clandestinamente a
Parigi dall’Italia, incontra Claudio Treves in
un povero e piccolo albergo della banlieu. In
un bel libro autobiografico Amendola riassumerà più o meno così una scena struggente:
“Gli spiegai perché ero diventato comunista,
perché occorreva riunire tutte le forze antifasciste e combattere il fascismo dall’esterno e
poi dall’interno. Ma Treves scoppiò in lacrime”, racconta Amendola. “Mi fece tutti gli auguri possibili, ma lui si sentiva uno sconfitto
che non aveva neppure più la forza di combattere. Aspettava solamente la morte”.
L’episodio drammatico può essere preso come metafora di quanto è accaduto in altre epoche nella storia secolare della battaglia riformista e socialista. Il “leone ferito” Bettino Craxi, nell’esilio di Hammamet, alternava momenti di sconforto a brevi periodi di speranza.
Si batteva a colpi di telefonate e di fax, di scritti e di libri, ma Craxi aveva la morte nel cuore
e sapeva benissimo che non aveva più la forza
per combattere.
Il fascismo liquidò brutalmente soprattutto
la tradizione riformista socialista (i comunisti
erano una piccola setta astratta che non impensieriva il fascismo), l’operazione “Mani pulite” del 1992 ha cancellato soprattutto il nuovo
riformismo socialista, perché il massimalismo
parolaio di comunisti e postcomunisti non poteva di certo intaccare il complesso piano di
demonizzazione della politica per mettere una
specie di camicia di forza “tecnica” e straniera
alla gestione dell’Italia.
Eppure, nonostante quelle sconfitte storiche,
il patrimonio teorico, culturale, politico del riformismo socialista rimane, come in uno scrigno, intatto nella sua validità di interpretazione
della fase storica, economica, sociale e politica
che si deve affrontare in questi anni. Il pragmatismo, lo stesso realismo della tradizione riformista socialista è in grado di suggerire soluzioni moderne e avanzate. Ed è in grado di
collegarsi a un più ampio spazio riformista che
è sempre stato presente nella cultura politica
italiana, quello di matrice cattolica. Guardando
alla storia socialista, si può affermare che partendo da una prima fase anarchica o democratico radicale, i riformisti italiani sembravano
legati a una concezione pessimistica della natura umana. Il rispetto per il popolo restava nel
cuore di quella visione protoriformista.
Ma una sorta di visione negativa della capacità umana a riscattarsi senza una guida politica, si ripresentava nel movimento socialista anche quando passò dal ribellismo alla partecipazione elettorale, ai meccanismi democratici
dello stato borghese. Si arrivò allora a teorizzare il miglioramento sociale del popolo attraverso una transizione pacifica verso la società
socialista. In questo caso era lo Stato a diventare una sorta di regolatore delle lotte sociali.
Sostanzialmente si poteva notare che il movimento socialista, anche nella sua vocazione
riformista, non aveva trattenuto nulla della lezione di Tocqueville sull’articolazione democratica di base di una società moderna e avanzata, accentuando invece da un lato la funzione
dello Stato e dall’altro l’emancipazione di una
plebe, non ancora di un popolo di cittadini.
Eppure, in questo caso, si potrebbe rovesciare un proverbio e sostenere che i riformisti
“predicavano male, ma razzolavano bene”. Infatti, nonostante gli ancoraggi al “marxismo
scientifico” , le visoni positiviste e quelle meccanicistiche (alla fine la società socialista sarebbe comunque arrivata), i riformisti promuovevano “le borse del lavoro”, organizzazioni libere di lavoratori che cercavano lavoro
per i compagni che lavoro non avevano; i riformisti creavano cooperative di ogni tipo per
unire produttori senza padroni o dipendenti; i
riformisti promuovevano libere società di mutua assistenza, di scuole professionali indipendenti dallo Stato. Contemporaneamente quindi
a un’azione di riequilibrio politico tra le classi
sociali, al fine di assicurarsi più potere nello
Stato, i riformisti si caratterizzarono sempre
per un’azione indipendente, autonoma di costruzione sociale che non prevedeva alcun aiuto dallo Stato.
Si pensi ancora alle municipalizzate, alle
aziende comunali di beni fondamentali come
acqua, gas, luce, ma anche latte, che nacquero
per iniziativa soprattutto del movimento socialista alla fine dell’Ottocento. In quasi tutta Europa una nuova fase di industrializzazione aveva favorito un processo di urbanizzazione quasi selvaggio. Il cosiddetto libero mercato prevedeva le grandi aziende manifatturiere nelle
città, ma non i beni essenziali per chi nelle città andava a vivere, a lavorare nelle nuove
grandi fabbriche. Furono gli amministratori
socialisti delle grandi città europee (anche
quelle italiane) a colmare questo vuoto lasciato
dal mercato, con la costituzione di municipalizzate che nulla avevano a che fare con lo Stato centrale. Il peso di questa lezione appresa
tra la fine Ottocento e l’inizio del Novecento
ha delineato ancora più i contorni del socialismo riformistico e lo ha indotto ad affrontare
il problema della democrazia. E’ in fondo incredibile che il più duro atto di accusa contro
il comunismo sovietico come sistema dittatoriale e oppressivo, attraverso lo Stato, sia stato
fatto da Filippo Turati nella bolgia del congresso di Livorno del 1921, quella della scissione con i comunisti. Furono quasi una profezia le parole di Turati. E non c’è dubbio che
l’esperienza in campo sociale e amministrativo dei riformisti, la sconfitta subita dal fascismo, le tragiche esperienze dei totalitarismi di
destra e di sinistra, abbiano inserito nel filone
del riformismo altri elementi innovatori che
hanno portato al cosiddetto “ircocervo” dei
fratelli Rosselli, al socialismo liberale su cui
si basava il nuovo riformismo di Bettino Craxi
negli anni Settanta e Ottanta. Non è certo possibile in questa sede riassumere l’insieme della
visione di Craxi. Basterà ricordare comunque
il suo continuo richiamarsi a un socialismo
non marxista, con i riferimenti espliciti a Garibaldi e a Proudhom; la sua caratterizzazione
di sinistra, ma esplicitamente contro il comunismo come ideologia e come prassi; la sua at-
tenzione pragmatica alle questioni economiche; l’avversione verso una società chiusa e un
blocco politico soffocante verso altre culture
politiche e sociali; la volontà di realizzare una
grande riforma istituzionale che ponesse l’Italia sempre più vicina alla tradizione delle grandi democrazie europee. Con Craxi, dopo la
Bad Godesberg di Willy Brandt, sembrò realizzarsi e addirittura evolversi ancora di più il
disegno di Eduard Berstein, il padre del revisionismo marxista, che aveva esortato fin dagli
ultimi anni dell’Ottocento i socialisti a rivedere la loro teoria e il loro programma, alla luce
del fatto che il capitalismo non era al collasso
e la classe operaia non stava scivolando nell’indigenza. In sostanza Berstein, pur continuando a credere nel socialismo, si aspettava
una convergenza tra capitalismo e socialismo,
in cui il secondo sarebbe emerso dal primo.
Basterà dire infine che Bettino Craxi, di
fronte ai problemi della società postindustrializzata, poneva i principi di una grande tradizione alla ricerca di un confronto e di una ricerca con altre culture democratiche per arrivare a un nuovo assetto democratico.
Accusato troppo semplicisticamente di doppiogiochismo, Bettino Craxi nella prassi politica legava la sua azione nel governo nazionale
a partiti di antica e consolidata tradizione democratica come democristiani, repubblicani,
laici liberali in quella che si chiamò politica di
centrosinistra; nello stesso tempo, a livello locale, non rifuggiva da alleanze e giunte comunali con i comunisti, che proprio nella politica
municipale avevano imparato a muoversi secondo la tradizione riformista e socialista. In
definitiva, Craxi poneva realmente il problema
di una appartenenza. Era un socialista riformista che guardava concretamente alla politica e,
senza abbandonarsi a “disegni arcani”, dialogava con chi nella prassi quotidiana si muoveva su un terreno reale di partecipazione popolare e di riforme graduali. Tanto per intenderci,
il dialogo tra riformisti socialisti e cattolici non
avveniva su schemi ideologici, come piaceva
a Togliatti, a Ingrao o a Rodano, ma ripescando
in una storia comune di realizzazioni sociali,
anche se magari fatte in reciproca contrapposizione. Alla fine quel “dialogo” fatto di poche
parole e di molta sostanza, tra cooperative
“bianche” e “rosse”, tra fondazioni e muncipalizzate, tra antichi enti di assistenza e nuove società di carattere umanitario, era la base di una
visione riformista comune, reale, concreta.
Non è quindi un caso che oggi i “marginalizzati” socialisti riformisti abbiano un occhio
di riguardo verso una tradizione cattolica che
sta pensando con grande serietà a come attuare
un passaggio epocale delle società postindustrializzate: il passaggio dal Welfare state e alla Welfare society.
Il Welfare state è stato una grande conquista
sociale, dovuto in parte all’iniziativa e all’azione dei movimento socialisti europei, ma
anche all’attenzione di liberal come Lord Beveridge e John Maynard Keynes che prevedevano un intervento diretto dello Stato contro i
rischi sociali della precarietà di vita, dell’insicurezza, della povertà delle parti meno forti
della società industrializzata.
Le condizioni storiche ed economiche sono
mutate. La società della comunicazione, del
terziario avanzato, dell’innovazione tecnologica che viaggia alla velocità della luce, sono
fattori che mettono in discussione la validità
del vecchio e glorioso Welfare state. Allo stesso tempo, la richiesta sempre più sofisticata di
moderni servizi sociali da parte dei cittadini ha
messo in ginocchio i bilanci degli Stati. Le
spese sociali dello Stato sono diventate talmente onerose e pesanti, che è necessario e
indispensabile ripensare coraggiosamente a un
modello di tutela sociale e nello stesso tempo
12 ■ CRITICAsociale
investire sulla libertà dei cittadini. In altri termini si tratta sempre di coniugare, in un contesto storico, sociale ed economico completamente differente, i principi di libertà con le esigenze (ormai diventate diritti acquisiti dell’Occidente) di sicurezza sociale.
Di fronte a questa sfida del nuovo mondo
della comunicazione e del postindustriale
avanzato si gioca una partita decisiva, dove la
tradizione riformista, con la sua concretezza,
il suo pragmatismo e la sua idealità, può esercitare un ruolo fondamentale.
La grande discussione che è in corso in Italia (ridotta schematicamente da alcuni a una
sorta di referendum sull’articolo 18) riguarda
proprio la grande riforma del Welfare state.
Una riforma dove i fattori principali della questione sono: un ripensamento del ruolo dello
Stato, una conferma e un miglioramento della
tutela sociale, una volontà di garantire maggiore libertà ai cittadini.
Occorre riconoscere che chi si è mosso per
primo su questa strada è stato il riformismo di
matrice cattolica liberale. Forte del principio
di sussidiarietà (lo Stato non si sostituisca al
ruolo della società civile) che è impresso nella
dottrina della Chiesa e fu esaminato dettagliatamente da un grande scrittore come Alexis de
Tocqueville quando descrisse la democrazia
americana, il cattolicesimo liberale ha spiegato
in termini moderni la sua antica tradizione di
valorizzazione delle opere dei cittadini, delle
organizzazioni libere e autonome che avevano
già creato una tutela sociale, prima ancora che
si affermasse il Welfare state.
E’ interessante ad esempio seguire tutta l’attività culturale della Compagnia delle Opere
in questo periodo, i suoi convegni, come quello dell’8 febbraio alla Statale di Milano e quelli più recenti all’interno di “Progetto città” alla
Fiera di Milano, ma anche la sua presenza nel
dibattito sociale e politico sui problemi della
riforma del lavoro, della sanità, della scuola,
delle pubbliche utilità per comprendere che
esiste una proposta interessante di riforma del
Welfare con una richiesta di maggior libertà
politica e sociale.
Giorgio Vittadini, il presidente della Compagnia delle Opere, ha curato un libro di notevole
importanza “Liberi di scegliere” (edizioni Etas)
insieme a 23 studiosi, non tutti cattolici. Vittadini scrive: “Protagonisti della scena sociale
nel corso dei secoli, dall’alto Medioevo fino all’inizio del secolo XIX, sono stati ordini religiosi, movimenti laicali, confraternite di arti e
mestieri e successivamente il movimento cattolico e laico costruttore di opere, il movimento
operaio, un mondo laico volto al concreto miglioramento delle condizioni di vita attraverso
iniziative imprenditoriali. Tali realtà hanno dato vita a svariatissime opere e iniziative organizzate nella sanità, nell’assistenza, nell’istruzione, nella formazione professionale, nell’aiuto alla ricerca del lavoro, nel sistema bancario,
nelle mutue, nelle assicurazioni, nel settore industriale e della grande distribuzione, attraverso un sistema di cooperative e piccole e medie
imprese di dimensioni importanti. Questa tradizione che possiamo definire di Welfare society, rivela che non erano pubbliche solo le entità “gestite direttamente dallo Stato”, ma anche tutte quelle che reinvestivano senza distribuire i loro profitti, generando una pubblica
utilità per la collettività”.
In sostanza Vittadini traccia una linea di presenza ormai millenaria di organizzazione sociale indipendente dallo Stato, autonoma, che
è sorta liberamente tra cittadini per aiutarsi vicendevolmente, per assicurare un pubblico servizio attraverso una iniziativa privata. Definisce un fatto che è sfuggito alla cultura politica
italiana: pubblico e statale non coincidono,
spesso “statale” non è affatto “pubblico”.
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E’ una disanima precisa della vitalità della
società, la realizzazione del principio di sussidiarietà quando gli Stati, i principati e altri
centri statuali erano latitanti nel soddisfare i
bisogni e le esigenze dei cittadini.
Alla fine si capisce che gli ordini religiosi,
gli enti assistenziali di assistenza e carità non
facevano altro che anticipare le mutue, le cooperative, le municipalizzate realizzate anche
dal movimento operaio di tradizione umanitaria e riformista di fine Ottocento.
Come si configurano, giuridicamente ed
economicamente, queste realtà?
L’Italia può essere considerata la “madre”
di queste organizzazioni nel suo aspetto di realizzazione, ma è indubbiamente una “matrigna” per quanto ne concerne la formulazione
giuridica e la funzione economica moderna.
Sono le democrazie più avanzate, i paesi di
tradizione anglossassone che hanno ereditato
e adottato queste realtà chiamandole non-profit. In sostanza sono imprese che reinvestono
continuamente i loro utili, che non hanno la
natura del profitto nella loro ragione sociale.
Possono essere chiamate imprese sociali, imprese con un ideale, imprese con uno spirito di
pubblica utilità. Sono in tutti i casi una figura
moderna, sia da un punto di vista giuridico che
da quello economico, che si inserisce tra la rigida contrapposizione di pubblico statale e privato che cerca profitto.
Tanto per intenderci, una impresa non-profit
sta sul mercato dei servizi a testa alta, è in grado di offrire occupazione e ottimi servizi, è
vincolata solamente al fatto della non redistribuzione degli utili. La Majo Clinic statunitense è una non-profit con 35mila dipendenti e offre il meglio al mondo in cura e ricerca medica. Le grandi fondazioni americane sono alla
base dell’èlite universitaria mondiale. L’ottanta per cento del sistema scolastico olandese ha
una caratteristica non-profit. Ma, senza andare
lontano con gli esempi, si pensi a una realtà
come l’Ospedale Maggiore di Milano (ancora
oggi il più grande proprietario terriero della
provincia di Milano) che, prima della statalizzazione, era una non-profit ante-litteram, voluta dai milanesi e cresciuta con le donazioni
dei cittadini di Milano.
Dal libro di Giorgio Vittadini si possono
trarre alcune utili considerazioni: “Si può affermare che l’attuarsi della sussidiarietà orizzontale coincide con un cambiamento radicale
di tutto il sistema economico ed è premessa,
non conseguenza, delle autonomie funzionali.
L’assetto dello Stato, anche in autonomie funzionali, dovrà seguire e aiutare il muoversi di
soggetti sociali che operano secondo la loro
creatività per rispondere a bisogni sociali. Il
sistema normativo dovrà regolare e non prescrivere i rapporti, l’ente pubblico dovrà essere arbitro e non padrone”.
Da questo Vittadini deduce: “La sussidiarietà è connessa con un sistema di Welfare mix
basato su tre principi: la compresenza di agenti
statali, privati e a fini di lucro, privati non a fini di lucro, in un “quasi mercato” di servizi
“meritori”, la libera scelta del cittadino del tipo
di agente che eroghi il servizio di Welfare; un
sistema di sussidiarietà fiscale che permetta di
ridistribuire la tassazione in modi diversi rispetto a una spesa pubblica gestita totalmente
da Stato ed enti locali”. Realizzare il principio
di sussidiarietà, valorizzare il non-profit, favorire la creazione di un terzo soggetto di privato
sociale dovrebbe imprimere un nuovo impulso
alla concorrenza sul mercato, ma soprattutto
dovrebbe delineare una nuova traccia di democrazia in campo economico, sociale e politico.
Anche una riforma del boccheggiante Welfare
state, che, con l’irruzione riconosciuta giuridicamente del non-profit, potrebbe sfociare in
una moderna Welfare society.
Questa proposta, che viene dal riformismo
cattolico, che cosa comporta per i socialisti di
tradizione umanitaria e riformista? E’ evidente
che è difficile dare subito una risposta. I meccanismi della Welfare society, il principio di
sussidiarietà, la valorizzazione del non-profit
comportano una serie di implicazioni anche
tecniche, soprattutto nei procedimenti di detrazione e defiscalizzazione, che sono complesse e che meritano una attenzione particolare, da discutere, da valutare.
Ma sostanzialmente i riformisti di parte socialista si trovano di fronte oggi a una proposta
che non fa più coincidere il “pubblico” con lo
“statale”, che guarda con favore alla valorizzazione della società civile, che infine non
mette più lo Stato al centro della vita politica,
economica e sociale.
Sempre liberi nel valutare la realtà, personalmente ritengo che i socialisti oggi possono
essere non solo attratti, ma coinvolti in questa
proposta di riforma. Se hanno provato, nella
loro storia ultracentenaria, a subire gli aspetti
negativi della burocratizzazione statale, devono convenire che lo Stato, con tutte le sue ingombranti articolazioni, è stato spesso un freno allo sviluppo di una società democratica,
pluralista e moderna. Se l’obiettivo principale
dei socialisti è sempre stato quello di coniugare la libertà con la giustizia sociale, ma non deflettere mai soprattutto dalla libertà, sembra
evidente che le attuali funzioni dello Stato devono essere ridiscusse. I riformisti non hanno
mai voluto assaltare lo Stato, non hanno mai
voluto occuparlo, ma volevano uno Stato funzionale che regolasse e favorisse l’articolazione pluralista della vita sociale. Infine, la svolta
liberalsocialista impressa dai fratelli Rosselli
e da Bettino Craxi può essere la base teorica
per ampliare una base riformista contro i conservatori di destra e di sinistra. E’ una discussione aperta. Ed interessante. s
Gianluigi Da Rold
■ 2004 - NUMERO 12
I PADRONI DELLE IMPOSTE
Luca Antonini
I
l mondo sta cambiando, con epocali trasformazioni che coinvolgono e quasi trascinano via uno
dei concetti cardine elaborati dalla scienza politica e giuridica moderna: l’idea di sovranità.
In realtà, quello che oggi accade non ha fatto
altro che problematizzare ulteriormente una
categoria già da tempo in discussione; percepito nel dibattito giuspubblicistico fin dalla
prima metà del Novecento, il fenomeno
dell’“eclisse” o del “crepuscolo” della sovranità è venuto, tuttavia, sempre più acutizzandosi verso la fine dello scorso millennio.
In questa sede si vuole evidenziare un aspetto particolare del fenomeno: quello inerente alla “questione fiscale”, da sempre legata a quella della democrazia come dimostra l’antico
principio “no taxation without representation”.
Edmund Burke, in un discorso rivolto a conciliare la controversia con le colonie americane, ricordava, infatti, che “… fin dall’inizio le
più grandi battaglie per la libertà si sono combattute intorno a questioni di tassazione”. La
stessa rivoluzione francese è attraversata dalla
questione del consenso all’imposta. Nella
Francia prerivoluzionaria, nei chaiers de doléances l’idea del consenso all’imposizione era
così comune da costituire il principale punto
d’unanimità. Per assicurarsi che la taxation
with representation diventasse in futuro una regola, la maggior parte dei cahiers chiedeva incontri regolari a intervalli di tre, quattro o cinque anni per votare tasse e per rivedere il budget nazionale. Sebbene la fiscalità rivoluzionaria nei giorni caldi del processo rivoluzionario
si sarebbe poi dimostrata scarsamente popolare, si conservò comunque sullo sfondo l’idea
“no taxation without representation”. In Fouret-Ozuf, Dizionario critico della rivoluzione
francese, sotto la voce Imposta, si legge infatti
che il deputato Lavie all’Assemblea nazionale
del 1791 dichiarò: “Abbiamo fatto la rivoluzione soltanto per essere i padroni dell’imposta”.1
Ma cosa significa oggi essere padroni dell’imposta?
All’alba del terzo millennio la metamorfosi
dei confini giuridici degli Stati e una nuova
metafisica della ricchezza2 disegnano un qua-
dro complessivo dove si evidenzia come il fenomeno dell’eclisse della sovranità realizzi
una vera e propria crisi di paradigma3 del diritto fiscale, ius publicum per eccellenza. Le
coordinate fondanti del diritto fiscale, radicate
- si pensi alla stessa nozione di sovranità fiscale – sulla statualità e sulla materialità della ricchezza appaiono, infatti, rivoluzionate dalle
spinte della globalizzazione e dal parossismo
degli sviluppi tecnologici. Lo Stato nazionale,
che si era caratterizzato soprattutto come Stato
fiscale, nel contesto della post-modernità rischia di vedere il suo potere impositivo diventare solo formale, privato della capacità sostanziale di catturare la ricchezza, ridistribuirla, governarla. Con la globalizzazione, infatti,
la ricchezza si sottrae al vincolo territoriale:
non è più lo Stato che sceglie come tassare la
ricchezza, ma è la ricchezza che sceglie dove
essere tassata4. Emblematico è stato il caso
dell’Irlanda che, qualche anno fa, grazie ad
una politica fiscale particolarmente favorevole
agli investimenti esteri ha vantato, nel decennio 1991-2001, un tasso di sviluppo economico pari al triplo della media europea.
Fenomeni complessi declinano la crisi dell’antico principio “no taxation without representation”. Lo smalto della sua antica valenza
democratica sembra oggi sbiadire sotto l’impatto della globalizzazione, del deficit democratico d’istituzioni soprannazionali e internazionali, della tendenza al rafforzamento dei
poteri degli organi esecutivi. Ne sono riprova
il recente tentativo italiano della riforma costituzionale sul Premierato, così come la sempre
maggiore dipendenza delle scelte di politica
fiscale statali dai condizionamenti imposti da
organismi internazionali come il FMI, il WTO,
la Banca mondiale, privi di una costituency democratica (i comuni cittadini non votano per
eleggere chi siede in questi organi), o sopranazionali, come l’Unione Europea, che perlomeno scontano un deficit democratico.
La difficoltà, o più realisticamente l’impossibilità di esportare in queste nuove sedi la
stessa intesnsità di cui il principio di rappresentatività gode a livello nazionale, determina
pertanto una conseguente perdita di rilevanza
CRITICAsociale ■ 13
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dell’antica formula no taxation without representation, che non appare ormai nemmeno più
idonea a individuare, in modo esauriente, la
sede reale delle decisioni fiscali. La prospettazione di un forum decisionale sovranazionale o addirittura mondiale, che possa far rivivere la valenza democratica della rappresentanza
riguardo alle decisioni fiscali, appare infatti
destinata a scadere nella mera utopia5.
Questo panorama complesso e articolato,
segnato dal diffondersi di forme di “diritto
senza Stato”, rinforza piuttosto la necessità di
andare oltre la tradizionale formula “no taxation without rappresentation”, elaborata nel
contesto dello Stato nazione.
La globalizzazione mette infatti in crisi anche lo stesso paradigma di fondo della democrazia fiscale: quello della coincidenza nella
medesima persona delle figure dell’elettore,
del beneficiario della spesa pubblica e del contribuente. Il cittadino continua a votare nel Paese di appartenenza e a beneficiare in esso della
spesa pubblica, “ma può anche, in numerosi
casi - come investitore finanziario o come imprenditore o come lavoratore - scegliere il Paese dove pagare almeno una parte dei tributi”6.
Si pone quindi in discussione “per la prima
volta nell’età moderna, il no taxation without
representation, il principio che lega tassazione
e rappresentanza politica”7.
La sintesi del processo è chiara: se la sovranità fiscale, in base a quel principio, aveva almeno formalmente la sua sede nei Parlamenti
nazionali, il processo appena descritto compromette questo presupposto.
La cifra di recupero della perduta democrazia, in quest’ambito, sembra quindi destinata
ad essere individuata fuori dal mero circuito
della rappresentanza politica: nelle forme della
democrazia sostanziale che possono trascendere, completandolo, quel circuito8. Si tratta,
secondo l’aforisma di Giddens, di “democratizzare la democrazia”, democratizzando “dal
basso”, per mezzo di “forme di democrazia in
aggiunta al processo elettorale ortodosso”9.
In quest’ottica, il principio di sussidiarietà
sembra idoneo a comprendere la complessità
delle metamorfosi intervenute, rivalutando, a
fronte della crisi delle sedi tradizionali della
sovranità statale, la sovranità personale anche
in relazione al concorso alla spesa pubblica.
Più precisamente, in base al principio di sussidiarietà fiscale possono ritrovare maggiore
considerazione diritti personali (come quello
della libertà di scelta) che nel contesto dello
Stato nazione potevano ritenersi (più o meno)
efficacemente compensati in virtù delle prestazioni, a garanzia di altri diritti sociali, che
il sistema burocratico impositivo, quando la
sovranità statale era ancora rivestita dell’antico smalto, poteva rendere.
La sussidiarietà fiscale strutturando una forma alternativa di concorso alle spese pubbliche (ex art.53), si presenta, quindi, come un
correttivo del modello tradizionale “burocratico impositivo” teorizzato e costruito sotto
l’ombrello dello Stato nazione. In base ad essa
è possibile rivalutare, ad esempio, all’interno
di un circuito che non si esaurisce nella democrazia rappresentativa, la potenzialità democratica della sovranità popolare, fino ad enucleare una nuova generazione di diritti sociali
costruiti sullo schema delle libertà negative ma
sostenuti da un valore assiologico che n’evidenzia il nesso con i valori sociali. Ad esempio, per chiarire: il diritto all’esenzione fiscale
dei minimi familiari può presentarsi come un
diritto costituzionale sui generis, perché caratterizzato nel contempo da un contenuto sociale
e da una struttura analoga a quella delle libertà
negative: il Familienexistenzminimum elaborato dalla Corte di Karlsruhe si struttura, infatti, nella pretesa ad un’assenza (Abwehran-
puch) di interferenza (fiscale) statale sui presupposti economici minimi per un’esistenza
dignitosa10.
Il catalogo dei diritti costituzionali riconducibili a tale struttura, anche a seguito dell’espressa previsione in Costituzione del principio di sussidiarietà orizzontale nell’art.118,
può essere oggi ampliato.
Ad esempio, il diritto alla libertà di scelta riguardo alla destinazione delle proprie risorse
ad agenti Non Profit che svolgono servizi sociali meritori potrebbe rivalutare una possibilità di selezione della spesa sociale efficiente
strutturata su un diretto esercizio della sovranità popolare da parte del contribuente11, riducendo la mediazione del principio rappresentativo tradizionale.
Lo stesso federalismo fiscale, attuazione
della sussidiarietà fiscale verticale, realizza
una più diretta ed efficace possibilità di controllo sullo spending power dei governanti,
corrispondendo alla perdita di terreno della sovranità statale sotto la spinta glocale.
Il protagonismo fiscale dello Stato Nazione,
una volta spezzata la catena Stato-territorioricchezza, si presta, quindi, ad essere rivisitato
nella ricerca di nuovi equilibri tra diritti di libertà, sovranità popolare e imposizione fiscale12. Quest’ultima, infatti, non appare più legittimata come in passato sia sul piano delle
prestazioni sociali erogate, sia sul piano della
democraticità sostanziale che la sostiene. Lo
Stato, infatti, “controlla ancora il territorio, ma
la quota affluente della ricchezza non è più sul
territorio, e quindi non è più controllata dallo
Stato. La macchina fiscale funziona in modo
drammaticamente decrescente. È sempre meno efficiente, sempre meno capace di garantire
le prestazioni a chi resta sul territorio”13.
La perdita di legittimazione del modello
“burocratico impostivo”, quindi, non consente
più, come invece in passato, di sorvolare sull’appannamento di alcuni principi di libertà
prodotto dalle concezioni “paternalistiche” in
cambio di un alto grado di protezione sociale.
In un contesto di recessione di quel modello,
che ormai non riesce più a garantire lo stesso
livello di protezione sociale degli anni della
“finanza allegra”, si riaprono notevoli spazi
per una nuova progettualità diretta a rivalutare
il principio di sussidiarietà. Anche a livello fiscale.
E’ pur vero, peraltro, che le applicazioni della sussidiarietà (al livello fiscale) non potranno
mai sostituire lo Stato fiscale o la democrazia
rappresentativa nella funzione impositiva; così
come in nome della sussidiarietà tout court
non si potrà mai postulare la scomparsa dello
Stato. Esistono, infatti, funzioni statali che non
possono essere devolute né alla società civile,
né alle realtà sub statali, perlomeno garantendo la stessa efficacia. Tuttavia, il loro ruolo
può essere ricalibrato, e reso anche più moderno ed efficiente, grazie ad un’opportuna applicazione del principio di sussidiarietà.
Si delinea così una possibile strada per attualizzare, in forme nuove, la virtù democratica
del venerando principio no taxation without representation, recuperandone, almeno in parte,
i presupposti e le prestazioni di democrazia sostanziale. Il modello burocratico impositivo di
Welfare, all’inizio del nuovo millennio, necessita infatti di soluzioni più innovative di quelle
sperimentate nel secolo scorso. L’elettore mediano, quello che fa da ago nella bilancia dei risultati elettorali, è ormai consapevole che il beneficio marginale della spesa pubblica è diventato inferiore al sacrificio marginale dell’imposta. Il principio di sussidiarietà, in quest’ottica
non rappresenta solo la possibilità di elaborare
nuove formule di governance con una maggiore probabilità di efficacia, ma consente anche
un recupero di democrazia sostanziale.
Il superamento del sostanziale monopolio
statale nell’erogazione dei servizi sociali, i
suoi costi e le sue inefficienze, che spesso hanno spesso reso più nominali che sostanziali le
garanzie universalistiche diritti sociali, si presta quindi ad essere rivisto a favore di nuove
formule di cittadinanza attiva. In questo contesto il Terzo settore, a condizione di adeguare,
modernizzandola, la relativa disciplina normativa, si presenta come il nuovo possibile fulcro
dell’erogazione delle prestazioni aventi valore
sociale.
Tuttavia, altrettanto inevitabili esigenze di
contenimento della spesa pubblica rendono
improbabile la sostenibilità di un modello dove, al finanziamento della spesa prodotta dagli
attori pubblici tradizionali, semplicemente si
aggiunga il finanziamento di nuovi attori, individuati in base al principio di sussidiarietà
orizzontale. Non è sostenibile l’ipotesi di addizionare alle vecchie forme di spesa nuove
forme di spesa. Ci deve essere, invece, un
meccanismo di sostituzione, che rimetta al
centro la spesa efficace intaccando le rendite
e le inefficienze. Proprio nel progettare questo
meccanismo di sostituzione viene in considerazione l’opportunità di compensare alla crisi
del principio “no taxation without representation” e all’affievolimento della sua virtù democratica.
La questione si sposta pertanto sulla necessità di rivisitare, attraverso la formula della
sussidiarietà fiscale, quella forma di governance dove il monopolio statale sulla decisione di
spesa sui servizi sociali ha spesso favorito gli
interessi dei fornitori (burocrati, sindacalisti,
ecc.) anziché quelli dei destinatari. E’ innegabile, infatti, che una rendita di posizione ha
protetto i fornitori dei servizi dalla concorrenza, che hanno spesso utilizzato l’apparato a loro vantaggio, mentre i destinatari del servizio
non hanno avuto alcuna voce in capitolo. Nel
tradizionale modello “burocratico impositivo”
il cittadino, infatti, si è visto restituire in termini di servizio quello che aveva pagato con
l’imposizione fiscale, diminuito però del costo
burocratico della gestione di questo transfer.
Il servizio pubblico è stato erogato in una situazione di sostanziale monopolio; ha quindi
facilmente risentito anche di uno scadimento
qualitativo14, ma l’opzione per un servizio
“privato” diverso da quello offerto dall’ente
pubblico (eventualmente ritenuto inefficiente),
ha dovuto essere pagata (da chi ne aveva la facoltà) con risorse ulteriori rispetto a quelle già
prelevate dall’imposizione fiscale.
L’evoluzione suggerita dall’applicazione del
principio di sussidiarietà si candida a correggere questo modello: non solo agendo sul piano dei soggetti erogatori dei servizi, innestando elementi di concorrenza rivolti a contemperare solidarietà ed efficienza, ma anche su
quello fiscale, restituendo “sovranità” al contribuente.
Il principio di sussidiarietà fiscale, infatti, è
declinabile in varie possibili applicazioni, tutte
rivolte a favorire la sovranità personale. Ad
esempio, implicando la precedenza del risparmio fiscale rispetto all’assistenza pubblica (come nel caso del Familienexistenzminimum elaborato dalla giurisprudenza costituzionale tedesca), oppure riconoscendo al contribuente la
possibilità di destinare direttamente una parte
dell’imposta a favore di soggetti sociali ritenuti meritori, ottenendo la detassazione delle
relative donazioni (come nel caso della contribuzione etica su cui v. infra), riconosciute come forma alternativa di concorso alla spesa
pubblica ex art. 53 Cost.
In tal modo, una parte del controllo sulla
spesa pubblica non passerebbe più solo attraverso il circuito della rappresentanza politica,
ma sarebbe restituito al contribuente, ricono-
scendogli una diretta libertà di scelta riguardo
ai servizi meritori da finanziare.
E’ chiaro che l’introduzione di simili meccanismi implica attente gradualità ed elaborazioni, (la sussidiarietà fiscale non potrebbe
mai sostituire, ma solo correggere il modello
burocratico impostivo) tra cui senz’altro quelle
rivolte a prevedere strumenti idonei a superare
le cosiddette asimmetrie informative. Tuttavia,
può rappresentare un passo in avanti verso
nuove possibili forme con cui riconsiderare il
problema della garanzia dei diritti sociali.
E’ significativo, da questo punto di vista, ricordare come nelle sue significative sentenze
sul Familienexistenzminimum, sia stata proprio la considerazione della “sussidiarietà fiscale” a consentire alla Corte costituzionale tedesca di riproporre una centralità del valore
della “dignità umana” non altrimenti garantita
da logiche di tipo assistenzialistico15.
In Italia, la prospettiva di una decisa attuazione della sussidiarietà fiscale si è evidenziata
soprattutto all’interno del dibattito sull’attuazione della riforma fiscale. Quest’ultima ha infatti aperto una nuova prospettiva alla sperimentazione di nuove e moderne formule di
concorso alla spesa pubblica, dirette ad innovare il tradizionale statalismo del sistema impositivo italiano attraverso l’applicazione del
principio di sussidiarietà orizzontale di cui
all’art.118, u. co., Cost.
Oltre alla De Tax, prevista in via sperimentale dalla finanziaria per il 2004, una novità
dalla portata ben più ampia, infatti, era contenuta nel documento presentato dal ministro
Tremonti in data 3 luglio 2004, dove si configurava un’ipotesi di forte applicazione del
principio di sussidiarietà fiscale, definendola
“contribuzione etica”.
Le dimissioni del Ministro ne rendono ora
incerta la sorte: la portata indubbiamente innovativa della proposta, tuttavia, la renderebbe
meritevole, nelle sue linee di fondo, di un appoggio bypartisan indipendentemente da ogni
altra considerazione su forme, modalità e tempi con cui la riforma fiscale sarà portata avanti.
Peraltro, una soluzione analoga è stata poi
prospettata poche settimane dopo (pdl 3459)
dai deputati Benvenuto (DS) e Jannone (FI):
si trattava della cd. proposta “Più dai, meno
versi”16, fortemente sostenuta dal Forum del
Terzo settore.
A prescindere dai possibili sviluppi futuri, in
questa sede si farà comunque riferimento all’ipotesi originaria della “contribuzione etica”
concretizzata in una bozza di articolato presentata alla stampa da Tremonti lo stesso 3 luglio
’04. Nel merito, il meccanismo della contribuzione etica avrebbe consentito di ridurre del
2% l’aliquota dell’imposta sui redditi al contribuente che dimostrava di avere erogato il 2%
del suo imponibile ad un Ente Non Profit impegnato in servizi sociali meritori. Veniva così
corretto il tradizionale modello “burocratico
impositivo” attraverso l’applicazione di un
meccanismo di sussidiarietà fiscale. In forza
del quale, il Terzo settore, che sta crescendo
con una straordinaria vitalità, di fronte dell’evidente crisi del tradizionale sistema di Welfare
State sarebbe stato valorizzato come il nuovo
possibile fulcro dell’erogazione delle prestazioni aventi valore sociale: l’origine ideale delle ONP le qualifica, infatti, come soggetti privati attenti ai bisogni delle fasce più deboli. A
questo riguardo, la destinazione del 2% a favore delle ONP trovava diverse giustificazioni,
essendo diretta a compensare lo svantaggio
competitivo derivante, per questi soggetti, dal
non poter remunerare il capitale investito e dallo svolgere servizi necessari alla collettività anche in settori meno remunerativi17.
In questa sede, tuttavia, interessa soprattutto
evidenziare come tale meccanismo avrebbe ri-
14 ■ CRITICAsociale
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valutato, correggendola, l’essenza democratica del principio no taxation without representation: superando il monopolio pubblico sulla
decisione di spesa riguardo ai servizi sociali,
avrebbe restituito “sovranità” al contribuente.
Quest’ultimo, infatti, avrebbe avuto la possibilità di concorrere alle spese pubbliche (ex
art. 53 Cost.) destinando direttamente una parte dell’imponibile a soggetti sociali ritenuti
meritori. In tal modo, una parte del controllo
sulla spesa pubblica sarebbe uscito dal tradizionale circuito della rappresentanza politica
per essere assegnato al contribuente, riconoscendogli una diretta libertà di selezione riguardo ai servizi meritori da finanziare e a
quelli invece inefficaci da “tagliare”. Il contribuente sarebbe tornato il “padrone dell’imposta” (o almeno di una sua parte), grazie a questa nuova attualizzazione dell’antico principio.
In un prossimo futuro, de iure condendo,
questa direzione sarà comunque destinata ad
essere ripresa. Sembra prometterlo il testo del
nuovo art.118 Cost. approvato il 29 settembre
’04 dalla Camera dei Deputati. Si prevede, infatti, (v. in corsivo le novità): “Stato, Regioni,
Città metropolitane, Province e Comuni riconoscono e favoriscono l’autonoma iniziativa
dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà, anche attraverso misure fiscali”. Da un lato, quindi, si
conferma la positiva evoluzione del Senato
che ha aggiunto “riconoscono” a “favoriscono”: si evocano così i termini forti dell’art.2,
Cost. (“la Repubblica riconosce e garantisce i
diritti inviolabili dell’uomo …”) e si supera il
possibile equivoco di una sussidiaretà esaurita
in una graziosa concessione del potere pubblico. Dall’altro, ed è la grossa novità, si prevede
un riferimento anche alle misure fiscali. La
sussidiarietà fiscale è così entrata nel progetto
della nuova Costituzione. s
Luca Antonini
NOTE
1)
Fouret-Ozuf, Dizionario critico della rivoluzione francese, Milano, 1988, 656.
2) Cipollina, I confini giuridici del tempo presente. Il caso del diritto fscale, Milano,
2003, 12, ss
3) Idem, 17, ss.
4) Tremonti, Il futuro del fisco, in Galgano,
Cassese, Tremonti, Treu, Nazioni senza ricchezza ricchezze senza nazione, Bologna,
1993, 57, ss.
5) Anche perché in ogni caso, dato anche solo
il numero dei soggetti che dovrebbero essere rappresentati, sarebbe impossibile realizzare lo stesso rapporto di rappresentanza.
6) Muraro, Federalismo fiscale e sanità nella
crisi dello Stato sociale, in Franco-Zanardi,
a cura di, I sistemi di Welfare tra decentramento regionale e integrazione europea,
Milano, 2003, 51.
7) Tremonti, Il futuro del fisco, in Galgano,
Cassese, Tremonti, Treu, Nazioni senza ricchezza e richhezze senza nazione, Bologna,
1993, 60.
8) Cfr. Zolo, Il principato democratico, Milano, 1996, 208.
9) Così Giddens, La terza via, trad. it. Fontana,
Milano, 1999, 76, ss.
10) Cfr. Antonini, Dovere tributario, interesse
fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996,
411, ss..
11) Cfr., a questo proposito, Barbera, Art.2, in
Commentario della Costituzione, a cura di
Branca, Bologna Roma, 1975, 71.
12) Cfr. Amato, Welfare: se cambia, tre benefici, in Corriere della Sera, 27.8.97.
■ 2004 - NUMERO 12
13)
Tremonti, Paper presentato al convegno Riforma tributaria, enti non profit ed enti ecclesiastici, Milano, Università Cattolica del
S. Cuore, 29.3.04
14) E’ desisamente significativo il dato che
emerge dal Libro bianco sul Welfare 2003
dove si dimostra che il sistema di protezione sociale italiano più che per un volume
di risorse non elevato è risultato poi carente
soprattutto nei risultati finali, con un scarsa
efficacia delle politiche ditributive sul livello di povertà. In Italia, infatti, la differenza tra “rischi di povertà prima e dopo i
trasferimenti sociali” si colloca al 3% di
fronte ad un 8% nella media Europea e un
20% dei Paesi più efficaci. Solo la Grecia
è risultata meno efficace del nostro Pease
nella lotta alla povertà. Secondo il Libro
bianco sul Welfare la speigazione sarebbe
individuabile anche nel fatto che “nella politica di risanamento degli anni novanta si
è finito per concentrare i risparmi sulla spesa sociale redistributiva (le istanze interessate erano spesso le più deboli della rappresentanza politico sociale)”. In altre parole,
quindi, le fasce più deboli non avevano una
adeguata rappresentanza sindacale e quindi
sono state le più tartassate!
15) Cfr., in proposito, Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, cit., 365, ss., dove viene fornita una descrizione analitica di questa giurisprudenza
del Bunderverfassungsgericht.
16) Così recita l’art.1 del pdl: “Deducibilità
delle erogazioni in favore di associazioni e
organizzazioni non lucrative aventi scopi
solidaristici osociali. Le liberalità in denaro
o in natura erogate da persone fisiche o da
enti soggetti all’imposta sul reddito delle
persone giuridiche in favore di associazioni
e altre organizzazioni non lucrative residenti nel territorio nazionale aventi scopi
solidaristici o sociali, sono deducibili dal
reddito complessivo del soggetto erogatore
nel limite del dieci per cento del reddito
complessivo dichiarato”.
17) Cosa che difficilmente fa un Ente profit: ad
esempio ricerca rispetto alle patologie rare
o linee di trasporto rispetto a zone poco abitate: cfr., amplius, Vittadini, Introduzione,
in Vittadini, a cura di, Liberi di scegliere,
Milano, 2003.
UNA NUOVA IDEA DI WELFARE
Angelo Petroni
S
ono passati più di quattro anni
da quando i capi di stato e di
governo dell’Unione Europea
adottarono la cosiddetta Agenda di Lisbona.
“L’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo” rimane un
obiettivo comparativamente più lontano oggi
di quanto non fosse allora. Perché questo è avvenuto? Cosa dovrebbe cambiare davvero?
Delle tante risposte, e dei tanti fattori causali,
qui ci proponiamo di evidenziarne due. La prima riguarda la struttura istituzionale che l’Europa si è voluta e si vorrà dare. La seconda riguarda la logica che supporta il welfare state.
QUALI ISTITUZIONI DELL’UNIONE
PER LA CRESCITA ECONOMICA?
Il progressivo completamento di un efficiente
mercato unico è universalmente considerato
come un elemento essenziale per la realizzazione dell’Agenda di Lisbona. Non vi è alcun
dubbio che ciò sia vero. Il problema è come
pervenire a questo completamento, e su quali
basi istituzionali fondarlo.
La ragione fondamentale in favore un approfondimento delle istituzioni dell’Unione è
che soltanto un impianto istituzionale con caratteristiche di tipo autenticamente costituzionale può garantire la creazione di uno spazio
economico comune, abbassando i costi di transazione, e soprattutto evitando i pericoli di un
ritorno di politiche protezionistiche a livello
dei singoli stati. Così, uno dei fondamentali
vantaggi dell’adozione di una moneta unica è
che essa rende impossibile la pratica di politiche protezionistiche.
Anche per perseguire lo scopo di una maggiore prosperità economica l’Europa si è dotata di un Trattato costituzionale. Il Trattato costituzionale è stato il risultato di un necessario
compromesso tra le diverse tradizioni costituzionali dei paesi membri, e tra le diverse ideologie politiche. È quindi del tutto naturale che
“centralizzatori” e “decentralizzatori”, liberisti
e dirigisti, sostenitori di un’Europa liberale e
sostenitori di un’Europa socialista, abbiano
motivi per sperare che l’Unione che verrà sarà
maggiormente conforme ai propri ideali, così
come abbiano motivi per temere che essa presenterà caratteristiche opposte. Lo si può vedere con grande evidenza dal dibattito in corso
in Francia, dove una parte importante della sinistra si oppone alla ratifica del Trattato costituzionale affermando che esso non rispecchia
affatto i valori dello Stato assistenziale, e consegna l’Europa al liberismo. Al contrario, la
gran parte degli intellettuali liberali europei
considera che il Trattato costituzionale rappresenti un’espansione non soltanto dei poteri
dell’Unione, ma più in generale della quantità
di potere sul nostro continente. Aumenteranno
il livello della regolazione e il livello della tassazione, mentre la diversità di tradizioni e di
stili di vita che forma la ricchezza dell’Europa
tenderà a venire fortemente omogeneizzata,
come si vede già chiaramente in ambiti quali
la bioetica, i sistemi educativi, le relazioni familiari.
Che il Trattato costituzionale ampli ed approfondisca grandemente le competenze ed i
poteri dell’Unione è cosa del tutto evidente. Di
per sé questo non equivale alla prevalenza di
una visione dirigista. La creazione di poteri di
livello superiore rispetto a quelli degli Stati nazionali può essere infatti del tutto funzionale
all’incremento delle libertà individuali e delle
libertà di mercato. Il problema fondamentale
è che questi poteri siano soggetti ad un controllo che impedisca la loro espansione automatica, in modo tale che la libertà globale di
cui godono i cittadini e le imprese sia maggiore di quella della quale godrebbero come cittadini di Stati nazionali “autosufficienti”. Questa coniugazione tra nuovi poteri federali e
maggiori libertà è stata tradizionalmente affidata al fatto che le istituzioni federali permettessero un alto livello di competizione interna:
competizione tra i territori e competizione tra
i diversi ordinamenti giuridici ed economici
degli Stati membri della federazione.
Dal punto di vista di un “federalismo competitivo” il punto cruciale è la costruzione di
un sistema di regole istituzionali che siano in
grado di attualizzare i principi fondamentali
della divisione del potere propri del federalismo classico. Esso si oppone quindi alla visione centralizzatrice, ed insieme ai meccanismi
della democrazia rappresentativa non sottoposta ad adeguati vincoli costituzionali, che generano una centralizzazione non voluta esplicitamente dagli elettori, dannosa per le libertà
individuali, per l’efficienza dell’economia e
della pubblica amministrazione.
Tre principi possono essere posti alla base
del federalismo competitivo. Il primo è quello
del mutuo riconoscimento. Esso stabilisce che
le merci e servizi che corrispondono agli standard ed alle regolamentazioni di un paese
membro dell’Unione devono poter essere legalmente vendibili in qualsiasi altro paese
membro, senza che le autorità di quest’ultimo
possano imporre restrizioni basate su loro specifiche normative. Questo principio ha avuto
un ruolo fondamentale nella costruzione dello
spazio economico europeo con l’Atto Unico.
Il secondo è quello di esclusività. Esso richiede che le competenze relative all’azione collettiva siano distribuite, verticalmente ed orizzontalmente, in modo da evitare che istituzioni
diverse insistano sulla medesima area di azione collettiva. Ogni istituzione deve quindi essere responsabile di scopi precisi, evitando
ogni forma di duplicazione e di sovrapposizione tra poteri federali e poteri delle entità federate. L’attribuzione va fatta in base al principio
di quale sia l’area di ottimale di azione collettiva che permette di riflettere le preferenze dei
cittadini. Il terzo è quello di equivalenza fiscale, per il quale ad ogni area di azione collettiva
deve corrispondere un potere impositivo proprio, in modo che sia chiaro e visibile ai cittadini il legame tra prelievo e spesa. In questo
modo si eliminano i comportamenti di free-riding, ed i conflitti che possono nascere sia tra
la federazione e le entità federate, sia tra le entità federate medesime.
La separazione delle sfere di azione collettiva, insieme alla creazione di uno spazio di
interazione che riguarda cittadini, imprese ed
istituzioni, permette due risultati fondamentali.
In primo luogo, il potere politico viene responsabilizzato di fronte ai cittadini, che possono
giudicare in che misura esso è efficiente e riflette le loro preferenze, invece delle preferenze dei gruppi di pressione organizzati. In secondo luogo, le istituzioni vengono sottoposte
CRITICAsociale ■ 15
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ad un meccanismo di concorrenza che è analogo a quello che vale per gli individui e le imprese. Poiché la prosperità di un territorio dipende dalla sua capacità di attrarre capitale fisico ed umano di alta qualità, le istituzioni federate (ai vari livelli) avranno un incentivo a
fornire un quadro di regolamentazioni e di beni pubblici in grado di farlo.
Analogamente alla concorrenza economica,
la concorrenza tra istituzioni federate è un processo di scoperta. L’esistenza di una pluralità
di politiche diverse praticate dalle varie entità
federate, unita alla possibilità di scelta garantita dall’ “ombrello” delle regole federali, permette di scoprire quali sono le combinazioni
di regolamentazioni e beni pubblici preferite
dai cittadini e dalle imprese. La concorrenza
istituzionale è un potente meccanismo di innovazione, che estende alle istituzioni politiche il duplice principio della variazione e della
selezione delle soluzioni migliori.
Dal punto di vista del federalismo competitivo l’Europa ha quindi bisogno di istituzioni
che permettano il massimo di azione collettiva
là dove essa è necessaria e là dove i cittadini
la desiderino. Ma quest’azione collettiva deve
venire coniugata con l’elemento competitivo,
che è proprio dell’autentico federalismo, in
modo da ricondurre e mantenere tutti i poteri
- il potere dell’Unione non meno di quello degli Stati nazionali - entro le funzioni ed i limiti
che sono necessari per garantire la libertà e la
prosperità dei popoli e dei singoli cittadini. Sarebbe impossibile comprendere il successo
dell’economia degli Stati Uniti d’America
senza tenere in considerazione l’elemento della competizione territoriale.
Esso è un fattore non meno importante del
basso livello di regolazione, o del basso livello
di tassazione. In un senso pregnante, esso è
proprio un fattore decisivo perché il livello di
regolazione ed il livello di tassazione si mantengano entro limiti compatibili con una economia dinamica.
Ma nella costruzione dei poteri “federali”
dell’Unione Europea la via del federalismo
competitivo non è mai stata praticabile, e infatti non viene perseguita neanche nel Trattato
costituzionale. La ragione non è soltanto ideologica, ovvero non è soltanto lo scarso peso
che da più di un secolo il liberalismo ha nel
nostro continente. La ragione principale è che
le istituzioni comunitarie sorsero proprio per
evitare la competizione per le risorse territoriali, ed in particolare la competizione tra
Francia e Germania per il controllo delle materie prime.
Le istituzioni comunitarie nacquero quindi
con una logica di cooperazione che tendeva a
minimizzare la competizione. Di qui la prevalenza sul piano istituzionale della logica dell’unanimità nelle decisioni, e sul piano economico della logica delle sovvenzioni agli Stati
membri meno ricchi ed ai settori meno produttivi in cambio di un basso grado di competizione territoriale.
Come è stato autorevolmente sottolineato da
André Breton, sistematicamente l’Unione Europea si attiva per deregolamentare i mercati
interni e i sistemi legislativi degli stati membri,
al fine di regolamentarli nuovamente secondo
le proprie norme. Ne consegue che “se si confronta il grado di armonizzazione in Europa
con quello del Canada, degli Stati Uniti e di
altre federazioni, ci si sorprende a vedere
quanto questo sia maggiore in Europa”.
Riassumendo: la creazione di un mercato
unico europeo veramente favorevole allo sviluppo economico ha bisogno di istituzioni politiche che introducano una massiccia dose di
competizione territoriale come elemento strutturale. Un ambiente favorevole allo sviluppo
non può essere soltanto il risultato di provve-
dimenti di “armonizzazione”, e neppure di
provvedimenti di deregolamentazione e di abbattimento di barriere.
QUALE IDEOLOGIA
PER IL WELFARE STATE?
Che il welfare state in tutti i paesi europei abbia bisogno di una revisione profonda è una
verità che viene negata soltanto da frange marginali, intellettuali e politiche. Allo stesso tempo ogni evidenza disponibile dimostra che la
grande maggioranza degli europei vuole il
mantenimento di forti istituzioni pubbliche di
welfare, e che non è affatto disposta a rinunciarvi. Una prova molto chiara è che, mentre
negli anni scorsi ovunque in Europa lo stato
ha fatto marcia indietro nel controllo diretto
dell’economia, non vi sono segni che questo
stia avvenendo anche in altri aspetti della vita
umana. Si potrebbe dire che è vero il contrario:
più gli stati perdono il loro controllo sull’economia per effetto della globalizzazione, più
forte è la loro tendenza a estendere il controllo
su altri aspetti della vita. Poiché nessun governo in Europa è mai stato sanzionato per questo, se ne deve ragionevolmente – e pessimisticamente - concludere che la visione liberale
è oggi del tutto minoritaria.
La maggior parte degli europei non ritiene
la libertà il valore più importante. Su questo
emerge una forte differenza con gli Stati Uniti.
Le statistiche mostrano che la libertà è il valore più elogiato dai cittadini statunitensi, mentre
nei paesi europei l’eguaglianza è al primo posto. Dunque, non bisognerebbe chiedersi perché le politiche di liberalizzazione abbiano
avuto così poco successo in Europa. I cittadini
europei ottengono dai loro governi (e dall’Unione) proprio ciò che vogliono.
Che spesso le conseguenze siano negative
per la loro prosperità è cosa diversa, e può imporre dei cambiamenti che altrimenti non si
vorrebbero.
La gran parte della spesa pubblica nei paesi
europei ha uno scopo che corrisponde alla visione socialista in tutte le sue varie declinazioni e denominazioni. Lo scopo fondamentale è
quello di redistribuire il reddito tra i cittadini,
sia in modo diretto (come avviene con i sistemi
previdenziali pubblici), sia attraverso la fornitura da parte della mano pubblica della gran
parte dei servizi essenziali, come l’istruzione
e la sanità, sia attraverso la regolazione. La redistribuzione del reddito (e della ricchezza)
implica quasi per definizione un’alta spesa
pubblica, un’alta tassazione, ed una tassazione
altamente progressiva. Chiunque si proponga
di abbassare la tassazione si trova quindi di
fronte alla questione di spiegare perché l’attuale livello e le attuali modalità della redistribuzione del reddito non sono giustificabili.
Oggi disponiamo di una amplissima evidenza in base alla quale è possibile affermare che
la redistribuzione nelle società contemporanee,
la sua dimensione e i suoi profili sono il risultato della logica stessa dei processi della democrazia rappresentativa. La redistribuzione delle
risorse prelevate tramite la tassazione generale
a favore di gruppi in grado di garantire il consenso elettorale è il meccanismo fondamentale
sul quale puntano i politici che sono al potere
per essere sicuri di restarci. I politici non al potere, a loro volta, ripongono le loro speranza
sulla capacità di persuadere una pluralità di
gruppi sociali che saranno loro i beneficiari
netti di una diversa politica redistributiva.
Tutto questo deriva dal fatto che ovunque si
verifichino differenze di ricchezza fra i cittadini il reddito medio è più alto del reddito
dell’elettore mediano. In queste condizioni vi
sarà sempre una maggioranza di elettori favo-
revoli alla redistribuzione (e alla tassazione
progressiva), quale che sia il livello assoluto
della ricchezza. Poiché però i tassi marginale
e medio di tassazione e redistribuzione sono
determinati dall’elettore mediano, non vi è ragione alcuna per cui la redistribuzione debba
andare a favore della parte più povera della popolazione. L’analisi dei processi di organizzazione e rappresentanza politica degli interessi
rafforza tale conclusione: i poveri infatti costituiscono il gruppo sociale meno capace di organizzarsi e di indirizzare i propri voti verso
uomini politici determinati. Tutto ciò è noto da
tempo. Come scrisse George Stigler “la spesa
pubblica viene attuata a beneficio soprattutto
delle classi medie, e finanziata con tasse che
pesano in buona parte su poveri e ricchi”. Vi
sono quindi buone ragioni per credere che gli
attuali alti livelli di tassazione non si giustificano affatto con lo scopo - in sé evidentemente condivisibile – di migliorare le condizioni
dei meno fortunati.
Per molto tempo si è sostenuto che le politiche redistributive avrebbero fatto crescere non
soltanto il benessere delle fasce più povere, ma
anche la ricchezza globale di una Nazione.
L’assunto della validità della visione keynesiana era, naturalmente, un ingrediente essenziale
di questa tesi. Poiché la crescita economica è
il risultato di una varietà di fattori, è notoriamente difficile isolare l’effetto della redistribuzione. È difficile, inoltre, calcolare in modo
esatto i reali effetti redistributivi della spesa
pubblica in generale. Tuttavia vi è una forte
evidenza a favore di una correlazione negativa
tra spesa pubblica e crescita economica. Particolarmente rilevante è la conclusione alla quale sono giunti R. Gwartney, R. Lawson, e R.
Holcombe, i quali hanno fornito una misura
degli effetti negativi della spesa pubblica sulla
crescita economica prendendo come riferimento i Paesi OCSE nel periodo 1960-1996: “se la
spesa pubblica sul PIL è del 10% maggiore
(per esempio, il 35 piuttosto che il 25 percento)
all’inizio del periodo di riferimento, il tasso di
crescita sul lungo periodo del PIL è di un punto
percentuale inferiore. Conseguentemente, un
aumento del 10% nelle dimensioni della mano
pubblica durante un decennio ridurrebbe la
crescita di mezzo punto percentuale”.
Qui i dati econometrici concordano con la
logica e con l’evidenza microeconomica. Le
politiche redistributive influenzano negativamente la produzione della ricchezza in diversi
modi. In primo luogo, le coalizioni politiche
nate da accordi redistributivi distolgono risorse dai settori più produttivi, spostandole verso
usi meno produttivi. In secondo luogo, poiché
tutelano interessi costituiti, indeboliscono
presso i beneficiari della redistribuzione gli incentivi a innovare. In terzo luogo, inducono
forti pressioni contro l’apertura delle economie nazionali alla concorrenza internazionale,
in quanto quest’ultima rende più difficile il godimento di rendite garantite dallo Stato. In
quarto luogo, le politiche fiscali implicate dalla redistribuzione disincentivano i membri più
produttivi della società dall’utilizzare appieno
le loro capacità.
Un’indicazione importante del fatto che le
politiche fortemente redistributive sono errate
è il fatto che le giustificazioni addotte per esse
sono cambiate. L’argomento originario era che
la redistribuzione avrebbe posto la larghissima
maggioranza dei cittadini in condizioni migliori di quelle che si sarebbero avute altrimenti. Solo i più ricchi sarebbero stati necessariamente perdenti. Oggi, però, l’argomento
è del tutto diverso. Oggi viene sempre più frequentemente affermato – come ha fatto anche
Paul Samuelson – che la redistribuzione è una
buona cosa anche se rende le società globalmente meno ricche. Naturalmente, la ragione
addotta per spiegare che la redistribuzione
continua ad essere una buona cosa è che la
grande maggioranza delle persone sta comunque meglio di quanto starebbe in una società
più ricca ma senza redistribuzione. In questo
modo i sostenitori di politiche fortemente redistributive finiscono con il riconoscere che la
loro tesi originaria è stata sostanzialmente confutata. Questa seconda, tuttavia, si fonda sugli
stessi identici assunti della prima: ossia, sulla
stessa idea del funzionamento dell’economia
e sulla stessa idea del comportamento umano.
È difficile cogliere la ragione per la quale l’asserzione rivisitata e corretta dovrebbe essere
maggiormente vera.
Molti moderni teorici socialisti paiono aver
compreso che c’è qualche cosa che non funziona nelle politiche redistributive. Ritengono
però che il problema abbia a che fare con l’attuale struttura del welfare state, che stia negli
strumenti utilizzati per realizzare l’ideale della
redistribuzione. A loro avviso, tutto ciò che si
richiede sono riforme “intelligenti” - per usare
l’aggettivo da loro più amato –, che comprendano un mix di incentivi personali e benefici
redistributivi più estesi. Lo ha espresso molte
volte Anthony Giddens.
Per Giddens “La riforma dello Stato assistenziale dovrebbe mirare ad ottenere un nuovo equilibrio tra rischio e sicurezza nella vita
delle persone. La disponibilità ad assumere rischi rappresenta una componente fondamentale dell’iniziativa e della responsabilità personali, così come la valutazione del rischio.
Gran parte dello Stato assistenziale è una forma di assicurazione collettiva ma, a differenza
di quanto avviene nel caso delle assicurazioni
private, i dibattiti sul tema dello Stato assistenziale hanno prestato ben poca attenzione al
mutamento della natura dei rischi nel mondo
odierno. Lo Stato assistenziale post-bellico si
fondava su di una concezione passiva del rischio e, di conseguenza, su una concezione
passiva della sicurezza. Se ci si ammalava, si
subiva una menomazione, si divorziava o si
perdeva il proprio lavoro, lo Stato assistenziale
doveva subentrare per proteggerci. Oggi viviamo in ambienti decisamente più esposti all’incertezza, dai mercati globali alle relazioni familiari, ai sistemi di assistenza sanitaria”.
Per Giddens la soluzione sta nel fatto che “I
servizi sociali devono dare un apporto allo spirito imprenditoriale, incoraggiare la saldezza
d’animo necessaria ad affrontare un mondo in
cui i cambiamenti sono sempre più rapidi, ma
al tempo stesso devono essere in grado di fornire sicurezza quando le cose vanno male. I sistemi di intervento pubblico finalizzati al lavoro (welfare to work), la riforma della tassazione e altre scelte politiche concrete possono
contribuire a realizzare questo ambizioso
obiettivo”. In tutto questo l’ideale della redistribuzione non viene però per nulla discusso.
Tutto ciò di cui ci si occupa sono i mezzi oggi
opportuni per ottenere la stessa identica cosa
che il welfare state originario prometteva. Ma
la questione di fondo è che da sempre la logica
del welfare state non ha nulla a che vedere con
la logica assicurativa, se non nella retorica con
la quale è stato propagandato. La logica assicurativa si basa infatti sulla stretta relazione
tra rischio e premio. Nel welfare state questa
relazione semplicemente non esiste. Avviene
esattamente il contrario, perché quelli che hanno minori probabilità di dover ricorrere ai servizi di welfare sono coloro che maggiormente
contribuiscono, direttamente o attraverso la
tassazione generale, al loro finanziamento.
Questo avviene perché il welfare state ha come scopo primario la redistribuzione del reddito, e soltanto come scopo secondario il fornire servizi che il mercato non “potrebbe” fornire, o potrebbe fornire soltanto ad un costo
16 ■ CRITICAsociale
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molto più alto per tutti i cittadini, come sostenevano i fautori del welfare state originario.
Giddens afferma che il welfare state tradizionale è messo in crisi dall’avvento di un
mondo di incertezza. Ma se si vogliono mantenere intatti gli scopi originari del welfare state, come vuole fare Giddens, allora la conclusione corretta è che in un mondo di incertezza
bisogna espandere ulteriormente il carattere
universalistico del welfare state, non restringerlo per vincolare le sue prestazioni a considerazioni di merito morale o a qualità individuali come la capacità di assumersi dei rischi.
Ogni mossa nella direzione di legare le prestazioni del welfare state alla corretta imputazione e gestione del rischio va quindi esattamente nella direzione opposta all’ideologia redistribuzionista. Paradossalmente, ma non
troppo, qui vi è davvero un terreno fecondo di
incontro tra una moderna visione socialista ed
una moderna visione liberale. Non vi è infatti
alcuna necessità teorica o empirica di assumere che la maggior parte degli effetti negativi
della redistribuzione che sperimentiamo oggi
sull’economia e sullo Stato si sarebbero verificati se la redistribuzione stessa fosse stata intesa non come uno strumento per implementare una ideologia egualitaristica, ma come
uno strumento per permettere a tutti i cittadini
di godere di un livello di benessere adeguato
– ovvero, come una autentica forma di assicurazione contro il rischio. E questo principalmente per due ragioni. In primo luogo perché
il secondo tipo di redistribuzione non implica
nessuna delle politiche che perseguono il fine
di realizzare una maggior eguaglianza fra i cittadini non migliorando le condizioni di chi si
trova in fondo alla scala bensì impedendo a chi
sta in alto di salire ancora. Non richiede, insomma, che venga ostacolata la creazione della ricchezza. In secondo luogo perché se la redistribuzione è diretta esclusivamente ad aiutare le persone il cui reddito cade al di sotto di
un certo livello non vi sono più giustificazioni
politiche che tengano per tutti i trasferimenti
monetari a favore di gruppi il cui reddito è superiore a tale livello.
Al contrario però di quanto sosteneva e sostiene una versione conservatrice del liberalismo, questa redistribuzione non deve essere
necessariamente minimale. Ai meno fortunati
può essere assicurato il livello di vita che i sentimenti generali di una nazione ritengono essere giusto, e che può – e deve - ben andare al
di là di garantire le condizioni di sopravvivenza decorosa. Sul piano pratico questa idea di
redistribuzione permette di separare definitivamente l’aiuto ai meno fortunati dal mantenimento della macchina del welfare state. Dai
sistemi sanitari nazionali ai sistemi pensionistici a ripartizione, quest’ultima ha oggi la sua
sola ragion d’essere nella volontà di mantenere
una struttura di eguaglianza socialista tra i cittadini. Se questo ideale viene ad indebolirsi,
l’aiuto ai meno fortunati può con maggiore efficacia venire perseguito attraverso lo strumento del trasferimento diretto di reddito, o
attraverso il consentire loro l’accesso agli strumenti assicurativi privati.
CONCLUSIONE
La modernizzazione delle economie europee non è una questione che possa essere affrontata senza ripensare le stesse categorie sociali e politiche dominanti. La modernizzazione comporta necessariamente un’estensione
dell’area delle decisioni private, ed una riduzione delle posizioni di monopolio politicoistituzionale. La sola maniera perché essa effettivamente si realizzi è una scomposizione
dei clivages ideologici tradizionali, ed una loro
ricomposizione secondo linee nuove. s
Angelo Petroni
■ 2006 - DALL’ASSISTENZIALISMO ALLA COLLABORAZIONE STATO-CITTADINI
WELFARE E PARTECIPAZIONE
F
Tony Blair
inché la Gran Bretagna non sarà
un terra di opportunità per tutti,
non ci fermeremo. La mia dissertazione, oggi, è quella che segue. Nel mio discorso a Brighton, ho descritto come ci stiamo
muovendo da un welfare state tradizionale ad
una società delle opportunità. Quello che intendo è questo. Abbiamo compiuto un vero progresso in Gran Bretagna negli ultimi 7 anni e
mezzo. Ma la verità su questo paese è che per
quasi 30 anni, la mobilità sociale è rimasta relativamente costante. Io voglio vedere la mobilità
sociale diventare ancora, come nei decenni dopo
la guerra, una caratteristica dominante della vita
degli inglesi. Ma dire questo nel mondo di oggi,
significa molto più che sollievo dalla povertà e
accesso ai servizi di base. Significa creare una
genuina opportunità per trarre il meglio dalle attitudini di ognuno e per garantire a ognuno l’accesso ai migliori servizi, da qualsiasi condizione
sociale provenga. E, a mio giudizio, questo non
può essere fatto con le esistenti strutture di stato
e di governo.
Nei primi due mandati abbiamo operato con
successo miglioramenti radicali al welfare state
esistente nel ventesimo secolo e ai pubblici servizi; abbiamo iniziato ad alterare la loro struttu-
ra. Ma ora, sul fondamento della stabilità economica, la prospettiva del terzo mandato deve
essere l’alterazione radicale del contratto tra cittadini e stato che fu alla base del ventesimo secolo; l’evoluzione da un welfare state che assiste
i poveri e fornisce servizi essenziali verso un
welfare state che offre servizi di alta qualità e
l’opportunità per tutti di realizzare a pieno il proprio potenziale
Proprio come ci siamo staccati dalla produzione di massa nell’industria, così dobbiamo
staccarci dalla produzione di massa nell’attività
dello stato. Al centro del servizio o della struttura deve esserci l’individuo. Egli ha sia il diritto
che la responsabilità di cogliere le opportunità
offerte e di trame risultati. Il ruolo del governo
diventa quello di autorizzare, non di imporre. Al
posto di rigidità e uniformità, flessibilità e adattabilità. E c’è bisogno di nuovi e ingegnosi modi
per finanziare quei servizi che, pur essendo universali, devono essere finanziati su basi sostenibili e progressive
Tutto questo richiede una inversione della relazione stato/cittadino, con il cittadino non alla
base della piramide a prendere ciò che viene
porto, ma alla cima, con il potere nelle sue mani
di prendere i servizi che vuole.
Le implicazioni sono moltissime. Significa insistere nel perseguire la logica delle riforme del
servizio sanitario nazionale, della scuola, della
legge e dell’ordine pubblico; e affrontare con un
nuovo approccio ciò che ho descritto nel mio discorso di settembre come le sette nuove sfide del
mondo moderno.
Lungi dal rinnegare il New Labour, dobbiamo
invece estenderne radicalmente la portata. Ma
prima, un po’ di storia. Non c’è posto migliore
per discutere di una società delle opportunità che
qui, alla Beveridge Hall. La fama di William Beveridge è naturalmente fondata sul suo famoso
rapporto del 1942 sul sistema delle assicurazioni
nazionali e dell’assistenza pubblica che egli consigliò e che il governo di Attlee mise in atto a
fianco del servizio sanitario nazionale.
Il maggior vanto del partito laburista è la creazione nel 1945 del welfare state, da parte del nostro governo, che fece più di qualsiasi altro governo del secolo per intaccare la povertà, promuovere l’uguaglianza e unificare il paese. I valori che animarono questi grandi riformatori degli anni quaranta Beveridge, Attlee e Bevan sono i nostri valori: equità, solidarietà, una società
di impegno reciproco; la condizione dei poveri
e dei meno avvantaggiati è la verifica dell’umanità e del decoro dell’intera nazione. Tuttavia, le
istituzioni che essi crearono 60 anni fa erano basate su condizioni sociali e assunti radicalmente
differenti da quelli di oggi. Questa differenza è
il punto di partenza del mio discorso di oggi.
Non c’è bisogno che mi soffermi sul contrasto
tra oggi e la Gran Bretagna in cui crebbero i miei
genitori negli anni trenta e quaranta. Una Gran
Bretagna dove la pertosse, la difterite e il morbillo erano ancora le maggiori cause di mortalità
infantile; dove c’erano 1 milione di minatori e
solo 70.000 studenti universitari; dove il cibo era
razionato, solo un inglese su sette aveva una
macchina, solo una donna su cinque lavorava;
dove l’aspettativa di vita era di 63 anni per gli
uomini e 68 per le donne mentre ora raggiunge
i 76 anni per gli uomini e gli 81 per le donne, e
si pensa che crescerà a 79 e 83 entro il 2020.
Beveridge e Attlee costruirono il loro welfare
state per le condizioni degli anni quaranta. Concepirono il welfare come un minimo essenziale
per cittadini in coda per tutto; che avevano poca
possibilità di scelta sia nel settore pubblico che
in quello privato; che avevano poche aspirazioni; che certamente brontolavano ma che raramente protestavano, e anche allora con uno spirito di deferenza e quasi di scusa. Fu su queste
basi, ad esempio, che Beveridge consigliò una
pensione base per tutti, senza riguardo ai bisogni
o ai precedenti guadagni; alla stesso modo, propose che la contribuzione fosse fissa per tutti.
Anche le prime riflessioni sul servizio sanitario
nazionale mostrano simili soluzioni anacronistiche, in particolar modo l’opinione diffusa ed erronea radicata anche negli anni cinquanta che la
domanda verso il servizio sanitario nazionale sarebbe decisamente calata una volta che le allora
prevalenti malattie fossero state eliminate.
Ciò non ostante, Beveridge riconosceva che
le istituzioni sono immagini del proprio tempo;
che ogni generazione deve crearle o ricrearne di
nuove. Questa sala (Beveridge Hall), una grande
creazione modernista per i suoi tempi, è un supremo testamento. Beveridge stesso mise mano
alla sua costruzione e disse che non avrebbe dovuto essere una replica del medio evo, ma qualcosa che nessuna generazione precedente avrebbe potuto costruire, un’isola di cultura in un
mondo di affari.
Beveridge infatti era prima di tutto un pedagogista, direttore della London School of Economics per 18 anni tra le due guerre. Ma non è
sbagliato dire, che dovrebbe essere ricordato
principalmente come un riformatore del welfare,
perché negli anni quaranta e nei decenni successivi è stato il welfare, insieme con la nazionaliz-
zazione dell’industria, il principale strumento
utilizzato dalla sinistra per il raggiungimento
della equità sociale e della prosperità.
Il governo laburista del 1945 non si occupò di
istruzione, a parte la cauta attuazione del Butler
Act del 1944. L’istruzione superiore rimase appannaggio esclusivo di una piccola elite ancora
per decenni. E l’istruzione secondaria anche dopo l’introduzione della scuola superiore unificata negli anni sessanta ? continuò ad essere principalmente un centro di produzione di massa di
bassa manodopera per lavori di massa che richiedevano bassa manodopera. L’economia e la
società si trasformarono nei decenni successivi
al 1950. Ma le istituzioni del Attlee Bevirdge
welfare state rimasero sostanzialmente inalterate
con i loro punti di forza (la resistenza dei valori
progressisti che neppure il Thatcherismo è riuscito a minare), ma anche con la loro crescente
inadeguatezza, laddove il fallimento nell’adeguarsi ai cambiamenti sociali è stato esacerbato
dalla deliberata negligenza e dall’assenza di investimenti negli anni ottanta e novanta.
Quello che stiamo facendo, sin dal 1997, è
cercare di porre un freno a questa crescente divisione sociale e cominciare ad invertire la tendenza. E non solo con il lavoro e gli investimenti
che ho menzionato prima. 2 milioni di pensionati sono stati risollevati da una vita di stenti e
700.000 bambini dalla povertà; i crediti sulle
tasse hanno consentito per la prima volta a molte
famiglie di lavoratori di avere un reddito decente. Quando i Tories affermano che la spesa per
il welfare è aumentata sotto questo governo, fanno un tipico gioco di mano. La spesa sulla disoccupazione, sui fallimenti sociali ed economici è scesa non aumentata. Ciò che è cresciuto è
la spesa sulle pensioni, le agevolazioni per le famiglie con bambini, i crediti sulle tasse che sono
stati deliberati per aiutare la gente in difficoltà e
sottopagata.
Questa non è una spesa da tagliare, ma una
spesa di cui dovremmo andare fieri.
La spesa nei pubblici servizi è stata spesso diretta alla soddisfazione di esigenze essenziali:
più infermiere, dottori, insegnanti, poliziotti; e
per loro migliori strutture in cui lavorare. La
spesa per gli edifici scolastici è ora sette volte
più alta che nel 1997. 10 anni fa, la metà degli
edifici adibiti al servizio sanitario nazionale era
stata costruita prima della istituzione del servizio
sanitario nazionale stesso; ora la percentuale è
scesa a un quarto e 100 nuovi ospedali sono in
progetto di costruzione. I centri di formazione
per tutte le maggiori categorie professionali di
pubblico servizio sono stati radicalmente aumentati. Tutto questo era necessario e ha prodotto reali vantaggi.
Ma c’è qualcos’altro che abbiamo imparato
durante questo governo. I vantaggi più grandi
sono sempre stati la conseguenza delle riforme
più coraggiose. L’indipendenza della Banca di
Inghilterra ci da stabilità. L’insistenza sulla responsabilità di lavorare se ti è possibile, così come il diritto ad essere aiutati e la fusione di centri
di lavoro e servizi per i lavoratori, ha ulteriormente accresciuto il successo del New Deal. Le
liste d’attesa per i degenti scese progressivamente da quando abbiamo assunto la carica hanno
cominciato a calare sistematicamente da quando
sono stati introdotti i nuovi centri di diagnosi e
trattamento e la gente ha cominciato ad avere la
possibilità di scegliere; e, come la commissione
di verifica ha recentemente riportato, questa possibilità di scelta è popolare al massimo tra gli
strati socio economici più bassi.
Le scuole specialistiche tanto contestate da
principio hanno superato gli standard degli istituti omnicomprensivi. Col tempo, la riforma sui
finanziamenti agli studenti, già citata come modello internazionale dall’OECD, sarà vista come
un allargamento delle opportunità in ambito universitario. Le iscrizioni agli asili sono calate del
CRITICAsociale ■ 17
12 / 2012
70 % dopo una sistematica revisione del sistema. Ma per ora, in ogni area i cambiamenti apportati alle struttura esistenti hanno solo migliorato la situazione, non 1’ hanno trasformata. La
lezione è chiara: proseguiamo con fiducia; non
tiriamoci indietro esitando; facciamoci forza dei
cambiamenti che hanno reso questa nazione più
giusta e più forte; e usiamo le esperienze dei primi due mandati perché ci guidino verso un vero
e durevole cambiamento nel terzo.
Il New Labour, naturalmente, rimane sotto un
costante attacco sia della destra che della sinistra. Parte della sinistra ancora non vuole accettare che l’unica ragione per cui abbiamo vinto
due elezioni consecutive sta precisamente nel
nostro essere New Labour, combattendo in prima linea, rifiutando i dogmi del passato ed evitando gli errori degli anni settanta e ottanta.
Esattamente come i Tories, hanno considerato
i loro voti e poi hanno deciso di ritirarsi dove
potevano stare più comodi, ingannati dall’apparente supporto di posizioni di forza su argomenti
come l’immigrazione e l’Europa. Nel frattempo,
propongono tutta una serie di politiche che sono
quasi visibilmente inconsistenti. Di qui il loro
desiderio di nasconderle dietro promesse “minimaliste”. L’alternativa dei Tories non sarà rappresentata principalmente da una alternativa politica. Non si arrischieranno a fare questo, perché
ogni volta che espongono una delle loro principali proposte in particolare quella in cambiamento continuo sul “passaporto” per malati e
studenti , esse si rivelano per quello che sono:
proposte di benefici per una piccola minoranza
di più ricchi a spese di tutti gli altri. Un “passaporto” per i malati accessibile solo per i benestanti, sovvenzionato dagli altri; un “passaporto”
per gli studenti che preleva 1 bilione di sterline
dall’educazione statale per beneficiare una minoranza. E, ancora più scandaloso, la loro ultima
D
opo essere rimasto sostanzialmente immobile per oltre cinquant’anni, il sistema finanziario italiano è stato protagonista dall’inizio degli anni Novanta di un processo di trasformazione più ampio e profondo di quelli osservati
nei principali Paesi. È un processo che non
può ritenersi certo completato, ma che oggi è
giunto a un passaggio cruciale. Complici i recenti default di alcuni grandi gruppi industriali
e le pesanti ricadute sul sistema creditizio nel
suo complesso, c’è il rischio che prevalgano
reazioni istintive che finiscano con l’innescare
un processo di regressione. E questo l’Italia
non può assolutamente permetterselo. Sarebbe
un colpo mortale per il proprio sistema finanziario che comprometterebbe seriamente la capacità di sviluppo dell’intero apparato produttivo. Oggi occorre piuttosto intervenire con
correttivi atti a completare quel processo di
trasformazione faticosamente avviato. Innanzitutto va evitato un eccesso di regole e normative, modo con cui purtroppo in Italia si è
invece spesso risposto alle sollecitazioni poste
dagli eventi della vita sociale ed economica.
Questo processo coincide con una modificazione graduale dell’allocazione del risparmio degli italiani. La quota di risparmio depositata dalle famiglie presso le banche e da queste utilizzata per finanziare imprese ed enti locali, e acquistare titoli pubblici, è diminuita. È
invece cresciuta la quota di risparmio che passa direttamente dalle famiglie alle imprese attraverso il mercato azionario e obbligazionario. Sono interessanti al riguardo alcuni dati
sull’assorbimento del risparmio: in termini di
risorse nel 1995 su un totale di 227 miliardi di
euro le imprese ne assorbivano 50, Stato ed
enti pubblici 82; nel 2002 su un totale di 271
proposta di un taglio di 2 bilioni di sterline alla
tassa di successione, ad appannaggio di al massimo il 5% dei contribuenti e a spese di tutti gli
altri. No, i Tories non avranno il coraggio di
combatterci alle prossime elezioni su un terreno
politico, su quello che eventualmente faranno al
governo. Ma ci sono punti sui quali gli attacchi
provengono sia da destra che da sinistra. Saremo
sotto la pressione di soddisfare grandi aspettative; ma anche sotto pressione per quanto riguarda le tasse e la spesa pubblica.
Il Cancelliere ha già giustamente fatto notare
che la prossima finanziaria sarà molto severa. Il
pericolo è che la sinistra voglia soddisfare le più
alte aspettative e perda di vista le tasse e la spesa
pubblica. La destra volgerà opportunisticamente
a proprio vantaggio queste aspettative, criticherà
le spese e ci stringerà in una morsa tra le due;
per forzarci a una scelta tra il supporto dei nostri
scopi di giustizia sociale e i mezzi per ottenerli.
Ecco perché un programma di riforme continue
è così cruciale. E’ solo cambiando il sistema che
lo renderemo più efficiente.
Il servizio sanitario nazionale non è soltanto
una questione di soldi.
Ci sono buone e cattive scuole che beneficiano esattamente degli stessi fondi. La vigente legge penale non è mai stata in grado di fronteggiare con successo la criminalità organizzata e i crimini legati alla droga. Se poi consideriamo le
nuove sfide e i nuovi problemi è ancora più chiaro che non potranno essere affrontati semplicemente spendendo più soldi se mantenendo le attuali strutture di governo e di stato. Considerando tutti questi aspetti, noi ci impegniamo non in
una serie di riforme distinte, settore per settore,
ma a un mutamento radicale del welfare state
del ventesimo secolo, basato su servizi collettivi,
uniformi e passivi, in una moderna società delle
opportunità, dove i servizi saranno personaliz-
zati, diversificati e attivi. I fini ultimi, comunque, sono quelli tradizionali: giustizia sociale,
consentire alle famiglie di lavoratori e ai loro figli più alte aspirazioni, creare opportunità non
per pochi ma per tutti.
Ora permettetemi di dire qualcosa in più su
ognuno di questi punti.
Le strategie sull’educazione, la sanità, la sicurezza e i trasporti che abbiamo pubblicato in
luglio, espongono i nostri progetti in queste aree.
In ciascuna di esse proseguiremo decisamente
nella direzione delle riforme che abbiamo cominciato. Per quanto riguarda la sanità, opereremo una apertura del sistema per andare incontro alla domanda dei pazienti e radicheremo il
principio della scelta. Stiamo progettando un aumento significativo della spesa a vantaggio dei
fornitori indipendenti di servizi di diagnosi e
trattamento. Ci sarà uno stanziamento di circa
500 milioni di sterline, che calcoliamo possa
produrre un aumento di pazienti che usufruiranno della possibilità di scelta nell’ordine di
250.000 all’anno. Servizi come quelli diagnostici, dove ci sono continui imbottigliamenti, saranno migliorati attraverso una commistione di
fondi pubblici e privati. Tutto questo ci aiuterà
a raggiungere il nostro proposito, cioè che entro
il 2008 ogni paziente sia in grado di scegliere il
proprio ospedale, con un tempo di attesa massimo di 18 settimane dalla prescrizione da parte
del medico di un trattamento specialistico e
l’inizio del trattamento stesso.
Passando al tema dell’educazione, le scuole
specialistiche diventeranno praticamente universali, e ci saranno 200 nuove scuole secondarie
gratuite per le famiglie e senza selezione attitudinale gestite da sponsor indipendenti nelle aree
dove le scuole erano deboli o hanno fallito in
passato. Sarei contento di vedere queste scuole
sponsorizzate non solo da imprenditori indivi-
■ 2004 - NUMERO 9
BANCHE, TRANSIZIONE INCOMPIUTA
Graziano Tarantini
miliardi alle imprese ne sono arrivati 124, allo
Stato 46.
In particolare se si analizza la provenienza
delle risorse finanziarie destinate allo Stato si
può vedere come dal 1995 al 2002 sia fortemente calato l’ammontare di titoli pubblici acquistati dalle famiglie scendendo da oltre 43
miliardi di euro a 19 miliardi. E nei 124 miliardi di finanziamenti raccolti dalle imprese
nel 2002 è significativamente cresciuta la quota proveniente dalle famiglie, mediante l’acquisto diretto di titoli non azionari, che assomma a 8 miliardi e 861 milioni di euro, un dato
che solo nel 1995 era pressoché inesistente.
Un aumento interamente ascrivibile alle obbligazioni.
Secondo i dati forniti dal governatore Fazio
nell’audizione parlamentare del gennaio 2004,
alla fine del 1995 le famiglie italiane possedevano 1.712 miliardi di euro di attività finanziarie. Di queste, 446 miliardi erano costituite
da titoli pubblici, 182 miliardi da azioni e obbligazioni delle imprese, 68 miliardi da quote
di fondi comuni, 558 miliardi da depositi e altre forme di raccolta bancaria.
Alla fine del 2002 le attività finanziarie delle
famiglie erano cresciute a 2.494 miliardi, con
un aumento del 46 per cento rispetto a sette
anni prima. All’interno di questo aggregato, i
titoli pubblici detenuti in via diretta erano di-
minuiti in valore assoluto, a 218 miliardi, a
fronte dell’aumento, a 334 miliardi, degli investimenti in quote di fondi comuni. Il risparmio affidato dalle famiglie alle banche sotto
forma di depositi e altri strumenti di raccolta
è passato da 558 a 761 miliardi, con un aumento del 35 per cento.
L’ammontare di azioni e obbligazioni emesse da imprese e detenute direttamente dalle famiglie è stimabile in 294 miliardi; il volume
della sola componente obbligazionaria si è
quintuplicato nei sette anni, passando da 6 miliardi nel 1995 a 30 miliardi nel 2002, circa 60
mila miliardi di vecchie lire.
Come si può vedere il risparmio italiano in
pochi anni ha registrato un vero e proprio cambio di rotta. La discesa dei tassi d’interesse e
dei rendimenti dei titoli pubblici ha certamente
inciso nel modificare le abitudini dei risparmiatori italiani. Non è altrettanto certo che
contestualmente sia cresciuta la propensione
al rischio e orientarsi su un portafoglio composto da azioni, fondi comuni, obbligazioni
private, in una fase di forte espansione del
mercato borsistico, di per sé non è sufficiente
ad avvalorarlo. Riprova di ciò sarebbe la tendenza «ancora ampiamente diffusa» dei risparmiatori ad «assumere direttamente decisioni di
investimento che comportano la valutazione di
attività finanziarie assai diverse fra loro quanto
duali ma anche da società, da chiese e altre organizzazioni religiose. 200 è quello che crediamo di poter ottenere, ma se potremo fare di più,
lo faremo. Promuoveremo inoltre una maggiore
diffusione dei percorsi professionali che guidano
lo studente dalla scuola all’apprendistato o ad
una formazione superiore, così che la grande
maggioranza dei ragazzi tra i 16 e i 18 anni, e
non solo quelli che decidono di frequentare
l’università, rimangano impegnati in corsi formativi e professionalizzanti.
Venendo ora alla sicurezza, riporteremo ad un
numero record gli effettivi della polizia e completeremo la riorganizzazione della giustizia penale, che mostra parecchie falle. Ugualmente
importanti, sono poi le nuove sfide che dovremo
fronteggiare per creare una società delle opportunità. Lo scorso mese ne ho fatto cenno in un
discorso. Oggi voglio dare qualche dettaglio in
più sul nostro approccio in queste aree chiave.
Prima sfida: lo sviluppo dell’occupazione cha
abbiamo conseguito è eccellente. Ma non dobbiamo fermarci finché ogni persona che vuole
un lavoro avrà un lavoro. Nonostante i cambiamenti che abbiamo apportato, ancora per troppi
il welfare state non è altro che un dispensatore
di benefici e indennità, che intrappola la gente
in una dipendenza a lungo termine o addirittura
per tutta la vita. Stiamo studiando nuovi approcci indirizzati alle persone costrette alle pensioni di invalidità per aiutarle a tornare a lavorare. Sappiamo che molte di loro vorrebbero lavorare, con il giusto aiuto e supporto. E’ essenziale abbassare i costi del sistema, se dobbiamo
affrontare i costi crescenti nelle aree dove è necessario spendere di più. Come risultato dei nostri interventi, prevediamo che il costo delle pensioni di invalidità scenderà a 750 milioni di sterline. E più proseguiremo nelle riforme necessarie a riportare queste persone al lavoro, più que-
a scadenza, rendimento e rischio dell’emittente». Insomma un po’ allo stesso modo di come
nel passato si gestiva un portafoglio di Bot.
Gli ultimi due rapporti 2002 e 2003 sul risparmio curati da Bnl e Centro Einaudi mettono in evidenza l’avvio di una fase riflessiva,
in cui prevale il bisogno di sicurezza, tra i risparmiatori, dopo la bolla speculativa e all’indomani dell’ 11 settembre. Dopo il caso Parmalat si tratta di vedere se siamo di fronte a
una semplice fase di attesa o a una vera e propria battuta d’arresto, accrescendo gli elementi
di una crisi di fiducia verso lo strumento dei
corporate bond e più in generale verso le banche che avrebbero minimizzato il rischio nei
confronti delle imprese debitrici rovesciandolo
sul mercato e soprattutto sull’anello più debole, quello dei risparmiatori.
Se sono già stati messi in evidenza i limiti
di un risparmio «fai da te», grande responsabilità è anche da ascrivere a un metodo di vendita degli strumenti finanziari in parte insufficiente in quanto tutto incentrato sul rispetto di
procedure formali senza preoccuparsi di trasmettere in maniera adeguata il principio dell’ineludibile legame rischio-rendimento. «Non
esistono operazioni a rischio zero, questo è
evidente, ma la banca deve fornire informazioni puntuali, non deve mai trasferire ai clienti
rischi propri». È stato minato in questo modo
un rapporto fiduciario nel passaggio più delicato, quello in cui la ricchezza risparmiata viene convogliata verso gli investimenti. s
(da “Banche e finanza, la transizione
incompiuta” di Graziano Tarantini.
Secondo volume di “Punto di Fuga” collana
della Fondazione per la Sussidiarietà.
Edizione Guerini e Associati - Milano)
18 ■ CRITICAsociale
sti costi caleranno. Abbiamo già uno dei migliori
tassi d’occupazione del modo industrializzato.
Ma dovremmo aspirare ad avere il migliore in
assoluto. Secondo i dati recenti, questo dovrebbe
significare ottenere un tasso di occupazione accresciuto dall’attuale 75% all’80%, il che equivale a più di 1,5 milioni di persone in più che lavorano provvedendo per se stessi, le loro famiglie, e naturalmente per le loro pensioni. Questa
sarebbe realmente una situazione di piena occupazione che ridurrebbe il divario tra le regioni e
assicurerebbe a chiunque voglia lavorare l’aiuto,
il supporto e l’incoraggiamento necessari per
trovare lavoro.
La seconda nuova sfida è un processo di formazione che dura tutto l’arco della vita. L’istruzione nel futuro non dovrà fermarsi alò anni per
nessuno e tanto meno le opportunità e le facilitazioni da parte dello stato. Ho detto a Brighton
che ci saremmo impegnati con tanta energia nel
potenziamento dell’istruzione professionale
quanto in quello dell’istruzione universitaria, e
così faremo. Non solo i giovani, ma anche gli
adulti necessitano di nuove competenze per trovare lavoro o tornare al lavoro, per avanzare nella carriera o per cercare a qualsiasi età di cambiare lavoro.
Questo percorso di apprendimento continuo,
non solo è centrale nella nostra politica dell’istruzione, lo è anche nella nostra politica
dell’occupazione, nella nostra politica economica, per estendere le opportunità di tutti quelli che
cercano lavoro, per la politica delle pensioni, dal
momento che consentirà a molte persone tra i
50 e 60 anni di acquisire competenze che permetteranno loro di continuare a lavorare. Abbiamo già significativamente potenziato l’apprendistato, l’istruzione superiore e i corsi professionali, per ridurre il numero dei 7 milioni di adulti
privi di competenze e istruzione basilari; abbiamo avanzato proposte per aumentare il numero
dei corsi professionali sui posti di lavoro; abbiamo lanciato il primo nuovo tipo di scuola professionale guidata e gestita da leaders dell’industria. Nei prossimi mesi metteremo a punto un
piano completo sulla formazione degli adulti,
comprese proposte che alterino radicalmente il
modo in cui tale formazione è fornita.
La terza nuova sfida è la cura dei bambini e il
bilanciamento tra tempo del lavoro e tempo della vita. In nessun aspetto la società è cambiata
tanto e in grande misura per il meglio, come nel
ruolo delle donne e nelle opportunità per loro di
lavorare e di condurre una vita più piena. La
maggior parte delle madri ora lavora a tempo
pieno o part-time, e molti padri vorrebbero avere
più tempo a disposizione da dedicare ai propri
figli. Perché questo sia possibile dobbiamo
sfruttare i progressi che abbiamo compiuto sul
lavoro flessibile e sull’organizzazione di asili, e
rendere accessibili supporti completi e flessibili
a tutti i genitori di bambini sotto i 5 anni. Non
solo per aiutare i genitori: è provato che una
buona qualità di vita nei primi anni ha un grande
impatto sulle scelte di vita future dei bambini,
particolarmente di quelli meno avvantaggiati e
dei figli di genitori single.
Il nostro proposito per il terzo mandato è quello di sviluppare un programma di assistenza per
i bambini dai 3 ai 14 anni ad alta qualità e modellato sia sui loro bisogni che su quelli dei loro
genitori. Questo non significa imporre a tutti un
sistema gestito dallo stato, ma consentire ai genitori di compiere una vera scelta tra i settori
pubblico, privato e volontario, comprensivi di
asili, gruppi di gioco, migliori scuole primarie,
centri per i bambini e badanti. Questo è anche
un settore per l’innovazione dei sistemi di reperimento dei fondi: l’incremento degli aiuti per i
bambini sotto i 5 anni, oltre al già esistente diritto a un asilo parttime per i bambini tra i 3 e i
4 anni, dovrà essere alla base di una giusta e sostenibile allocazione dei costi. Anche su questo
12 / 2012
argomento pubblicheremo proposte complete
nei prossimi mesi.
La quarta sfida è quella di aiutare le persone
a provvedere per il proprio periodo di pensionamento. Domani, la pubblicazione di un iniziale
rapporto della Commissione per le pensioni guidata da Adair Turner, innescherà un ampio dibattito, e aprirà la strada a confronti su proposte
specifiche. Ci sono due cose che vorrei dire fin
da ora. Il discorso sulle pensioni, più di quello
su altri temi, è un discorso a lungo termine. Decisioni prese oggi necessiteranno di decenni per
giungere a maturazione. Se le persone vogliono
avere sicurezze per il periodo del pensionamento, devono avere fiducia nel sistema. Non possiamo permetterci di avere periodiche sollevazioni popolari, ed è essenziale che proseguiamo
il più possibile forti del consenso della gente.
Inoltre, le riforme devono tener conto che i
piani per il periodo del pensionamento non si
devono basare solo sulle pensioni, ma anche sul
bilanciamento tra lavoro e risparmio.
Dobbiamo dare alla gente più possibilità di
scelta su come pianificare il loro pensionamento. Dobbiamo cambiare la mentalità di mettere
la gente a riposo a 65, se non a 60 o 55 anni, sia
che voglia lavorare sia che non voglia. I crediti
sulle pensioni, e altre integrazioni delle entrate
dei pensionati, ora offrono a tutti loro un reddito
decente, molto migliore che nel 1997; e ci permettono di sviluppare per il futuro un sistema
che combini sussidi per chi non ha risparmi con
incentivi per chi è nelle condizioni di poter provvedere a se stesso. Abbiamo già cominciato. Le
riforme compiute stanno assicurando per la prima volta a milioni di persone il diritto di costruirsi una seconda pensione.
Abbiamo già eliminato molte regole e vincoli,
per dare alla gente maggiore possibilità di scelta
e maggiore flessibilità in materia di risparmi.
C’è ancora molto da fare e, sulla base del rapporto della Commissione Turner, avanzeremo
proposte per affrontare sistematicamente questi
temi. La quinta nuova sfida è la sanità pubblica.
I progressi della tecnica medica e della tecnologia sono la chiave per curare molte malattie e
infermità. La Gran Bretagna è all’avanguardia
in questi progressi, e siamo determinati a continuare ad esserlo, compreso nel settore della ricerca sulle cellule staminali. Ma la tecnologia
non è l’unica soluzione. Molte malattie derivano
da fattori determinati dallo stile di vita, come il
fumo e l’obesità causata da diete non salutari e
mancanza di esercizio fisico. Trovare un equilibrio tra un sistema di sanità pubblica avanzato e
il non interferire indebitamente nelle scelte di
vita non è mai facile; ma generalmente si concorda che possiamo sicuramente fare qualcosa
per combattere in particolare il fumo e l’obesità,
promuovendo la salute tra i teenagers così come
tra gli adulti.
Proprio questo sarà lo scopo del Libro bianco
sulla sanità che pubblicheremo prossimamente:
rendere più facile fare scelte salutari riguardo alla dieta, al vivere e lavorare in ambienti senza
fumo, al fare più esercizio fisico. Porremo particolare attenzione nello sviluppo di misure che
proteggano i bambini dalle pressioni a compiere
scelte non salutari ad esempio da quelle che provengono da pubblicità eccessiva di cibi ad alto
contenuto di zuccheri, sale o grassi.
Sesta sfida: la sicurezza in un mondo in cambiamento. Questo tema non comprende solo i
cambiamenti di struttura della giustizia penale
già descritti prima, ma anche la creazione di infrastrutture completamente nuove attraverso
l’istituzione di carte di identità e la registrazione
elettronica di tutti quelli che entrano nel nostro
paese. Una volta adottati, questi provvedimenti
ridurranno i costi della criminalità e dell’immigrazione clandestina ed è un classico esempio
di moderne regole di accoglienza che un cittadino abbia dei doveri così come dei diritti. Inol-
tre, mi sto sempre più convincendo che non può
esserci una soluzione duratura ai principali problemi di sicurezza senza un approccio differente
verso l’abuso di alcool e droghe. Sono favorevole a misure severe per combattere entrambi
questi fenomeni. Ma la verità è che la punizione
da sola non può funzionare. Trent’anni fa, l’abuso di droga aveva una priorità bassa nella lotta
contro i più diffusi problemi di sicurezza e responsabilità sociale. Ora invece ha un ruolo centrale, e anche l’abuso di alcool sta diventando
un fatto sempre più preoccupante. 300.000 bambini crescono con uno o entrambi i genitori dipendenti da droghe; metà della criminalità è legata alla droga. Sotto questo governo, il numero
di centri di recupero è aumentato a più di 50.000
da quando nel 1998 ci prefiggemmo di duplicare
la loro capacità di accoglienza; test e cure per i
delinquenti saranno previsti in tutte le 100 aree
a più alto tasso di criminalità entro la fine del
prossimo hanno; stiamo raddoppiando i fondi
che spendiamo per il recupero di ogni tossicodipendente e la nuova SOC Agency avrà come
scopo prioritario la lotta al commercio di stupefacenti.
Ma credo che ancora non abbiamo raggiunto
il cuore del problema. C’è l’enorme sfida di for-
nire una infrastruttura nazionale interamente
nuova capace di combattere efficacemente tutti
i fenomeni legati alle droghe: i grandi trafficanti,
i piccoli spacciatori di quartiere, i 280.000 consumatori abituali di eroina o crack, l’alta percentuale di carcerati tossicodipendenti. Sesta sfida:
il problema della casa. La nostra strategia mostrerà come intendiamo proporre nuove soluzioni sia per i proprietari sia nell’incremento di case
popolari.
Con riguardo a tutte le aree che ho evidenziato, pubblicheremo strategie politiche nei prossimi mesi. Ciascuna di esse, insieme con i progetti di riforma dei pubblici servizi che abbiamo
pubblicato in luglio, formeranno la base del manifesto per il nostro terzo mandato, e saranno
seguite, se il popolo ci eleggerà, da una serie di
leggi di riforma in ciascuna area. Bene, ecco
una vasta agenda di cambiamenti da mettere in
atto. Tutti accomunati dalla consapevolezza che
il mondo moderno esige nuove soluzioni per
nuove sfide; tutti basati sulla convinzione che
la gente di oggi voglia il potere di decidere della
propria vita nelle proprie mani, non in quelle
del governo o di uno stato antiquato. s
Tony Blair
■ 2003 - NUMERO 11
IL SOCIALISMO DI CRAXI
E IL DISSOLVIMENTO COMUNISTA
Ugo Finetti
C
ontro ogni previsione la cacciata
da Palazzo Chigi non segnò
l’inizio del “dopo Craxi”: egli
non solo finisce per incombere ancor di più sulla
DC e sugli equilibri politici nazionali, ma accumula “titoli” - garantendo la governabilità ed il
completo svolgimento della legislatura per la
prima volta dal 1968 - per diventare in quella
successiva il candidato unico di una maggioranza parlamentare senza alternative. La conquista
di questa posizione determinante vede coincidere in lui abilità e ingenuità. Sin dall’indomani
della perdita di Palazzo Chigi riesce a trasformarsi da preda in cacciatore assumendo il ruolo
di “dominus” dal cui gradimento dipende ogni
futura candidatura democristiana a primo ministro. Ma non avvertirà mai il crescere e la consistenza della reazione furibonda che provoca la
sempre più certa prospettiva del suo ritorno alla
Presidenza del Consiglio.
Il “duello” con De Mita
La prima fase è il periodo che va dalla sua sostituzione con Fanfani alla caduta del Muro di
Berlino: non sarà il PSI a cambiare segretario,
ma la DC e il PCI.
All’inizio la rottura tra DC e PSI sembra infatti favorire il ritorno a un quadro politico in cui
è determinante il rapporto tra DC e PCI in quanto ormai protagonisti l’uno dello schieramento
governativo e l’altro dell’opposizione. Ma la
campagna elettorale vede ancora una volta decisamente in secondo piano il PCI rispetto al PSI
come antagonista della DC.
Viene organizzata per l’occasione una sorta di
mini-scissione al fine di presentare il PSI come
una formazione degenerata da cui i “veri socialisti” fuggono verso il PCI che si atteggia sempre più a partito unico della sinistra. Aderiscono
all’appello delle Botteghe Oscure in particolare
Antonio Giolitti, l’ex direttore di “Mondoperaio” Federico Coen e l’ex direttore dell’“Avanti!”
e storico del PSI, Gaetano Arfé che accettano di
fare i parlamentari “indipendenti” del PCI. Ma
il voto antidemocristiano si riversa sul PSI (che
al Senato presenta anche candidature comuni
con socialdemocratici e radicali) sommandosi a
quell’“effetto Palazzo Chigi” che si era già prodotto per un laico nell’83.
Craxi si avvicina al 15 per cento conseguendo
la percentuale che avevano nel ’68 il PSI e il
PSDI unificati, mentre il PCI, che nell’84 aveva
raggiunto il massimo storico ora scende al di
sotto del 1968. Per le Botteghe Oscure è uno
choc: sembrano azzerate speranze governative
e rivoluzionarie che erano variamente convissute nell’animo di militanti e dirigenti per vent’anni. A indebolire la prospettiva di un’intesa DCPCI concorre anche la secca sconfitta del PRI
che scende dal 5.1 al 3.7 per cento. Le aspirazioni repubblicane sono quietate con l’appoggio
socialista alla candidatura di Spadolini alla Presidenza del Senato che con la riconferma della
Jotti a Montecitorio segna l’assenza per la prima
volta dei democristiani dai vertici delle Camere.
La DC è così ripiombata nella morsa dell’alleanza conflittuale di stampo craxiano. Il PSI è, al
tempo stesso, principale antagonista e necessario interlocutore con De Mita costretto a chiedere i suoi voti per assicurare un futuro alla legislatura dopo aver provocato le elezioni anticipate e per riguadagnare alla DC la Presidenza
del Consiglio da cui ha sfrattato il leader socialista. Il PSI è invece più che mai con le mani libere non solo nelle alleanze locali, ma anche in
quelle nazionali. Martelli da tempo ha posto il
partito alla testa dello schieramento referendario
su nucleare e giustizia e così la DC, dopo aver
dichiarato al paese di preferire le elezioni anticipate per non far celebrare i referendum, deve
affrontarli in autunno isolata e sapendo di perdere. Da parte sua il PSI si presenta come l’animatore di un’area che coagula verdi e radicali
insieme a liberali e socialdemocratici. De Mita
CRITICAsociale ■ 19
12 / 2012
non ha alternative e deve chiedere i voti
dell’“inaffidabile”, subendo il veto sulla propria
candidatura ed accettando il compromesso di
una soluzione transitoria con Goria.
Il segretario della DC tenta allora di far rientrare il PCI in qualche modo nel quadro delle decisioni parlamentari ed avvia le consultazioni sul
tema delle riforme istituzionali. Nel gennaio
1988 ha luogo, non senza solennità, l’incontro
tra le due delegazioni con De Mita e Forlani presidente del Consiglio Nazionale della DC che ricevono Natta, Occhetto, Tortorella e Pecchioli. Il PCI accetta di aiutare l’ascesa di De
Mita incoraggiandolo a porre la riforma istituzionale come priorità di governo e quindi in Parlamento accentua l’opposizione a Goria sulla
legge finanziaria. E’ Occhetto in febbraio, mentre il governo è agli stremi, a spiegare che è possibile un accordo con la DC di De Mita senza
contraddire la proposta ufficiale dell’alternativa
di sinistra. Non si tratta di due linee diverse - sostiene Occhetto -, ma di tappe successive in
quanto il governo De Mita può aprire una “nuova fase”. Il Pci usa l’alternativa solo come pressione sul PSI per una rottura del centro-sinistra
in modo da riaprire la strada ad una sua alleanza
con la DC. A questo punto Craxi accetta De Mita, ma lo costringe a rompere con il PCI proprio
sul terreno delle riforme istituzionali. Il primo
impegno che infatti il PSI impone in materia nelle trattative per il nuovo governo è l’abolizione
del voto segreto nelle leggi finanziarie. Non solo
così l’irpino viene costretto allo scontro frontale
con il PCI, ma stando a Palazzo Chigi deve poi
cedere la guida del partito proprio a Forlani, al
leader che ha sempre guardato con maggior favore a Craxi e ostilità al PCI (nel 1979 fu l’unico
nella Direzione democristiana a non condividere
il veto all’incarico affidato da Pertini a Craxi).
Indebolito dallo scontro con il PCI, dopo la perdita della segreteria il governo De Mita sopravvivrà pochi mesi.
PSI e PCI verso il crollo del muro di Berlino
Chiusa la prospettiva di possibili intese con la
DC, il PCI - dibattuto tra arroccamento e socialdemocratizzazione - sceglie di aggrapparsi a
Gorbaciov. E Craxi lo incalza proprio su questa
contraddizione di fondo per cui il massimo di
innovazione si configura come un ritorno all’antico legame diretto con il Cremlino. A fine marzo 1988 Natta insieme a Napolitano si reca a
Mosca per essere decorato dal Presidente del
Presidium del Soviet Supremo, Andreij Gromiko, della Medaglia d’onore del PCUS, l’Ordine
della Rivoluzione d’Ottobre. Non era stata dichiarata esaurita la “spinta propulsiva”? Ai giornalisti che gli chiedono se lo “strappo” di Berlinguer sia confermato il segretario del PCI replica: “Le sentenze e i giudizi della storia non
sono mai senza appello”1.
Nello stesso periodo il PCI riallaccia i rapporti
non solo con il KGB, ma anche con la Stasi ed
è sempre Natta a ricevere dal leader della Germania dell’Est, Honecter, una delle massime
onorificenze del regime, il Premio Karl Marx.
“Il rinnovamento a Mosca - commenta Ugo
Intini sull’“Avanti!” -avrebbe potuto spingere il
PCI a realizzare al suo interno un rinnovamento
ancor più incisivo, ampliando la revisione, l’occidentalizzazione, l’analisi critica della propria
storia. Eppure - conclude Intini -mentre il partito
sovietico ha accettato due volte, con Krusciov e
con Gorbaciov, la rottura della continuità storica
e la denuncia critica del proprio passato, il PC
italiano, il più occidentale tra i partiti comunisti,
non si è mai spinto a tanto”2. Il fatto che le Botteghe Oscure siano più continuiste del Cremlino
esplode con la polemica derivante dalle riabilitazioni in URSS delle vittime - da Bucharin a
Radek -dei processi del Grande Terrore tra il
1936 e il 1938. Il tema delle “corresponsabilità”
di Togliatti era stato sollevato dallo stesso Gior-
gio Amendola nel 1961 dopo il rilancio della destalinizzazione da parte di Krusciov al XXII
Congresso. Togliatti reagì seccamente: “Il compagno Amendola è troppo provinciale, bisognerebbe mandarlo di più nei paesi dell’est”. “La
considerai come la minaccia di una punizione
personale” ebbe a ricordare Amendola3 e l’argomento nel PCI non venne più adombrato.
Nella primavera dell’88 Craxi, dopo un dibattito sul ruolo di Togliatti che si sviluppa sulle colonne di giornali e riviste, promuove un convegno di “Mondoperaio” sul tema “Lo stalinismo
e la sinistra italiana” nell’intento di trattare l’argomento non come attacco del PSI al PCI, ma
in termini di riflessione autocritica sul passato
comune e mettendo in discussione anche le
“corresponsabilità” del PSI. Gli storici di area
comunista - con l’eccezione di Gastone Manacorda - rifiutano ogni invito. Ma Craxi coinvolge studiosi come Vittorio Strada ed in particolare
quelli dell’area repubblicana che è tradizionalmente la più dialogante con il PCI: presiede Giuseppe Galasso e la relazione d’apertura è di Leo
Valiani che riconoscendo il contributo dato da
Togliatti nel dopoguerra aggiunge però che non
può essere considerato “un maestro della democrazia, come invece è stato Saragat”. Vittorio
Strada nella sua relazione definisce lo stalinismo
“la fase suprema del marxismo realizzato”. Craxi da parte sua sembra cercare il “dialogo”. Critica gli “eccessi linguistici” che si sono registrati
nella polemica (come l’aver chiamato Togliatti
“carnefice”) e sottolinea che anche nel PCI è superato il tempo del culto del “Migliore” ricordando che “all’ultimo congresso del PCI, a Firenze, ho notato che Togliatti non è mai stato citato”4. Spera di trovare una sponda negli esponenti che sembrano meno continuisti come i
“miglioristi” di Napolitano e lo stesso Occhetto.
Ma la reazione dell’intero PCI è di chiusura. Per
i “miglioristi” Cervetti interviene in via riservata
chiedendo l’interruzione di una polemica che li
mette ulteriormente in difficoltà, mentre Occhetto difende la memoria di Togliatti con l’argomento che “solo offuscare il ruolo di fondatori
della democrazia italiana svolto dai partiti di Togliatti e di Nenni, all’epoca accomunati nella
stessa prospettiva storica, porterebbe di fatto ad
affermare che l’unico padre di questa democrazia è stato Alcide De Gasperi”5.
Né da Mosca il PCUS manca di scendere in
campo a difesa del lavoro svolto da Togliatti in
URSS con interventi di Fiedrich Firsov dell’Istituto per il marxismo leninismo di Mosca e di
Serghei Vasiltsov dell’Accademia delle Scienze
dell’URSS. In particolare i sovietici sostengono
che Togliatti si sarebbe dichiarato d’accordo con
Dimitrov nel non far incriminare un loro collaboratore polacco. E’ l’unico caso che possono
citare: anche a loro non risulta alcun intervento
a favore di un italiano.
La reazione comunista alle critica di Togliatti
è quindi aspra e compatta da Napolitano a Petruccioli fino al segretario della FGCI Pietro Folena a cui si aggiungono gli intellettuali da Giuseppe Vacca a Michele Serra.
Se i comunisti disertano i convegni socialisti,
i socialisti al contrario partecipano a quelli del
PCI. Craxi insistendo nella ricerca di dialogo
con Napolitano e Occhetto segue i lavori del
Convegno da loro organizzato nell’aprile 1988
sul PCI e l’Europa. A intervenire per il PSI sono
De Michelis e i ministri Renato Ruggiero e La
Pergola, mentre Martelli dalle colonne del “Manifesto”6 auspica “la creazione di una grande novità politica: un processo di unità che impegni
tutte le forze di progresso laiche-democratiche,
socialiste-democratiche, comuniste-democratiche” insieme alla componente radicale e ambientalista. A suscitare in Craxi la speranza di un
miglioramento di rapporti tra PSI e PCI giunge
in giugno la sostituzione di Natta con Occhetto.
Natta era stato colpito da un malore, ma a deci-
derne la sorte politica sono le elezioni amministrative di fine maggio in cui il PCI arretra ed il
PSI quasi lo raggiunge. “C’è un’analogia del
PCI con la situazione del PSI nel ‘76 - dichiara
Occhetto - anche noi siamo nella situazione che
ci impone di delineare un ‘nuovo corso’, il nuovo partito comunista”. L’elezione del segretario
del PCI è comunque ancora una volta plebiscitaria - 286 a favore 3 contrari e 5 astenuti - e
manca un aperto confronto tra posizioni alternative. Ma Craxi assume un atteggiamento di netta
apertura e nel PCI non ricerca più interlocutori
alternativi alla segreteria Occhetto. Conserva
sempre il ricordo di quando erano a Milano insieme alla guida dei giovani del PSI e del PCI
ed Occhetto era impegnato nel gruppo “eretico”
che faceva capo al filosofo Antonio Banfi in polemica con l’“hegelismo napoletano” allora prevalente nel PCI nazionale. Un dialogo in effetti
si apre e da parte socialista non ci sono più polemiche nei confronti del vertice del PCI se non
quelle di “routine” determinate dalla diversa collocazione parlamentare.
Nel gennaio 1989 la ricorrenza del bicentenario della Rivoluzione francese vede un avvicinamento nel momento in cui Occhetto rifiuta
l’eredità del giacobinismo in quanto “aveva in
sé le radici del totalitarismo”7. L’affermazione
suscita l’irritazione di parlamentari comunisti
quali Massimo Cacciari che insistono nel difendere Robespierre in coppia con Togliatti, ma
consolida nel PSI la convinzione che si possa
aprire una stagione positiva tra i due partiti.
Le nubi tornano però quando in primavera
Occhetto deve affrontare il primo congresso da
segretario. Le resistenze al suo “nuovo corso” e
in particolare alla distensione tra PSI e PCI sono
diffuse sia nelle generazioni che temono di essere “pensionate” sia tra gli stessi seguaci del segretario quasi tutti formatisi nella FGCI degli
anni ‘70 e inizio ‘80 con l’incubo della “socialdemocratizzazione”. Quindi Occhetto ripete la
scelta di Natta: rinnovarsi significa - ancora una
volta - “fare come in URSS”. Alla vigilia dell’assise il segretario comunista si reca al Cremlino come per ostentare un “imprimatur” alla
svolta ed il XVIII Congresso del PCI diventa
una delle più grandi manifestazioni fìlosovietiche con il video del saluto di Gorbaciov proiettato in apertura alla platea dei delegati. Il leader
del Cremlino è citato decine di volte. L’URSS è
ancora lo “Stato guida”: solo ancorandosi a Mosca si può aver ragione.
A quanti avevano sostenuto la tesi di cambiar
nome, Occhetto replica con la proposta che fu
di Longo e Bufalini nel ‘65 secondo cui il PCI
può chiamarsi diversamente solo nella prospettiva di unificarsi con altri movimenti per creare
il partito unico della classe operaia italiana. E
quindi nella relazione d’apertura il 19 marzo definisce il termine ‘comunista’ “il più nobile e alto riconoscimento della libertà umana, scritto da
un grande uomo”. È così che mentre l’Impero
sovietico era già scosso da venti di crisi nel Congresso del 1989, Occhetto tenta una sorta di “pulizia etnica” verso la destra riducendone al minimo la presenza nei nuovi organismi dirigenti.
Il dissolvimento del comunismo
Il cambio del nome maturerà solo all’unisono
con quanto avviene ad Est. Già prima del crollo
del Muro di Berlino Occhetto è in Ungheria dove i comunisti decidono di abbandonare la denominazione di “Repubblica popolare” e di
cambiar nome al Partito e nello stesso Comitato
Centrale del PCUS l’argomento è ormai all’ordine del giorno. Del resto il rituale seguito da
Occhetto è ostentamente un’imitazione del modello moscovita. Come Gorbaciov ha scelto
l’assise dei veterani sovietici per delineare il suo
progetto innovatore, così il segretario del PCI
decide di informare la base del Partito parlando
simbolicamente in una analoga assise di “vete-
rani” ossia alla commemorazione degli scontri
della Bolognina promossa dall’Associazione
Nazionale Partigiani Italiani. Il suo intervento è
involontariamente - ma testualmente - “gattopardesco”: “Se vogliamo conservare tutto il valore della vostra battaglia bisogna cambiare tutto”. “Anche il nome?” gli chiede un giornalista.
“Anche il nome” risponde. Quindi convoca la
segreteria nazionale per ratificare la decisione,
ma non vuole alcuna differenziazione. Valgono
ancora i rituali del centralismo democratico.
“Basta che uno solo dica no - dichiara -che allora mi fermo”. “Io ebbi l’unanimità - ricorda - altrimenti non sarei andato avanti”.8 In questa
convergenza unanimistica il cambio del nome è
vissuto e costruito come se fosse un passaggio
alla clandestinità. Occhetto oggi riconosce che
“la stragrande maggioranza” dei dirigenti erano
ancora “consumati togliattiani” e cioè “ritenevano che ci si dovesse piegare agli eventi e all’ineludibilità delle circostanze”9.
Lotta alla droga e presidenzialismo
In quella fine 1989 Craxi - di ritorno da Washington dove oltre al Presidente Bush ha incontrato anche William Bennet, che guida l’Ente per
la lotta alla droga - riprende il tema che aveva
già trattato al Congresso di Verona. La campagna contro “il fenomeno distruttivo della droga”
- aveva sostenuto nell’84 - richiede oltre alla lotta alla criminalità organizzata anche “una mobilitazione morale che deve partire dal basso e
coinvolgere l’azione delle famiglie”. Non è una
iniziativa estemporanea anche se finisce così al
centro di violenti attacchi personali. Cessa il
fiancheggiamento con i radicali e guarda al
mondo cattolico. Non si tratta però del “dialogo
con i cattolici” rivolto al Vaticano o alla DC, inteso come lasciapassare governativo, ma di un
riposizionamento elettorale dello stesso PSI.
Come era già emerso dalla conferenza di Rimini il PSI con Craxi è andato approfondendo
l’attenzione verso determinati settori e filoni culturali del mondo cattolico. Tutta la politica imperniata sull’imprenditorialità diffusa, sul localismo, le nuove professioni ed il terziario, caratteristica poi degli anni di Palazzo Chigi, in alternativa al tradizionale primato del rapporto
sindacato-grande capitale recepisce le analisi sociali dell’intellettualità riunita da De Rita nel
Censis, così come la stessa piattaforma su cui si
determina lo scontro con i comunisti della CGIL
valorizza soprattutto le tesi più innovative della
CISL di Carniti e Tarantelli.10
Per Craxi ceto medio, stato sociale e famiglia
sono tre questioni fortemente correlate. Si impegna sul terreno della lotta alla droga proprio
perché il dramma della tossicodipendenza giovanile lo evidenzia ed il suo obiettivo è - oltre
ad incoraggiare la lotta alla criminalità organizzata nel settore - dar vita a una rete di assistenza
e di campagna preventiva aiutando famiglie e
associazioni.
Contemporaneamente rilancia le riforme istituzionali, ma sempre più insistendo sul presidenzialismo e, consapevole del muro DC-PCI
in materia, sfida i partiti maggiori nel rapporto
diretto con l’elettorato: si concentra sulla proposta del referendum propositivo per istituire l’elezione diretta del capo dello stato. Antonio Landolfi riepilogando le proposte di riforma istituzionale avanzate da Craxi al XLV congresso
svoltosi a Milano nella sala dell’ex fabbrica Ansaldo dal 13 al 18 maggio 1989 osserva: “Nella
scelta tra il modello gollista, ereditato poi da
Mitterrand, contrassegnato da una presidenza
forte e da un’istituzione parlamentare debole, ed
il modello statunitense, nel quale la forza centralistica della presidenza viene controbilanciata
da un forte ed onnicomprensivo controllo parlamentare, il PSI appare decisamente orientato
verso questo secondo”.11 È così che il legame
tra presidenzialismo e federalismo diventa per
20 ■ CRITICAsociale
il PSI organico. Il presidenzialismo non nasce
in Craxi da narcisismo: per una forza tutto sommato modesta che può al massimo realisticamente superare il 15 per cento l’unica strada per
evitare il “bipartitismo imperfetto” è la formazione di un’aggregazione elettorale con i partiti
laici e parte del mondo cattolico che si insedi
con forza nella posizione centrale. Riforma istituzionale, proposta legislativa e lotta politica
hanno in lui una logica unitaria.
Inoltre è un modo per accentuare la sua campagna contro l’egemonia del marxismo nel campo della cultura politica. Il marxismo del PCI
con le sue formule sullo Stato come mera sovrastruttura e con la barbara e devastante distinzione tra “democrazia formale” e “democrazia sostanziale” mostra appunto tutta la sua arretratezza nel dibattito sulla modernizzazione della rappresentanza. Il Centro per la Riforma dello Stato
del PCI con Pietro Ingrao presidente è avvitato
sul rapporto Masse e Istituzioni e cioè su come
le istituzioni borghesi possano essere anche democratiche grazie all’azione di massa e alla vigilanza rivoluzionaria. Con Craxi tematiche e
autori ignorati o tenuti ai margini - espressione
soprattutto della tradizione liberale - vengono riscoperti, citati e rompono il monopolio della letteratura marxista. Il revisionismo italiano negli
anni ‘80 si configura appunto come capacità di
recuperare autori liberali che i comunisti avevano per decenni identificato con il nazismo e il
fascismo. In quegli anni la reazione della DC e
del PCI al delinearsi sempre più concreto della
possibilità di un referendum propositivo sul presidenzialismo è parallela, speculare e solidale:
riformare la legge elettorale dando vita a due
schieramenti rispettivamente egemonizzati
spazzando via la posizione centrale che sta costruendo Craxi.
Il punto di svolta è sintetizzato da Mario Segni nel maggio T989 mentre il PSI dal Congresso dell’Ansaldo aveva posto come impegno
prioritario la legge per il referendum prepositivo. “DC e PSI - afferma Segni - hanno una strategia in conflitto, dato che ognuno dei due aspira
a una posizione di leadership. Le strade possibili
per affrontare la crisi istituzionale sono due: o il
sistema presidenziale o il rafforzamento del sistema parlamentare attraverso una legge elettorale maggioritaria con il collegio uninominale”12. A favore del presidenzialismo di Craxi che
- come è stato sottolineato da Giuseppe Bedeschi - si richiama alla posizione sostenuta da
Piero Calamandrei alla Costituente, si schiera in
particolare lo storico liberale Rosario Romeo.13
Il presidenzialismo di Craxi è infatti la logica
conseguenza della polemica sviluppata contro il
“compromesso storico”.
Tra PCI-PDS e inesistenza del CAF
Da Botteghe Oscure inizia quindi la convergenza verso Segni e il maggioritario. Quando
nel marzo del ‘90 Craxi rilancia il referendum
propositivo (anche per singole leggi onde ovviare alla lentezza con cui il Parlamento procede
sulla nuova normativa contro la droga) così replica Bassanini che è diventato l’esperto di Occhetto in materia:n “La proposta di un referendum propositivo sulla ipotesi di riforma costituzionale avanzata da Craxi a Rimini non può non
suscitare serie perplessità e riserve. C’è il rischio
di un uso in senso plebiscitario o cesaristico di
referendum”14.
Nel marzo 1990 si svolge a Bologna il XIX
Congresso del PCI con 3 mozioni - Occhetto,
Ingrao-Natta, Cossutta - sul tema del fare o meno un nuovo partito. Occhetto affronta i delegati
ossessionato dal timore di essere contestato da
sinistra. Ingrao sembra avere diritto di veto e al
suo luogotenente Antonio Bassolino viene affidato un ruolo determinante di cerniera tra i dissidenti di sinistra e la segreteria. D’Alema - che
è già numero due del Partito - si atteggia a ga-
12 / 2012
rante della continuità e sostiene la tesi di un’“autoriforma-inglobamento” del PCI che eviti scissioni a sinistra.
Craxi presenzia al Congresso evitando interferenze interne. Ritiene irrealistica la proposta
di un’alternativa globale alla DC, ma continua
a ricercare un’intesa e propone ad Occhetto l’alleanza per andare su una piattaforma comune a
un negoziato con la DC. Ancora il 22 marzo
1990, alla Conferenza programmatica del PSI a
Rimini, Craxi incontra D’Alema e Veltroni e
sollecita un accordo. È quindi falsa la versione
di un Craxi arroccato nel recinto del cosiddetto
CAF - con Andreotti e Forlani - per escludere il
PCI. In particolare è proprio sul tema della
“Grande Riforma” che il CAF mostra la sua inesistenza. Andreotti - da Presidente del Consiglio
-prende posizione contro Craxi e con una nota il 22 maggio 1990 -afferma che “non crede alla
possibilità di realizzare la Grande Riforma proposta dai socialisti in tempi brevi”, per lui “sono
possibili alcune riforme istituzionali, soprattutto
quella elettorale” con riferimento positivo alla
iniziativa di Segni. Ed in dicembre Forlani a
proposito della proposta di Craxi bolla come
“pericolose” in materia costituzionale “consultazioni che abbiano carattere di emotività” come
il referendum propositivo sulla repubblica presidenziale. “Le preoccupazioni di Forlani che teme la troppa emozionalità dei referendum - gli
replica Craxi il 15 dicembre 1990 - suscitano la
nostra ilarità e ci fanno venire in mente la Madonna pellegrina”.
L’orizzonte di Craxi non è quindi quello di
chiudersi nel rapporto con la DC di Andreotti e
Forlani. Tra 1’89 e il ‘92 sono ripetute le polemiche in cui si irride agli “accordi biblici” quando la DC chiede l’impegno per prospettive rigidamente di pentapartito, così come Craxi stesso
insiste sul divario tra “società veloce” e “stato
lento” contro il “tirare a campare” teorizzato da
Andreotti. E’ del maggio 1990 l’intervista a
Scalfari in cui Craxi assume una posizione di
aperto incoraggiamento ad una evoluzione del
PCI (proprio il 3 maggio nel momento di massimo scontro tra Berlusconi e De Benedetti per
la Mondadori). Craxi respinge l’accordo strategico con la DC contestando che la DC “ha sempre governato al centro, cercando di mantenere
un ruolo egemone, aggregandosi di volta in volta pezzi di opposizione e digerendoli” e lamenta
che con il PSI durante il centro-sinistra degli anni sessanta e settanta “ci era andata vicina”,
ma,la ragion d’essere della sua segreteria dal
1976 è stata appunto il rifiuto di considerare inevitabile la centralità della DC. Quindi rivolto al
PCI dichiara che dopo la caduta del Muro di
Berlino “la situazione è in via di cambiamento.
A me pare che ora esistano le condizioni per un
superamento delle divisioni delle sinistre italiane”. E lo stesso Scalfari conclude favorevolmente l’intervista salutando Craxi-Garibaldi con un:
“Mi scappa di dire: forza generale!”.
Inoltre la tesi del Craxi-Caf con una sorda
chiusura verso la crisi comunista è smentita dal
suo comportamento in occasione della Guerra
del Golfo. Dall’agosto del 1990 fino al febbraio
1991, quando si svolge il congresso di Rimini
che segna la trasformazione del PCI in PDS, il
conflitto in Iraq è infatti per il PCI “il tema dominante”.15 Ma a Rimini il PCI si trasforma in
PDS senza fare i conti con il proprio passato16:
si dichiarano non più comunisti evitando però
di rivedere i giudizi sul PCI e del PCI. Il comunismo è considerata un’esperienza superata, ma
non sbagliata. Il PCI ufficializza così il cambio
del nome e del simbolo evitando qualsiasi richiamo al “socialismo europeo e occidentale”.
Il Congresso del ‘91 si svolge pertanto sullo
sfondo di un ‘revival’ dell’antiamericanismo. La
conclusione è un Occhetto che, dopo aver guidato la trasformazione del PCI con l’occhio fisso
su Mosca e sulla sinistra interna, esce indebolito
e umiliato - non rieletto nella votazione segreta
- ed ancor più condizionato dalla sinistra e dall’apparato controllato da D’Alema che si atteggia a garante del continuismo.
Craxi però non polemizza, ne cerca di contrapporre l’impegno del PSI nel campo occidentale alla posizione del PCI-PDS ancora schierato
con l’URSS contro l’intervento militare sotto
l’egida dell’ONU.17 Proprio nel febbraio 1991
Craxi ridimensiona le differenze di fronte al
conflitto con un appello comune insieme ad Occhetto contro il coinvolgimento della popolazione civile. Ancor più decisamente rifiuta la contrapposizione con il PCI-PDS quando, nelle settimane successive, si apre la crisi di governo e
nel PSI è forte la pressione per le elezioni anticipate. Non solo per i sondaggi nettamente favorevoli l’occasione appare chiaramente propizia. E’ infatti al massimo la tensione tra Cossiga
e la DC ed il PCI-PDS appare ancora barcollante
e antioccidentale, mentre il PSI, con De Michelis “coordinatore” dei paesi europei impegnati
nell’intervento dell’ONU, non può essere tacciato di equivocità. Ma Craxi impone il rientro
della crisi con un nuovo governo Andreotti. Forse fu un errore, infatti va incontro al referendum
sulla abolizione della preferenza unica. Giuliano
Amato ricorda che Craxi non volle lo scioglimento anticipato delle Camere proprio per dar
modo a Occhetto di meglio prepararsi alle elezioni politiche in quanto il leader del PSI non
era affatto ostile all’evoluzione del PCI-PDS18.
Ma il referendum sottrae a Craxi il primato
nelle riforme istituzionali. Il PSI aveva cercato
di svuotarlo alla vigilia proponendo in aprile
l’apertura di un processo costituente, ma la prima reazione negativa fu proprio del PCI-PDS
che attraverso una dichiarazione di Gavino Angius, coordinatore politico del partito, drammatizza lo scontro con il PSI accusandolo di “attacco alla democrazia parlamentare” e di “attacco ai valori fondativi della Repubblica”. Si arriva così al caso Craxi-Hitler. Il Presidente della
Corte Costituzionale, Ettore Gallo, alla vigilia
del voto referendario parlando a Bologna dalla
tribuna del Congresso dell’Anpi nel richiamarsi
all’intoccabilità della Costituzione fondata “sul
sangue della Resistenza” si lancia in una dura
requisitoria contro Craxi: lo accusa di voler modificare la Costituzione per fare dell’Italia la
Germania in cui “il gran capo plebiscitato era
Hitler”. L’enormità è tale che dal Quirinale Cossiga deve fare una dichiarazione in difesa del
PSI e del suo segretario, ma il Craxi-Hitler è ormai un’icona dell’antifascismo postcomunista.
Sull’esito per il PSI negativo di quella consultazione referendaria del ‘91 influì soprattutto il
venir meno della DC agli impegni presi. Segni
presentò infatti il voto come l’occasione offerta
al proprio partito e ai centristi delle altre forze
politiche per un pronunciamento contro la perdita della presidenza del consiglio de. Era un appello invitante anche a sinistra per tutti gli antisocialisti dai comunisti ai radicali antiproibizionisti. Il rapporto con i radicali era definitivamente perso in conseguenza della tesi sullo sbarramento al 5 per cento e della legge contro la droga; a nulla era valsa la successiva proposta di
Craxi di diminuire il numero dei deputati a 400
che equivale a uno sbarramento del solo 3,5 per
cento.
Dopo il risultato Craxi commenta: “Se questo
significa che il paese desidera a gran voce che
si ponga mano a riforme radicali delle istituzioni
e del sistema politico, allora noi siamo della partita. Se invece crescono le voci di un attacco
qualunquistico ai partiti, noi non ci uniamo al
coro”. Ma ormai il contrasto si radicalizza ed è
evidenziato dal dibattito parlamentare che si
svolge nel luglio 1991 dopo il messaggio di
Cossiga alle Camere (che Stefano Rodotà definì
“un attentato alla Costituzione”) per la revisione
dell’alt. 138 della Costituzione ed il conferimen-
to di poteri costituenti alla prossima Camera o
elezione di un’assemblea costituente: da un lato
il PSI per il presidenzialismo espressione di una
coalizione riformista che dreni consensi da destra e da sinistra e dall’altro DC e PCI-PDS per
un maggioritario che veda i due partiti primeggiare in opposte coalizioni. Occhetto è ormai
completamente allineato sulla posizione democristiana: “In primo luogo - afferma - noi siamo
per dare un potere in più ai cittadini, il potere di
designare in modo diretto la coalizione”. Il PSI
invece contrasta frontalmente la proposta di riforma elettorale presentata dalla DC.
Giuliano Amato, vicesegretario del PSI, parlando alla Camera il 25 luglio la paragona alla
legge Acerbo che spianò la strada al regime fascista: “Quella legge prevedeva il premio di
maggioranza per chi avesse raggiunto il 25 per
cento dei voti e la preferenza unica da esprimere
solo con il cognome. La semplificazione del premio di maggioranza non è una soluzione, ma il
ritorno all’indietro. Non entro nel merito, del resto - concluse Amato - gli argomenti contro questa impostazione furono già espressi nel ‘23 durante la discussione sulla legge Acerbo”. E Valdo Spini, sottosegretario all’Interno, commenta:
“La verità è che il PDS in questi anni è mancato
all’appuntamento con la Grande Riforma delle
istituzioni, un appuntamento che avrebbe potuto
qualificare fortemente le forze della sinistra. Ha
preferito avere un atteggiamento che, di fatto, in
Parlamento, è stato conservatore”.
Il logoramento
Ma un sostanziale e generale logoramento deriva dalla posizione che Craxi ha assunto dalle
ultime elezioni politiche vestendo al tempo stesso i panni di spettatore e di protagonista. La sua
politica dal 1987 è cioè basata sulla distinzione
tra governabilità e governo. Da un lato si impegna a garantire la stabilità, ma dall’altro ostenta
distacco verso la vita quotidiana del governo; se
il governo a guida democristiana appare di basso
profilo e poco produttivo tanto più - spera emergerà la positività del suo ritorno a Palazzo
Chigi. Ma con il continuo cambiare di segretari
della DC e di presidenti del Consiglio, Craxi finisce per essere identificato - anche se involontariamente - come l’unico e vero punto fermo,
il principale responsabile di un’azione di governo da cui invece si sente del tutto disimpegnato.
Quella distinzione per lui politicamente fondamentale tra governo e governabilità finisce quindi per non essere percepita e condivisa dall’opinione pubblica. Il “vento” è anche cambiato da
parte del potere economico che all’inizio degli
anni ‘80, aveva seguito con favore la sua politica
di stabilità politica e di risanamento finanziario.
Ora il suo ritorno a Palazzo Chigi è visto invece con avversione, si configura come la riaffermazione di una centralità del potere politico
e di riflesso dello Stato. Alla sua pretesa di “dialettizzare” i vertici imprenditoriali sostenendo
l’emergere di nuovi soggetti, si aggiunge la riluttanza che sempre più manifesta alla cessione
di posizioni stra-tegiche che sono in mano pubblica. Dipingere quel che viene messo in cantiere a Milano contro Craxi come frutto di un demoniaco complotto ordito nel “gabinetto del
dottor Calligari” è altrettanto ridicolo dell’attribuirlo all’azione autonoma e indipendente del
“club delle giovani marmotte”. In un paese disordinato come l’Italia ogni smottamento è frutto di una pluralità di concause. Per i più - magistrati, uomini d’affari, operatori culturali - l’anticraxismo è stato molto semplicemente una
“opportunità professionale”. Quel che si può
rimproverare ai singoli - proprio perché del tutto
liberi e consapevoli - è di aver esercitato e promosso quella che Vasilij Grossman ha definito
“la gioia cattiva”. Ma nel rifiuto delle assurde
dietrologie non bisogna negare l’evidenza e cioè
il fatto che Craxi è stato colpito per via extra-
CRITICAsociale ■ 21
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parlamentare, da forze extraparlamentari e che
all’epoca in Italia la più consistente opposizione
a Craxi non era nel mondo politico, ma in quello
economico-finanziario.
Dare le banche ai presidenti della Confindustria, far autogestire il sistema creditizio direttamente dagli imprenditori è per lui inconcepibile.
I suoi interlocutori - che peraltro identificano loro stessi con le fortune del Paese - sono delusi
ed escono quindi da Piazza Duomo convinti che
l’ufficio di Craxi sia ormai il vero fortino del
presidio pubblico da far saltare. Nasce e si pone
a Milano, anche se in sordina e in modo ovattato, una questione di fondo che riguarda la legittimità di spazi di potere decisionale della politica
sull’economia e dell’economia sulla politica.
Matura un’animosità sempre più violenta al
suo ritorno alla guida del governo. Craxi non avverte l’organizzarsi di questa insofferenza e che
non è più possibile alcuna mediazione su questo
terreno. Continua la sua marcia di avvicinamento a Palazzo Chigi preoccupandosi di preparare
una nuova stagione di modernizzazione istituzionale e politica credendo di poter inglobare
fermenti leghisti e revisionismo comunista.
A questo riguardo la raffigurazione del craxismo nel segno di una novella “bonaccia delle
Antille” non è veritiero. Tra 1’89 e il ‘91 - ad
esempio - in Lombardia il PSI spacca, colpo su
colpo, i vertici della DC, del PCI e della Lega:
prima determina la messa in minoranza della sinistra DC che dalla nascita dell’ente regionale
nel 1970 deteneva una incontrastata leadership
“storica” nel partito e nell’istituzione, quindi
provoca le scissioni della Lega e del PCI capitanate dai rispettivi capigruppo regionali.
Il tema delle riforme istituzionali è ora visto
da Craxi soprattutto come risposta al fenomeno
della Lega che nel ‘90 ha raggiunto il-20 per
cento in Lombardia. Di fronte al consenso raccolto da Bossi distingue tra federalismo e razzismo. Contesta la polemica sull’immigrazione
valorizzando l’apporto dato dai meridionali negli anni ’50 e ‘60 allo sviluppo del Nord, ma in
pari tempo propone il trasferimento di poteri dal
governo centrale a Regioni e Comuni. Sollecita
l’approvazione di una legge per l’istituzione delle aree metropolitane che, con i governi a guida
democristiana, si rivela però impraticabile. Di
certo non vuole una rottura frontale con Occhetto. In agosto ‘91 farà ancora una nuova dichiarazione congiunta PCI-PSI di sostegno a Gorbaciov durante il tentativo di colpo di stato a
Mosca e in settembre avvia un’ulteriore “offensiva di pace” con incontri all’Hotel Raphael e
nel corso del Congresso della CGIL a Rimini.
La differenziazione è ricercata invece soprattutto
da Occhetto. In quel periodo è infatti il PCI-PDS
ad essere ossessionato dal dover dar ragione al
socialismo riformista. La crisi dell’URSS e lo
sfaldamento del blocco dell’Est non portarono
al prevalere delle tesi della destra interna, ma al contrario - si tradussero nella presa del potere
da parte di una dirigenza che, formatasi nel segno della “nuova sinistra”, ora si agita guardando alla “sinistra sommersa”. Cambiare è uno stato di necessità da affrontare uniti mantenendo
intatti certi modelli organizzativi e culturali di
Togliatti e Berlinguer.
La rottura tra PCI-PDS e PSI fu quindi ricercata e determinata dal vertice post-comunista in
vista delle elezioni politiche del ‘92. Sin dall’8
marzo Occhetto ha diretto 1’ attacco frontale
non contro la DC, ma il PSI definito senza mezzi
termini come “il nemico da battere”. Con la crisi
del mondo comunista cresce cioè nel PCI-PDS
l’ossessione di dover riconoscere le ragioni
dell’autonomia socialista, di poter essere fagocitati - “mitterrandizzati” o “socialdemocratizzati”-dal PSI di Craxi che propone l’unità socialista. Quindi alla vigilia delle elezioni del ‘92
Occhetto pretende la firma di un documento in
cui Craxi, ripudiando tutta la politica fatta dal
1979, s’impegni a non più governare con la DC
ovvero a riproporre un’alleanza neofrontista con
l’ex segretario del PCI nelle prime elezioni dopo
la fine del comunismo.
La caduta
Rimane l’ultimo atto: la caduta. All’indomani
delle elezioni - pur tra polemiche e delusioni l’unica maggioranza possibile è ancora il pentapartito e Craxi è il suo “candidato unico”. La sua
leadership nell’ambito della maggioranza era all’epoca fuori discussione. Persino Bruno Visentini il 4 gennaio del 1992 dalle colonne di “Repubblica” definiva Craxi “un eminente Presidente del Consiglio” e teneva a ricordare che per
lui era stato “un privilegio avere avuto responsabilità di governo sotto le sue presidenze”. La
maggioranza, per quanto la si sia poi voluta dipingere travagliata, dimostrò invece nella sostanza e nella forma - secondo il dettato costituzionale - di essere capace di imporsi nelle istituzioni parlamentari eleggendo il 24 aprile i propri candidati alla presidenza di entrambi i rami
del Parlamento. Coesione e determinazione della maggioranza sono talmente chiare in sede istituzionale che le Botteghe Oscure, dopo 15 anni,
perdono la guida della Camera dei Deputati. A
questo punto - a norma di Costituzione - il Presidente della Repubblica deve dare l’incarico per
la formazione del governo. Ma Cossiga, che peraltro aveva già svolto da settimane consultazioni informali nell’ambito della maggioranza, anziché convocare Craxi, il 25 aprile convoca i
giornalisti e si dimette grottescamente in anticipo di sole poche settimane provocando una decisiva inversione nella tabella di marcia.19 Mentre la “scaletta” istituzionale prevedeva che
l’elezione del successore di Cossiga sarebbe avvenuta dopo la definizione degli equilibri della
maggioranza da parte di Craxi con la formazione del nuovo governo e quindi con alle spalle
accordi che avrebbero previsto l’intesa anche
per il Quirinale, il capovolgimento delle scadenze vede ora Craxi in difficoltà.
Durante le votazioni per il successore di Cossiga nel maggio 1992 il gesto di massima apertura per Occhetto sarà quello di proporre - seriamente - al PSI di votare un uomo del suo partito:
l’ex segretario della CGIL che aveva guidato lo
scontro interno con i socialisti sulla scala mobile, Luciano Lama, come Presidente della Repubblica. Una proposta inoltre puramente provocatoria a cui non pensava seriamente lo stesso
Occhetto che era stato il principale animatore
dell’opposizione a Lama come successore di
Berlinguer. Andreotti a questo punto - convinto
di avere l’appoggio del PCI-PDS - si candida e
fa mancare i voti a Forlani. Un accordo nella
maggioranza di centro-sinistra è però ancora
possibile e infatti Andreotti si rivolge a Martelli
per trovare una mediazione con il leader del PSI.
Ma anche quest’ultimo ponte salta. Mentre Martelli è da Andreotti lo raggiunge una notizia che
interrompe il colloquio: Giovanni Falcone, il
suo più stretto collaboratore al Ministero della
Giustizia, è stato assassinato. Il Paese non può
rimanere senza capo dello Stato e viene automaticamente eletto il democristiano che in quel momento ha la carica istituzionale più alta: il presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro. Fino
ad allora Craxi era ancora determinante. Le dimissioni anticipate di Cossiga e l’assassinio di
Falcone sono i due colpi che obiettivamente per quanto scollegati tra loro - lo fanno uscire di
scena.
Per giudicare Craxi la distinzione tra lo “statista” ed il “latitante” allontana dalla verità. E’
come se nel valutare l’azione di governo di Togliatti si volesse ignorare che come Ministro della giustizia nascondeva nei suoi uffici ricercati
per strage. Favorire il gasdotto algerino ed ostacolare nel 1982 quello siberiano, ad esempio, fu
un atto in cui politica estera, politica economica
e finanziamenti al PCI e ad altri partiti si intrecciavano strettamente.
Il regolamento degli equilibri tra potere politico e potere economico e tra imprenditoria pubblica e privata è stata una componente importante della sua azione politica al partito e al governo. Non fu statalista, ma pluralista, in pari
tempo non attribuiva un ruolo salvifico allo stato
maggiore confindustriale che anzi riteneva abbastanza miope ed egoista, scarsamente attento
non solo alla tutela sociale, ma anche all’autonomia e indipendenza nazionale. E’ stato così
un soggetto determinante per una politica di rilancio economico, di tenuta democratica e di alleanza atlantica, ma sempre come interlocutore
autonomo e mai subalterno di fronte a poteri
economici, partiti alleati, stati stranieri. La storia
di Craxi si è svolta in coincidenza della più formidabile offensiva sferrata dall’imperialismo
comunista su scala internazionale, un attacco
che ha visto, in particolare in Italia, la più completa latitanza del sistema imprenditoriale pubblico e privato che ha pensato semmai ad accordi con esso.
A partire dal 1967, con guerre, colpi di stato,
invasioni militari, riarmo nucleare, organizzazioni terroristiche e mobilitazioni violente il comunismo è andato all’attacco dall’America Latina al Como d’Africa, dal Medio all’Estremo
Oriente incoraggiando putsch militari persino in
Europa dal Portogallo alla Polonia. Chi parla di
autoaffondamento del comunismo sono gli ambienti politici, culturali ed economici che nel migliore dei casi non hanno mai mosso un dito
contro il comunismo nei suoi ultimi 25 anni di
vita soprattutto quando sembrava vincente. Ma
il Muro di Berlino comincia a cadere con la vittoria dei non comunisti in Polonia dopo una prova di forza decennale. Il comunismo è stato
sconfitto in seguito a una lotta che ha visto sul
finire degli anni settanta uomini di Stato reagire
ed affrontarlo negli anni ottanta sul piano militare, economico ed ideale. Tra questi c’è stato
sicuramente Craxi. Ha lottato in prima persona
- esponendosi più di qualsiasi altro leader politico italiano - in un paese dove essere anticomunista democratico sembrava essere destinati a
soccombere di fronte alle forze d’urto dell’irrazionalismo e del conformismo dominanti.
In particolare il declino del comunismo in Italia non è iniziato con l’abbattimento del Muro
di Berlino. Il PCI - il partito di Gramsci, Togliatti
e Berlinguer, il più grande partito comunista in
Occidente, l’esperienza a cui avevano guardato
con rispetto ed ammirazione i più autorevoli
conservatori e progressisti da Parigi a Bonn, da
Washington a San Francisco - nel 1989 era già
stato sconfitto e si trovava platealmente in crisi.
La resa dei conti in Italia c’era già stata. Quelli
che sono descritti come gli anni della “decadenza” di Craxi, sono anni in cui - in realtà - il comunismo in Italia è ormai senza più una strategia, in irreversibile declino elettorale e storico.
Nell’arco di nemmeno 10 anni le parti si sono
completamente rovesciate: già nell’85 non è più
il PSI, ma il PCI ad interrogarsi sul proprio futuro. Se nel giugno del 1976 “L’Unità” pubblicava l’articolo di Alberto Asor Rosa “sull’uscita
di scena del PSI”, nel 1985 il direttore dell’Istituto Gramsci, Aldo Schiavone, paventa esplicitamente il “tramonto” del comunismo: l’Italia è
ai suoi occhi uno scenario di “traumi, rovine e
ferite” ed il grosso delle biografie dell’intellettualità comunista - dai reduci della “scuola di
Bari” di Giuseppe Vacca agli “operaisti” riuniti
intorno ad Asor Rosa, Mario Trenti e Massimo
Cacciali - appare caratterizzato dal “ritrarsi dalla
politica” e dal “ritorniamo agli studi”20.
Fallito “compromesso storico” ed “eurocomunismo” il PCI con la morte di Berlinguer è
stato un partito senza più storia. Da Natta ad Occhetto ci si interroga con crescente affanno e
senza trovare risposte sulla propria identità e sul-
le residue possibilità di sopravvivenza. Craxi è
riuscito a sconfiggerlo sul terreno politico, elettorale e culturale. L’“egemonia” - quella formula
gramsciana della forza più consenso che per
Berlinguer configurava il PCI come “forza invincibile” - ormai era solo oggetto di studio retrospettivo.
E quindi nel dare un giudizio su Craxi non bisogna dimenticare che ha avuto ragione e che la
sua politica ha vinto. L’eliminazione violenta
non è mai una sconfitta. Con la sua uscita di scena da un lato il “nuovismo” politico e dall’altro
il potere economico hanno potuto finalmente
giocare “a porta vuota”. Sono così trascorsi dieci
anni in cui in Italia si è continuato a celebrare
referendum e ad approvare leggi per modifiche
elettorali e costituzionali. Non si è però ancora
arrivati ad una soluzione definitiva. Dieci anni
non sono pochi ed il fenomeno è unico al mondo. Le ragioni delle difficoltà del sistema maggioritario a radicarsi in Italia non sono infatti
meramente tecniche, ma soprattutto politiche.
Esse derivano in buona parte anche dal fatto che
entrambi gli schieramenti contrapposti vedono
in posizione molto rilevante quanti sono cresciuti e si sono formati maturando disprezzo e revanscismo nei confronti di principi e di risultati
che hanno caratterizzato l’identità e l’evoluzione
del Paese che sono invece ancora condivisi dalla
maggioranza degli italiani. L’anticraxismo ha
vinto così nel segno dell’“antipolitica” e del rigetto della “democrazia reale” italiana. L’insieme dei luoghi comuni che danno identità alla cosiddetta “seconda repubblica” mettono d’accordo postcomunisti, postfascisti e “nomini novi”
nella condivisione di un giudizio negativo sulle
forze e le personalità che storicamente hanno costruito e garantito la democrazia in Italia e che
ne avevano fatto il paese occidentale dove più
alta è stata la partecipazione al voto e la fiducia
rimessa nei partiti.
Il caso Craxi si inquadra così nell’operazione
che è stata condotta negli anni novanta dalle
Commissioni Antimafia e Stragi al fine di criminalizzare l’anticomunismo democratico dipingendo mafia, terrorismo e corruzione come
fenomeni a cui non solo il comunismo italiano
sarebbe stato completamente estraneo, ma che
soprattutto sono conseguenza dello sbarco anglo-americano, dell’adesione dell’Italia alla Nato, della non partecipazione del PCI al governo
del Paese. Senza e contro i comunisti non è possibile una vera democrazia. La rappresentazione
infamante di chi nell’Italia repubblicana ha agito
e governato senza e contro i comunisti si salda
così con l’operazione di accomunare Italia liberale e Italia fascista.
“Il 25 aprile - scrive Luciano Violante da Presidente della Camera calpestando il liberalismo
- è il giorno della nascita della democrazia. Dico
nascita e non rinascita perché la democrazia intesa come pienezza di diritti e di doveri non
c’era mai stata nella storia italiana”.21 A simili
parole aveva replicato il 27 settembre 1945
nell’aula della Costituente Benedetto Croce:
“Egli ha affermato che già prima del fascismo
l’Italia non aveva avuto Governi democratici.
Ma questa asserzione urta in flagrante contrasto
col fatto che l’Italia dal 1860 al 1922, è stato uno
dei paesi più democratici del mondo e che il suo
svolgimento fu una non interrotta e spesso accelerata ascesa della democrazia”. Affermazione
che vale anche per l’Italia tra il 1948 ed il 1992,
“anni di Craxi” compresi. s
Ugo Finetti
Note
1
Iginio Ariemma, “La casa brucia”, Venezia
2000. E’ in quell’occasione che il PCI si preoccupa
anche di recuperare e di mettere al sicuro alcuni
documenti che lo riguardano. Si tratta non solo dei
finanziamenti, ma anche dei retroscena della propria storia, come i fascicoli su Granisci e Togliatti
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da cui emergono verità scomode come il fatto che
a favore di Gramsci intervenne molto di più Pio
XII, quando era cardinale nella Berlino di Weimar,
che non Togliatti ed il PCI (v. “L’ultima ricerca di
Paolo Spriano”, Roma 1988).
2 “Avanti!”, 3 aprile 1988.
3 Giorgio Amendola, “Il rinnovamento del PCI”,
Roma 1978 pag.129.
4 Ansa, 16 marzo 1988, “Convegno Psi su stalinismo: Craxi”.
5 “La Repubblica”, 10 marzo 1988, Achille Occhetto: “Togliatti e lo stalinismo”.
6 “Il Manifesto”, 20 aprile 1988.
7 “L’Espresso”, 20 gennaio 1989.
8 Achille Occhetto a “Correva l’anno”, Rai Tre,
2 gennaio 2001.
9 Achille Occhetto, “Da Togliatti a D’Alema.
Conversazione con Paolo Flores D’Arcais”, Micromega, Gennaio 2001. Sulla posizione di pregiudiziale chiusura del PDS v. anche Z. Ciuffolotti, M.
Degli Innocenti, G. Sabbatucci, “Storia del PSI. 3.
Dal dopoguerra a oggi”. Bari 1993: “Nel PDS la
corrente “migliorista” di Giorgio Napolitano, Emanuele Macaluso e Gerardo Chiaromonte, più sensibile al dialogo con i socialisti, era in netta minoranza; ma soprattutto era presente nel partito la volontà di non rompere con i movimenti di opposizione e della protesta sociale, ma anzi di avviarne
sotto l’egida dell’ex-PCI la riaggregazione complessiva. In queste condizioni, non solo l’incontro
con Craxi era difficile, ma egli stesso, in quella prospettiva diventò bersaglio prioritario”.
10 Su questo aspetto v. in particolare Fabrizio
Cicchetto, “II PSI e la lotta politica in Italia dal 1976
al 1994”, Spirali, Milano 1995, pp. 78, 84, 96.
11 Antonio Landolfi, “Storia del PSI”, SugarCo,
Milano 1990, pag. 393.
12 Intervento al Convegno sulle riforme istituzionali del Centro Studi Marcerà di Milano il 6
maggio 1989.
13 Giuseppe Bedeschi, “La fabbrica delle ideologie (II pensiero politico nell’Italia del Novecento)”, Laterza, Bari, 2002, p. 386-387.
14 Dichiarazione del 26 marzo 1990
15
v. Iginio Ariemma, “La casa brucia. I Democratici di Sinistra dal PCI ai giorni nostri”, Venezia
2000, pag. 87.
16 Significativo in proposito il fatto che a presiederlo sia chiamata Nilde lotti e che proprio lei - che
come compagna di Palmiro Togliatti e parlamentare comunista dalla Costituente è il simbolo della
continuità - consumi il distacco-oblio con il passato
evitando di citare il nome del fondatore del “partito
nuovo” nel corso di tutto il suo discorso introduttivo. Su questo episodio v. il capitolo “Iotti” in
Massimo Caprara, “Paesaggi con figure”, Milano
2000.
17 D’Alema e Veltroni - che in quelle settimane
vanno con i figli in San Pietro ad ascoltare gli appelli del Papa alla pace - nel 1999 sosterranno l’intervento della NATO non condiviso dall’ONU con
bombardamenti su Belgrado.
18 Discorso alla cerimonia promossa dalla Fondazione Craxi a Roma, 1 febbraio 2001.
19 Sulle dimissioni anticipate di qualche settimana rispetto alla scadenza del mandato al fine di impedire il ritorno di Craxi alla Presidenza del Consiglio v. anche Elio Veltri, “Da Craxi a Craxi”, Milano 1993: “Le dimissioni di Cossiga, infatti, contrariamente alle motivazioni ufficiali e a quelle date
dai giornali, io le interpreto come un segnale del
coinvolgimento di Craxi. Il Presidente, prima delle
elezioni, ha detto chiaramente che Craxi è il candidato più sicuro alla Presidenza del Consiglio”. In
quei giorni la versione prevalente è che il gesto sia
una reazione alla nomina di Scalfaro alla Presidenza della Camera, ma lo stesso Cossiga si affretta a
smentirla recandosi nel nuovo ufficio di Scalfaro a
Montecitorio. Il comportamento di Cossiga in
quelle settimane non sembra coerentemente anticraxiano, anche se questo è l’indubbio risultato.
Dalla lettura delle varie dichiarazioni che provengono in quella fase dal Quirinale appare non lineare, contraddittorio e frutto di disordinate preoccupazioni.
20 Aldo Schiavone, “Per il nuovo PCI”, Laterza,
Bari 1985.
21 Editoriale de “La Stampa”, 24 aprile 2001.
■ 2003 - NUMERO 3
NUOVA UE E IL FEDERALISMO COMPETITIVO
Angelo Petroni
“La modernizzazione delle economie europee
non è una questione che possa essere affrontata senza ripensare le stesse categorie sociali
e politiche dominanti. La modernizzazione
comporta necessariamente un’estensione dell’area delle decisioni private, ed una riduzione delle posizioni di monopolio politico-istituzionale. La sola maniera perché essa effettivamente si realizzi è una scomposizione dei
clivages ideologici tradizionali, ed una loro
ricomposizione secondo linee nuove”.
S
ono passati più di quattro anni
da quando i capi di stato e di governo dell’Unione Europea
adottarono la cosiddetta Agenda di Lisbona.
“L’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo” rimane un
obiettivo comparativamente più lontano oggi
di quanto non fosse allora. Perché questo è avvenuto? Cosa dovrebbe cambiare davvero?
Delle tante risposte, e dei tanti fattori causali,
qui ci proponiamo di evidenziarne due. La prima riguarda la struttura istituzionale che l’Europa si è voluta e si vorrà dare. La seconda riguarda la logica che supporta il welfare state.
QUALI ISTITUZIONI DELL’UNIONE
PER LA CRESCITA ECONOMICA?
Il progressivo completamento di un efficiente
mercato unico è universalmente considerato come un elemento essenziale per la realizzazione
dell’Agenda di Lisbona. Non vi è alcun dubbio
che ciò sia vero. Il problema è come pervenire a
questo completamento, e su quali basi istituzionali fondarlo.
La ragione fondamentale in favore un approfondimento delle istituzioni dell’Unione è che soltanto un impianto istituzionale con caratteristiche di tipo autenticamente costituzionale può
garantire la creazione di uno spazio economico
comune, abbassando i costi di transazione, e soprattutto evitando i pericoli di un ritorno di politiche protezionistiche a livello dei singoli stati.
Così, uno dei fondamentali vantaggi dell’adozione di una moneta unica è che essa rende impossibile la pratica di politiche protezionistiche.
Anche per perseguire lo scopo di una maggiore prosperità economica l’Europa si è dotata di
un Trattato costituzionale. Il Trattato costituzionale è stato il risultato di un necessario compromesso tra le diverse tradizioni costituzionali dei
paesi membri, e tra le diverse ideologie politiche. È quindi del tutto naturale che “centralizzatori” e “decentralizzatori”, liberisti e dirigisti,
sostenitori di un’Europa liberale e sostenitori di
un’Europa socialista, abbiano motivi per sperare
che l’Unione che verrà sarà maggiormente conforme ai propri ideali, così come abbiano motivi
per temere che essa presenterà caratteristiche
opposte. Lo si può vedere con grande evidenza
dal dibattito in corso in Francia, dove una parte
importante della sinistra si oppone alla ratifica
del Trattato costituzionale affermando che esso
non rispecchia affatto i valori dello Stato assistenziale, e consegna l’Europa al liberismo. Al
contrario, la gran parte degli intellettuali liberali
europei considera che il Trattato costituzionale
rappresenti un’espansione non soltanto dei poteri dell’Unione, ma più in generale della quantità di potere sul nostro continente. Aumenteranno il livello della regolazione e il livello della
tassazione, mentre la diversità di tradizioni e di
stili di vita che forma la ricchezza dell’Europa
tenderà a venire fortemente omogeneizzata, come si vede già chiaramente in ambiti quali la
bioetica, i sistemi educativi, le relazioni familiari. Che il Trattato costituzionale ampli ed approfondisca grandemente le competenze ed i poteri
dell’Unione è cosa del tutto evidente. Di per sé
questo non equivale alla prevalenza di una visione dirigista. La creazione di poteri di livello
superiore rispetto a quelli degli Stati nazionali
può essere infatti del tutto funzionale all’incremento delle libertà individuali e delle libertà di
mercato. Il problema fondamentale è che questi
poteri siano soggetti ad un controllo che impedisca la loro espansione automatica, in modo tale che la libertà globale di cui godono i cittadini
e le imprese sia maggiore di quella della quale
godrebbero come cittadini di Stati nazionali “autosufficienti”. Questa coniugazione tra nuovi
poteri federali e maggiori libertà è stata tradizionalmente affidata al fatto che le istituzioni federali permettessero un alto livello di competizione interna: competizione tra i territori e competizione tra i diversi ordinamenti giuridici ed economici degli Stati membri della federazione.
Dal punto di vista di un “federalismo competitivo” il punto cruciale è la costruzione di un sistema di regole istituzionali che siano in grado
di attualizzare i principi fondamentali della divisione del potere propri del federalismo classico. Esso si oppone quindi alla visione centralizzatrice, ed insieme ai meccanismi della democrazia rappresentativa non sottoposta ad adeguati vincoli costituzionali, che generano una centralizzazione non voluta esplicitamente dagli
elettori, dannosa per le libertà individuali, per
l’efficienza dell’economia e della pubblica amministrazione.
Tre principi possono essere posti alla base del
federalismo competitivo. Il primo è quello del
mutuo riconoscimento. Esso stabilisce che le
merci e servizi che corrispondono agli standard
ed alle regolamentazioni di un paese membro
dell’Unione devono poter essere legalmente
vendibili in qualsiasi altro paese membro, senza
che le autorità di quest’ultimo possano imporre
restrizioni basate su loro specifiche normative.
Questo principio ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione dello spazio economico
europeo con l’Atto Unico. Il secondo è quello
di esclusività. Esso richiede che le competenze
relative all’azione collettiva siano distribuite,
verticalmente ed orizzontalmente, in modo da
evitare che istituzioni diverse insistano sulla medesima area di azione collettiva. Ogni istituzione
deve quindi essere responsabile di scopi precisi,
evitando ogni forma di duplicazione e di sovrapposizione tra poteri federali e poteri delle entità
federate. L’attribuzione va fatta in base al principio di quale sia l’area di ottimale di azione collettiva che permette di riflettere le preferenze dei
cittadini. Il terzo è quello di equivalenza fiscale,
per il quale ad ogni area di azione collettiva deve
corrispondere un potere impositivo proprio, in
modo che sia chiaro e visibile ai cittadini il legame tra prelievo e spesa. In questo modo si eliminano i comportamenti di free-riding, ed i conflitti che possono nascere sia tra la federazione
e le entità federate, sia tra le entità federate medesime.
La separazione delle sfere di azione collettiva,
insieme alla creazione di uno spazio di interazione che riguarda cittadini, imprese ed istituzioni, permette due risultati fondamentali. In primo luogo, il potere politico viene responsabilizzato di fronte ai cittadini, che possono giudicare
in che misura esso è efficiente e riflette le loro
preferenze, invece delle preferenze dei gruppi di
pressione organizzati. In secondo luogo, le istituzioni vengono sottoposte ad un meccanismo
di concorrenza che è analogo a quello che vale
per gli individui e le imprese. Poiché la prosperità di un territorio dipende dalla sua capacità di
attrarre capitale fisico ed umano di alta qualità,
le istituzioni federate (ai vari livelli) avranno un
incentivo a fornire un quadro di regolamentazioni e di beni pubblici in grado di farlo.
Analogamente alla concorrenza economica,
la concorrenza tra istituzioni federate è un processo di scoperta. L’esistenza di una pluralità di
politiche diverse praticate dalle varie entità federate, unita alla possibilità di scelta garantita
dall’ “ombrello” delle regole federali, permette
di scoprire quali sono le combinazioni di regolamentazioni e beni pubblici preferite dai cittadini e dalle imprese. La concorrenza istituzionale è un potente meccanismo di innovazione,
che estende alle istituzioni politiche il duplice
principio della variazione e della selezione delle
soluzioni migliori.
Dal punto di vista del federalismo competitivo l’Europa ha quindi bisogno di istituzioni che
permettano il massimo di azione collettiva là dove essa è necessaria e là dove i cittadini la desiderino. Ma quest’azione collettiva deve venire
coniugata con l’elemento competitivo, che è
proprio dell’autentico federalismo, in modo da
ricondurre e mantenere tutti i poteri - il potere
dell’Unione non meno di quello degli Stati nazionali - entro le funzioni ed i limiti che sono necessari per garantire la libertà e la prosperità dei
popoli e dei singoli cittadini. Sarebbe impossibile comprendere il successo dell’economia degli Stati Uniti d’America senza tenere in considerazione l’elemento della competizione territoriale. Esso è un fattore non meno importante
del basso livello di regolazione, o del basso livello di tassazione. In un senso pregnante, esso
è proprio un fattore decisivo perché il livello di
regolazione ed il livello di tassazione si mantengano entro limiti compatibili con una economia
dinamica. Ma nella costruzione dei poteri “federali” dell’Unione Europea la via del federalismo competitivo non è mai stata praticabile, e
infatti non viene perseguita neanche nel Trattato
costituzionale. La ragione non è soltanto ideologica, ovvero non è soltanto lo scarso peso che
da più di un secolo il liberalismo ha nel nostro
continente. La ragione principale è che le istituzioni comunitarie sorsero proprio per evitare la
competizione per le risorse territoriali, ed in particolare la competizione tra Francia e Germania
per il controllo delle materie prime.
Le istituzioni comunitarie nacquero quindi
con una logica di cooperazione che tendeva a
minimizzare la competizione. Di qui la prevalenza sul piano istituzionale della logica dell’unanimità nelle decisioni, e sul piano economico della logica delle sovvenzioni agli Stati
membri meno ricchi ed ai settori meno produttivi in cambio di un basso grado di competizione
territoriale.
Come è stato autorevolmente sottolineato da
André Breton, sistematicamente l’Unione Europea si attiva per deregolamentare i mercati in-
CRITICAsociale ■ 23
12 / 2012
terni e i sistemi legislativi degli stati membri, al
fine di regolamentarli nuovamente secondo le
proprie norme. Ne consegue che “se si confronta
il grado di armonizzazione in Europa con quello
del Canada, degli Stati Uniti e di altre federazioni, ci si sorprende a vedere quanto questo sia
maggiore in Europa”. Riassumendo: la creazione di un mercato unico europeo veramente favorevole allo sviluppo economico ha bisogno di
istituzioni politiche che introducano una massiccia dose di competizione territoriale come
elemento strutturale. Un ambiente favorevole allo sviluppo non può essere soltanto il risultato
di provvedimenti di “armonizzazione”, e neppure di provvedimenti di deregolamentazione e
di abbattimento di barriere.
QUALE IDEOLOGIA
PER IL WELFARE STATE?
Che il welfare state in tutti i paesi europei abbia
bisogno di una revisione profonda è una verità
che viene negata soltanto da frange marginali,
intellettuali e politiche. Allo stesso tempo ogni
evidenza disponibile dimostra che la grande
maggioranza degli europei vuole il mantenimento di forti istituzioni pubbliche di welfare, e
che non è affatto disposta a rinunciarvi. Una prova molto chiara è che, mentre negli anni scorsi
ovunque in Europa lo stato ha fatto marcia indietro nel controllo diretto dell’economia, non
vi sono segni che questo stia avvenendo anche
in altri aspetti della vita umana. Si potrebbe dire
che è vero il contrario: più gli stati perdono il loro controllo sull’economia per effetto della globalizzazione, più forte è la loro tendenza a estendere il controllo su altri aspetti della vita. Poiché
nessun governo in Europa è mai stato sanzionato
per questo, se ne deve ragionevolmente – e pessimisticamente - concludere che la visione liberale è oggi del tutto minoritaria.
La maggior parte degli europei non ritiene la
libertà il valore più importante. Su questo emerge una forte differenza con gli Stati Uniti. Le statistiche mostrano che la libertà è il valore più
elogiato dai cittadini statunitensi, mentre nei
paesi europei l’eguaglianza è al primo posto.
Dunque, non bisognerebbe chiedersi perché le
politiche di liberalizzazione abbiano avuto così
poco successo in Europa. I cittadini europei ottengono dai loro governi (e dall’Unione) proprio
ciò che vogliono. Che spesso le conseguenze
siano negative per la loro prosperità è cosa diversa, e può imporre dei cambiamenti che altrimenti non si vorrebbero. La gran parte della spesa pubblica nei paesi europei ha uno scopo che
corrisponde alla visione socialista in tutte le sue
varie declinazioni e denominazioni. Lo scopo
fondamentale è quello di redistribuire il reddito
tra i cittadini, sia in modo diretto (come avviene
con i sistemi previdenziali pubblici), sia attraverso la fornitura da parte della mano pubblica
della gran parte dei servizi essenziali, come
l’istruzione e la sanità, sia attraverso la regolazione. La redistribuzione del reddito (e della ricchezza) implica quasi per definizione un’alta
spesa pubblica, un’alta tassazione, ed una tassazione altamente progressiva. Chiunque si proponga di abbassare la tassazione si trova quindi
di fronte alla questione di spiegare perché l’attuale livello e le attuali modalità della redistribuzione del reddito non sono giustificabili.
Oggi disponiamo di una amplissima evidenza
in base alla quale è possibile affermare che la redistribuzione nelle società contemporanee, la
sua dimensione e i suoi profili sono il risultato
della logica stessa dei processi della democrazia
rappresentativa. La redistribuzione delle risorse
prelevate tramite la tassazione generale a favore
di gruppi in grado di garantire il consenso elettorale è il meccanismo fondamentale sul quale
puntano i politici che sono al potere per essere
sicuri di restarci. I politici non al potere, a loro
volta, ripongono le loro speranza sulla capacità
di persuadere una pluralità di gruppi sociali che
saranno loro i beneficiari netti di una diversa politica redistributiva.
Tutto questo deriva dal fatto che ovunque si
verifichino differenze di ricchezza fra i cittadini
il reddito medio è più alto del reddito dell’elettore mediano. In queste condizioni vi sarà sempre una maggioranza di elettori favorevoli alla
redistribuzione (e alla tassazione progressiva),
quale che sia il livello assoluto della ricchezza.
Poiché però i tassi marginale e medio di tassazione e redistribuzione sono determinati dall’elettore mediano, non vi è ragione alcuna per
cui la redistribuzione debba andare a favore della parte più povera della popolazione. L’analisi
dei processi di organizzazione e rappresentanza
politica degli interessi rafforza tale conclusione:
i poveri infatti costituiscono il gruppo sociale
meno capace di organizzarsi e di indirizzare i
propri voti verso uomini politici determinati.
Tutto ciò è noto da tempo. Come scrisse George
Stigler “la spesa pubblica viene attuata a beneficio soprattutto delle classi medie, e finanziata
con tasse che pesano in buona parte su poveri e
ricchi”. Vi sono quindi buone ragioni per credere
che gli attuali alti livelli di tassazione non si giustificano affatto con lo scopo - in sé evidentemente condivisibile – di migliorare le condizioni
dei meno fortunati. Per molto tempo si è sostenuto che le politiche redistributive avrebbero
fatto crescere non soltanto il benessere delle fasce più povere, ma anche la ricchezza globale di
una Nazione. L’assunto della validità della visione keynesiana era, naturalmente, un ingrediente essenziale di questa tesi. Poiché la crescita economica è il risultato di una varietà di fattori, è notoriamente difficile isolare l’effetto della redistribuzione. È difficile, inoltre, calcolare
in modo esatto i reali effetti redistributivi della
spesa pubblica in generale. Tuttavia vi è una forte evidenza a favore di una correlazione negativa
tra spesa pubblica e crescita economica. Particolarmente rilevante è la conclusione alla quale
sono giunti R. Gwartney, R. Lawson, e R. Holcombe, i quali hanno fornito una misura degli
effetti negativi della spesa pubblica sulla crescita
economica prendendo come riferimento i Paesi
OCSE nel periodo 1960-1996: “se la spesa pubblica sul PIL è del 10% maggiore (per esempio,
il 35 piuttosto che il 25 percento) all’inizio del
periodo di riferimento, il tasso di crescita sul
lungo periodo del PIL è di un punto percentuale
inferiore. Conseguentemente, un aumento del
10% nelle dimensioni della mano pubblica durante un decennio ridurrebbe la crescita di mezzo punto percentuale”.
Qui i dati econometrici concordano con la logica e con l’evidenza microeconomica. Le politiche redistributive influenzano negativamente
la produzione della ricchezza in diversi modi. In
primo luogo, le coalizioni politiche nate da accordi redistributivi distolgono risorse dai settori
più produttivi, spostandole verso usi meno produttivi. In secondo luogo, poiché tutelano interessi costituiti, indeboliscono presso i beneficiari
della redistribuzione gli incentivi a innovare. In
terzo luogo, inducono forti pressioni contro
l’apertura delle economie nazionali alla concorrenza internazionale, in quanto quest’ultima rende più difficile il godimento di rendite garantite
dallo Stato. In quarto luogo, le politiche fiscali
implicate dalla redistribuzione disincentivano i
membri più produttivi della società dall’utilizzare appieno le loro capacità.
Un’indicazione importante del fatto che le politiche fortemente redistributive sono errate è il
fatto che le giustificazioni addotte per esse sono
cambiate. L’argomento originario era che la redistribuzione avrebbe posto la larghissima maggioranza dei cittadini in condizioni migliori di
quelle che si sarebbero avute altrimenti. Solo i
più ricchi sarebbero stati necessariamente per-
denti. Oggi, però, l’argomento è del tutto diverso. Oggi viene sempre più frequentemente affermato – come ha fatto anche Paul Samuelson
– che la redistribuzione è una buona cosa anche
se rende le società globalmente meno ricche.
Naturalmente, la ragione addotta per spiegare
che la redistribuzione continua ad essere una
buona cosa è che la grande maggioranza delle
persone sta comunque meglio di quanto starebbe in una società più ricca ma senza redistribuzione. In questo modo i sostenitori di politiche
fortemente redistributive finiscono con il riconoscere che la loro tesi originaria è stata sostanzialmente confutata. Questa seconda, tuttavia, si
fonda sugli stessi identici assunti della prima:
ossia, sulla stessa idea del funzionamento dell’economia e sulla stessa idea del comportamento umano. È difficile cogliere la ragione per la
quale l’asserzione rivisitata e corretta dovrebbe
essere maggiormente vera.
Molti moderni teorici socialisti paiono aver
compreso che c’è qualche cosa che non funziona
nelle politiche redistributive. Ritengono però
che il problema abbia a che fare con l’attuale
struttura del welfare state, che stia negli strumenti utilizzati per realizzare l’ideale della redistribuzione. A loro avviso, tutto ciò che si richiede sono riforme “intelligenti” - per usare
l’aggettivo da loro più amato –, che comprendano un mix di incentivi personali e benefici redistributivi più estesi. Lo ha espresso molte volte
Anthony Giddens.
Per Giddens “La riforma dello Stato assistenziale dovrebbe mirare ad ottenere un nuovo
equilibrio tra rischio e sicurezza nella vita delle
persone. La disponibilità ad assumere rischi rappresenta una componente fondamentale dell’iniziativa e della responsabilità personali, così come la valutazione del rischio. Gran parte dello
Stato assistenziale è una forma di assicurazione
collettiva ma, a differenza di quanto avviene nel
caso delle assicurazioni private, i dibattiti sul tema dello Stato assistenziale hanno prestato ben
poca attenzione al mutamento della natura dei
rischi nel mondo odierno. Lo Stato assistenziale
post-bellico si fondava su di una concezione
passiva del rischio e, di conseguenza, su una
concezione passiva della sicurezza. Se ci si ammalava, si subiva una menomazione, si divorziava o si perdeva il proprio lavoro, lo Stato assistenziale doveva subentrare per proteggerci.
Oggi viviamo in ambienti decisamente più esposti all’incertezza, dai mercati globali alle relazioni familiari, ai sistemi di assistenza sanitaria”.
Per Giddens la soluzione sta nel fatto che “I
servizi sociali devono dare un apporto allo spirito imprenditoriale, incoraggiare la saldezza
d’animo necessaria ad affrontare un mondo in
cui i cambiamenti sono sempre più rapidi, ma al
tempo stesso devono essere in grado di fornire
sicurezza quando le cose vanno male. I sistemi
di intervento pubblico finalizzati al lavoro (welfare to work), la riforma della tassazione e altre
scelte politiche concrete possono contribuire a
realizzare questo ambizioso obiettivo”. In tutto
questo l’ideale della redistribuzione non viene
però per nulla discusso. Tutto ciò di cui ci si occupa sono i mezzi oggi opportuni per ottenere
la stessa identica cosa che il welfare state originario prometteva. Ma la questione di fondo è
che da sempre la logica del welfare state non ha
nulla a che vedere con la logica assicurativa, se
non nella retorica con la quale è stato propagandato. La logica assicurativa si basa infatti sulla
stretta relazione tra rischio e premio. Nel welfare
state questa relazione semplicemente non esiste.
Avviene esattamente il contrario, perché quelli
che hanno minori probabilità di dover ricorrere
ai servizi di welfare sono coloro che maggiormente contribuiscono, direttamente o attraverso
la tassazione generale, al loro finanziamento.
Questo avviene perché il welfare state ha come
scopo primario la redistribuzione del reddito, e
soltanto come scopo secondario il fornire servizi
che il mercato non “potrebbe” fornire, o potrebbe fornire soltanto ad un costo molto più alto per
tutti i cittadini, come sostenevano i fautori del
welfare state originario.
Giddens afferma che il welfare state tradizionale è messo in crisi dall’avvento di un mondo
di incertezza. Ma se si vogliono mantenere intatti gli scopi originari del welfare state, come
vuole fare Giddens, allora la conclusione corretta è che in un mondo di incertezza bisogna
espandere ulteriormente il carattere universalistico del welfare state, non restringerlo per vincolare le sue prestazioni a considerazioni di merito morale o a qualità individuali come la capacità di assumersi dei rischi.
Ogni mossa nella direzione di legare le prestazioni del welfare state alla corretta imputazione e gestione del rischio va quindi esattamente nella direzione opposta all’ideologia redistribuzionista. Paradossalmente, ma non troppo, qui
vi è davvero un terreno fecondo di incontro tra
una moderna visione socialista ed una moderna
visione liberale. Non vi è infatti alcuna necessità
teorica o empirica di assumere che la maggior
parte degli effetti negativi della redistribuzione
che sperimentiamo oggi sull’economia e sullo
Stato si sarebbero verificati se la redistribuzione
stessa fosse stata intesa non come uno strumento
per implementare una ideologia egualitaristica,
ma come uno strumento per permettere a tutti i
cittadini di godere di un livello di benessere adeguato – ovvero, come una autentica forma di assicurazione contro il rischio. E questo principalmente per due ragioni. In primo luogo perché il
secondo tipo di redistribuzione non implica nessuna delle politiche che perseguono il fine di
realizzare una maggior eguaglianza fra i cittadini non migliorando le condizioni di chi si trova
in fondo alla scala bensì impedendo a chi sta in
alto di salire ancora. Non richiede, insomma,
che venga ostacolata la creazione della ricchezza. In secondo luogo perché se la redistribuzione
è diretta esclusivamente ad aiutare le persone il
cui reddito cade al di sotto di un certo livello non
vi sono più giustificazioni politiche che tengano
per tutti i trasferimenti monetari a favore di
gruppi il cui reddito è superiore a tale livello. Al
contrario però di quanto sosteneva e sostiene
una versione conservatrice del liberalismo, questa redistribuzione non deve essere necessariamente minimale. Ai meno fortunati può essere
assicurato il livello di vita che i sentimenti generali di una nazione ritengono essere giusto, e
che può – e deve - ben andare al di là di garantire
le condizioni di sopravvivenza decorosa. Sul
piano pratico questa idea di redistribuzione permette di separare definitivamente l’aiuto ai meno fortunati dal mantenimento della macchina
del welfare state. Dai sistemi sanitari nazionali
ai sistemi pensionistici a ripartizione, quest’ultima ha oggi la sua sola ragion d’essere nella volontà di mantenere una struttura di eguaglianza
socialista tra i cittadini. Se questo ideale viene
ad indebolirsi, l’aiuto ai meno fortunati può con
maggiore efficacia venire perseguito attraverso
lo strumento del trasferimento diretto di reddito,
o attraverso il consentire loro l’accesso agli strumenti assicurativi privati.
CONCLUSIONE
La modernizzazione delle economie europee
non è una questione che possa essere affrontata
senza ripensare le stesse categorie sociali e politiche dominanti. La modernizzazione comporta necessariamente un’estensione dell’area delle
decisioni private, ed una riduzione delle posizioni di monopolio politico-istituzionale. La sola
maniera perché essa effettivamente si realizzi è
una scomposizione dei clivages ideologici tradizionali, ed una loro ricomposizione secondo
linee nuove. s
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