Parte II Oltre la crisi: sentieri di fuoriuscita
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Parte II Oltre la crisi: sentieri di fuoriuscita
Parte II Oltre la crisi: sentieri di fuoriuscita 9. Ritorno alla “normalità”? 9.1 Un profilo di stabilizzazione? “But we are far from being out of woods” (Bernanke, 2010) e possiamo trarre alcune lezioni Siamo nel pieno di una crisi iniziata nel 2007 e di cui è difficile ipotizzare le implicazioni di lungo periodo, che saranno certamente profonde. Nel corso di un’audizione dinanzi alla Dallas Regional Chamber il Governatore della Federal Reserve ha recentemente affermato (7 aprile 2010) che “non siamo fuori dai guai”, dal momento che la crisi finanziaria è “un evento complesso” con molte cause, alcune delle quali non sono state rimosse. Tra queste sono certamente da annoverare le distorsioni strutturali del sistema finanziario, celate dalla “bolla immobiliare” ed emerse dopo il suo scoppio: 1) deterioramento delle regole nella gestione degli affidamenti; 2) moltiplicarsi delle forme e degli strumenti di credito fino a configurare un vero e proprio “sistema bancario ombra”, ovvero un abnorme sviluppo di un apparato finanziario non bancario; 3) generalizzata e sistemica perdita di percezione del rischio e quindi della capacità di gestirlo; 4) inadeguatezza del vigente sistema di regole. Ai fattori indicati Bordo (2008) aggiunge che un periodo eccezionalmente lungo di tassi di interesse molto bassi distingue quanto è accaduto negli ultimi anni rispetto alle fasi precedenti alle crisi del passato. Vi sono, però, ulteriori e più rilevanti specificità, che connotano la situazione odierna. Innanzitutto il “sistema bancario ombra” ha di fatto generato un alto potenziale di rischio sistemico. L’eliminazione nel 1999 dello Glass Stegall Act (Eichengreen, 2008), che separava il credito a breve da quello a medio-lungo termine, ha portato ad un incremento di tale potenziale, grazie anche al fatto che in tal modo i mercati sono dominati da istituti con un basso rapporto tra capitale e debito. Sulle orme della visione esposta dallo stesso Bernanke (2005), 167 altri analisti hanno sottolineato l’importanza degli ampi “squilibri esterni”, consolidatisi nell’ultimo decennio: dal 2002 in poi, nella ripresa seguita allo scoppio della “bolla speculativa connessa alla new economy, gli Usa hanno mostrato un’ accentuazione della tendenza -in atto dagli anni ’80- ad una declinante formazione del risparmio nazionale sia nella componente pubblica che privata, fino a raggiungere valori negativi” (Obstfeld e Rogoff, 2004). Per contro nei Paesi emergenti, specie dell’Estremo Oriente, i tassi di risparmio sono stati crescenti ed elevati, formando eccedenze attratte dalle opportunità di investimento fornite dal mercato finanziario statunitense (Bosworth e Flaaen, 2009). In questa prospettiva Bosworth e Flaaen individuano le specificità Usa dell’odierna crisi globale nella combinazione di due elementi basilari: incentivi distorti (bassi tassi di interesse, enorme crescita del mercato sub-prime) e una profondamente distorta regolamentazione dei mercati. È controversa la questione relativa alle reali dimensioni della dinamica involutiva in corso, ma un dato è indubbio: a differenza di quando accadde durante la grande crisi del 1929, le autorità di (quasi) tutti i Paesi del mondo hanno affrontato gli eventi con una serie di azioni di stabilizzazione senza precedenti. Su tutte è il sostegno diretto al mercato finanziario con iniezioni di liquidità praticamente senza limiti: solo negli Usa la Federal Reserve ha acquistato titoli del Tesoro ed altri a supporto degli interventi diretti a contenere la crisi del mercato immobiliare per circa 1,7 migliaia di miliardi di dollari (Bernanke, 7 aprile 2010). In effetti essa sta contemporaneamente agendo come supervisore del sistema bancario, funzione che non sembra aver esercitato al meglio nel decennio scorso. Misure finanziarie così rilevanti, per di più diffuse in vari paesi, pongono in realtà altri problemi, in merito alla sostenibilità dei debiti pubblici e al probabile scenario involutivo che si avrà quando esse avranno termine. Non è questa la sede per approfondire tali temi; ci limitiamo per il momento ad alcune lezioni che si possono trarre dalle vicende in questione. Oltre alla necessità di modificare profondamente alcune regole basilari del funzionamento del sistema finanziario, il ruolo e la funzione delle Banche centrali richiede un riesame sistematico sulla base di “quattro lezioni-insegnamenti” tratti dalle crisi del passato e da quella odierna (Bernanke, Conferenza al Centro Studi per la Presidenza e Il congresso, 8 aprile 2010): 1) la stabilità finanziaria è 168 condizione essenziale per “la prosperità economica”, non un accessorio; 2) le autorità politiche devono rispondere “con forza e creatività alle crisi finanziarie profonde”; 3) le crisi internazionali richiedono risposte ad una scala corrispondente; 4) la “storia non è mai una guida perfetta”, ma non di rado genera similarità di situazioni, che però richiedono l’elaborazione di idee innovative, modulate sulle specificità che emergono. Siamo dunque in un contesto economico-finanziario in profonda evoluzione, con aspetti fondamentali ancora da chiarire e quindi con diversi insegnamenti che possono essere appresi. Per acquisire ulteriori spunti conoscitivi e stimoli alla riflessione può essere allora utile analizzare le modalità evolutive della dinamica involutiva iniziata nel 2007 e le forme che essa sta ora assumendo, mettendo però l’accento sulle variabili reali (produzione, occupazione, andamento dei settori produttivi). 9.2 Modalità evolutive della crisi. Il “crollo sincronizzato”: comparazioni storiche, specificità odierne Il crollo degli scambi internazionali è stato “improvviso, severo, sincronizzato” (Baldwin, 2009): “per due quadrimestri successivi i flussi commerciali sono stati il 15% al di sotto del livello dell’anno precedente”. Il calo non è stato intenso come nella Grande Depressione, ma molto più rapido. I dati relativi ai 27 Paesi dell’UE e ad altri 10 mostrano andamenti che si sovrappongono quasi del tutto nella rappresentazione grafica, mentre la variazione negativa del commercio è molto maggiore di quella del PIL. In breve, nel periodo che dall’Aprile 2008 al Marzo 2009 la gamma di variazioni negative nelle varie regioni del mondo ha oscillato tra il 25% e il 30%, mentre il PIL mondiale è diminuito del 13% (Baldwin e Taglioni, 2009, p. 48). Nella ricerca di spiegazioni a questa singolarità gli studiosi hanno messo l’accento sui fattori di domanda e fattori di offerta. Per quanto riguarda i primi, viene descritto un vero e proprio “shock da domanda”, dovuto all’effetto “composizione”. Si tratta di questo: una volta scoppiata la “bolla immobiliare”, è caduta immediatamente la domanda di beni il cui acquisto può essere “posposto” (postponeable), beni di consumo durevoli e beni d’investimento. Essi sono una componente non rilevante del PIL, 169 ma costituiscono una quota molto importante del commercio mondiale. In sostanza, quindi, lo shock da domanda si è propagato in gran parte nel world trade e in una percentuale minore nel PIL dei Paesi. La sincronizzazione indica chiaramente una correlazione tra eventi avvenuti in diverse aree geo-economiche; ciò implica che esistono relazioni molto strette fra le loro strutture produttive. Di qui il ruolo che possono aver esercitato processi di trasmissione connessi all’esistenza di legami di produzione verticali (vertical production linkages) (Di Giovanni e Levchenko, 2009). Per quanto concerne i fattori di offerta, Baldwin (2009) descrive l’”effetto isteresi”, per cui l’innesco della crisi e la contrazione non inducono le imprese ad uscire dai mercati, perché l’esistenza di “alti e non recuperabili costi di entrata nei mercati” le spinge ad adottare strategie di riduzione della scala di produzione. Questi spunti conoscitivi inducono a cercare di delineare con precisione la traiettoria evolutiva dell’economia mondiale, in modo da trarre elementi utili per comprenderne le cause. Ripercorriamo brevemente la sequenza di eventi con l’aiuto di Bénassy-Quéré et al. (2009), distinguendo una successione di fasi: 1) estate 2006-207: aumento di crisi di credito “localizzate” negli Usa, emergere di default nel mercato immobiliare, primo affiorare di timori; 2) estate-autunno 2007: inizio di vere proprie crisi di fiducia e tensioni in tema di liquidità; 3) autunno 2007-estate 2008: accumulazione delle perdite e crescenti problemi di liquidità; 4) estate 2008: intensificazione dei fenomeni indicati nel punto precedente. Insolvenza di Fannie Mae e Feeddy Mac, problemi nel finanziamento di banche Usa; 5) settembre 2008: massiccia perdita di fiducia: fallimenti di Lehman Brothers e di altri istituti a livello internazionale; 6) autunno 2008-primavera 2009: la crisi si estende al settore reale. Approfondiamo l’ultimo punto nel tentativo di rispondere a due interrogativi: perché gli effetti reali sono stati così profondi (forti diminuzioni del PIL in molti Paesi) e quali le implicazioni di lungo periodo (natura e durata)? Occorre tenere presente che l’alterazione di meccanismi e circuiti finanziari influenzano le dinamiche reali dell’economia agendo sui seguenti fattori: 1) si generano vincoli nell’offerta di credito (crisi di liquidità, accentuato razionamento e rarefazione del credito); 2) effetto ricchezza, cioè il fatto che la diminuzione dei valori sui mercati finanziari induce la riduzione della spesa 170 per consumi e quindi di quella per investimenti; 3) perdita generalizzata della fiducia, con conseguente decremento di produzione (Reihnart e Rogoff, 2009). Gli aspetti indicati hanno inoltre nel biennio trascorso interagito a scala globale, determinando effetti combinati incontrollabili nell’immediato e al tempo stesso anomalie come quelle attinenti alla difformità di andamento tra commercio mondiale e PIL. Intendiamo riferirci ad una prima peculiarità messa in luce da studi ed analisi. Innanzitutto, come hanno evidenziato Eichengreen e O’Rourke (2010, aggiornamenti di precedenti issues di VoxEU.org di aprile e giugno 2009), la situazione odierna presenta analogie e profonde differenze rispetto agli anni ‘30. La produzione mondiale è diminuita meno nel periodo più recente che nel decennio di raffronto, ma è ancora il 6% meno del picco raggiunto prima della crisi, dopo aver toccato il limite inferiore di -13% (Graf. 9.1). Grafico 9.1 PRODUZIONE INDUSTRIALE MONDIALE (SX). VOLUME DEL COMMERCIO MONDIALE (DX) 110 100 95 100 90 85 90 80 80 75 70 70 65 60 5 10 15 20 25 30 35 Months since peak 40 45 50 Giugno 1929=100 60 5 10 15 20 25 30 35 40 Months since peak 45 50 Aprile 2008=100 Fonte: Eichengreen e O’Rourke (2010), Figg. 1 e 2 L’andamento del commercio mondiale rimane al di sotto dei massimi livelli toccati in precedenza: ha un valore pari all’8% in meno rispetto all’apice pre-crisi, dopo aver toccato il fondo del -20%. Ciò che appare interessante è la durata: negli anni ‘30 il declino del commercio mondiale si è manifestato per quasi tre anni, mentre ora 171 la ripresa è apparsa dopo un anno e mezzo. C’è comunque da osservare che l’evoluzione nel periodo più recente mostra una contrazione del commercio globale del tutto comparabile a quella degli anni ’30, anche se sembra aver raggiunto il punto di inversione inferiore. Non vi sono però segnali univoci di un definitivo superamento, dato l’emergere di elementi che inducono qualche analista a paventare una possibile ricaduta (cosiddetto double dip). Le stime del Fondo Monetario Internazionale (IMF, WEO, Tab. A.9., p. 204; IMF, WEO, Update, Table 1.1, 2010) indicano un decremento in volume di -12,3%, a fronte di variazioni dei prezzi in media di -15,4%, con forti differenziazioni tra beni: notevoli cali per petrolio e metalli (40% in meno), diminuzioni meno marcate ma pur sempre notevoli per altri (oltre il 20% in meno per le materie prime). Tutto ciò avviene mentre, come è noto, nelle economie avanzate si sono verificati riduzioni significative della capacità di produrre di ricchezza, ma minori di quello del commercio mondiale: i valori più alti sono quelli di Giappone (-5,3%), Germania (-4,8%), Inghilterra (-4,8%), Italia (-4,8%). Dall’analisi dei dati emergono, pertanto, due fenomeni rilevanti: la diminuzione del commercio mondiale è stata molto superiore al calo del PIL ed è evidente una sincronizzazione dei processi a livello globale, con una dinamica recessiva con caratteri nettamente più marcati di quelli del 2001 (Graf. 9.2). Grafico 9.2 COMMERCIO MONDIALE IN VOLUME E IN VALORI UNITARI Trade collapse in 2009 110 Trade collapse in 2009 170 160 100 150 140 World exports volume Fonte: Berthou e Emlinger (2010), Fig. 1 172 2000M7 2000M9 2000M11 2001M1 2001M3 2001M5 2001M7 2001M9 2001M11 2002M1 2002M3 2002M5 2002M7 2002M9 2002M11 90 2009M9 2009M7 2009M5 2009M3 120 2009M1 130 2008M1 2008M3 2008M5 2008M7 2008M9 2008M11 Index, base 100 in 2000 180 Unit values Questi “fatti stilizzati” meritano di essere approfonditi con l’individuazione delle cause, perché possono essere espressione di dinamiche strutturali, su cui sarebbe opportuno riflettere. Le analisi svolte da alcuni studiosi hanno prodotto conferme statistiche del grado avanzato di realizzazione di un processo più volte descritto a livello micro oppure da case studies, ovvero la frammentazione dei processi economico-produttivi e la loro distribuzione a livello internazionale attraverso le global value chains ed i global production networks (trattati anche nel precedente Rapporto sul Mercato del lavoro in Toscana per il 2009). Iniziamo cercando di comprendere i fattori causali di due processi verificatisi simultaneamente: crollo del commercio mondiale e recessione sincronizzata in molti Paesi. Per quanto riguarda il primo, non vi sono dubbi che esso sia un evento eccezionale sul piano storico, con peculiarità da mettere in luce adeguatamente. Il dato più evidente è l’intensità del decremento dall’inizio del 2008 alla ripresa (Graf. 9.3). Grafico 9.3 livello del commercio mondiale. Miliardi di dollari 2005 16.000 14.000 12.000 10.000 8.000 6.000 4.000 2.000 1976 1980 1984 1988 1992 1996 2000 2004 2008 Fonte: Cheung e Guichard (2009), Fig. 1 Non meno rilevante è il fatto che vi sia un divario tra il fenomeno appena descritto e la diminuzione della domanda, connessa a quella del PIL nei vari paesi. Quest’ultimo fattore ha evidentemente agito nel generare e diffondere impulsi recessivi, ma ul173 teriori meccanismi devono essersi messi in moto nel determinare il divario da spiegare: tra la seconda metà del 2008 e i primi mesi del 2009, “la contrazione del volume del commercio mondiale è stata otto volte maggiore della riduzione dell’output mondiale” (Cheung e Guichard, 2009, p. 7). Certamente ha influito in modo significativo il credit crunch e la crisi di liquidità, che hanno favorito la diffusione degli impulsi, ma i due fattori non sono sufficienti per un’esauriente spiegazione. Le componenti finanziarie hanno indubbiamente concorso a causare la sincronizzazione recessiva, data l’integrazione raggiunta dai mercati e dall’enorme scala delle connessioni tra entità economiche in essi attive. È da rilevare, però, un elemento nuovo rispetto al passato: la maggiore reattività del commercio mondiale rispetto alle variazioni della produzione di ricchezza, in altri termini la maggiore elasticità del world trade verso il reddito mondiale. Freund (2009a) stima che il suo valore sia salito da 2 a 3,5 negli ultimi anni. Cheung e Guichard (2009, pp. 8-9) introducono a questo proposito una serie di argomenti molto interessanti. Innanzitutto, nel corso degli anni ’90 sono diminuiti i costi di trasferimento delle merci in seguito alle innovazioni tecnologiche nei sistemi di trasporto marittimo e alla liberalizzazione degli scambi, con conseguente rimozione totale o parziale delle tariffe. Di qui la potenziale maggiore sensibilità a variazioni di reddito. Bisogna tenere anche presente, però, che il PIL è misurato in valore aggiunto, mentre le stime degli scambi commerciali sono effettuate in termini “lordi”. Ciò implica che una crescita del PIL “può portare ad un maggiore outsourcing e quindi a scambi più alti, nella misura in cui un crescente numero di parti e componenti circolano nel globo prima di essere assemblate ed arrivare successivamente al mercato finale” (Freund, 2009, p. 6). Su queste basi è individuabile un ulteriore fattore causale, costituito dalla frammentazione dei processi produttivi, ovvero l’unbundling già discusso nel precedente Rapporto sul mercato del Lavoro (cap. 3). In particolare ciò significa che un qualsiasi bene, prodotto manifatturiero o servizio, è l’esito di flussi di componenti, semilavorati e funzioni, tutti distribuiti su più aree. Hummels et al. (2001) hanno stimato che oltre il 30% della crescita del commercio mondiale è dovuto alla specializzazione verticale, cioè alla creazione e al consolidamento di sequenze economico-produttive disperse su una serie ampia di Paesi e aree. Il metodo impiega174 to da Hummels et al. (2001, tavole I/O riferite a 10 Paesi OECD e a 4 economie emergenti), è stato esteso da Amador e Cabral (2009) attraverso una metrica che combina informazioni desunte da matrici I/O e dati sugli scambi internazionali per Paesi e aree geografiche. Il punto di arrivo della loro analisi è che tali sequenze economico-produttive riguardano in modo particolare prodotti high-tech e sono l’elemento fondamentale alla base dell’integrazione economica crescente nell’Estremo Oriente durante il decennio in corso. Le international supply chains (vertical linkages) avrebbero quindi svolto la funzione di amplificatore degli impulsi di contrazione della domanda, dal momento che i flussi di import/export connessi a tali sequenze economico-produttive producono variazioni degli scambi che sono un multiplo della variazione negativa iniziale (Bems et al., 2009; Yi, 2009). Naturalmente questo avviene in entrambe le direzioni e può pertanto contribuire alla spiegazione sia del divario e dell’intensità prima segnalati, sia della ripresa negli ultimi mesi. È possibile individuare delle ulteriori conferme di questa tesi, finora argomentata sulla base di analisi delle matrici I/O. Intendiamo riferirci alla composizione settoriale dei processi di diffusione delle spinte recessive, nel senso che i settori maggiormente investiti dai processi di specializzazione verticale dovrebbero aver risentito in misura più consistente della dinamica indicata. Ebbene stime dell’OECD, riprodotte in Cheung e Guichard (2009), indicano che proprio le produzioni più “globalmente frammentate” rappresentano una larga quota degli scambi internazionali: veicoli a motore, beni d’investimento, beni di consumo durevoli (si veda anche Feund, 2009, Fig. 14, con un’analisi molto specifica per tipologie di prodotto). Si tratta delle attività sulle quali ha inciso in misura più consistente la contrazione del world trade, con la controprova in atto: la ripresa in atto da alcuni mesi vede le stesse componenti mostrare un dinamismo più accentuato (OECD, 2010a). L’incremento di elasticità degli scambi rispetto al reddito pare confermata da un altro elemento: i valori più di elevati di essa sono rilevati non solo per i comparti merceologici, ma anche per le aree geografiche dove le International supply chains hanno mostrato una dinamica particolarmente significativa. Nel caso dell’Estremo Oriente, il Giappone e i Paesi ASEAN-5 (Filippine, Vietnam, Tailandia, Malesia, Indonesia) sembrano confermare l’ipotesi interpretativa; non è così per la Corea, dove le grandi 175 imprese hanno attuato strategie di risposta alla crisi di grande interesse ed efficacia (vedi oltre). In merito al “duro colpo” subito dall’economia giapponese Wakasugi (2009) ha descritto il processo di creazione di una “triade commerciale” (Usa, Cina, Giappone), sviluppatosi negli anni 2000-2007: crescenti importazioni americane di prodotti cinesi, flussi di componenti e beni intermedi dal Giappone alla Cina, per poi essere esportati. La brusca caduta dell’import statunitense si è riverberato in misura amplificata, anche perché nel corso del tempo il Giappone ha ristretto la gamma dei beni di alta gamma esportati negli Usa ed ha ampliato quella dell’export verso il sistema cinese. Per questa via l’economia giapponese è diventata direttamente vulnerabile ad improvvise variazioni della domanda Usa e al tempo stesso maggiormente colpita da ripercussioni accresciute dalla “triangolazione” con la Cina. Per quanto riguarda la Corea, un recente studio comparato di global player internazionali e di un campione delle prime 100 imprese coreane, appartenenti a 10 settori industriali, ha messo in luce i disegni strategici grazie ai quali sia i primi che le seconde sono riusciti a realizzare percorsi di crescita (SERI, 2010a). Sono stati individuati vari tipi di risposte strategiche, differenziate per tipologie merceologiche: 1) diversificazione verticale oppure orizzontale lungo la catena del valore, per massimizzare il potere di negoziazione e ottenere una stabile dotazione di risorse, quindi un accesso ai mercati in posizioni di leadership (10 imprese del comparto dell’acciaio e del settore energetico); 2) sviluppo della capacità di soddisfare la domanda di un mercato “segmentato” (“customized”), attraverso le seguenti direzioni strategiche: ampliamento della gamma di prodotti (“product portfolio”) per rispondere ad esigenze sempre più diversificate dei consumatori; combinazione di servizi alla clientela, al fine di ottenere profitti di lungo periodo, competitività dei costi mediante un’incessante innovazione di processo (15 imprese dell’elettronica, delle ICT, dell’auto, della cantieristica, incluse HP, Volkswagen); 3) sviluppo di partnership a breve e lungo termine in progetti di R&S, in modo da massimizzare le probabilità di successo di nuovi prodotti e coniugare strategie globali e identità locali (farmaceutica, alimentare, distribuzione, 15 imprese incluse Pfizer, Nestlé e Tesco); 4) perseguimento di economie di scale e di varietà, crescita basata su domanda interna e contemporanea internazionalizzazione dell’attività (telecomunicazioni, costruzioni, 10 imprese incluse Vodafone, Vinci). 176 Questi spunti conoscitivi aiutano a comprendere come, proprio durante la fase critica, vi sia stata un’accelerazione dei disegni di ristrutturazione industriale, basati su avanzamenti tecnico-scientifici e una profonda revisione dei modelli manageriali. La realizzazione di combinazione di successo tra questi fattori dipende in modo cruciale dalla capacità di perseguire strategie multi-dimensionali, ovvero dallo sviluppo di meccanismi dinamici su molti piani: costi, tecnologia, diversificazione, specializzazione verticale/orizzontale, ecc.. Tornando alla riflessione avviata sulla dinamica “atipica” del commercio internazionale, è interessante rilevare che il perseguimento di specializzazione verticale mediante investimenti diretti all’estero è stato particolarmente accentuato per le multinazionali giapponesi, che hanno fortemente distribuito fasi del ciclo produttivo in paesi con abbondante forza lavoro unskilled (Tanaka, 2009b). Per contro le grandi imprese Usa avrebbero investito e frammentato le sequenze economico-produttive in un numero limitato di Paesi (Canada, Messico). Ciò contribuisce a spiegare in misura significativa il maggiore impatto negativo della crisi sul Giappone, protagonista molto più attivo degli Usa nei processi di specializzazione verticale (Tanaka, 2009a). Oltre alla sua intensità, un altro aspetto del crollo del commercio internazionale ha colpito l’attenzione di analisti e studiosi, cioè la “grande sincronizzazione” tra più Paesi con valori negativi, come è stata definita (Araùjo e Martins, 2009). Anche dopo l’11 Settembre c’è stata una diminuzione generalizzata degli scambi internazionali, ma il fatto nuovo del 2008 è che oltre il 90% dei Paesi OECD hanno registrato cali delle importazioni e dell’export superiori al 10%. Abbiamo già indicato in precedenza che non tutti i sottoinsiemi dell’industria sono stati caratterizzati dalla contrazione, che ha investito in misura più accentuata beni durevoli e strumentali, componenti di autoveicoli, e così via. A tutto ciò va aggiunto un altro fenomeno molto interessante: la sincronizzazione recessiva ha interessato quasi tutti i Paesi e i settori economico-produttivi, ma emerge una differenza sostanziale tra servizi e beni, in quanto i primi hanno subito un declino molto meno marcato. I primi, che costituiscono un quinto degli scambi mondiali, hanno evidenziato una “resilienza” sorprendente (OECD, Monthly Statistics of International Trade, http://stats. OECD.org), con addirittura un decremento di appena -10%, ne177 gli Usa, a fronte dei valori molto più accentuati della produzione manifatturiera (Borchert e Mattoo, 2009). È anche interessante rilevare che all’interno dell’aggregato in questione i comportamenti sono stati molto eterogenei: se le attività di trasporto e quelle turistiche sono scese in modo consistente, non altrettanto è accaduto per le assicurazioni e le telecomunicazioni, quelle inerenti al business24 e alle componenti tecnologiche, che sono addirittura leggermente aumentate. Va inoltre rimarcato che Paesi come l’India, particolarmente specializzata in servizi a livello internazionale, hanno visto contrazioni abbastanza contenute delle relazioni di scambio con gli Usa e altre aree economiche. Nel determinare tale tendenza possono aver agito diversi fattori: 1) particolari tipologie di attività terziarie sono meno dipendenti dalla finanza per il loro svolgimento; 2) sulla domanda di alcuni servizi agiscono meccanismi di “attaccamento”, che la rendono meno sensibile, in quanto gli aspetti discrezionali sono attenutati dalla necessità di ricorrere ad essi. Siamo dunque di fronte ad un’altra peculiarità dell’evoluzione odierna, tale da rendere ancora più problematico il quadro e incerte le prospettive di fuoriuscita dalla crisi, nella misura in cui l’eterogeneità degli andamenti e le “anomalie” rispetto agli schemi consolidati di analisi deve indurre alla cautela interpretativa e alla prudenza nel formulare ipotesi previsive. 9.3 La crisi in Italia Anche il nostro Paese, né poteva essere altrimenti, è stato investito dalla dinamica recessiva, con una diminuzione del PIL nel periodo 2008-2009 di circa 6 punti percentruali, valore più lato di quello registrato nelle crisi del 1992-93 (-1,9%) e del 197475 (-3,8%). L’intensità e la durata sono state le più elevate del dopoguerra e potrebbero essere analoghe a quelle degli anni ’30 (Bassanetti et al., 2009). La flessione ha riguardato soprattutto l’industria in senso stretto, con un calo del valore aggiunto di -16,7%, anche in questo caso il valore più elevato degli ultimi decenni, unitamente ad un dato emblematico: “le quantità prodotte, misurate dall’indice di produzione industriale, sono scese Il riferimento qui è alle attività e funzioni legate alle transazioni economico-produttive e finanziarie a scala internazionale. 24 178 nella primavera del 2009 sui livelli del 1987” (Bassanetti et al., 2009, p. 9). Anche in Italia, dunque, emerge una certa “resilienza” dei servizi, anche se nel nostro caso devono aver agito fattori specifici, non facilmente generalizzabili ad altri Paesi. Se il crollo delle esportazioni nel periodo (primo trimestre 2008-primo semestre 2009) ammonta a -21,7%, la spesa per consumi ha mostrato contrazioni di notevole intensità, superiore al 15% per i beni di consumo durevoli e di poco inferiore al 10% per quelli semidurevoli. In queste condizioni il reddito disponibile delle famiglie non poteva che vedere accentuato un profilo di progressivo indebolimento, iniziato negli anni ’90: “Dal 1992 la crescita media annuale del potere d’acquisto è stata infatti solo dello 0,3%... I redditi da lavoro, in termini reali e pro capite, sono rimasti pressoché invariati sui livelli dei primi anni ’90, sia per gli autonomi che i dipendenti” (Bassanetti et al., 2009, p. 12). Ulteriori elementi conoscitivi molto interessanti possono essere desunti dall’Indagine annuale Banca d’Italia presso un campione di circa 4000 imprese (Bugamelli et al., 2009). Dall’ottobre 2009 al marzo 2009 il fatturato è diminuito in media del 20%, con effetti reali più marcati nelle imprese industriali maggiormente orientate all’esportazione e alla produzione di beni strumentali. Le imprese hanno reagito alla contrazione dei mercati con differenti e complementari strategie. Innanzitutto si è cercato di comprimere i costi e i margini di profitto, a cui si è unita una riduzione degli input di lavoro facendo prevalentemente ricorso a tutte le forme possibili di flessibilità. Il dato più preoccupante è il calo significativo degli investimenti, ma bisogna tenere presente che il quadro delle imprese italiane rappresentate dal campione è più diversificata di quanto emerge dal dato medio. Dall’indagine risulta, infatti, che la capacità di reazione alla crisi e quindi di contenerne gli effetti negativi è molto più accentuata in quelle unità (appartenenti a molti settori economici) che hanno avviato un processo di ristrutturazione verso un miglioramento della propria posizione competitiva, mentre per le altre aumentano le posizioni debitorie e l’orizzonte futuro diviene problematico. Da queste sintetiche informazioni possiamo dedurre che esiste una parte non esigua del sistema produttivo che non è stata sorpresa dalla dinamica involutiva dell’economia mondiale ed è tuttora in grado di riposizionarsi nello scenario competitivo. 179 Rimane sempre però, come vedremo successivamente, la debolezza di fondo del sistema nel suo complesso, dal momento che determinate proprietà basilari rendono l’economia italiana molto vulnerabile rispetto ai cambiamenti delle coordinate generali e dei parametri di comportamento strategico imposti dalla dinamica tecno-economica in atto e prevedibile per il prossimo futuro. 9.4 L’evoluzione nel periodo più recente 9.4.1 “Rimbalzo” o ripresa? Le misure di sostegno e stimolo adottate nei vari paesi hanno indubbiamente prodotto effetti nel breve periodo, se la dinamica involutiva ha toccato il fondo e segnali di ripresa sono emersi nel periodo più recente. Occorre tenere presente che un ammontare senza precedenti di risorse è stata destinata a fini di stabilizzazione: poco più di 2 trilioni di miliardi, l’82% dei quali ad opera di 4 Paesi (Usa, Cina, Giappone, Germania) (GIA; 2009). La quota più cospicua è quella statunitense: 787.000 miliardi di dollari su 10 anni, pari al 5,9% del PIL annuale, con obiettivi di sviluppo di lungo periodo incentrati su energie rinnovabili, trasporti, modernizzazione delle infrastrutture, riforma del sistema sanitario. Le risorse finanziarie cinesi ammontano a 586.000 miliardi di dollari, pari a circa il 13% del PIL, finalizzati al sostegno della domanda interna, all’upgrading tecnologico del sistema economico, al miglioramento del sistema di sicurezza sociale, alla stabilizzazione finanziaria. Tra i settori maggiormente interessati sono i trasporti e le infrastrutture energetiche, l’ambiente, l’istruzione e la sanità. Il Giappone ha destinato 207.000 miliardi di dollari (4% del PIL), soprattutto in industrie-chiave. La Germania ha previsto somme pari a 109.000 miliardi di dollari (3,4% del PIL), orientate a varie forme di riduzione del peso fiscale e in progetti di investimento a livello federale e municipale. Tutte queste misure, finalizzate ad ottenere effetti di lungo periodo, si aggiungono ai poderosi interventi di sostegno del sistema finanziario, tramite acquisti -da parte delle banche centrali- di titoli detenuti dagli intermediari finanziari soggetti a rischi di insolvenza. L’entità delle risorse impiegate o previste può aver indubbiamente influenzato la repentina e inattesa rivitalizzazione 180 dell’economia globale a partire dal secondo semestre 2009, con previsioni di ulteriore crescita per il 2010, sia pure differenziata per i vari Paesi ed aree. Il rovesciamento della tendenza recessiva è effetto di una drastica ripresa del commercio mondiale, cresciuto a giugno 2010 del 21% rispetto al punto di minimo di un anno prima (Carnegie Endowment, 2010). Abbiamo dunque assistito ad una sequenza atipica: un crollo improvviso e molto intenso, seguito da un processo inverso con proprietà analoghe, con andamenti più accentuati di quelli rilevati durante le crisi precedenti. Bisogna comunque tenere presente che la produzione industriale è cresciuta di 12 punti percentuali rispetto al punto di minimo, ma rimane del 2% inferiore al picco pre-crisi. Uno degli aspetti più rilevanti della nuova situazione è la differenza di comportamento tra le varie aree geo-economiche: l’Estremo Oriente e l’America Latina registrano di nuovo importazioni molto vigorose, mentre l’Europa e gli Usa sono ancora ben al di sotto dell’acme precedente al crollo (-13% circa). Anche la produzione di ricchezza segna un +8% nei Paesi emergenti e valori appena positivi (+2,6%) in quelli sviluppati, ma con significative differenziazioni interne. Per quanto riguarda l’Europa, nonostante il deprezzamento dell’euro (più del 20% rispetto al dollaro e al remimbi negli ultimi sei mesi) e la debole domanda interna, le esportazioni cinesi nell’Unione Europea sono aumentate di più del 30%, in linea con il trend generale dell’export di quel Paese (Carnegie Endowment, 2010). Gli andamenti indicano un chiaro rovesciamento degli indicatori riferiti al processo involutivo precedentemente descritto: vi è una netta ripresa degli acquisti mondiali di beni “sensibili al credito” (veicoli a motore e beni di investimento), dal momento che i primi sono aumentati del +25% nel primo quadrimestre del 2010. Emerge una chiara rivitalizzazione dei mercati finanziari, con flussi in crescita di +3% nel 2009, anche se permangono restrizioni quantitative e qualitative. Una nota significativa può essere desunta dagli indicatori concernenti gli squilibri commerciali: dopo essersi ridotti in modo sostanziale in conseguenza della crisi, sono di nuovo in aumento il deficit dei conti con l’estero USA e il surplus europeo (specie della Germania) e del Giappone25. 25 Il deficit USA è sceso dal 5,9% del 2007 al 2,9% del 2009, ma è previsto al 3,5% nel 2010; il surplus del Giappone, diminuito dal 4,9% del 2007 al 2,8% del 2009, dovrebbe risalire al 3,1% nel 2010; il surplus della Germania, passato negli stessi anni di riferimento dal 7,7% al 6,1%, dovrebbe scendere ulteriormente al 5,7% nel 2010 per poi tornare al 6,4% nel 2011. 181 Più in generale le previsioni WTO e OECD sul commercio internazionale ipotizzano tassi di crescita intorno al 10% nel 2010, mentre indicatori di centri specializzati indicano per gli Usa un itinerario di crescita continua degli ordini (Morgan, 2010), che dura da oltre 14 mesi (ISM, 2010). I motori della ripresa sono comunque le economie emergenti, tra le quali in primis la Cina, il cui contributo alla crescita del PIL mondiale dovrebbe essere del 20% nel 2010 (Carnegie Endowment, 2010). 9.4.2 “Era della bassa crescita” o di un cambiamento nel potenziale di crescita delle economie? Tutti questi elementi inducono a porsi il seguente quesito: dopo la fine dell’era della “crescita elevata” siamo entrati nell’“era della crescita lenta” (SERI, 2010b) e dominata dall’incertezza? Innanzitutto si profilano “nuovi pericoli per l’economia mondiale” (The Economist, 2010c): 1) la forza della ripresa; 2) il problema dei “debiti sovrani”; 3) l’abilità strategico-decisionale e il coordinamento internazionale tra le autorità di politica economica nel ridurre gli interventi di sostegno all’economia. Questi tre elementi sono in realtà tra loro strettamente integrati: gli effetti più devastanti della crisi sono stati evitati con le grandi “iniezioni di liquidità” nel sistema da parte delle Banche Centrali e bassi tassi di interessie con una strategia definita “quantitative easing”. L’intervento di emergenza ha prodotto l’effetto sperato, ma come e quando smettere con “la medicina” (The Economist, 2010d) a cui il paziente è forse ormai abituato? Studiosi ed analisti iniziano a parlare di exit strategy e già emergono almeno due “scuole di pensiero”: la prima (nell’ambito del Fondo Monetario Internazionale) sostiene che è prematuro ipotizzare la fine delle azioni di stimolo alle economie sviluppate prima del 2011, con politiche di contenimento monetario e fiscale; la seconda, sostenuta dalla Banca Centrale Europea ma ancora minoritaria, argomenta che non sono più efficaci le misure “keynesiane” finora intraprese di supporto alla domanda privata e pubblica ed occorra procedere al riordino delle finanze pubbliche. In effetti le incognite che gravano sullo scenario mondiale sono molte, fino a determinare prospettive dense di incertezza (SERI, 2010c). La ripresa è stata indubbiamente favorita dai programmi di stimolo su larga scala intrapresi dai governi, ma i debiti pubblici sono saliti in misura preoccupante e nel terzo tri182 mestre dell’anno in corso un rilevante ammontare di titoli pubblici verranno a scadenza in non pochi Paesi. L’eventualità di rischi di default per taluni di essi non è remota, alla luce di quello che è accaduto in Grecia e del fatto che le maggiori banche europee detengono il 75% del debito dei Paesi del Sud Europa. Siamo quindi di fronte ad una consistente interdipendenza fiscale all’interno dell’Unione Europea, anche se normative e regole di comportamento restano profondamente difformi. Ciò significa che non è del tutto arbitraria l’ipotesi di un ulteriore credit crunch, qualora emergano le avvisaglie di tensione sui fabbisogni pubblici, specialmente in relazione ai cambiamenti della regolamentazione indotte dall’attuazione del famoso accordo di Basilea sulla supervisione del sistema bancario. A questi fattori di debolezza o di rischio fanno da pendant componenti positive quali la rapida crescita cinese, e la vitalità che sembra mostrare l’economia Usa, che è ancora il principale motore della crescita mondiale, dal momento che costituisce ancora il 26,4% del PIL mondiale e il 12,8% delle importazioni globali. Il Samsung Economic Research Center ritiene bassa la probabilità di una nuova contrazione economico-produttiva generalizzata (double dip), ma un nuovo pericolo sembra profilarsi all’orizzonte: la crescita dei prezzi delle materie prime. Quello del petrolio è salito a 87 dollari al barile, cioè ad un ritmo analogo a quello del 2008, il rame è aumentato quest’anno del +6,2%, il nickel di +37,2% e anche l’acciaio, uno degli ingredienti basilari dello sviluppo industriale, sta aumentando (SERI, 2010c). È dunque possibile la ripresa dell’inflazione in alcuni Paesi, soprattutto alla luce del fatto che l’andamento crescente dei costi degli input primari si basa sul rinnovato vigore della dinamica dei Paesi emergenti, in primo luogo la Cina, le cui importazioni sono aumentate del 6% su base annua. La vitalità economicoproduttiva cinese implica una probabile crescita della domanda di altri Paesi dell’Estremo Oriente e non solo, grazie ai profondi legami esistenti nell’ambito dei processi di specializzazione verticale e dei global production networks (vedi § 9.5.2.). Non è quindi improbabile che la ripresa in atto inneschi una crescita diffusa dei prezzi a causa di una domanda globale che si addensa su un’offerta di input primari non elastica nel breve priodo, senza considerare la possibilità di eventi infausti come il disastro conseguente allo scoppio della pitattaforma petrolifera della BP nel Golfo del Messico. In questo caso potrebbe innescarsi un circolo 183 vizioso di questa natura: pericoli inflazionistici possono minare i germi della ripresa in atto con l’innesco di una contrazione della domanda e al tempo stesso con l’impulso verso vari paesi e imprese global leaders ad attuare strategie preventive di anticipazione dei movimenti dei prezzi tramite l’accumulo preventivo di stock degli input. Ciò sia al fine di stabilizzare i prezzi26, sia allo scopo di sfruttare variazioni di valore degli asset nel corso del tempo. Data l’abbondanza di liquidità esistente sui mercati finanziari di tutto il mondo non è difficile immaginare che i movimenti speculativi possano prendere consistenza e generare un circuito di interazioni esplosive con le spinte strategiche del primo tipo. Queste considerazioni e i fenomeni indicati costituiscono l’espressione esteriore di processi strutturali che hanno modificato e stanno modificando l’economia mondiale. Essi devono essere messi al centro dell’analisi, se si intende comprendere le forme e l’intensità delle trasformazioni e i sentieri futuri dell’evoluzione globale. Cerchiamo allora di mettere a fuoco quali sono le “forze” che stanno modellando l’economia mondiale. Tabella 9.4 Transizione di sistema a livello internazionale Alta crescita Modello pre-crisi Modello post-crisi Era della “low growth” Neo-liberismo Funzioni delle Istituzioni Leva finanziaria e investimenti rischiosi Nuove regole di funzionamento e riduzione delle possibilità di indebitamento Rapida crescita dell’apparato finanziario Nuove funzioni del sistema finanziario Egemonia dei paesi industrializzati negli accordi internazionali Ruolo crescente dei Paesi emergenti Una sola moneta di riserva Indebolimento del dollaro come moneta di riserva Egemonia dei Paesi industrializzati sui mercati delle risorse Fonte: adattamento da SERI (2010b) Mondo “multipolare” Alcuni parametri strutturali di base sono radicalmente cambiati oppure si stanno modificando (Tab. 9.4). Gli alti valori del In Seri (2010c) viene esplicitamente formulato questo tipo di ipotesi. 26 184 la propensione al consumo, basata sull’indebitamento e in genere sulla sovra-esposizione verso gli istituti finanziari, sono un ricordo del passato, dati i vincoli all’erogazione del credito, la tendenza generale alla compressione dei redditi, la crescita della disoccupazione e l’impennata dei deficit pubblici che impongono pesanti restrizioni sugli interventi delle istituzioni. Fattori analoghi condizionano negativamente la tendenza ad investimenti rischiosi, anche se l’enorme immissione di liquidità da parte delle Banche centrali viene da analisti finanziari ritenuta foriera di prossimi movimenti speculativi. Cambiamenti sostanziali del sistema finanziario (deleveraging) e nuove regole di funzionamento sono inevitabili, con conseguente mutamento di meccanismi basilari delle strategie decisionali degli agenti. Ciò è tanto più importante in quanto una delle coordinate di fondo delle economie nei prossimi decenni è la ristrutturazione dei sistemi di produzione sulla base di un radicalmente diverso impiego degli input energetici e lo sviluppo di traiettorie innovative. Si tratta infatti di uno dei campi scientifici in cui è atteso uno dei più consistenti avanzamenti della frontiera tecnico-scientifica. Connessa al punto precedente è la crescente competizione a livello internazionale nell’acquisizione e nell’uso delle risorse basilari per le economie. Ciò naturalmente dipende anche dallo sviluppo impetuoso di nuovi Paesi e dal progressivo spostamento delle relazioni egemoniche, nel senso che è in corso un processo di ridefinizione dei rapporti a scala mondiale verso un assetto “multipolare”. In questo scenario è probabile che vada ripensata la funzione delle istituzioni, passando da una visione neo-liberista ad una che riprenda in considerazione, anche se su scala molto differente geo-economica, temi fondamentali della Teoria Generale di Keynes, quali l’instabilità della funzione degli investimenti (Cap. XXII) e il possibile ruolo stabilizzatore delle azioni di politica economica. Vanno in questa direzione importanti indicazioni formulate dal Council of Economic Advisors del Presidente Usa. Nell’ultimo Economic Report of the President (Febbraio 2010) sono stati esposti i capisaldi di un’impostazione strategica che potrebbe avere rilevanti effetti di lungo periodo. Il fulcro è il binomio tra ripresa e riorientamento della spesa pubblica, perché non è importante solo l’inizio di una nuova fase di crescita, bensì so185 prattutto il mutamento nella composizione della spesa: “the composition of spending needs to be reoriented” (CEA, 2010, p. 118, cap. 4). Ciò significa che nel prossimo futuro una crescita stabile di lungo periodo richiede aggiustamenti di grande portata: 1) minore ruolo della spesa per consumi e contenimento del mercato immobiliare; 2) aumento del risparmio privato; 3) rovesciamento della tendenza in atto dal 2001 e ripresa di una dinamica degli investimenti, che possono alimentare una traiettoria espansiva di lungo periodo; 4) riordinamento del sistema finanziario, dal momento che solo mutamenti della composizione così significativi sono strettamente connessi a cambiamenti strutturali nella sfera finanziaria; 5) raddoppio delle esportazioni in 5 anni. Abbiamo in precedenza visto, però, che in realtà la ripresa ha portato di nuovo ad un peggioramento del deficit dei conti con l’estero Usa, mentre l’economia americana da poderosa job creating machine si sta trasformando in un sistema con debolezze di fondo. Innanzitutto il mercato del lavoro statunitense è tornato al livello di occupazione del 1991: “oggi sono al lavoro gli stessi americani del 1991” (The Economist, 2010a) e la disoccupazione è al livello più alto mai raggiunto dopo la Grande Depressione. La ripresa nel Maggio 2010 non ha ancora portato occupazione a milioni di persone senza lavoro in conseguenza della recessione e tutto lascia pensare che, mentre nelle precedenti crisi del 1991 e del 2001 il periodo per il ritorno al picco occupazionale è stato abbastanza lungo (rispettivamente 23 e 39 mesi), questa volta il lasso temporale sarà quasi certamente più ampio (The Economist, 2010a). Quali le cause di questa ripresa contraddistinta da questa bassa capacità di creare posti di lavoro? Non sembrano fondate ipotesi attinenti alla domanda, perché in tal caso l’assorbimento occupazionale sarebbe maggiore. In realtà non siamo di fronte solo a una questione di ordine quantitativo, bensì a problemi concernenti la struttura dell’apparato produttivo. La disoccupazione non ha uniformemente colpito tutti i settori produttivi, ma li ha investiti con intensità molto differente e il peso della crisi si è distribuito in modo asimmetrico nel sistema economico. Ai fini di una ripresa stabile sarà necessario avviare un processo di aggiustamento strutturale tra settori e affontare problemi di mismatch delle competenze di coloro che hanno perso lavoro rispetto ai fabbisogni di un apparato di produzione soggetto a forti cambiamenti. La consapevolezza di questo problema di fondo è al centro di molte analisi interessanti dell’evoluzione di lungo termine dell’e186 conomia americana. Sono stati infatti analizzati aspetti molto importanti, connessi al prolungamento dello status di disoccupato. Innanzitutto il rischio che la disoccupazione diventi una “trappola” (The Economist, 2010b): la lontananza dal posto di lavoro può provocare la perdita di alcuni skills oppure la necessità di partire da zero. In molti casi può poi accadere che la persone in tali condizioni possano andare incontro a difficoltà sempre maggiori proprio per il divario tra skills e nuove esigenze generate dai processi di aggiustamento strutturale. Un altro aspetto molto importante, analizzato dagli studiosi (ad esempio Kahn, 2009), è la perdita progressiva della capacità di ottenere il reddito percepito prima della caduta nella disoccupazione. L’arretramento progressivo e sostanziale delle potenzialità reddituali certamente non favorisce la ripresa, può anzi indebolirla, mentre le coorti di popolazione di età più avanzata possono andare incontro a perdite consistenti sul piano del trattamento previdenziale, intensificando così fenomeni di disuguaglianza dei redditi. Per tale via, infatti, coloro che sono privi di titoli di istruzione superiore avranno gravi difficoltà di reinserimento, che diminuiscono via via che aumenta il livello di istruzione richiesto; molto ovviamente dalla capacità di realizzare un positivo macthing dinamico tra domanda e offerta di lavoro e di competenze. Bisogna tenere anche presente che è molto difficile prevedere gli effetti a catena endogeni a processi come quelli descritti in un quadro di trasformazione strutturale. Uno degli elementi meno controversi dello scenario odierno è indubbiamente lo spostamento progressivo del meccanismo propulsore dalle economie sviluppate a quelle emergenti, né potrebbe essere diversamente in presenza di realtà di dimensioni continentali (Cina, India), che divengono protagoniste di uno sviluppo accelerato e su scala mai vista prima nella storia umana. Non bisogna poi dimenticare la dinamica tecnologica, che consente flussi internazionali di merci, informazioni e persone, dando pertanto origine ad un vero e proprio mercato internazionale del lavoro, dove competono un numero sempre maggiore di funzioni economico-produttive (unbundling dei processi produttivi, task trade, vedi Rapporto sul Mercato del lavoro 2009, cap. 3.3). Un altro aspetto, connesso a quelli evidenziati, è l’enorme incremento dei consumatori, appunto nelle realtà emergenti. A queste due “forze modellatrici dell’economia globale” (McKinsey, 2010) vanno aggiunte altre, ad esse strettamente legate: 1) 187 l’ingresso sul mercato mondiale di popolazioni giovani e con titoli di studio crescenti, oltre che con livelli di reddito molto contenuti, è destinato a generare pressioni molto elevate sulla produttività del lavoro anche e soprattutto dei Paesi più avanzati; 2) l’importanza di gestire un ciclo economico-produttivo che si basa su competenze diversificate, appartenenti a livelli qualitativi molto articolati sul piano tecnico-scientifico. Un’implicazione di ciò è la centralità assunta dal loro management in un mercato del lavoro sempre più globale; 3) il controllo e gestione strategica delle risorse naturali deve diventare una priorità essenziale degli orizzonti di lungo periodo di organismi pubblici e imprese private; 4) il ruolo crescente dei governi non solo a fini di contenimento della crisi, bensì soprattutto di stabilizzazione a lungo termine delle economie è ritenuto essenziale. La consapevolezza più o meno esplicita dell’azione di queste forze nel modellare l’economia mondiale è presente nella survey effettuata da McKinsey presso un campione di global player. Non è comunque arbitrario ipotizzare che lo scenario odierno sia estremamente incerto per la compresenza di fattori ambivalenti: essi possono agire da vincoli e al tempo stesso costituire innesco di nuove potenzialità da sviluppare oppure da cogliere mediante adeguate strategie. Si pensi all’aumento del prezzo degli input primari che, opportunamente messo a fuoco, potrebbe dare origine da un lato a disegni di radicale trasformazione dei processi produttivi e dei modelli di consumo, dall’altro ad un rilevante sviluppo tecnico-scientifico. La Corea e le imprese coreane da tempo si muovono infatti su questa strada con risultati già visibili, sia dal punto di vista della loro collocazione vicino alla frontiera tecno-economica che sul piano del successo nella competizione internazionale proprio durante il biennio di crisi. Un altro esempio potrebbe essere costituito dall’invecchiamento della popolazione, il quale è fonte di preoccupazioni circa la sostenibilità della spesa pensionistica e il potenziale di sviluppo di un’economia, alla luce della possibile riduzione della produttività di un sistema nel suo complesso. Più in generale, poi, le problematiche ambientali sono destinate ad influenzare profondamente lo svolgimento di processi di produzione e le sfera di vita e consumo delle popolazioni, ponendo vincoli stringenti alle tradizionali modalità di utilizzazione delle risorse. Si pensi ai sistemi di trasporto, ai sistemi di produzione e distribuzione dell’elettricità, ai modelli di costruzione delle case, per fare solo 188 alcuni esempi. Anche in questi casi i vincoli devono indurre a nuovi schemi concettuali, nuovi frames tecno-economici, tali da indurre a formulare ed attuare nuove strategie di potenziale sviluppo produttivo e occupazionale (vedi § 9.6). Dagli elementi conoscitivi addotti si evince nettamente che i processi di scambio a livello internazionale sono le forme emergenti di profondi cambiamenti, verificatisi nell’organizzazione dei cicli economico-produttivi e nelle modalità con le quali nuove realtà nazionali e continentali entrano nella ribalta internazionale. Cerchiamo di delineare una macro-rappresentazione degli esiti di tali processi per trarne implicazioni in termini di prospettiva a livello generale e per quanto concerne singoli Paesi ed aree. 9.5 Evoluzione dello spazio tecno-economico internazionale: combinazione dinamica di flussi di scambio, modelli di organizzazione di attività e funzioni economico-produttive, mutamenti socioeconomici 9.5.1 Dinamica e caratteristiche dei flussi di scambio a livello internazionale Iniziamo tratteggiando l’evoluzione geo-economica e mettendo in relazione i flussi di scambi e il ruolo svolto da Paesi e continenti. Una considerazione preliminare è doverosa: i comportamenti differenziati di crescita e sviluppo delle aree sono l’esito di complesse dinamiche, in cui si intrecciano evoluzione tecno-produttiva, cambiamenti nella composizione settoriale delle economie, evoluzione dei modelli di organizzazione delle imprese nonché delle loro strategie e regole d’azione, meccanismi di intervento pubblico, proprietà costitutive dei sistemi economici, propensione al cambiamento delle popolazioni in base a valori e a schemi di percezione collettivi. Siamo in sostanza di fronte ad una delle epoche storiche caratterizzate da intensi processi di trasformazione, che hanno due caratteristiche fondamentali: 1) hanno natura multi-dimensionale, in quanto sono molteplici le fonti del cambiamento e i fattori che influenzano i percorsi evolutivi; 2) sono multi-scalari, perché gli stessi fattori agiscono simultaneamente a molti livelli, determinando situazioni complesse di interazioni a differente scala. Il primo aspetto su cui fermare l’attenzione è il grande cambiamento intervenuto nel decennio 1996-2006 (Graf. 9.5). 189 Il peso dei Paesi emergenti è enormemente cresciuto dal 19,5% al 30%, con l’incidenza quasi raddoppiata dei cosiddetti big five (Indonesia più BRIC, Brasile, Russia, India, Cina), dal 7,6% al 13,4%. Soprattutto la Cina ha triplicato la propria quota, salendo dal 2,7% al 7,6%, mentre l’India ha mostrato un andamento molto più moderato, anche se nei servizi la sua presenza è aumentata sensibilmente (dallo 0,6% al 2,5%). I Paesi MENA hanno realizzato una notevole performance, passando dall’1,4% al 4,5%. È per contro diminuito lo spazio occupato dai Paesi industrializzati: gli Usa scendono dal 13,9% al 9,5%; il Giappone mostra un significativo decremento dall’8,6% al 5,4%; l’UE ha invece registrato un minore decremento della propria quota in un decennio di forte dinamismo degli scambi internazionali, grazie alla quadruplicazione delle esportazioni verso la Cina e alla triplicazione di quelle verso Russia, Est Europa e i paesi del Centro Asia, mentre quello verso il Giappone è rimasto praticamente invariato. Il peso dei Paesi emergenti è enormemente cresciuto dal 19,5% al 30%, con l’incidenza. È interessante rilevare le differenze di comportamento tra UE e Usa. L’export di questi ultimi verso le stesse destinazioni viste in precedenza sono aumentate, ma in misura molto minore: dal 31% al 38% verso i Paesi emergenti nel suo complesso. Grafico 9.5 Composizione geografica del commercio mondiale. Quote dell’export mondiale EU** : commercio extra-EU. MENA: Middle East and North Africa Fonte: Carnegie Endowment (2010) 190 I trend riferiti ai flussi di scambi sono associati a determinati macro-trend sul piano economico-produttivo e finanziario. Per quanto riguarda i primi, la Cina ha triplicato le esportazioni di prodotti manifatturieri (dal 3,2% al 9,8%), superando così Usa e Giappone, mentre i Paesi dell’Africa sub-sahariana hanno registrato un aumento delle esportazioni di manufatti dal 7,1% al 18,7%. Strettamente intrecciato alla dinamica reale appena descritta è l’avanzamento del processo di integrazione finanziaria, dato il significativo aumento dei flussi di capitali privati dai paesi industrializzati a quelli in via di Sviluppo: da 151.000 miliardi nel 1995-97 ai 489.000 miliardi nel biennio 2004-2007. Sono parallelamente aumentati anche i flussi Sud-Sud da 3.700 miliardi nel 1990 a 73.800 miliardi nel 2007. è chiaro, dunque, che integrazione reale e finanziaria si sono reciprocamente alimentate, mentre si sviluppavano i processi, precedentemente indicati, di unbundling e di specializzazione verticale (§ 9.1.2). Prima di sviluppare questo punto è però opportuno sottolineare un altro aspetto, che ha interagito “virtuosamente” con gli altri nell’amplificare gli scambi. Intendiamo riferirci alla crescita di quella che la World Bank (2007) ha definito global middle class, ovvero colo che percepiscono tra 4.000 e 17.000 dollari, calcolati secondo la parità del potere d’acquisto al 2005. Essi sono dalla WB stimati in 400 milioni nel 2005 e in 1 miliardo e duecento milioni nel 2030, con un aumento progressivo dell’incidenza delle popolazioni appartenenti ai Paesi emergenti. Carnegie Endowment stima che la Global MiddleRich Class (GMR), con reddito di almeno 4.000 dollari, cambierà in misura sensibile la composizione nei prossimi decenni (Graf. 9.6), in conseguenza dell’ulteriore sviluppo di intere aree continentali e di grandi entità come Cina, India, Indonesia, e così via. India e Cina costituiscono il 42% della GMR dei G20 nel 2009 e la loro incidenza dovrebbe salire ulteriormente nel 2050, quando dovrebbero raggiungere il 70% insieme all’Indonesia. Tralasciando proiezioni aggiuntive, concernenti altri paesi (Brasile e Russia in primis), è evidente che siamo sulle soglie di radicali mutamenti nella domanda mondiale di beni di consumo e degli stili di vita, anche perché si tratta dell’ingresso sulla scena non di un aggregato omogeneo, ma di fasce di popolazioni 191 differenti per storia, valori, religione, aspirazioni (Pew Research Center, 2009). Popolazione (milioni) Grafico 9.6 Dimensioni della Global Middle-Rich Class Economie in via di sviluppo G20 Economie avanzate Fonte: Carnegie Endovment (2010) Alle profonde implicazioni economico-produttive su scala globale del processo indicato occorre aggiungere un altro elemento di grande rilevanza, cioè l’ipotesi che uno dei motori della nuova crescita nei prossimi decenni sarà nel mercato delle infrastrutture che si svilupperà nei paesi emergenti. Calcoli basati su dati forniti dall’OECD (OECD, 2007a) portano a stimare che nel decennio in corso la spesa annua media per investimenti in infrastrutture27 sarà pari a 2 milioni e centomila miliardi (SERI, 2010d). La domanda e la spesa cinese sono ovviamente una delle maggiori componenti, ma è soprattutto rilevante il fatto che questo enorme ammontare di risorse per far fronte ad una domanda crescente di dimensioni enormi sprigiona una serie di forze competitive del tutto nuove sia sul terreno tecnico-scientifico e produttivo che sul terreno più propriamente economico, dove sarà necessario definire nuovi modelli di business che sappiano combinare fattori strategici e politico-istituzionali. È chiaro, però, che si amplia la scala competitiva per global player, i quali Si tratta di investimenti in: strade e ferrovie, telecomunicazioni, elettricità, acqua. 27 192 devono essere in grado di muoversi agevolmente su una serie di domini conoscitivi in continua evoluzione: dai nuovi materiali ai sistemi di controllo, dalla sensoristica alla pianificazione di sistemi complessi interagenti a varia scala (intelligent transport systems), ambient intelligence (vedi § 9.6). L’elemento cruciale dei prossimi decenni è che l’aggregato eterogeneo, tradizionalmente definito “il resto del Mondo”, sarà il motore fondamentale della crescita mondiale con basi strutturali del tutto differenti da quelle del passato, quindi con un profondo cambiamento degli equilibri a molti livelli. Oltre alla proiezione secondo la quale la popolazione delle economie emergenti dovrebbe aumentare di 1,5 miliardi al 2050, più di quanto è oggi la popolazione dei Paesi industrializzati, la dinamica degli investimenti in rapporto al PIL sarà in quei Paesi davvero imponente. Bisogna tenere peraltro presente che in alcuni casi siamo di fronte ad enormi effetti di scala, dato l’ammontare assoluto dei finanziamenti. Tale massa di risorse viene immessa in sistemi socio-economici, i quali già negli ultimi dieci anni hanno ridotto sostanzialmente il gap tecnologico che li caratterizzava quando sono entrati nello scenario competitivo globale (World Bank, 2008, p. 61). È stato infatti rilevato (Comin e Hobijn, 2004) un trend di lungo periodo di un’accelerazione del processo di diffusione delle tecnologie a livello internazionale, che vede protagonisti proprio le realtà emergenti, specialmente quando superano una certa soglia nei processi di adozione e adattamento tecnologico (World Bank, 2008, p. 89). Certo permangono forti disparità all’interno di singoli Paesi ed aree (si pensi all’India, che ha punte estremamente avanzate e larghe zone di estrema arretratezza), ma è comunque interessante che la diffusione di nuove tecnologie connesse a trasporti e comunicazioni sia molto più rapida ed incisiva delle tecnologie tradizionali, la cui penetrazione è certamente più sistematica e profonda. Bisogna tenere presente che le tendenze appena indicate troveranno nuovi meccanismi propulsori nelle interazioni tra i rilevanti investimenti in infrastrutture e le traiettorie di natura tecnico-scientifica e ambientale (controllo e governo dei flussi, monitoraggio delle proprietà dei sistemi complessi). In definitiva, quindi, lo scenario dei prossimi decenni avrà al centro due traiettorie fondamentali: 1) sviluppo delle direttrici tecnico-produttive come quelle appena indicate; 2) consolidamento di una “nuova triade” (Cina, India, Usa) quali economie 193 in grado di esprimere i maggiori impulsi di domanda, con tutto quello che implicano, specie per le prime due, i fabbisogni in termini di componenti essenziali per i processi di sviluppo e consolidamento nel lungo termine. Il punto di arrivo dell’analisi e delle riflessioni svolte è il seguente: nei prossimi decenni il potenziale di sviluppo delle imprese e delle economie dipende dal posizionamento competitivo che si acquisisce in un mondo multipolare, i cui centri propulsori sono in uno spazio geo-economico e tecnico-produttivo non solo molto differenti da quelli prevalenti nel passato, ma presumibilmente in forte accelerazione evolutiva. Può essere allora proficuo indagare quale sia la dinamica competitiva più recente di alcuni degli attuali protagonisti economici, per cercare di comprendere le potenzialità e itinerari di crescita. 9.5.2 Dinamica e organizzazione dei flussi; posizionamento competitivo di aree e Paesi •• Le nuove economie emergenti e l’Estremo Oriente Partiamo dalle relazioni commerciali tra Cina e Usa, Giappone, UE-15 (Tab. 9.7). Tabella 9.7 Saldo commerciale con la Cina. 2005. % sul PIL Export in Cina Impprt dalla Cina SALDO Fonte: Bosworth (2008) USA 0,55 -2,38 -1,83 Giappone 2,96 -2,75 0,21 UE-15 0,76 -1,78 -1,02 Il Giappone ha per contro scambi più intensi fino a raggiungere un saldo leggermente attivo. Emerge chiaramente che nel 2006 lo squilibrio nei rapporti CinaUsa è nettamente maggiore di quello rilevabile per gli altri due. Se l’andamento delle importazioni è complessivamente simile, le esportazioni sono molto differenti. In particolare risulta più alta la propensione all’export dell’UE, che ha anche una minore quota di import rispetto agli Usa, con conseguente più basso deficit commerciale. Il contrasto tra Giappone e Usa non potrebbe essere più evidente. Del resto è differente anche il profilo temporale delle rispettive relazioni di scambio, dal momento che il primo ha fin dagli anni ’80 instaurato flussi verso la Cina -in percentuale sul 194 PIL- costantemente più alti di quelli statunitensi, ma si tratta di anni in cui la Cina non è ancora un mercato attraente. Solo agli inizi del nuovo secolo la Cina ha acquisito importanza per il Nordamerica: le esportazioni in Cina sono raddoppiate (dallo 0,26% allo 0,56% del 2006), ma negli stessi anni quelle giapponesi sono triplicate. L’analisi delle variazioni nel tempo dell’export americano e giapponese in Cina indica che di fatto esse hanno sostanzialmente seguito l’evoluzione del PIL e del mercato di destinazione: quelle Usa rappresentano nel 2006 una quota del 2,9% (di fatto la stessa del decennio ’90), mentre per quelle giapponesi raggiungono stabilmente il 4,9% dagli anni ’90 in poi. In sostanza, dunque, entrambi i Paesi sono riusciti a tenere il passo con l’espansione cinese, ma su scala differente: un’economia più piccola ha di gran lunga sorpassato quella più grande, mantenendo stabile nel tempo la propria posizione competitiva. L’analisi comparata degli scambi con la Cina in base alle tipologie di beni a due-digit (Bosworth e Collins, 2008) mette in luce che in realtà non vi è niente di “inusuale” nella composizione dell’export e dell’import statunitense rispetto ai termini di raffronto, né tale composizione è differente da quella verso il resto del mondo. L’unico elemento differenziale sono le strategie di business attuate sul mercato cinese dalle società multinazionali americane (MNCs, multinational corporations): esse operano come filiali che cercano di conquistare il mercato di riferimento locale, assegnando un ruolo secondario alle operazioni di scambio con gli Usa. Per il Giappone e l’UE-15 non è così: le MNCs operano nell’ambito di strategie tendenzialmente integrate a scala globale, assegnando centralità ai legami con la “madrepatria”. Su questa base non sorprende la conclusione che la modesta performance dell’export Usa forse è una questione di natura generale e strategica, non un problema generato dalle relazioni specifiche con la Cina. Gli elementi addotti finora inducono a ritenere che la dinamica dei flussi economico-finanziari a livello internazionale sia strettamente connessa all’evoluzione delle relazioni di scambio e alle modalità con cui esse sono organizzate. Il ruolo degli agenti (imprese e istituzioni) viene quindi alla ribalta e spinge a inquadrare su un terreno differente le questioni attinenti a: 1) competitività di imprese, Paesi e aree; 2) regole e strategie di comportamento; 3) dinamica tecnologica; 4) interconnessione tra le varie componenti. Iniziamo dall’ultimo punto e ancora una volta dalla Cina, sulla base di una serie di studi che forniscono spunti molto inte195 ressanti (Branstetter et al., 2006; Broda e Weinstein, 2005; Koopman et al., 2008; Rodrik, 2006; Schott, 2008; Sill, 2008). Ciò che a nostro avviso è più significativo non è tanto la crescente incidenza del PIL cinese su quello mondiale, salita dall’1,5% al 5,5%, fino a diventare la quarta economia del mondo, dopo Usa, Giappone, Germania. Rilevante, ma non cruciale ai nostri fini, è anche il dato relativo alla straordinaria espansione dell’industria manifatturiera cinese, la cui quota sul valore aggiunto manifatturiero mondiale è salita dal 2,8% al 9,9%. Due appaiono, invece, gli elementi di grande importanza nello scenario competitivo internazionale, quindi per valutare il potenziale di sviluppo delle economie industrializzate e le prospettive per l’evoluzione dei relativi mercati del lavoro. Il primo è il rapido mutamento nella composizione dell’export cinese nel quindicennio 1992-2006: alla prevalenza di giocattoli, calzature, abbigliamento è subentrato il predominio di beni high-tech connessi alle tecnologie dell’informazione. Rodrik (2006) e Schott (2008) hanno messo in luce come la rapida evoluzione del “grado di sofisticazione” dell’export cinese sia “inattesa alla luce del suo livello di sviluppo”. È bene tenere presente, però, che ciò non è dovuto solo ai bassi costi del lavoro, alla inesistente o quasi regolamentazione dei rapporti di lavoro, all’assenza delle normative e dei vincoli esistenti nei Paesi di più antica industrializzazione. Stime CEIC-IMF riportate in Kianan e Yi (2009) indicano che in dieci anni (1996-2006) i salari manifatturieri sono aumentati in Cina del 232%, anche se è bene ricordare i modestissimi livelli di partenza. Il trend salariale crescente ha addirittura indotto global player come la Nike a spostare le loro produzioni in “nuovi Paesi emergenti” (Vietnam, Bangladesh). Il fatto è che l’aumento del grado di sofisticazione dell’export è il risultato anche di una peculiare dinamica tecnico-produttiva. Nel corso degli anni la struttura delle importazioni e delle esportazioni cinesi è divenuta sempre più simile soprattutto a quella di Giappone, Corea, Germania, da cui la Cina ha progressivamente accresciuto i flussi in entrata di parti e componenti; Koopman, Wang e Wei (2008) calcolano che fino al 50% del valore aggiunto delle esportazioni cinesi provenga da beni importati; tale incidenza è eterogenea nei vari settori ed è più elevata per quelli high-tech e più modesta per quelli a maggiore intensità di lavoro. Questi dati e la rappresentazione dei flussi consentono a Yi e Kianan (2009, p. 19) di fondare la tesi che nell’ultimo decennio si 196 sono sviluppate “relazioni di complementarità più che competitive con alcuni suoi partner commerciali” (Graff. 9.8 e 9.9). Grafico 9.8 Geografia degli scambi commerciali in Asia. Integrazione della Cina nel “Network asiatico. 1994-2006. Variazioni % Economie asiatiche emergenti 78% 389% “Grande Cina” 345% USA 191% 24% Giappone Fonte: adattamento da Yi e Kianan (2009) Grafico 9.9 Geografia degli scambi commerciali in Asia. Integrazione della Cina nel “Network asiatico”. 2006. Dollari Usa Economie asiatiche emergenti 171% 281% “Grande Cina 252% USA 129% 147% Giappone Fonte: adattamento da Yi e Kianan (2009) Dai due grafici emergono nettamente le intense e sistematiche connessioni sviluppatesi tra Paesi dell’Estremo Oriente e il ruolo assunto dalla Cina all’interno di cicli produttivi a scala globale. Complementarità e interdipendenze sono quindi basilari per lo sviluppo del potenziale produttivo di Imprese, Paesi e aree. Ciò evidentemente è direttamente connesso allo sviluppo di processi di specializzazione verticale. La frammentazione dei processi produttivi e la specializzazione verticale costituiscono per così dire la matrice genetica delle in197 terdipendenze strutturali che contraddistinguono la competizione globale odierna. Ulteriori conferme delle affermazioni precedenti possono essere desunte dall’applicazione di una particolare metodologia di analisi I/O e dall’impiego di peculiari metriche di valutazione dei fenomeni in questione (Amador e Cabral, 2009). Ebbene, tra i risultati più interessanti emersi è l’esistenza di una stretta e crescente integrazione a network tra le economie dell’Estremo Oriente, con una differenziazione interna in due sotto-gruppi ad elevata interazione sulla base del loro livello di sviluppo: da un lato Hong Kong, Singapore e Corea del Sud, dall’altro Malesia, Filippine, Tailandia. Impressionante è il dato riferito alla Cina, che in 20 anni è passata dall’1,7% al 15% della specializzazione verticale, specialmente in conseguenza dell’evoluzione dei prodotti high-tech. La dinamica tecno-economica si è dunque sviluppata secondo un insieme integrato di definite traiettorie: 1) emergere di global production networks, distribuzione di fasi e componenti di esse in differenti aree e Paesi; 2) competizione basata non tanto sui “vantaggi comparati” quanto sul possesso di competenze e la possibilità di garantire input a prezzi più convenienti per lo svolgimento di determinate fasi del ciclo produttivo; 3) “commercio verticale”, in quanto gli scambi tra Paesi rappresentano sempre più i flussi economicoproduttivi e finanziari tra sequenze di fasi distribuite a varia scala nell’ambito delle reti globali. Da ciò peraltro deriva la difficoltà di interpretare gli indicatori statistici: l’export di un Paese, specie se di grandi dimensioni, potrebbe essere correlato non alla domanda di altri Paesi bensì alla sua stessa domanda, nella misura in cui le sue imprese produttrici hanno frammentato il processo di produzione a scala internazionale; 4) la dinamica di tali flussi è sempre più intrecciata con processi di trasferimento tecnologico e di diffusione delle conoscenze insieme alle tecnologie, sia pure a seconda dei contesti e delle strategie degli agenti locali (imprese, istituzioni). L’insieme di questi fattori ha nell’ultimo decennio determinato combinazioni complesse di elementi appartenenti a differenti economie. Ciò ha comportato la creazione di strette connessioni strutturali, che si sono manifestate secondo modalità peculiari: 1) crescente similarità delle strutture industriali28, spesso unite ad analoghi andamenti di breve periodo (evoluzioni congiunturali correlate); 2) progressivo consolidamento di aree integrate, definite anche bloc economies, vere e proprie basi strategiche per i global player, protagonisti dei processi di specializzazione verticale. Aspetto già indicato a proposito della Cina. 28 198 Ciò è accaduto nell’Estremo Oriente ed anche in Europa, dove le imprese tedesche sono state particolarmente attive e lungimiranti nel costruire relazioni di complementarità e interdipendenza con imprese, Paesi e contesti dell’ex blocco sovietico. La dinamica descritta ha raggiunto la punta più avanzata in Asia, dove Giappone e Corea sono indubbiamente i principali elementi propulsori degli scambi verticali, evidentemente incentrati sul ruolo svolto dalle imprese coreane. Si pensi che “nell’ultimo decennio il volume di beni intermedi scambiati in Corea è quasi triplicato e nel 2006 ha raggiunto il 40% del totale degli scambi” (Suh, 2009, p. 26). L’azione sistematica dei GPN coreani è stata cruciale e si è sviluppata anche in un contesto di intensa competizione con quelli giapponesi per quanto attiene alla penetrazione nell’economia cinese. Essi hanno attuato una strategia composita di riduzione della presenza sul continente americano e di intensificazione del ruolo su quello asiatico, alla ricerca di convenienze di costo attraverso un crescente volume di finanziamenti diretti al paese di riferimento. Si è così creato un connubio dinamico: “il mercato cinese è diventata la forza motrice della stabilità e della crescita dell’economia coreana” (Suh, 2009, p. 29). Complementarità e interdipendenza tra le due economie, interazioni positive tra investimenti interni e quelli all’estero, aumento dell’occupazione all’interno come effetto combinato della creazione di imprese collegate in zone estere sono le componenti di un circolo virtuoso incentrato negli ultimi su commercio “ad elevata stratificazione” (Suh, 2009, p. 31). L’esistenza di GPN dinamici ha nel caso coreano garantito il coordinamento strategico tra flussi collegati strettamente sia allo sviluppo di economie emergenti che l’innalzamento del livello tecnologico delle fasi svolte nel paese di partenza. In sostanza, quindi, si è realizzato un processo di diffusione delle tecnologie e di avanzamento della frontiera esteso a scala continentale, ma con effetti globali dal punto di vista dei mercati di consumo e della dinamica tecnico-scientifica, visto l’elevato ammontare di risorse finanziarie in ricerca e sviluppo che tutto ciò ha comportato e tuttora implica per mantenere posizioni di leadership. Per questa via i GPN coreani hanno superato i “giganti” giapponesi, meno propensi ad attribuire minore importanza ai mercati dei Paesi industrializzati. Dall’analisi svolta in questo paragrafo è allora desumibile un’importante conclusione: lo scenario competitivo globale richiede lo sviluppo di complementarità e interdipendenze tra economie. Al tempo stesso è basilare la creazione di basi eco199 nomico-produttive strettamente integrate a livello di aree, anche perché devono essere affrontate le sfide poste da rapidi processi di upgrading tecnologico di Paesi new comers. Il quadro diviene ancora più complicato alla luce della dinamica tecnico-scientifica, innescata dalla necessità di rispondere alle priorità dettate dai problemi ambientali e dalle probabilità difficoltà inerenti agli approvvigionamento di input primari (costo e vincoli quantitativi). Di qui derivano, pertanto, rischi e opportunità per le economie di tutto il mondo, con profonde ripercussioni sui mercati del lavoro locali, tenendo però presente che ormai anche in questa sfera sono in atto processi multi-scalari, che dovrebbero essere al centro delle elaborazioni strategiche. •• L’evoluzione del posizionamento competitivo dell’Europa e dell’Italia29 Vediamo come l’entrata nello scenario competitivo di nuovi protagonisti e il connesso forte dinamismo del commercio mondiale hanno influenzato la posizione di un nucleo centrale di paesi europei (Germania, Francia, Italia). Dall’analisi della dinamica dei flussi di scambio nel corso degli ultimi due decenni emerge una crescente asimmetria tra il comportamento di Germania da un lato, di Francia e Italia dall’altro (Tab. 9.10). Tabella 9.10 Quote dell’export mondiale Tassi cambio a prezzi costanti Francia Germania 1990 6,4 12,0 5,0 6,5 12,0 1991 6,2 11,4 4,8 6,3 11,6 1992 6,3 11,3 4,8 6,3 11,0 1993 5,6 10,3 4,6 5,8 10,6 1994 5,6 10,2 4,5 5,8 10,7 1995 5,7 10,3 4,6 5,7 10,3 1996 5,4 9,9 4,7 5,4 10,5 1997 5,2 9,3 4,4 5,5 10,5 1998 5,7 10,1 4,6 5,7 10,9 1999 5,4 9,7 4,2 5,7 11,0 2000 4,7 8,7 3,8 5,7 11,0 2001 4,9 9,5 4,1 5,8 11,5 2002 4,9 9,7 4,1 5,7 11,6 2003 4,9 10,2 4,0 5,3 11,7 2004 4,9 10,2 4,0 5,0 11,8 Fonte: Felettigh et al. (2006), dati IMF, ISTAT Tassi di cambio a prezzi correnti Francia Germania ITALIA ITALIA 4,4 4,2 4,2 4,4 4,5 4,6 4,0 4,0 4,0 3,6 3,5 3,5 3,3 3,1 2,9 L’argomentazione sviluppata nel paragrafo segue le linee di analisi contenute in Felettigh et al. (2006), ma se ne discosta per alcune riflessioni aggiuntive e differenti valutazioni. 29 200 Nel decennio ’90 la Germania riunificata è partita con una certa debolezza sul terreno degli scambi, ma da metà decennio è apparso un sentiero di incremento costante, poi accelerato nel periodo 2000-2005. La Francia ha invece perso costantemente quote degli scambi mondiali, anche se in misura relativamente minore di quanto accade al nostro Paese. Per contro l’Italia mostra una notevole performance sul piano dell’export fino al 1995, per poi progressivamente rallentare e retrocedere all’inizio del nuovo secolo. Negli anni 2000-2005 la divaricazione fra le tre realtà aumenta in misura sensibile. In particolare per la Germania il contributo alla crescita del PIL è fortemente cresciuto, a fronte di un impulso in diminuzione da parte della domanda interna, mentre nelle altre due realtà avviene l’opposto (Felettigh et al., 2006). Possiamo in sostanza ritenere che, mentre nel cuore dell’Europa nel decennio in corso la partecipazione al commercio internazionale ha agito da meccanismo propulsore, in Francia e Italia è stata la domanda interna a sostenere un ritmo di crescita peraltro molto debole, specie nel nostro Paese. Il nesso tra performance economica nazionale e forza della spinta degli scambi internazionali sembra dunque non possa essere messo in discussione. Ferma restando la debolezza degli impulsi alla crescita di natura endogena, che non rientrano nel campo di analisi di questo contributo, occorre allora cercare le radici di questa difformità di andamento. A tal fine l’analisi della natura e dell’intensità dei flussi con l’estero sono un terreno essenziale di osservazione. Il punto di partenza non può che essere costituito dalla divergenza di andamenti nelle quote sul commercio internazionale, che per la Germania sono in calo fino al 1995 e poi sempre in crescita, mentre sono in decremento sempre più accentuato in valore e quantità per l’Italia. Esse descrivono un lento ma costante cedimento per la Francia. In un periodo di progressiva accelerazione degli scambi mondiali, indotti dalla crescita della domanda proveniente da nazioni ed aree tradizionalmente estranee al processo di sviluppo economico, la prima delle tre è riuscita a mantenere la propria quota, ma le altre due hanno perso competitività. è dunque a quest’ultima variabile che occorre guardare con attenzione, cercando di comprendere quali fattori esogeni o endogeni alle economie in questione possono aver indotto performances così differenti. 201 Prendiamone in considerazione quattro, che sono basilari a fini del successo competitivo: 1) competitività di prezzo; 2) specializzazione geografica; 3) specializzazione settoriale; 4) competitività non di prezzo. Competitività di prezzo Per quanto riguarda la prima, l’esame dell’andamento dei prezzi all’export mostra un’evoluzione sfavorevole per l’Italia, che dalla fine degli anni ’90 aumenta costantemente il divario verso la dinamica dei prezzi praticati sui mercati internazionali da francesi e tedeschi (Graf. 9.11). Grafico 9.11 Indice dei prezzi all’export. Prodotti industriali. Gennaio 1999=100. Crescite dell’indice significa perdita di competitività 110 105 100 95 90 Italy 85 1996 Germany 1997 1998 France 1999 2000 2001 2002 2003 2004 Fonte: Felettigh et al. (2006) Negli anni 1997-2003 i prezzi all’esportazione sono in Francia rimasti praticamente invariati, mentre in Germania sono aumentati leggermente solo nel 2004 ed in Italia si è verificato un incremento superiore al 10%. Una delle prime cause da prendere in considerazione è la dinamica dei costo del lavoro, che potrebbe essere aumentato per l’industria italiana ma non per quella francese o tedesca. In effetti gli investimenti tedeschi nei Paesi nell’est europeo ammontano al 21,5% del totale, superati solo da quelli olandesi (22,3%), mentre quelli francesi e italiani incidono molto meno (rispettivamente 8% e 2,8%) (ECB, 2005, 202 Table 12). Su queste basi è chiaro che i produttori tedeschi hanno potuto contenere i costi degli input intermedi e quindi fissare prezzi competitivi sui mercati internazionali. Questo argomento può valere nella spiegazione del divario tra Italia e Germania, ma non spiega perché la Francia ha avuto un andamento moderato dei prezzi all’export. In realtà studi specifici indicano per i due paesi latini comportamenti differenziati a livello settoriale che possono essere alla base di quelle tipologie di andamenti medi dei prezzi. Nel caso italiano gli esportatori di alcuni settori (tessile, abbigliamento, prodotti in pelle, ceramiche e legnoarredamento) avrebbero utilizzato la specializzazione geografica (differenziazione dei mercati) per praticare margini differenziati sui prezzi a seconda del mercato di riferimento, esibendo così un significativo “potere di mercato” (De Nardis e Pensa, 2004). Per quanto riguarda la Francia, Cheptea et al. (2005, p. 4) così descrivono il comportamento di imprese tedesche e francesi negli anni di deprezzamento del dollaro: le prime hanno ridotto i prezzi, le seconde hanno aumentato i margini, dopo essersi spostate su settori più dinamici: chimico-farmaceutico, automobili, attrezzature di trasporto e comunicazione30. Dall’analisi relativa alla competitività di prezzo emergono tre punti: 1) grazie a robusti investimenti nell’est europeo la Germania ha creato fonti di approvvigionamento di input molto favorevoli in termini di costo; 2) ha utilizzato questa chance per offrire prezzi finali competitivi; 3) ha evidentemente creato le condizioni per un’integrazione tendenziale tra la propria struttura industriale e quella nascente o in via di ristrutturazione dei Paesi dell’ex blocco sovietico. Specializzazione geografica Per quanto riguarda la specializzazione geografica, Felettigh et al. (2006) hanno rilevato alcuni elementi di notevole interesse. Due processi hanno nel corso degli anni influenzato l’evoluzione dell’export di Germania, Francia e Italia: 1) allargamento dell’Unione Europea; 2) entrata in scena della Cina ed “esplosione” del commercio internazionale, in seguito all’emergere di altri protagonisti. È bene analizzare gli effetti di ciascuno dei due sui mutamenti indotti nel mercato intra-Ue ed extra-Ue. 30 Più precisamente Cheptea et al. affermano: “Les exportateurs allemands ont augmenté leurs volumes de vente en réduisant nettement les prix sur leurs marchés d’exportation, tandis que leurs concurrents français augmentaient leurs marges en répercutant dans leurs prix une part plus réduite de la dépréciation de l’euro. Ainsi, ce sont les différences”. 203 In merito al primo, è rilevabile ancora un’asimmetria evolutiva simile alla precedente: la Germania mostra una diminuzione delle sue quote del mercato europeo dal 1988 (anno di picco con 17,1%) fino al 2000, per poi riprendere il movimento in ascesa fino a ripristinare il valore del 1985 (14,5%). Francia e Italia, entrambe accomunate dalla tendenza crescente fino al 1995, seguita da un declino costante (Tab. 9.12). Tabella 9.12 Quote di mercato nell’area euro delle importazioni di beni FR GER IT 10 Nuovi Paesi membri 1995 9,9 15,2 7,4 3,0 1996 9,6 14,6 7,4 3,0 1997 9,3 13,8 6,9 3,2 1998 9,4 14,0 6,8 3,6 1999 9,4 14,0 6,6 3,8 2000 8,8 13,1 6,0 3,9 2001 8,7 13,5 6,1 4,3 2002 8,6 13,8 6,0 4,6 2003 8,7 14,1 5,9 5,0 2004 8,2 14,5 5,7 5,5 Note: tassi di cambio e prezzi correnti, punti percentuali. Denominatore: somma delle importazioni dei Paesi area euro (inclusi essi stessi) dal resto del mondo; numeratore: totale dell’export di ciascuno dei Paesi verso l’area euro. Fonte: Felettigh et al. (2006), EUROSTAT Un’asimmetria del tutto differente emerge dall’esame delle quote di export verso l’area euro in confronto all’export verso il resto del mondo (Graf. 9.13). Risulta chiaro che per la Francia i mercati europei sono più importanti di quanto non accade alle altre due realtà, il cui orientamento verso nuove aree economiche appare nettamente più marcato. Ciò non è stato privo di effetti, in quanto la maggiore dipendenza dagli sbocchi continentali ha reso il Paese transalpino maggiormente sensibile alle caratteristiche della domanda generata all’interno del continente europeo. La più favorevole specializzazione geografica di Germania e Italia, nel senso del loro orientamento più accentuato verso le aree con più elevati tassi di crescita dell’Estremo Oriente, ha indubbiamente creato le condizioni per una migliore recettività degli impulsi dinamici dall’Asia. Se a questo aggiungiamo le relazioni reciproche fra i tre Paesi, scopriamo un fatto interessante: dal 2000 al 2004 il 24% dell’export francese va alle altre due nazioni, mentre le quote per le altre tre due sono differenti: 18% (Germania) e 27% (Italia). 204 Grafico 9.13 Quote dell’export intra-Ue sul totale dell’export in valore 0,60 Italy 0,58 Germany France 0,56 0,54 0,52 0,50 0,48 0,46 0,44 0,42 0,40 1981 1983 1985 1987 1989 1991 1993 1995 1997 1999 2001 2003 Fonte: Felertigh et al. (2006) I dati inducono due considerazioni di rilievo. Per la Francia la maggiore esposizione al mercato europeo e il peso relativo delle altre due componenti della triade possono essere fondatamente ritenute alla base della sua debole performance in termini di crescita, vista la debolezza della domanda interna di Italia e Germania. Per l’Italia pare aver agito un meccanismo simile dal punto di vista delle forze propulsive di origine europea (deboli), a cui si è però unito il fatto che l’orientamento più accentuato verso mercati extraeuropei non sembra aver consentito di intercettare spinte espansive di particolare intensità. Esaminiamo la specializzazione settoriale alla ricerca delle ragioni di questo fatto. Specializzazione settoriale Già nel Rapporto sul Mercato del lavoro per il 2009 sono stati introdotti spunti di riflessione sul modello di specializzazione europeo e in particolare di Germania, Francia e Italia, sulla base del concetto di “vantaggio comparato rivelato” (§ 3.4). Ai fini del presente contributo, ovvero l’individuazione della natura e dell’intensità di fattori di crescita, prendiamo in considerazione le sfide poste alla posizione competitiva dei Paesi, soprattutto 205 quelle concernenti la composizione del loro sistema produttivo e l’evoluzione della tipologia di output. Distinguendo in base al livello tecnologico dei prodotti, l’Italia è com’è noto specializzata in quelli a bassa tecnologia e ad alta intensità di lavoro, dove ha subito forti pressioni competitive da parte di numerosi Paesi (Cina, India, Pakistan, Bangladesh, Spagna) (De Nardis e Pensa, 2004, pp. 26-29, Tabella 4). Anche la Germania è esposta alla concorrenza di nuove realtà emergenti (Est Europeo, Cina, India, Brasile e Messico), ma negli anni 1999-2003 il contributo dei settori low-tech alla perdita di terreno nella competizione per l’Italia è stato più marcato sia in valore che in volume (Felettigh et al., 2006, p. 308). Negli stessi anni la Cina ha aumentato la propria incidenza sull’export mondiale di quei beni dal 5,1% al 17,7%, ma bisogna tenere comunque presente che la quota di beni a bassa tecnologia è comunque in diminuzione sul totale globale. Possiamo dunque concludere su questo punto con la seguente affermazione: in una fase di elevata crescita degli scambi internazionali è avvenuta, per i prodotti low tech e ad elevata intensità di lavoro, un progressivo calo di incidenza complessiva e un profondo mutamento nella composizione dell’offerta, con l’ingresso di nuovi apparati economicoproduttivi. In tale quadro il nostro Paese ha perso costantemente terreno più di quanto è avvenuto per altri. Per quanto riguarda i settori a media tecnologia, sempre negli stessi anni, Germania, Francia e Italia hanno tutte e tre perso quote di mercato a beneficio di nuove realtà emergenti (Asia, Sudamerica, Europa dell’Est, Irlanda, Spagna), tranne l’Italia nel segmento delle “macchine speciali, motori, componenti per autoveicoli”. La visione complessiva acquista una valenza molto differente se si prendono in considerazione la frammentazione dei processi produttivi e la distribuzione a livello internazionale, come è avvenuto per le imprese tedesche. Conferme indirette del fenomeno in questione sono rinvenibili nel dato relativo agli investimenti nell’Est europeo, precedentemente indicato, e nei valori assunti dal contenuto di import delle esportazioni31, salito di 8 punti percentuali per la Germania e di 3 per l’Italia, che ha il più basso livello (35,4%), contro a quello massimo dell’Olanda (58,7%) (ECB, 2005, p. 64, Chart A). Lo spazio competitivo francese sembra essere stato meno minacciato in questa tipologia Questo concetto indica quanto dei beni esportati è in effetti prodotto all’estero e importato, talvolta reimportato, temporaneamente. 31 206 di prodotti, a causa delle peculiari specializzazioni di quell’apparato produttivo: alimentari, aeronautica e farmaceutica, oltre ad automobili e componenti per veicoli. Alcuni brevi spunti, infine, per i prodotti hi-tech. Più volte, anche nei due ultimi Rapporti sul mercato del lavoro è stato messo in luce la relativa debolezza dell’Europa nelle produzioni ad elevata tecnologia, soprattutto per quanto concerne le tecnologie dell’informazione. In questa sede è opportuno sottolineare, però, un dato concernente la Germania, dove si è sviluppata una specializzazione in aggregati di attività molto interessanti: strumenti di trasmissione e di misura, meccanica strumentale, chimica. Si tratta di attività produttive funzionali alla peculiare configurazione del sistema produttivo nel suo complesso, incentrato su produzioni a tecnologia medio-alta, quali auto e dispositivi per la comunicazione e trasporto, industria dell’energia, ecc. I loro output sono infatti essenziali, in quanto devono essere incorporati in sistemi complessi come quelli derivati dai nuovi processi di produzione, che sono un insieme di flussi tecnico-scientifici (ampliamento delle sfere di conoscenza) e socio-economici (nuovi parametri e vincoli per il consumo individuale e collettivo, soprattutto quelli di natura ambientale). L’analisi svolta fonda quindi la seguente tesi: la Germania presenta chiari segnali di una dinamica strutturale verso la creazione di un sistema economico-produttivo integrato e distribuito a livello internazionale, con una base organizzata a livello continentale e un graduale innalzamento del contenuto tecnico-scientifico delle conoscenze incorporate nei processi e nei prodotti. Nella ricerca di spiegazioni per le performances dell’export europeo e quindi del suo posizionamento competitivo non va trascurata l’influenza esercitata dalle specializzazioni in termini di prodotto, nel senso che i diversi beni hanno una differente elasticità rispetto al ciclo economico mondiale. Beni strumentali, aerei, beni di consumo durevoli reagiscono in misura più elevata sia alle oscillazioni della domanda internazionale sia ai mutamenti tecnico-produttivi, nella misura in cui l’evoluzione delle tecnologie e lo sviluppo di nuove “macchine produttive” industriali genera ‑sui sistemi economico-produttivi più avanzati- effetti immediati di contrazione e al tempo stesso di espansione, a seconda del loro livello tecnologico, delle interdipendenze sviluppate a livello internazionale, del grado di ricezione dei flussi innovativi. 207 Competitività non di prezzo Queste ultime considerazioni aiutano a comprendere come l’ultimo fattore preso in considerazione, ovvero la competitività non di prezzo, non ha certo favorito il nostro Paese. Viene a riguardo proposto un insieme di variabili: qualità, varietà e contenuto tecnico-scientifico dei prodotti, non di rado in combinazioni mutevoli nel corso di intervalli temporali sempre più ravvicinati; livelli di istruzione e tipologia delle competenze della popolazione (Felettigh et al., 2006). Anche in questo caso è rilevabile, specie per il nostro Paese, una discrasia tra la configurazione delle variabili e quelle maggiormente rispondenti ad una dinamica tecno-economica internazionale che incorpori nei beni più elevati input tecnico-scientifici, indipendentemente dalla tipologia dei prodotti, siano essi di processi ritenuti tradizionalmente low-tech oppure di aggregati medium-high-tech. 9.6 Una riflessione sulle traiettorie evolutive: un fondamentale cambiamento di paradigma Gli elementi analizzati nel paragrafo precedente delineano un radicale mutamento delle coordinate entro cui si sta sviluppando lo scenario tecno-economico a livello mondiale. Innanzitutto è opportuno comprendere che è oramai completato un profondo mutamento del modello di organizzazione economico-produttiva, con il passaggio -a partire dagli anni ’90- dal paradigma di matrice giapponese, incentrato su “reti relazionali di agenti produttori di prodotti, parti e componenti sulla base di strette relazioni di prossimità geografica ed economica” (Bok e Park, 2009), al paradigma imperniato sul GPN (definiti global network business nell’accezione coreana, Jung, 2009). Le reti relazionali ad alta integrazione avevano a sua volta sostituito con successo il modello della produzione di massa, favorendo così lo sviluppo di flessibilità, competizione di prezzo e il perseguimento di alti livelli qualitativi. Il nuovo paradigma consente di combinare un insieme rilevante di elementi: abilità nell’utilizzare e diffondere conoscenze tecnologiche, flessibilità, riduzione dei costi e ricerca di vantaggi competitivi specifici per ciascuna fase di produzione, creazione di strutture integrate a scala molto ampia tra componenti economico-produttive e finanziarie, diversificazione delle fonti di innova208 zione e accelerazione dei processi di sviluppo de prodotti. Oltre ai punti descritti i GPN rappresentano opportunità, perché consente a agenti, specie in Paesi in via di sviluppo ma anche di aree più avanzate, sia di accedere a un potenziale tecno-economico altrimenti inaccessibile, sia di trovare spazi per la valorizzazione di proprie potenzialità di business, che rimarrebbero non utilizzate o sostanzialmente depotenziate. Un’altra opportunità concerne la possibilità che essi hanno di minimizzare i rischi inerenti a repentini cambiamenti della domanda, fonti di incertezza, possibili defaillances, ecc.. Reti produttive distribuite ad ampia scala possono favorire più idonei processi di adattamento alle oscillazioni della domanda e all’innesco di comportamenti di sintonizzazione rispetto agli andamenti dei mercati e alla dinamica tecnologica. Esse non sono peraltro prive di rischi e pericoli, relativi soprattutto alle difficoltà di generare sinergie tra elementi che possono essere tra loro molto eterogenei e quindi rendere problematico lo scambio di informazioni e la condivisione di risorse. Possono altresì emergere punti di debolezza concernenti il coordinamento strategico tra entità operanti in contesti molto differenti, alle prese con parametri e variabili decisionali non uniformi. Una conferma significativa delle incognite e della vulnerabilità dei GPN può essere vista in quello che è di recente accaduto alla Toyota, costretta a richiamare milioni di autoveicoli in seguito alla scoperta di componenti difettose. La vicenda dell’impresa giapponese mostra con chiarezza alcune potenziali debolezze (Kang, 2010): 1) non è semplice garantire standard qualitativi in impianti dispersi in località ed aree lontane; 2) componenti prodotte in aree differenti possono incontrare difficoltà nel rispettare parametri qualitativi congruenti; 3) non è arduo ipotizzare che in filiali o entità collocate lontano dai centri dei GPN si sviluppo dinamiche di diffusione incontrollata di informazioni tecnologiche “sensibili”; 4) possono insorgere problemi nell’ottemperare a regolazioni locali differenti, da cui scaturiscono conflitti con le Istituzioni. Comunque sia tale modello, nato negli Usa e in Europa per rispondere alla minaccia costituita dai network giapponesi, è stato ampiamente sviluppato a Singapore e in Corea, dove sono state create “piattaforme di produzione”, nucleo tecnico-produttivo grazie al quale segmenti del processo di produzione possono essere poi distribuiti nelle zone più attraenti dal punto di vista dei costi e delle competenze. Si pensi che le aziende Taiwanesi producono più dell’80% dei loro prodotti high-tech in varie parti del mondo, dopo aver acqui209 sito posizioni di vantaggio strutturale: “elevati costi di start-up e elevata specializzazione adatta a specifici committenti pongono ostacoli formidabili per qualsiasi nazione che sceglie di competere con Taiwan” (Jung, 2009, p. 37). La scelta del modello di business è stata finora premiante, se aziende coreane e taiwanesi hanno rovesciato la “gerarchia” nella leadership degli anni ’80 (Graf. 9.14). Grafico 9.14 Fatturato dei primi produttori asiatici (elettronica). Migliaia di miliardi di dollari Usa Kyocera Seiko Epson Acer Nintendo Compal LG Display Ricoh Asustek Quanta Fujifilm Canon Nec Corp Fujitsu Hon Hai Toshiba Hitachi Samsung 11,3 11,8 14,0 14,7 15,1 15,4 19,5 22,9 23,6 25,0 38,1 40,6 46,8 51,7 67,4 98,6 105,7 0 20 40 60 80 100 120 Fonte: Jung (2009) Dal grafico risulta che il vertice è ora costituito da tre imprese coreane e la quarta è Taiwanese, mentre solo dieci anni or sono le entità giapponesi avevano una primazia apparentemente inattaccabile. Non bisogna peraltro trascurare che i GPN comportano anche rischi globali, che riguardano soprattutto sia la possibilità che si sviluppino posizioni monopolistiche, basate sul possesso di marchi e conoscenze tecnico-scientifiche esclusive, sia l’eventualità che si creino coalizioni oligopolistiche tali da imporre standard e prezzi. Appare però indubbio che le strutture industriali stiano “gravitando” verso il nuovo paradigma, come documentano Bok e Park (2009), che classificano 12 settori in base al grado di segmentazione dei processi di produzione, alla loro prontezza nel 210 trasformare questi ultimi in moduli distribuiti a varia scala. Essi individuano tre gruppi: il primo è composto da quelle attività che hanno più prontamente assorbito e realizzato il nuovo modello.Si tratta dell’abbigliamento, del farmaceutico e delle attrezzature per le tecnologie dell’informazione. Il secondo comprende l’industria automobilistica e la produzione di beni strumentali, la cui maggiore resistenza verso l’adozione di differenti assetti strategici e regole di comportamento è dovuta alla necessità di avere legami molto stretti tra dipartimenti interni e tra questi e i sub-fornitori, con conseguenti imperativi di avere flussi di comunicazione intensi e agevoli, funzionali all’ottenimento elevati standard qualitativi. Il terzo gruppo include attività con limiti intrinseci verso l’adozione del modello: produzione di semiconduttori e componenti elettroniche, dove la conoscenza tacita nella gestione del processo è essenziale; cantieristica, per la quale la segmentazione e il commercio verticale appare in prima battuta arduo; la siderurgia, che poco si presta alla frammentazione della catena del valore. Per quest’ultima in effetti la tendenza è ancora poco delineata, ma per la cantieristica vi sono già esempi notevoli a scala asiatica. Le riflessioni sul cambiamento di paradigma non devono indurre a trascurare un problema cruciale: le nuove forme organizzative costituiscono una minaccia e generano opportunità per le piccole e medie imprese di tutto il mondo, siano essere organizzate autonomamente o inserite in agglomerazioni economico-territoriali? È chiaro che l’esistenza di strutture gerarchiche globali modifica radicalmente lo spazio della produzione, nella misura in cui il rafforzamento e l’estensione della tendenza a scomporre i cicli produttivi in moduli distribuiti su vasta scala introduce mutamenti significativi nell’orizzonte operativo delle PMI che intendano perseguire assetti organizzativi differenti. Siamo d’altra parte entrati in un’epoca contraddistinta dalla pluralità delle morfologie evolutive delle imprese, i cui gradi di libertà sono potenzialmente aumentati proprio in relazione ai livelli prescelti di frammentazione dei processi. Esistono, però, tendenze contraddittorie, che meritano di essere tenute presenti. Da un lato le strutture produttive globali tendono per così dire “naturalmente” ad assumere configurazioni monopolistiche o di tipo oligopolistico, anche se è più frequente l’eventualità che si istituiscano barriere all’entrata. Di qui il ridursi delle possibilità per PMI in qualunque morfologia organizzativa esse assumano. 211 Dall’altro lato occorre tenere presente che la dinamica tecnoeconomia odierna genera spazi di opportunità per unità economiche di qualsiasi dimensione, perché apre continuamente nuovi ambiti di ricerca tecnico-scientifica con ricadute produttive non distanti nel tempo e sempre più spesso amplia i tradizionali domini di conoscenza tecnologica. Ecco allora che per le PMI si profilano almeno tre opzioni per strategie di crescita (Park e Bok, 2009). La prima è quella di diventare esse stesse global companies, grazie allo sviluppo di strategie, competenze tecnologiche, relazioni e modelli di business a scala adeguata. La seconda si incentra sulla scelta di diventare fornitori di secondo livello (second tier) di GPN, grazie anche in questo caso al consolidamento di capabilities tecno-economiche di elevato livello. L’entrata nell’”agone competitivo” mondiale in associazione con i GPN implica significativi mutamenti dei modelli manageriali e dei processi di elaborazione strategica, con un salto qualitativo simultaneo in alcuni ambiti specialistici e culturali. Strategie di questo tipo possono essere particolarmente feconde nel perseguire disegni di penetrazione in mercati nuovi, oppure nello sperimentare nuovi modelli di prodotti, commisurati a specifiche esigenze di domanda provenienti da fasce di popolazione ben identificate. La terza opzione significa la realizzazione di strategie mirate su campi e aree di interesse ritenute meno attraenti dai GPN, ma essa non è da trascurare ai nostri fini perché si incentra su uno degli effetti dell’intensa dinamica innovativa odierna. Intendiamo riferirci al fatto che l’accelerazione evolutiva nel produrre conoscenze tecnico-scientifiche e l’incessante estensione/ ristrutturazione di domini d’indagine consolidati genera spazi per sperimentazioni di beni e servizi prossimi alla frontiera e di natura meno avanzata, ovvero applicazione estensiva di conoscenze consolidate. In uno scenario di questo tipo lo spazio innovativo della “nicchia” è potenzialmente molto interessante per le PMI, ma sono necessarie strategie originali e basate sulla ricerca continua di nuove soluzioni a problemi tecnico-produttivi da tempo affrontati e temporaneamente risolti. Le nicchie costituiscono una sfera di attrazione primaria per imprese non global player, purché adottino forme organizzative adeguate: alleanze strategiche, partnership progettuali, legami reticolari finalizzate, project-based organizations, e così via. Va peraltro ricordato 212 che un’ampia letteratura internazionale converge sulla tesi che le modalità di appartenenza a network sono oggi fondamentali, perché nessuna entità economico-produttiva può possedere tutte le conoscenze necessarie per produrre un numero crescente di prodotti e al tempo stesso perché consentono processi di apprendimento, dovuti al fatto che in questo modo si realizzano intersezioni tra flussi di conoscenze sviluppate in domini conoscitivi talvolta molto differenti. Un altro punto sul quale fermare l’attenzione è che la frammentazione delle sequenze economico-produttive e la diffusione delle global value chains non riguardano solo l’industria, in quanto i servizi (Business Process Services BPS; Information Technology Services ITS; sanità) sono uno degli ambiti contraddistinti da maggiore dinamismo degli investimenti diretti all’estero e dall’espansione crescente di strutture gerarchiche globali: processi di offshoring di attività terziarie con creazione di posti di lavoro in nuove economie (OECD, 2007b), rapida crescita degli investimenti diretti all’estero proprio nei servizi, che costituiscono i 2/3 del volume globale al 2005 (OECD, 2006; Onodera, 2008) (Graf. 9.15). Grafico 9.15 Composizione degli investimenti diretti all’estero: progressivo spostamento verso i servizi. Migliaia di dollari Usa 5.000 4.500 Manufacturing Service Sector 4.000 3.500 3.000 2.500 2.000 1.500 1.000 500 0 1990 1995 2000 2003 Fonte: adattamento da Onodera (2008) Economie emergenti quali Cina, Repubblica Ceca, India e Flippine sono protagoniste assolute del processo di espansione 213 di BPS e ITS (Engman, 2007). È importante notare che il settore dei servizi (commercio all’ingrosso, intermediazione finanziaria, istituti di deposito, comunicazioni) è stato alla base della forte crescita degli investimenti in IT e della crescita della produttività negli ultimi anni (Mann, 2007). Di grande interesse sono anche i dati che emergono da numerose ricerche (studi di caso e indagini econometriche)32: sia nel manifatturiero che nei servizi l’appartenenza a global value chains comporta l’innesco di processi di diffusione innovativa anche in contesti non ancora pervasi da “cultura di mercato”, anche se aree già market oriented hanno visto dinamiche molto più intense. I meccanismi che hanno agito sono molteplici: dalla trasmissione lungo la “catena del valore” all’interazione con le culture locali, dall’introduzione di elementi di “mercato” alla stimolazione di forze endogene. È peraltro ben documentato il processo che in talune esperienze ha portato settori e agglomerazioni economico-territoriali, in passato esclusi da percorsi di sviluppo, a sostanziali spostamenti verso l’alto nella global value chain, fino a raggiungere posizioni competitive autonome rispetto agli impulsi iniziali, come è accaduto nell’industria dell’abbigliamento dello Sri Lanka (OECD, 2007). 9.7 Effetti di breve e di lungo periodo della crisi sul mercato del lavoro La “peggiore crisi degli ultimi cinquanta anni” (OECD, 2010b) ha prodotto un forte incremento della disoccupazione nell’area OECD: in due anni, fino al primo quadrimestre del 2010, l’occupazione è diminuita di due punti percentuali e il tasso di disoccupazione è salito del 50%, cioè dal 5,6% all’8,6%. Se al dato ufficiale si aggiungono le stime dei lavoratori sotto-occupati e “scoraggiati”, come vedremo tra breve per gli Usa, i valori diventano molto elevati e aumenta la probabilità che il tasso di disoccupazione nell’area OECD rimanga al di sopra dell’8,5% per tutto il 2011 (OECD, 2010c). Occorre tenere anche presente che il contenimento degli input d lavoro è stato spesso perseguito attraverso la riduzione degli orari, il che comporta che vi sono risorse parzialmente utilizzate, alle quali si fa presumibilmente ricorso in primis nel caso di una ripresa sostenuta. Disoccupa Si veda ad esempio Gorodidnichenko et al. (2008), che analizzano 11.400 imprese operanti in 27 paesi emergenti. 32 214 zione, slack resources, sotto-impiego configurano una situazione tale da rendere molto improbabile che un sentiero di ripresa possa condurre in tempi brevi a livelli occupazionali vicini a quelli pre-crisi. Prima di trattare le implicazioni di questa affermazione, è opportuno richiamare un fatto significativo: l’incremento della disoccupazione non è stato uniforme nei vari Paesi, bensì molto eterogeneo, con ritmi elevati di variazione in Spagna e Irlanda e andamenti molto più contenuti in realtà come la Germania, Austria, Belgio, Norvegia, Polonia. Un aspetto fondamentale e nuovo della presente crisi occupazionale è la forte penalizzazione dei lavoratori giovani, il cui tasso di disoccupazione è aumentato di circa 8 punti percentuali, ben quattro volte il tasso complessivo (OECD, 2010c, p. 21), mentre in alcuni Paesi, ad esempio la Spagna, esso ha in realtà raggiunto livelli enormi (40%). Si è dunque creata un’accentuata divaricazione tra gruppi di lavoratori in età matura e quelli delle fasce giovanili, per quanto attiene al rischio di diventare disoccupati. Per i primi, in effetti, l’evoluzione ciclica della perdita del lavoro nel passato è sostanzialmente analoga in tutte le recessioni, in questa appare profondamente cambiata la sensibilità del loro tasso di occupazione. Molto interessante è anche il dato concernente le variazioni occupazionali in base agli skills. Gli occupati con livelli di professionalità più bassi hanno registrato decrementi al di sopra della media, fenomeno analogo a quanto è accaduto alle persone dotate di conoscenze tecnico-professionali di livello medio. Ciò può essere stato verosimilmente indotto dalla composizione settoriale della dinamica involutiva, dal momento che la contrazione della domanda globale e degli scambi internazionali hanno colpito soprattutto l’industria manifatturiera: dalle costruzioni alla produzione di beni di consumo durevoli e non, alla produzione di attrezzature e macchinari. Dati questi elementi relativi alla dimensione quantitativa e qualitativa dei problemi occupazionali nell’area OECD, prima di affrontare la questione del se e quando è legittimo ipotizzare un ripristino dei livelli di occupazione precedenti alla crisi, è utile prendere in considerazione le stime OECD del job gap, ovvero del divario tra il livello di occupazione che si avrebbe nell’ultimo quadrimestre 2009 se fosse occupata la stessa proporzione di popolazione in età lavorativa dell’inizio della fase recessiva. Tale calcolo 215 per l’intera area OECD è pari al 3,3%, cioè 18 milioni di occupati. La media complessiva risulta da andamenti molto differenziati tra Paesi, dei quali rispecchia in qualche misura l’intensità con cui sono stati colpiti dalla crisi e le modalità con cui fasce di popolazione hanno reagito al manifestarsi delle spinte involutive. Le stime OECD del Maggio scorso indicano che non è prevedibile il recupero dei livelli occupazionali pre-crisi in un arco temporale ravvicinato; il recupero sarà lento, graduale e differenziato. Molto interessanti sono anche le stime OECD di varie componenti della disoccupazione, in base a una metodologia impiegata dal Bureau of Labour Statistics Usa. Vengono definite quattro tipologie di disoccupati: disoccupati standard (D1); disoccupati che hanno perso il lavoro da almeno un anno. Si tratta di persone di particolare interesse, perché hanno elevata probabilità di registrare perdite di remunerazione in caso di reimpiego oppure di perdere contatto definitivamente con il mercato del lavoro (D2); disoccupati “marginali”, ovvero quelli che vorrebbero lavorare ma non ricercano attivamente lavoro (“scoraggiati”) (D3); persone che lavorerebbero a pieno tempo, ma non possono perché non trovano lavoro o hanno un orario ridotto per decisione dell’impresa (D4). I risultati dell’analisi indicano che la disoccupazione di lungo termine è particolarmente elevata in Germania e Italia, dove essa raggiunge il 50%. È di particolare rilievo il fatto che la componente D3 sia il 30% più alta di D2, ad indicare che vi è una porzione cospicua di persone per le quali è elevata la percezione di difficoltà di inserimento sul mercato del lavoro e le possibilità di ingresso tendono a ridursi con il passare del tempo in condizioni d inattività e di distanza dal mondo produttivo. La somma di D3 e D4 mette in luce un dato ancora più emblematico: l’aggregato della forza lavoro in eccesso è il doppio di quella contenuta nelle stime tradizionali della disoccupazione. A completare il quadro non roseo c’è il fatto che durante la recessione i due sotto-insiemi in questione, rappresentativi della componente denominata slack resources, sono cresciuti ad un tasso analogo a quello della componente standard (D1). Ciò significa che non solo l’aumento della disoccupazione è maggiore di quella ufficiale, ma soprattutto che l’impatto sul potenziale di sviluppo di un’economia è profondo, anche in Germania dove i sotto-insiemi D1, D2, D3 sono diminuiti. Una questione interessante da approfondire brevemente è la forte eterogeneità tra Paesi in termini di impatto della crisi sul 216 mercato del lavoro, ovvero del grado di sensibilità dello stock di occupati rispetto a variazioni del PIL in 28 dei 30 Paesi OECD. Le conseguenze dello shock, misurate attraverso il coefficiente di Okun33, raggiungono il massimo valore per gli Usa e la Spagna, ma valori elevati sono presenti anche in Canada, Grecia, Irlanda e Nuova Zelanda, mentre gli effetti occupazionali sono stati molto minori in Belgio, Finlandia, Germania, Italia, Olanda, Norvegia, Giappone, Corea. Il differente grado di sensibilità dell’occupazione rispetto a variazioni del PIL riflette le diverse combinazioni di riduzione della forza lavoro e dell’orario di lavoro realizzate nelle varie realtà nazionali. L’“aggiustamento” sulle ore di lavoro è stato dunque molto importante nel diversificare i comportamenti delle economie e l’evoluzione temporale della crisi. Bisogna peraltro sottolineare che molteplici fattori hanno influito sulle modalità differenziate di reazione: 1) elementi specifici di regolazione del mercato, quali misure di contenimento degli impulsi recessivi, forme di protezione rispetto alla perdita dei posti di lavoro, regolamentazioni circa la possibilità di “liberare” forza lavoro; 2) variabili strategiche elaborate dalle imprese, nella misura in cui le modalità con cui queste ultime hanno preferito agire sullo stock di occupati anziché sull’orario di lavoro sono differenti per dimensione, livello tecnologico, situazione economico-finanziaria, come risulta dall’indagine panel svolta da OECD (2010c, Box 1.2). Le considerazioni svolte contribuisono a spiegare come mai la ripresa in atto non stia producendo un sostanziale riassorbimento di occupazione, anche se ovviamente i segnali positivi non vanno sottovalutati. Il quadro è davvero molto complesso e contraddittorio sul lato dell’offerta di beni e della domanda di lavoro dell’economia. Riprendiamo in esame alcuni elementi essenziali per sviluppare la riflessione in tema di prospettive a medio-lungo termine. Innanzitutto c’è stato un “rimbalzo” nelle variabili economico-produttive, con una forte ripresa del commercio mondiale (+23% nell’anno 2009-2010, calcolato sul mese di maggio 2010) e un incremento del PIL globale nel primo quadrimestre del 2010 pari a +5%. Un importante contributo alla crescita è scaturito dall’inversione del ciclo nell’accumulazione delle scorte, dopo la 33 Il coefficiente di Okun è il rapporto tra la variazione percentuale del tasso di disoccupazione e la variazione percentuale del Pil in termini reali. 217 riduzione attuata nel biennio critico; esso viene stimato in circa 1,5-2 punti percentuali del tasso di crescita complessiva (OECD, 2010, p. 23, Figure 1.8). Recupero degli stock di scorte, stimoli fiscali, politica monetaria molto prodiga (quantitative easing), deficit pubblici crescenti ma con piani di rientro, sono le coordinate globali di uno scenario generale entro cui dovrebbe svilupparsi il processo di ripresa e quindi l’aumento dei livelli occupazionali. Oltre all’intrinseca debolezza degli impulsi che questa configurazione di meccanismi propulsori può generare, due “sfide congiunte” si ergono di fronte alle economie OECD: da un lato ridurre la disoccupazione elevata e la sotto-occupazione, dall’altro ridurre deficit fiscali senza precedenti (OECD, 2010b). Occorre però assegnare centralità anche al problema dell’aumento di forza lavoro in eccesso, destinata a rimanere a lungo fuori dal mercato del lavoro e quindi con il rischio elevato di un divario crescente tra competenze possedute e caratteristiche della domanda di lavoro connessa a sistemi economico-produttivi in profonda trasformazione. Sulla base di queste considerazioni, ai fini del presente contributo pare opportuno esaminare in modo più ravvicinato uno dei fenomeni cruciali della disoccupazione, cioè la tendenza a durare nel tempo, partendo dagli Usa e poi estendendo l’orizzonte dell’analisi. Gli indicatori odierni di una “ripresa senza occupazione” (Biven e Shierholz, 2010) non devono sorprendere, dato il modesto tasso di crescita del PIL34, è difficile ipotizzare aumenti dell’occupazione se gli orari di lavoro e la produttività del lavoro aumentano, come è probabile che accada in presenza di slack resources. Poiché negli Usa sono stati persi 8,4 milioni di posti di lavoro dall’inizio della crisi, è probabile che impulsi positivi si traducano nel breve periodo innanzitutto in tentativi di utilizzare maggiormente le risorse attualmente impiegate. Data l’entità dell’ammontare di persone senza lavoro, il sentiero del recupero verso livelli pre-cirisi richiederà molto tempo, mentre la recessione ha prodotto anche il fenomeno della “sparizione di lavoratori”, usciti dalla forza lavoro attiva, il cui livello nel Luglio 2008 è tornato a quello Febbraio 1986 (Bivens e Shierholz, 2010, Figure E). Simulazioni condotte sulla base di equazioni base della contabilità della crescita (nota 9) portano a ritenere che nel caso più L’“aritmetica della crescita”, come sostiene l’approccio prevalente nell’analisi dei processi di crescita, può essere sintetizzata con un’equazione molto semplice: occup= pil – (ore di lavoro + produttività) [NB: le variabili considerate indicano tassi di variazione]. 34 218 favorevole gli Usa solo nel 2014 potrebbero recuperare i massimi livelli occupazionali precedenti alla recessione, un arco temporale molto più ampio di quelli rilevati nelle precedenti crisi, quando i tempi di recupero furono non proprio fulminei: 11 mesi dopo la fine della recessione nel 1948 e 1980, 23 mesi dopo la crisi del 1990, 39 mesi dopo la recessione del 2001 (Bivens e Shierlholz, 2010, Figure B). Non è facile né rapido il ripristino di situazioni quasi ottimali sul mercato del lavoro nelle condizioni descritte dalla survey del Marzo 2010 del Bureau of Labour Statistics, che indica un miglioramento nell’ultimo periodo nel rapporto tra numero di persone che chiedono lavoro e numero dei posti di lavoro: sarebbe sceso da 6,0 a 5,4! (Shierlholz, 2010), mentre l’impiego della capacità produttiva dell’economia -secondo l’ultimo Release della Federal Reserve (15 luglio 2001)- è ancora al 74,1%, 5,9% al disopra del tasso dell’anno precedente, ma 6% al di sotto della media dal 1972 al 2009! Approfondiamo ulteriormente in breve il profilo evolutivo dell’occupazione, prendendo in considerazione un aspetto di natura strutturale, cioè la correlazione tra andamento dell’occupazione e dinamica dei flussi di scambio con l’estero su base settoriale. Scott (2010) ha mostrato che negli anni 2001-2008 si è verificato un enorme incremento del deficit commerciale tra Usa e Cina, con la triplicazione delle importazioni in valore, soprattutto di prodotti manifatturieri (99% del totale). Nello stesso periodo si è registrata una perdita di occupati nell’industria manifatturiera pari a 1.616.300 (più di due terzi del totale dei posti di lavoro persi, pari a 2.400.000), mentre riduzioni occupazionali si sono avute anche nel settore dei servizi (amministravi e di supporto, professionali, scientifici e tecnici). Deficit commerciali e perdite occupazionali tendono a coincidere dal punto di vista dei settori coinvolti: quelli connessi alle tecnologie dell’informazione (computer e componenti), abbigliamento, meccanica generale, manifatture varie. Emergono dunque connessioni sostanziali tra dinamica degli scambi internazionali, evoluzione settoriale, cambiamenti tecnico-produttivi e modifiche nella composizione dei sistemi economici, allorquando si consolida -come è avvenuto in quegli anni- la tendenza a scomporre i cicli produttivi e a distribuirli a livello globale. Questi spunti riferiti agli Usa inducono a riprendere la questione sui caratteri permanenti che la disoccupazione tende ad 219 assumere sia durante la fase involutiva che nell’attuale periodo di espansione dalle proprietà ancora incerte. Uno studio empirico-econometrico (Guichard e Rusticelli, 2010) ha stimato i fattori che influiscono sulla disoccupazione di lungo termine e le difformità di andamento nei vari Paesi OECD: livello della disoccupazione aggregata, contesto istituzionale e regolamentazione del mercato del lavoro, specificità nazionali. Le differenze nazionali sono marcate: “dopo uno shock permanente sull’occupazione il 70% in media dei disoccupati tendono a diventare di lungo termine in Europa, una percentuale leggermente inferiore in Giappone e meno del 20% negli Usa” (Guichard e Rusticelli, 20010, p. 9), con il valore più alto (80%) stimato per l’Italia. L’elemento che deve far riflettere, soprattutto per il nostro Paese, è l’“effetto isteresi” che la disoccupazione prolungata genera: maggiore è l’arco temporale di esclusione del lavoro, più forte diviene la tendenza a diventare permanente, perché coloro che sono in quella condizione divengono meno “attraenti” per i datori di lavoro. Il capitale umano degli inoccupati si depaupera più o meno rapidamente a seconda delle competenze possedute, i costi di addestramento crescono e la domanda di lavoro prende in considerazione la frequenza e la durata dei periodi di disoccupazione. La disoccupazione di lungo periodo tende allora a diventare “strutturale” per una serie di meccanismi che rendono i disoccupati “meno competitivi” e meno competenti rispetto a coloro restano occupati, con forme vere e proprie di insider/outsider, con l’effetto finale di rendere problematico il reinserimento, il quale eventualmente avviene a remunerazioni più basse. Gli effetti finali di una disoccupazione prolungata sono una pressione salariale verso il basso e l’aumento della disoccupazione di natura strutturale. Di qui la necessità di misure a sostegno della disoccupazione di lungo termine (Furceri e Mourougane, 2010, anche per l’analisi della tendenza verso la disoccupazione strutturale in diversi contesti nazionali e aree). Dato l’incedere della crisi e le peculiarità assunte da processi di evoluzione del mercato del lavoro, nel prosieguo di questo lavoro svilupperemo delle riflessioni su determinati fattori, che sono alla base della disoccupazione strutturale; in particolare fermeremo l’attenzione sui nessi tra evoluzione della forza lavoro e dinamica tecno-economica dell’apparato produttivo. Prenderemo in considerazione prima gli Stati Uniti e quindi l’Italia. 220 9.8 Le sfide per il capitale umano Usa Un importante studio della McKinsey (2009) fornisce una massa notevole di elementi conoscitivi e spunti di riflessione, che potrebbero in realtà essere estesi anche altri contesti. L’elaborato pone al centro dell’analisi la crescente dispersione salariale, uno dei fenomeni più rilevanti dello senario socioeconomico statunitense durante gli anni 1994-2005, tentando di individuare processi e meccanismi alla base del fenomeno. Vengono descritti nove fattori, raggruppati in tre sotto-insiemi: 1) skill bias technical change, ovvero la domanda di competenze più elevate da parte delle imprese in conseguenza della dinamica tecnologica; commercio internazionale, investimenti all’estero e offshoring; complessità organizzativa, connessa all’evoluzione degli assetti e dei modelli gestionali delle imprese su scala internazionale; 2) offerta di lavoro, partecipazione femminile al mercato del lavoro, invecchiamento della popolazione, immigrazione; 3) livelli di istruzione, meccanismi retributivi legati ai risultati, declino del tasso di sindacalizzazione. L’esame di tali variabili porta all’individuazione -all’interno della forza lavoro statunitense- di nove raggruppamenti o cluster retributivi, distinti in base al tasso di crescita del reddito da lavoro e all’evoluzione del profilo occupazionale35. Ne risulta un mercato del lavoro dalla configurazione a patchwork, nel senso che segmenti trasversali, cioè appartenenti a differenti classificazioni merceologiche, sono accomunati da proprietà simili dal punto di vista degli elementi descritti utilizzati e dei risultati ottenuti. Il risultato più rilevante dello studio è il seguente: i fattori inclusi nel primo gruppo sono quelli che hanno essenzialmente determinato la domanda di lavoro, dal momento che il loro effetto combinato ha indotto un vero e proprio “cambiamento strutturale” del sistema economico, mentre la struttura e le caratteristiche della forza lavoro non sono riuscite a realizzare un matching dinamico. In sostanza, le fasce di popolazione con redditi e competenze crescenti sono quantitativamente ristrette, mentre sono molto più ampie le quote di forza lavoro con skill e competenze più basse, quindi con profili retributivi contenuti, proprio mentre le trasformazioni tecnoeconomiche richiedevano un profondo ed esteso cambiamento delle 35 L’analisi utilizza database dell’Indagine sulla popolazione (Current Population Survey) e del Bureau of Labour Statistics. 221 conoscenze teoriche e pratiche in base alle quali erogare nuove prestazioni di lavoro. In altri termini, il 71% del lavoratori americani è impiegato in lavori la cui domanda è in diminuzione e per i quali è abbondante l’offerta di coloro che sono in possesso di conoscenze di livello modesto. La dispersione salariale Usa ha quindi come fattori causali prevalenti da un lato la ridondanza di forza lavoro per richieste di prestazioni dal profilo evolutivo decrescente, dall’altro la scarsità di offerta di lavoro adatta alle esigenze di un’economia ad alta intensità di conoscenza. Questa discrasia di fondo del mercato del lavoro Usa è trasversale a tutti i settori produttivi e pone interrogativi fondamentali su quali mutamenti di sistema occorre introdurre e su quali possono essere gli agenti del cambiamento in grado di raccogliere la “sfida che si erge di fronte al capitale umano” di quel Paese. In realtà è da anni che analisti e studiosi hanno tentato di porre al centro dell’attenzione della società Usa “la tempesta che si stava addensando” (gathering storm nel famoso Rapporto della National Academy of Science, 2007). In quello studio sono descritte le forze globali che stanno modificando profondamente lo scenario competitivo per imprese e sistemi economici36 e la centralità di scienza e tecnologia ai fini di un’economia che intenda dotarsi di nuovi meccanismi generatori di prosperità. Mutamenti rilevanti sono dunque necessari per i processi formativi a tutti i livelli e per le strategie elaborate dagli agenti, soprattutto in relazione al fatto che sono erose le basi del “triangle” (Industria, Università, Governo) che ha funzionato nel secondo dopoguerra come meccanismo auto-rinforzantesi. Scelte drastiche si impongono, dalle quali dipende l’evoluzione di lungo periodo del sistema e le probabilità sia di ottenere performances adeguate in termini di ricchezza e benessere della popolazione, sia di rispondere a nuove sfide globali (ambiente, scarsità degli input energetici)37. Questa direttrice di analisi e d riflessione è stata ulteriormente sviluppata negli anni successivi al Rapporto in questione, arricchendosi di contributi specifici di grande interesse, che mettono al centro il problema di come sviluppare competenze STEM (science, technology, engineering, mathematics) per l’evoluzione del sistema economico e per il mantenimento di adeguati livelli 36 Gli Usa sono di fronte ad un “disturbing mosaic” di componenti, che determinano un’evoluzione “tettonica” per i sistemi produttivi: dinamica tecnologica, outsourcing e offshoring, evoluzione accelerata delle competenze necessarie per competere in un orizzonte globale incentrato sull’innovazione permanente. 37 Questo tipo di analisi e le conclusioni non sarebbero aliene per il nostro Paese. 222 occupazionali. Ripercorriamo alcuni degli elementi più significativi ai fini del presente contributo, tenendo presente che si tratta di una selezione all’interno di un ricco insieme di spunti e stimoli. Uno dei punti di maggiore rilevanza è l’esistenza di un mercato del lavoro globale, specialmente per le professioni più elevate (Hira, 2009): le imprese che competono a livello internazionale tendono sempre più ad essere globally integrated enterprises, che sviluppano funzioni di R&S in numerosi Paesi, alcuni dei quali a basso costo del lavoro anche con livelli di conoscenze molto elevati. La globalizzazione della R&S è un processo destinato a cambiare radicalmente la dinamica innovativa, anche se i segnali sono ancora deboli ma inequivocabili: se nel 2002 la Cina aveva solo 122 brevetti internazionali, a fronte dei 18.000 statunitensi e dei 13.000 giapponesi, indagini presso le top 300 imprese mondiali da parte dell’ONU (2009) e dell’Economist (2007) indicano che la Cina è la principale destinazione di investimenti in R&S. Numerosi global palyer (GM, Pfizer, Motorola, Intel, Microsoft, GE, ecc.) hanno già centri studi con un numero significativo e crescente numero di addetti in Cina e soprattutto in India38. La Cina è ormai una potenza sul piano della tecnologia (Cong Cao, 2009): 3,13 milioni di scienziati e ingegneri alla fine del 2007, 1,74 milioni dei quali impegnati a tempo pieno in attività di R&S; secondo lo Science Citation Index nel 2007 scienziati e ingegneri cinesi hanno contribuito al 9,8% delle pubblicazioni a carattere tecnico-scientifico; 1200 centri di R&S stranieri sono operativi in quel Paese (IBM, Cisco, GE, Procter & Gamble, Panasonic, Samsung, tra gli altri); circa 62.500 cinesi con PhD acquisiti negli Usa sono rientrati in patria ed il flusso di brain gain appare in aumento (e preoccupante per gli Usa) (Wadwha, 2009). La dinamica delle forze globali che stanno modificando profondamente le strutture delle economie di tutto il mondo delineano un quadro di incertezze e di rischi, ma definiscono un insieme ricco di enormi potenzialità anche per settori e attività tradizionali, che potrebbero oggi creare nuovi meccanismi propulsori. Già negli ultimi due Rapporti sul Mercato del Lavoro sono state descritte possibili traiettorie evolutive per manifattura e servizi. Aggiungiamo in queste sede alcuni spunti di riflessione elaborati da studiosi americani, nella convinzione che siano molto utili anche per riflettere sul futuro prossimo del sistema produttivo italiano e toscano. 38 Su queste basi l’imperativo di innalzare dal punto di vista quantitativo e qualitativo i lavoratori STEM è per gli Usa cruciale e si traduce in una serie di direttrici di azione per agenti privati e soprattutto pubblici. 223 Sfatiamo innanzitutto un luogo comune, relativo alla forte competitività di costo delle produzioni manifatturiere cinesi: nel 2007 uno studio del Michigan Manufacturing Technology Center (citato in Helper, 2009) indica che “la maggior parte dei imprese manifatturiere Usa hanno costi superiori al massimo del 20% rispetto ai competitori cinesi”. Un’altra indagine del 2006 (Performance Benchmarking Service, PBS) argomenta che le piccole imprese americane sono o possono essere agevolmente competitive nei confronti delle unità del lontano oriente; analogamente una ricerca McKinsey del 2004 sostiene che in molti segmenti della produzione di componenti per autoveicoli la differenza si aggira intorno al 20-30% per prodotti simili. Il divario si riduce ulteriormente qualora si prendano in considerazione i cosiddetti hidden costs dell’offshoring quali: problemi di comunicazione tra livelli di managament e di organizzazione dei flussi in catene logistiche troppo lunghe, problemi di coordinamento lungo le fasi di un ciclo disperso a livello internazionale. Comunque sia la strategia per un incremento della competitività delle produzioni negli Usa non può essere il taglio dei costi, bensì un’altra, incentrata sulla diffusione dell’high road model of production, che significa introduzione di pratiche innovative di questo tipo: avanzamento delle tecnologie manifatturiere di frontiera, innalzamento del livello qualitativo di tutti gli input a partire dal lavoro, nuovi modelli di business e di prodotto39, investimenti in una serie di infrastrutture e nella realizzazione di un insieme di condizioni basilari (strumenti di welfare, sviluppo di comunità di produttori, ecc.), relazioni sindacali di nuovo tipo. Si tratta di temi, questioni e direttrici strategiche che già in un’indagine presso un campione significativo di imprese manifatturiere (The Manfacturing Institute, Deloitte, 2005) aveva già messo a fuoco e sui quali nel quinquennio successivo sono state avanzate proposte e ipotizzati una serie di interventi strategici, al fine di affrontare il problema cruciale per l’economia Usa, ma comune a molte altre economia industriali: il divario tra competenze richieste dalle imprese per competere in un processo manifatturiero globale e l’offerta di skills esistente nel sistema socio-economico40. In seguito al Rapporto della National Academy of Science (Rising Above the Gathering Storm) si è sviluppato un ricco dibattito e sono state avanzate proposte e definite linee strategiche. A questo proposito è stato elaborato il Federal Manufacturing Extension Partnership (MEP), discusso in Helper (2008). 40 I temi connessi allo skills gap shortage sono al centro dei documenti e degli studi elaborati nel corso degli anni, disponibili nel sito http//institute.nam.org. 39 224 La rilevanza dei temi discussi va molto al di là del manifatturiero, perché tra i motivi ricorrenti di queste e di altre analisi è il fatto che la produzione di beni nei prossimi decenni richiede alta intensità di conoscenza, rendendo quindi del tutto obsolete classificazioni statistiche consolidate. È soprattutto rilevante, però, che tutti i tipi di prodotti tendano a diventare sistemi complessi, in quanto derivanti dalla confluenza di molteplici processi e attività di ricerca. In questa prospettiva la creazione di nuovi beni e il riprogettazione di quelli tradizionali può essere fonte di produzione di ricchezza e di grandi potenzialità occupazionali. Proprio in questa prospettiva sono elaborati documenti strategici e progetti di grande rilievo per gli Usa, dal momento che coniugano industria manifatturiera, sviluppo di nuove traiettorie di ricerca e diffusione delle innovazioni nell’enorme spazio tecnicoscientifico delle tecnologie energetiche e della riprogettazione dei sistemi di trasporto o di produzione-distribuzione dell’energia. Si tratta di temi di grande rilevanza per molti aspetti, che comportano possibilità di creare molti di posti di lavoro ad elevato contenuto qualitativo. I temi saranno sviluppati in modo più approfondito e sistematico nei prossimi Rapporti sul Mercato del lavoro; in questa sede è opportuno sottolineare alcuni aspetti essenziali. Innanzitutto è nel mondo in atto una vera e propria “corsa all’energia pulita”, le cui ricadute tecnologiche, scientifiche, economiche, culturali, istituzionali saranno di portata non minore di quella (ben più pericolosa) della “corsa agli armamenti” del secondo dopoguerra. I Paesi dell’Estremo Oriente, definiti “clean Energy tigers” (BI & ITIF, 2009) sono all’avanguardia nella ricerca in questo nuovo spazio della ricerca tecnico-scientifica. La Cina, primo investitore al mondo nell’energia eolica, ha creato la cosiddetta “Electricity Valley” intorno alla città di Baoding, precedentemente basata sull’automobile e sull’industria tessile. Una delle più innovative aziende produttrici di celle solari è cinese, come il secondo produttore al mondo. Il Giappone negli ultimi cinque anni ha investito nella ricerca in questo campo fra i tre e i quattromila miliardi di dollari all’anno e nel 2005 era giapponese la proprietà del 20% dei brevetti mondiali in tecnologie per le energie rinnovabili, percentuale equivalente a quella Usa. In Corea la spesa pubblica in R&S finalizzata agli stessi obiettivi è cresciuta del 16% all’anno nel periodo 2003-2008, fino a raggiungere 398 milioni di dollari. Gli Stati Uniti, infine, mantengono una posizione di leadership, come si evince dalla quota di brevet225 ti (20,2%) e dall’ammontare di risorse investite (le spese federali in R&S sono pari a 5,3 miliardi di dollari), ma viene avvertito che l’inseguimento delle rising tigers e degli sleeping giants sta riducendo le distanze. In questa prospettiva sono stati elaborati progetti molto interessanti. Prendiamo in considerazione uno di questi, concernente la riprogettazione di sistemi infrastrutturali e lo sviluppo di tecnologie per il risparmio energetico (Atkinson et al., 2009). Sono stimati gli investimenti necessari, i posti di lavoro potenziali in piccole imprese e nelle attività interessate al disegno strategico (Tab. 9.16). Tabella 9.16 Stime dei posti di lavoro mantenti o creati da investimenti nelle infrastruttre di rete Banda larga IT sanità Rete elettrica (smart grid) Totale Fonte: B & I, ITIF (2009) Investimenti (miliardi di dollari) Posti di lavoro Posti di lavoro in piccole imprese 10 10 10 30 498.000 212.000 239.000 949.000 262.000 121.675 140.500 524.225 La linea incentrata sulla creazione della “banda larga” genera rilevanti “effetti di rete”: induce nuovi modelli di business, genera opportunità di investimento in una serie di segmenti di attività economica (telemedicina, e-commerce, strumentazione ad alta velocità di calcolo), apre nuove opportunità di lavoro. I “sistemi di trasporto intelligenti” significano integrazione tra tecnologie dell’informazione e nuove tecnologie per le infrastrutture (materiali, meccanismi propulsori, tecnologie per il risparmio energetico e per il controllo dei flussi). Gli effetti di natura ambientale e occupazionale (a cascata su una serie di settori), oltre che di incremento della produttività e del benessere socio-economico sono potenzialmente enormi. La rete intelligente comporta la creazione di un’infrastruttura distribuita per la produzione e la distribuzione di energia da fonti estremamente decentrate, con sensori e strumenti di monitoraggio diffusi e sistemi di controllo e programmazione dei flussi basati su sistemi di automazione ubiquitari. Anche in questo caso è ipotizzabile la realizzazione di combinazioni dinamiche tra tecnologie standard ed altre innovative, come anche tra posti di lavoro basati su competenze tradizionali e altri sempre più incentrati su competenze del tutto nuove. 226 Siamo dunque in presenza di strategie e progetti che si sviluppano su più dimensioni: sviluppo tecnico-scientifico, creazione di nuovi posti di lavoro, progettazione di nuovi sistemi complessi per rispondere simultaneamente a finalità ambientali e socioeconomiche, ridefinizione del ruolo degli agenti privati e di quelli istituzionali. Gli spunti di riflessione da tenere presenti nelle riflessioni sullo scenario evolutivo per il nostri Paese sono pertanto numerosi e di grande rilievo. 9.9 Il potenziale di crescita dell’economia italiana: il sentiero su un terreno franoso Le coordinate generali sull’evoluzione dell’economia italiana ed europea sono da tempo tracciate nel dibattito di analisti e studiosi: “eurosclerosi” versus dinamismo Usa, a causa dei declinanti tassi di crescita della domanda e della produttività nel vecchio continente nel periodo 1994-2007. I temi discussi sono stati già in parte affrontati nei precedenti rapporti sul Mercato del Lavoro e saranno ulteriormente approfonditi nel prossimo; il presente contributo riprende alcuni elementi della discussione per soffermarsi sul problema fondamentale del potenziale di crescita dell’economia italiana nello scenario descritto. Per quanto concerne il nostro Paese, già nel 2004 la European Commission (DG/EFA e ECFIN, 2004) ha descritto il visibile rallentamento dell’economia italiana nel decennio 1992-2002, data la diminuzione del tasso di crescita del PIL dal 2,6% del decennio ’80 all’1,4% della seconda metà degli anni ’90, quando l’UE è cresciuta del 2% in media e gli Usa del 3%. Si tratta di un significativo indebolimento del processo di crescita, connesso ad un progressivo arretramento della quota sul commercio mondiale a prezzi costanti (dal 4,5% del 1995 al 3,0% del 2003), a fronte di una costanza dell’incidenza francese -5,3% -ed un aumento di quella tedesca- dal 10,1% all’11,6% (Banca d’Italia, 2004). La diminuzione della capacità competitiva dell’Italia appare a molti evidente (Graf. 9.17). 227 Grafico 9.17 Quote di mercato dell’Italia sull’export mondiale Fonte: IMF (2009) Il dato è univoco e deve essere collegato alle informazioni concernenti l’evoluzione dei tassi di cambio in termini reali, che tiene conto dell’andamento dei prezzi e del costo del lavoro. Anche in questo caso appare l’anomalia italiana di un profilo crescente rispetto a quanto rilevato per altri Paesi europei (Graf. 9.18). Grafico 9.18 Tassi di cambio reali (Metodologia: IMF. 2006 145 REER Based on ULC and CPI (1999=100) France (ULC) Germany (ULC) Italy (ULC) France (CPI) Germany (CPI) Italy (CPI) 135 125 145 135 125 115 115 105 105 95 95 85 85 2000 2002 2004 Fonte: IMF (2009) 228 2006 2008 Altri aspetti rilevanti nel determinare l’indebolimento sono individuati nella scarsità di “forze competitive” a causa della mancanza di competitività in settori dei servizi ritenuti strategici (telecomunicazioni, trasporti, attività tecniche e professionali) e della prevalenza nella struttura industriale di comparti e attività (tessile, vestiario e abbigliamento, mobili) vulnerabili dal punto di vista della penetrabilità alle importazioni e alla redditività. A tutto ciò il documento ECFIN aggiunge la bassa percentuale delle spese in R&S sul PIL (1%) e il basso livello di istruzione della popolazione in età lavorativa, sia in assoluto che in comparazione con altri Paesi. Nelle analisi internazionali, condotte sulla base della metodologia standard definita “contabilità della crescita”, una delle manifestazioni più evidenti del declino italiano è la progressiva caduta della “produttività totale dei fattori” (PTF), che stima il contributo alla crescita derivante dall’efficienza nell’impiego dei fattori produttivi (Graf. 9.19). Grafico 9.19 Potenziale di crescita dell’output in Italia: contributo dei fattori produttivi Fonte: ECFIN (2004) Esso è diminuito dall’1,1% degli anni ’80 allo 0,2% degli inizi anni 2000, con un’accelerazione nella seconda metà del decennio ’90, proprio quando è iniziato il processo di rapida diffusione in tutto il mondo delle tecnologie dell’informazione. 229 Il declino della TFP ha ovviamente indotto gli studiosi a interrogarsi sulle cause (IMF, 2002), a partire da un “puzzle”: come ha potuto l’economia italiana aumentare l’occupazione in un periodo di rallentamento della TFP? L’anomalia di una bassa crescita unita alla creazione di posti di lavoro41, quindi di un trade-off tra occupazione e produttività, è in effetti un fenomeno atipico all’interno di una dinamica accelerata degli scambi internazionali, dell’innovazione tecnico-scientifica, dei modelli organizzativi delle imprese. In anni cruciali l’Europa e l’Italia sono passate “dalla crescita senza occupazione alla creazione di occupazione senza crescita” (Saltari e Travaglini, 2009). Nella ricerca di risposte a quesiti teorici ed empirici un’analisi comparata può fornire elementi di riflessione molto interessanti, perché dai comportamenti differenziali si può risalire alle difformità di componenti che sono alla base di essi. Analizziamo ancora una volta Germania, Francia e Italia. Esercizi di contabilità della crescita per i tre Paesi (Bassanetti et al., 2006, pp. 133-135) mettono in luce importanti differenze tra Francia e Italia da un lato, e Germania dal’altro. Per le prime due la seconda metà degli anni ’90 è contraddistinta da una crescita del costo del lavoro più bassa della produttività, mentre aumenta la forza lavoro attiva e la disoccupazione diminuisce. Nella terza, invece, le ultime due componenti non mostrano oscillazioni marcate, anzi il contributo del lavoro alla crescita appare in diminuzione. L’esame del ruolo del capitale nel contribuire alla crescita attenua le differenze, perché mostra prima un profilo in diminuzione (fine anni ‘90) e poi in leggero aumento (primi anni 2000), con un’accentuazione nel caso tedesco. Attraverso le oscillazioni cicliche si è di fatto verificato un rallentamento nel tasso di crescita dello stock di capitale, che è stato del 2,7% nel corso degli anni ’80 ed è sceso al 2,1% nel periodo 19912003. Questi elementi, uniti a quelli concernenti la riduzione del costo del lavoro e l’aumento dell’occupazione, inducono a ritenere che nel caso di Francia e Italia si sia verificato “un processo di parziale sostituzione tra capitale e lavoro” (Bassanetti et al., 2006). Tale affermazione è confermata dall’andamento del rapporto capitale/lavoro, che registra un significativo rallentamento a cavallo dei decenni ed una ripresa nel biennio 20022003, più macrata in Germania (Graf. 9.20). L’anomalia in realtà si configura rispetto allo schema teorico prevalente, incentrato su una relazione diretta tra crescita e occupazione. 41 230 Grafico 9.20 Rapporto capitale/lavoro. 1991=1. Stock di capitale netto diviso per il lavoro misurato in termini di numero degli occupati Fonte: Bassanetti et al. (2006) L’esame dell’andamento della PTF, stimata in generale e per i macro-settori dell’economia, arricchisce il quadro con spunti di grande interesse. Appare evidente il generale e consistente rallentamento, che è particolarmente marcato per il nostro Paese, l’unico dove assume un valore negativo, mentre la Francia registra il valore più elevato nell’ultimo quinquennio (Graf. 9.21). Ciò che più colpisce è ancora un altro elemento, ovvero l’evoluzione della PTF a livello settoriale. Dai contributi di Inklaar et al. (2003) e Bassanetti et al. (2004)42 emerge la forte eterogeneità tra Francia e Germania da un lato e Italia dall’altro. In quest’ultima, infatti, la PTF diminuisce vistosamente, soprattutto nei beni non durevoli, che anticipano una tendenza generale. Per quanto riguarda i servizi, è individuabile la differenza fondamentale fra i tre Paesi, nei quali la PTF evidenzia un generale declino, e il Nord Europa+Usa, dove avviene il contrario. Gli elementi delineati compongono un quadro molto significativo, che può essere completato con la stima di una ulteriore variabile, l’intensità di capitale (capital deepening), che varia in modo molto eterogeneo rispetto agli Usa, mostrando un profilo di marcato declino tendenziale nell’arco di quindici anni (Graf. 9.22). 42 I contributi e i temi in essi affrontati sono stati approfonditi negli ultimi Rapporti sul mercato del lavoro. 231 Grafico 9.21 Produttività totale dei fattori. Variazioni % Fonte: Bassanetti et al. (2006) Grafico 9.22 Intensità di capitale .Tasso di variazione Fonte: Saltari e Travaglini (2009) Ciò indica chiaramente che le economie europee, quella italiana in primis, hanno progressivamente attuato uno spostamento verso forme di attività labour-intensive (Saltari e Travaglini, 2009), proprio nella fase storica contraddistinta da un’in232 tensa dinamica innovativa, in cui avrebbe dovuto realizzarsi un robusto impiego di risorse verso mutamenti nella dotazione di capitale dell’economia. Converge su questa tesi una serie di lavori, tra i quali sottolineiamo il Rapporto sulle tendenze del capitalismo italiano (Banca d’Italia, 2009), nel quale viene argomentata la seguente tesi: le variazioni negative della PTF, la perdita di efficienza che ne è conseguita, sono da ascrivere al maggiore impiego di tecnologie a maggiore intensità di lavoro, a sua volta indotto dalle riforme del mercato del lavoro, le quali hanno modificato profondamente le convenienze nell’uso degli input. Possiamo dedurne che siamo di fronte ad un’anomalia strutturale: in anni contraddistinti da processi di globalizzazione, mutamento del paradigma tecno-economico, da drastici mutamenti delle relazioni tra Paesi sia all’interno dell’Europa che nel mondo, non solo il modello di specializzazione dell’economia italiana è cambiato poco, ma soprattutto si sono verificate condizioni per un paradossale bias verso l’adozione di tecnologie ad alto contento di lavoro. In tale contesto non potevano che predominare tendenze a preservare gli equilibri strutturali esistenti, mentre sarebbe stato necessario generare forti spinte innovative. Queste, peraltro, avrebbero potuto trarre alimento da una stagione fortunata di profitti crescenti fino al 2001 (Banca d’Italia, 2009, p. 29). Non è quindi sorprendente che l’economia italiana abbia continuato sulla traiettoria intrapresa da decenni, con alcune invarianti sistemiche, non modificate da una significativa dinamica strutturale, come per esempio il considerevole spostamento dall’industria ai servizi. Non di rado si è trattato, infatti, di attività terziarie a modesto contenuto qualitativo, mentre i servizi ad alta intensità di conoscenza (KIS-KIBS) hanno mostrato dinamiche di crescita piuttosto contenute. Sulla base degli elementi evidenziati è logico che la propensione ad investire in R&S non sia cambiata, né abbia potuto modificarsi sostanzialmente aspetti costitutivi dell’apparato produttivo nazionale (prevalenza di unità di piccole dimensioni, limitata internazionalizzazione delle imprese, ecc.). Si sono anzi innescati circoli viziosi tali da ridurre l’estensione e l’intensità dei mutamenti del sistema, che pure si sono verificati. 233 10. Effetti della crisi finanziaria sui mercati del lavoro e principali misure di politica economica: una rassegna critica 10.1 Introduzione: gli effetti della crisi sul mercato del lavoro L’obiettivo di questo lavoro è di illustrare i principali contributi sugli effetti della crisi finanziaria sul mercato del lavoro e sulle misure di policy adottate dai paesi sviluppati per contrastare tali effetti. La crisi finanziaria iniziata nel 2007 ha avuto conseguenze drammatiche sul mercato del lavoro, interrompendo un periodo di tassi di disoccupazione relativamente bassi e di occupazione stabile. L’effetto immediato è stato una perdita di benessere dei lavoratori e delle famiglie, ma, nel medio e lungo termine, la crisi potrebbe determinare perdite significative di capitale umano e diminuzione dello spazio delle opportunità di crescita e innovazione. Ciò renderebbe difficile la creazione di nuovi posti di lavoro, innescando così un circolo vizioso ed ulteriore sofferenza dei ceti medio-bassi. Nei paragrafi successivi cercheremo di capire se la gravità e la profondità delle conseguenze della crisi sul mercato del lavoro siano dovute esclusivamente a cause congiunturali -la bolla speculativa sul mercato immobiliare e il fallimento di alcune istituzioni bancarie, con conseguente riduzione della liquidità- oppure ad un processo di trasformazione che, nel corso dei decenni, ha mutato in maniera radicale la struttura del mercato del lavoro globale, riducendo lo spazio di contrattazione dei lavoratori e peggiorando le condizioni di lavoro ben prima dello scoppio della crisi. Inoltre, cercheremo di capire quali misure di politica economica sono state adottate per contrastare gli effetti della crisi e fino a che punto tali misure possono incidere sulle prospettive di cambiamento e crescita future. Questo lavoro è articolato come segue. Nel primo paragrafo mostriamo alcuni dati sull’impatto di breve e, potenzialmente, di lungo periodo della crisi economica sul mercato del lavoro, sot235 tolineando alcune possibili cause congiunturali e strutturali. Nel secondo paragrafo presentiamo le principali misure di politica economica adottate dai governi, discriminando tra misure volte al sostegno dei redditi e della domanda aggregata (passive) e misure di intervento diretto sul mercato del lavoro (attive). L’articolo si chiude con alcune considerazioni finali, in cui presenteremo alcune traiettorie possibili, ed una tabella sinottica dei principali lavori sulla crisi e il mercato del lavoro. 10.1.1 Effetti nel breve periodo: principali indicatori economici La crisi finanziaria che ha colpito l’economia globale nel 2008 ha avuto conseguenza drammatiche sul mercato del lavoro. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO, International Labour Office) stima che, a livello globale, il numero di disoccupati nel 2009 fosse pari a 212 milioni di persone, circa il 6,6% della popolazione mondiale, con un incremento del 16% rispetto al 2007, la maggior parte del quale avvenuto proprio nel 2009 (ILO, 2010). L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD, Organization for Economic Cooperation and Development) sostiene che gli incrementi di disoccupazione registrati nel 2009 sono i più ampi dalla crisi economica degli anni Settanta. Inoltre, rispetto ad altri periodi recessivi, le previsioni di ripresa appaiono più pessimistiche (OECD, 2009g). L’area dei paesi sviluppati e dell’Unione Europea ha subito, in termini percentuali, l’impatto maggiore, vedendo aumentare, in media, il proprio tasso di disoccupazione di circa il 2.3% (ILO, 2010). Uno studio comparato dell’OECD sull’impatto della crisi sul mercato del lavoro, mostra che nel febbraio 2010 il numero di disoccupati nell’area OECD ha raggiunto quota 16 milioni (OECD, 2010d). Mediamente, Holland et al. (2009) stimano che il tasso di disoccupazione sia aumentato dell’1,9%, ma se si guarda allo stesso dato disaggregato per paese, si notano profonde differenze. L’Irlanda, gli Stati Uniti, la Spagna ed il Regno Unito sono i paesi che hanno subito un impatto maggiore, con incrementi fino al 3%, mentre in Polonia, Repubblica Slovacca, Norvegia e Germania la disoccupazione è leggermente diminuita rispetto al periodo 2000-2007. In Italia la situazione si è mantenuta stabile (Graf. 10.1). 236 3,6 2,7 1,8 0,9 0,0 -0,9 -1,8 Polonia Rep.Slovacca Norvegia Germania Rep.Ceca ITALIA Finlandia Grecia Corea Australia Olanda Francia Belgio Giappone Austria Svizzera Canada Danimarca Nuova Zelanda Svezia Lussemburgo Turchia UK Ungheria Portogallo Messico Spagna US Irlanda Grafico 10.1 Variazione del tasso di disoccupazione del 2009 rispetto al tasso medio 2000-2007 Fonte: elaborazione dell’autrice su dati OECD Tuttavia, se si guarda ai tassi di disoccupazione in termini assoluti (Graf. 10.2), appare evidente come la situazione della Spagna sia particolarmente drammatica, con un tasso di disoccupazione vicino al 20%, ma anche quella di Turchia, Repubblica Slovacca, Irlanda, Grecia ed Ungheria. Gli unici paesi che si mantengono nei limiti della disoccupazione strutturale sono Norvegia, Corea, Olanda e Svizzera, mentre l’Italia è leggermente al di sopra della media OECD (7,8%). Grafico 10.2 Tassi di disoccupazione. 2009 20 15 10 0 Norvegia Corea Olanda Svizzera Austria Giappone Messico Lussemburgo Australia Danimarca Nuova Zelanda Rep.Ceca UK Germania OECD Belgio Italia Canada Polonia Finlandia Svezia Francia US Portogallo Ungheria Grecia Irlanda Rep.Slovacca Turchia Spagna 5 Fonte: elaborazione dell’autrice su dati OECD Secondo il rapporto dell’ILO (2010), che cita uno studio EUROSTAT su sei paesi dell’area OECD, la crisi non ha aggravato le discriminazioni di genere e il gap nei tassi di disoccupazione in base al sesso si è mantenuto stabile tra il 2007 e il 2009. Bisogna anche considerare che la crisi ha colpito in particolar modo il settore dell’edilizia, che, tradizionalmente, è un settore maschile e ciò confermerebbe quanto sostenuto dall’ILO. Tuttavia, se si 237 confrontano i tasso di disoccupazione del 2009 femminile e maschile con quelli medi del periodo 2000-2006, i segni sono spesso contrastanti e favorevoli agli uomini, come nel caso della Finlandia, della Francia, dell’Italia e dell’Olanda. Peraltro, i dati sembrano suggerire che nei paesi dove la crisi ha avuto un impatto maggiore, cioè Irlanda, Spagna e Stati Uniti, la variazione sia stata anche più ampia (Tab. 10.3). Tabella 10.3 Tassi di disoccupazione per sesso (2009) e variazioni (2000-2006)-2009 Tasso di disoccupazione Tasso di disoccupazione Variazione (2000-2006) Variazione (2000-2006) femminile (2009) maschile (2009) - 2009, donne - 2009, uomini Australia 5,42 Austria 4,55 Belgio 8,11 Canada 6,98 Corea 3,02 Danimarca 5,36 Finlandia 7,53 Francia 9,31 Germania 7,31 Giappone 4,70 Grecia 13,15 Irlanda 8,05 Italia 9,28 Lussemburgo 6,13 Messico 4,80 Norvegia 2,65 Nuova Zelanda 6,14 Olanda 3,87 Polonia 8,66 Portogallo 10,15 Rep.Ceca 7,73 Rep.Slovacca 12,87 Spagna 18,39 Svezia 7,99 Svizzera 4,49 Turchia 14,32 UK 6,44 Ungheria 9,72 US 8,07 Fonte: elaborazione dell’autrice su dati OECD 5,71 4,96 7,74 9,41 4,09 6,53 8,99 8,86 8,08 5,28 6,85 15,09 6,76 4,36 5,41 3,61 6,13 3,89 7,76 8,86 5,85 11,40 17,72 8,62 3,72 13,91 8,78 10,25 10,30 -0,06 0,00 -0,07 0,04 -0,07 0,03 -0,17 -0,09 -0,20 0,04 -0,15 0,93 -0,20 0,31 0,32 -0,28 0,23 -0,09 -0,55 0,47 -0,20 -0,28 0,21 0,37 0,09 0,50 0,47 0,58 0,61 -0,02 0,21 0,14 0,28 0,00 0,54 0,06 0,12 -0,14 0,06 0,06 2,23 0,01 0,60 1,00 -0,14 0,34 0,12 -0,54 0,77 -0,10 -0,33 1,27 0,34 0,19 0,43 0,61 0,57 0,99 La crisi, di fatto, non colpisce tutti in maniera indiscriminata. L’OECD ha identificato le categorie che presentano una maggiore vulnerabilità al ciclo economico. In termini assoluti, coloro che presentano indici di volatilità più alti sono i giovani con un’età inferiore ai 24 anni e i lavoratori temporanei, seguiti dai lavoratori non-qualificati e da quelli con un’età superiore ai 55 anni (OECD, 2009g) (Graf. 10.4). 238 Grafico 10.4 Indice di sensibilità al ciclo economico per gruppi specifici 2,5 100% Relative business-cycle volatility (left-hand scale) Share of employment (right-hand scale) 2,0 80% Temporary workers Permanent workers Men Self-employed 0% Women 0,0 High-skilled 20% Medium-skilled 0,5 Low-skilled 40% Older workers (55+) 1,0 Prime-age (25-54) 60% Youth (15-24) 1,5 Fonte: OECD (2009c) Il grafico 10.5 mostra i tassi disoccupazione per i giovani tra i 15 e i 24 anni, che sono effettivamente più alti rispetto a quelli presentati nel grafico 10.2. In Spagna addirittura la disoccupazione giovanile sfiora il 40%, ma anche in paesi come la Repubblica Slovacca, la Grecia, l’Ungheria, l’Italia, l’Irlanda, la Turchia e, persino, la ricca Svezia è molto alta, superando un quarto della forza lavoro dell’età considerata. Se i dati presentati fino ad ora danno già una misura della drammaticità della crisi, non offrono un quadro completo del mercato del lavoro globale e delle sue prospettive di crescita. Inoltre, non ci dicono nulla sulle caratteristiche e sulle perdite di benessere dei lavoratori coinvolti. Un secondo indicatore che può dare la misura della gravità della crisi è il confronto con il dato sulle perdite di prodotto interno lordo (PIL). Holland et al. (2009) e Holland et al. (2010) sottolineano come l’aumento del tasso di disoccupazione sia più che proporzionale alla diminuzione dell’output, anche se con variazioni notevoli tra paesi. Per esempio in Canada, Spagna e Stati Uniti l’aumento del tasso di disoccupazione sembra del 239 tutto sproporzionato rispetto alla perdita di output, mentre in Italia, Germania e Giappone il numero di disoccupati è aumentato in misura molto minore rispetto alla diminuzione del PIL. Tali differenze naturalmente sono dovute a diversità strutturali dei mercati del lavoro ma anche all’implementazione di politiche volte a contrastare gli effetti della crisi, come vedremo in seguito. Gli autori stimano che, mediamente, una diminuzione di un punto percentuale di output comporti una riduzione del livello di occupazione compreso tra lo 0,1 e lo 0,6%. Grafico 10.5 tasso di disoccupazione in età 15-24 anni 40 32 24 16 0 Olanda Svizzera Giappone Norvegia Corea Austria Messico Germania Danimarca Australia Canada Nuova Zelanda Rep.Ceca Lussemburgo US UK Portogallo Polonia Finlandia Belgio Francia Svezia Turchia ITALIA Grecia Irlanda Ungheria Rep.Slovacca Spagna 8 Fonte: elaborazione dell’autrice su dati OECD È interessante sottolineare che dal picco di depressione, avvenuto nel secondo quadrimestre del 2009, ad oggi, il tasso di disoccupazione a livello aggregato nell’area OECD è continuato a crescere, compresa la disoccupazione di lungo periodo (dai 6 mesi a un anno) (OECD, 2010d): molti commentatori ed analisti denotano tale fenomeno come “jobless recovery”, che dipende, sostanzialmente, dallo stato di incertezza e dalla diffusa sfiducia nel rebound, aggravate peraltro da nuovi attacchi speculativi avvenuti nelle ultime settimane sui mercati finanziari e dal rischio di fallimento di alcuni stati43. L’evidenza empirica mostra che spesso le imprese scelgono strategicamente di mantenere un Vedi anche The Economist (2010). Per esempio in febbraio la Ford ha cominciato a re-investire nella produzione di automobili più efficienti, per rispondere alla spinta competitiva nel settore della Toyota, ma non ha ancora richiamato i lavoratori licenziati dal 2006 ad oggi -circa il 47% della propria forza-lavoro- né sembra per il momento avere intenzione di aprire nuove posizioni. L’amministratore delegato dell’azienda, Alan Mulally, afferma che “What we’re seeing is a relatively slower recovery than what we’ve seen in the past” e che la possibilità di nuove assunzioni, “really depends on what the swing of the recovery is because all of us don’t know right now”. Vedi Naughton (2010). 43 240 dato livello di output per lavoratore, seppure inferiore rispetto alla propria capacità produttiva, (ri)aumentando gradualmente le ore lavorate piuttosto che correre il rischio di assumere nuovi lavoratori (Holland et al., 2009; OECD, 2010d). Un altro indicatore dello stato del mercato del lavoro è la partecipazione della forza lavoro, che è data dal rapporto tra il totale della forza lavoro, quindi la somma tra occupati e disoccupati, e il totale della popolazione attiva. Se, a livello aggregato, nel biennio 2008-2009, la partecipazione della forza lavoro globale è rimasta invariata, a livello regionale le differenze sono notevoli. In particolare, nell’area OECD essa è diminuita dello 0,4%, sostanzialmente per un “effetto scoraggiamento” che colpisce coloro che vorrebbero lavorare, ma rinunciano a cercare lavoro perché sfiduciati rispetto alle opportunità offerte dal mercato del lavoro (ILO, 2010). Tale dato è particolarmente rilevante perché molto spesso le categorie più colpite sono le più vulnerabili, cioè i giovani che devono ancora entrare nel mercato del lavoro, gli anziani che stanno per uscirne e le donne (OECD, 2010d). Infine, un indicatore di estrema importanza è quello relativo al trend dei salari, che non solo ci restituisce un’immagine dello stato del mercato del lavoro ma anche del benessere relativo dei lavoratori e delle famiglie. Le imprese possono scegliere, in alternativa al licenziamento, di tagliare i salari reali e, quindi, di bloccare il tasso di crescita del salario nominale. Holland et al. (2010) mostrano come ci sia una sostanziale varietà di comportamenti tra i paesi OECD anche nel trend di questa variabile. Come appare evidente dal grafico 10.6, l’Italia è un outlier assoluto, con una riduzione media della crescita del salario reale nel biennio 2008-2009 pari al 3%. Anche nel Regno Unito si è registrata una leggera diminuzione ma assolutamente non comparabile con quella italiana. Gli autori ritengono che ciò spieghi la capacità dell’Italia di mantenere un basso tasso di disoccupazione, ma, in termini di benessere generale, appare ancora più grave se si confronta con il dato relativo al periodo 2000-2006, durante il quale il salario reale era cresciuto solamente dello 0,5%, quindi meno dell’aumento annuale della pur bassa inflazione44. Anche in Francia e in Irlanda la crescita dei salari durante la crisi è stata molto contenuta, mentre in Canada, Stati Uniti e Spagna, i salari sono aumentati più che nel periodo precedente, al prezzo però di un maggior numero di licenziamenti. 44 L’incremento dei prezzi al consumo nel periodo 2000-2006 è rimasto stabile intorno al 2,4% (dati OECD). 241 Grafico 10.6 Crescita media del reddito reale. 2000-2006 e 2008-2009 6 2000-2006 Average % growth per annum 5 2008qI-2009q3 4 3 2 1 0 -1 US UK Spain Sweden Neths Japan ITALY Ireland Germany France Finland Canada -3 Australia -2 Fonte: Holland et al. (2010) Sulla base di alcune simulazioni fondate su dinamiche storiche di ciascun paese, Holland et al. (2010) mostrano che il taglio dei salari in paesi come la Germania, che presenta tassi di crescita del salario reale positivi e tassi di disoccupazione relativamente non elevati, gli Stati Uniti, il Regno Unito e, in misura minore, la Spagna ha un impatto molto positivo sui livelli di occupazione. Al contrario, i mercati del lavoro di Finlandia, Svezia, Irlanda ed Italia sembrano molto meno reattivi, giustificando ancor meno una misura che ha un effetto negativo tanto sul benessere delle famiglie quanto sulla domanda aggregata e, di conseguenza, sulla ripresa. Mishel et al. (2009) sottolineano che negli Stati Uniti il rallentamento della crescita del saggio di salario non ha colpito tutti i gruppi sociali in maniera indiscriminata. Per esempio, il tasso di crescita del salario nominale femminile è diminuito, mediamente, del 57%, contro il 34% di quello maschile. Inoltre, la riduzione è concentrata soprattutto nelle fasce medio-alte di reddito, aggravando lo stato di insicurezza economica in cui versa la classe media americana dall’inizio del Millennio (vedi Demos, 2008). 242 10.1.2 Effetti di lungo periodo: cambiamenti strutturali nelle traiettorie di sviluppo Se quelli descritti sopra sono gli effetti nell’immediato della crisi, altre conseguenze probabili possono verificarsi sul medio-lungo termine e rischiano di diventare strutturali se non affrontate con politiche adeguate. Irons (2009) individua i settori principali che rischiano maggiormente di subire l’impatto della crisi: •• Il disagio economico può spingere molti genitori a tagliare sulle spese di istruzione dei propri figli, interrompendo o ritardando l’istruzione secondaria oppure rinunciando al doposcuola o ai campi scuola. Inoltre, l’insicurezza economica che arriva fino a tagliare le spese per il cibo o la sanità può generare ritardi cognitivi non recuperabili. Oreopolus et al. (2005), utilizzando un ampio database longitudinale canadese e stimando un modello a due stadi, calcolano che i figli che hanno subito lo shock del licenziamento dei padri guadagnano circa l’8% in meno dei figli del gruppo di controllo, i cui padri hanno continuato a lavorare stabilmente. Inoltre, è più probabile che essi sia beneficiari del sussidio di disoccupazione e dell’assistenza sociale. •• La crisi ha anche effetti persistenti sullo spettro di opportunità di individui e famiglie. Irons cita uno studio del 2009 in cui si mostra che i laureati che entrano nel mondo del lavoro durante un ciclo economico negativo presentano un differenziale salariale fino al 7%, che persiste nel tempo (dopo 15 anni il gap si riduce al 2,5%). Un recente studio dell’EPI sul mercato del lavoro giovanile americano mette in evidenza come l’attuale crisi abbia duramente colpito i giovani con un’età inferiore a 25 anni, il cui tasso di disoccupazione tra il 2007 e il 2010 è cresciuto del 7,1%, rappresentando il 26,4% del totale (sebbene i giovani rappresentino solo il 13% di tutta la forza lavoro). Seppure la disoccupazione giovanile sia sempre stata molto sensibile al ciclo economico, gli autori mostrano che nel caso di questa crisi gli effetti sono più drammatici e rischiano di perdurare nel lungo periodo: infatti, i giovani sono meno preparati ad affrontare la disoccupazione, non essendo, presumibilmente, qualificati per posizioni con un alto valore aggiunto, quindi più specializzate e meglio retribuite, né avendo accumulato risparmi. Il timore di una disoccupazione di lungo termine e della povertà possono spingere ad accettare qualsiasi tipo di posizione, a prescindere dalla propria quali243 fica ed esperienza, incidendo pesantemente sulla propria vita professionale e determinando una perdita di capitale umano per l’individuo e l’intera società (Edward e Hertel-Fernandez, 2010). •• Peraltro, quest’ultimo effetto è aggravato dalla competizione per “accaparrarsi” le poche posizioni disponibili, che, la maggior parte delle volte, si risolve in una competizione “al ribasso”. Ciò, come si è accennato sopra, incide in maniera permanente non solo sul reddito, ma anche sulle aspettative di carriera e mobilità sociale ed ha conseguenze nefaste sulle fasce di reddito medio-basse. L’ILO stima che tra il 2008 e il 2009 il gruppo di “working poor” sia aumentato del 7% su scala globale, coinvolgendo perciò circa 215 milioni di persone; ulteriori 185 milioni di lavoratori sono oggi a rischio di cadere sotto la linea assoluta di povertà (ILO, 2010). Ciò potrebbe portare ad un ulteriore peggioramento del trend di crescente disuguaglianza iniziato in molti paesi, tra cui l’Italia, negli anni Settanta (Franzini e Raitano, 2009). •• La crisi ovviamente incide anche sugli investimenti privati, a causa di i) riduzione della domanda aggregata per beni e servizi; ii) difficoltà di accesso al credito; iii) aumento dell’incertezza che spinge le imprese a sfruttare il capitale fisico disponibile, senza investire nella R&S né nell’adozione di nuove tecnologie; e, di conseguenza, iv) riduzione della domanda di lavoratori qualificati. Questo tipo di comportamenti, perciò, influenzano permanentemente la traiettoria di sviluppo, favorendo il lock-in tecnologico e limitando al massimo lo spazio delle possibilità produttive. •• La crisi crea forti disincentivi all’apertura di nuove imprese, soprattutto piccole e medie. Infatti, gli imprenditori, aspettandosi una domanda limitata per i propri prodotti, tenderanno a ritardare l’entrata nel mercato, dovendo anche affrontare le molte difficoltà legate all’accesso al credito e all’espansione del capitale. Anche questo effetto può incidere in maniera negativa e persistente sulla traiettoria di sviluppo: infatti, le nuove imprese hanno una forte capacità innovativa e rappresentano una larga fetta della domanda di R&S. Irons cita uno studio del 2002 che indaga sul nesso tra attività di R&S svolte nelle università e la creazione di nuove imprese sul mercato locale, facendo emergere che la spesa nelle università è fortemente correlata a quest’ultimo elemento. 244 Concludendo, la crisi non incide solo sui principali indicatori economici, ma anche sulle capabilities di un individuo, che rappresentano lo spazio delle combinazioni possibili di ciò che egli potrebbe desiderare di fare, disponendo di tutti i mezzi e le conoscenze possibili. Come giustamente scrive il premio Nobel Amartya Sen (2001, p. 99) “Ma se la disoccupazione ha anche altre conseguenze gravi per le vite delle persone che colpisce, se causa privazioni di altro tipo, nella misura in cui ciò accade il sollievo dato dal sostegno al reddito è limitato”. 10.1.3 La crisi del lavoro: una questione congiunturale o strutturale? Pur non negando la gravità dell’attuale situazione economica, secondo l’OECD le condizioni del mercato del lavoro erano abbastanza favorevoli quando la crisi è scoppiata. Questo perché nel 2007 il tasso di disoccupazione nell’area dei paesi sviluppati era basso (5,7%) e due terzi della popolazione in età attiva era occupata. Inoltre, l’aumento della flessibilità, avvenuto in molti paesi europei e in Giappone, ha permesso a molte imprese di ricorrere ad una riduzione delle ore lavorate piuttosto che al licenziamento, rendendo, tuttavia, i lavoratori più vulnerabili al ciclo economico (OECD, 2009g). In realtà, molti economisti ritengono che dagli anni Ottanta ad oggi le condizioni del mercato del lavoro si siano sempre più deteriorate e che ad essere colpiti in maniera drammatica dall’attuale crisi siano stati proprio i “figli della flessibilità”, cioè i lavoratori con contratti temporanei di varia natura (vedi Graf. 10.4), non godendo, la maggior parte delle volte, di alcun diritto sindacale né di protezione sociale. Inoltre, in generale, le condizioni di lavoro e il potere di contrattazione dei lavoratori sono peggiorati (Kochan e Shulman, 2007), a vantaggio di un sistema economico sempre più orientato a dividere la forza lavoro e ad indebolire il nesso tra salario e lavoro e, paradossalmente, a rafforzare quello tra capitale e lavoro (Peralta e García, 2008). Per capire questo passaggio è necessario comprendere meglio le trasformazioni strutturali avvenute nell’ultimo trentennio, che hanno inciso profondamente sui comportamenti economici delle famiglie e delle imprese, condizionati dall’affermarsi del cosiddetto “Washington Consensus” e del capitalismo finanziario e dall’imposizione del modello di business americano. L’espressione “Washington Consensus” fu coniata nel 1989 da John Wil245 liamson, economista del Peter Institute for International Economics. Egli sosteneva che le politiche neoliberali introdotte negli Stati Uniti dal presidente Reagan e nel Regno Unito dalla premier Thatcher, potessero aiutare i paesi latino-americani a superare le difficoltà in cui versavano. Il pacchetto di policy, su cui Williamson riteneva che ci fosse un ampio consenso tra i governi dei paesi sviluppati, comprendeva una serie di misure che andavano dalla disciplina fiscale ad una generale deregolamentazione dei flussi commerciali e finanziari e privatizzazione di vari servizi (Williamson, 2004). Questa concezione era il corollario teorico di politiche già ampiamente implementate, che stavano smantellando un sistema di diritti del lavoro nato negli anni Trenta, il quale garantiva la supervisione sui contratti di lavoro, la protezione sindacale, il salario minimo e, un decennio più tardi, introduceva l’aggiustamento automatico dei salari all’inflazione (IRPET, 2010). Tuttavia, come affermano Kochan e Shulman (2007, p. 2-3): “A partire dagli anni Settanta, la capacità di negoziare divisioni eque e bilanciate della produttività e della crescita economica generate congiuntamente da lavoratori e datori di lavoro venne meno. Dopo la vittoria dei Conservatori negli anni Ottanta, lo sdegno per le politiche sociali del governo e l’attacco alla contrattazione collettiva divennero un elemento chiave della nuova ideologia” [trad. dell’autrice]. Così, in questo periodo, il salario minimo negli Stati Uniti fu ridotto del 30%, mentre altri provvedimenti tesero a diminuire ulteriormente le garanzie dei lavoratori, determinando una desindacalizzazione del mercato del lavoro45 ed un impoverimento e precarizzazione della forza lavoro. Con il tempo, tali misure furono estese anche al mercato del lavoro europeo, incidendo profondamente sul benessere dei lavoratori. Un’analisi panel di Clark (2009) su undici regioni britanniche mostra che esiste una forte correlazione tra insoddisfazione personale e disoccupazione e che non esiste alcuna evidenza empirica della capacità dei disoccupati di lungo termine di adattarsi alla propria condizione. Uno degli aspetti più rilevanti di queste trasformazioni di lungo periodo è sicuramente la finanziarizzazione dell’economia globale, dovuta ad una progressiva deregolamentazione dei mercati dei capitali. Tale mutamento ha inciso in maniera profonda sulle Kochan e Shulman (2007) sostengono che nel settore privato la percentuale di lavoratori iscritti al sindacato è passata dal 25% negli anni ‘80 all’attuale 7,4%. 45 246 scelte di risparmio e consumo delle famiglie, rendendole sempre più dipendenti dall’andamento dei mercati dei capitali e favorendo un meccanismo autoreferenziale di continua patrimonializzazione dell’economia, nonché una maggiore vulnerabilità dei redditi alla volatilità finanziaria. Aglietta stima che nei periodi 1986-89 e 2001-2002, la patrimonializzazione delle famiglie sia cresciuta, rispettivamente, del 13% e del 35% (citato in Peralta e García, 2008). Ciò ha permesso di mantenere stabili i consumi o, nel caso degli Stati Uniti, addirittura di aumentarli, nonostante il progressivo deterioramento dei salari (Graf. 10.7). Grafico 10.7 Spesa per il consumo finale delle famiglie (% PIL). 1980-2007 75 Canada USA 70 Australia Giappone Area euro 65 60 2007 2005 2006 2004 2002 2003 2000 2001 1999 1997 1998 1996 1994 1995 1992 1993 1991 1989 1990 1988 1986 1987 1984 1985 1983 1980 50 1981 1982 55 Fonte: WDI (2009) Come sostenuto dai Regolazionisti46, tali mutamenti hanno cambiato radicalmente la struttura della domanda aggregata, allentando il nesso tra salario e lavoro e riconciliando quello tra lavoro e capitale. Questo perché le famiglie hanno affidato il proprio risparmio alle banche, le quali, invece di comportarsi come istituti di credito, hanno agito come veri e propri fon46 Secondo Fumagalli e Lucarelli per teoria della regolazione “si intende un programma di ricerca nel campo della teoria economica e della politica economica, sorto in Francia all’inizio degli anni ‘70 […]. Il modo di regolazione rappresenta il concetto cardine di questa programma di ricerca; pertanto l’attenzione del ricercatore è rivolta innanzitutto all’insieme delle regole e delle procedure (norme, consuetudini, leggi) che assicurano il funzionamento e la capacità di durare del processo di accumulazione in un sistema capitalistico di produzione. Secondo la testimonianza dei suoi stessi padri fondatori (Aglietta, Coriat, Lipietz...), la nascita della SdR deve essere riferita alla congiuntura socio-economica che, dopo 1973, caratterizza la maggior parte dei paesi dell’OCSE; si tratta della rottura irreversibile del modello di crescita proprio dei trent’anni gloriosi successivi alla fine della seconda guerra mondiale […]. Il centro dell’analisi regolazionista è rappresentato dalla viabilité dei regimi di accumulazione capitalistici. Viabilité significa qui sia avviamento che durabilità, indica cioè le condizioni che consentono la nascita e la persistenza di un regime di accumulazione”. Vedi Fumagalli e Lucarelli (2007). 247 di d’investimento, volti soprattutto a massimizzare il profitto di breve periodo piuttosto che a regolare i flussi finanziari al fine di minimizzare il rischio. Come sottolineano Fumagalli e Lucarelli (2010, p. 23): “Non siamo di fronte a un virus (a una patologia che ha afflitto i mercati finanziari) ma a una malattia strutturale, connaturata ai mercati finanziari stessi”. Se si prende il caso emblematico del mercato immobiliare, risulta evidente che, sebbene i salari reali ristagnassero e i prezzi degli immobili seguitassero ad aumentare, la domanda continuava a crescere stabilmente, spinta da un meccanismo autoreferenziale di crescente redditività per gli speculatori. Ciò, ovviamente, metteva in discussione i fondamentali della teoria economica, secondo cui, al crescere del prezzo, la domanda dovrebbe diminuire, assumendo perfetta razionalità degli agenti47. Sia la bolla speculativa sia quella immobiliare non sarebbero state possibili se agli acquirenti finali non fossero stati facilitati nell’accesso al credito. Orléan (2010) mostra che tra il 2000 e il 2006 l’indebitamento ipotecario è aumentato del 13%, in forte contrasto con il risparmio delle famiglie che dal 2005 assume segno negativo. Inoltre, nello stesso periodo, si osserva un ammorbidimento nei criteri di selezione per l’accesso al credito, che determina l’aumento del ricorso delle famiglie a crediti ad alto rischio, tra cui i famigerati subprime. Peraltro, l’aumento del rischio non comporta alcun aumento dello spread rispetto ad altri titoli, ma, paradossalmente, una sua diminuzione: “Se c’è un’aspettativa di rialzo, si acquista il titolo; in caso contrario si vende. Solo secondariamente ci si interroga sulla pertinenza di quest’azione rispetto ai fondamentali. Quest’analisi ci dice che le aspettative degli agenti sono autoreferenziali: non guardano all’economia reale, ma al comportamento degli altri agenti” (Orléan, p. 5556). Di conseguenza, le previsioni sul valore intrinseco dei titoli delle agenzie di rating non erano necessariamente erronee, solo In un famoso articolo, André Orléan, direttore agli studi dell’École des Haute Études en Science Sociales (EHESS) e tra i principali rappresentanti della scuola Regolazionista, affronta la questione teorica sulla razionalità dei mercati finanziari. Egli illustra sostanzialmente il punto di vista di due scuole di pensiero: quella neoclassica, secondo cui, grazie all’efficienza del meccanismo di arbitraggio, il prezzo di un titolo è uguale al suo valore intrinseco, e quella della finanza comportamentale, che, invece, ammette un certo grado di irrazionalità degli agenti economici, soprattutto di fronte al rischio. In particolare, una parte degli studiosi di questa scuola contestano che sia l’arbitraggio il principale meccanismo di regolazione finanziaria ed oppongono la tesi in base alla quale presenza di agenti irrazionali tende ad aggravare tanto il rischio fondamentale dell’arbitraggio, dovuto all’insostituibilità dei titoli, quanto quello legato al rischio di valutazione, che allontana ulteriormente gli investitori dalla valutazione reale del titolo, aprendo le porte alla speculazione. La versione italiana pubblicata su Orléan (2010) fa riferimento a quella originale dal titolo “Les marchés fianciers sont-il rationnels?”, in Askenazy, P., Cohen, D. (2008), Vingt sept questions d’économie contemporaine, Albin Michel, Paris. 47 248 prescindevano dalle aspettative reali e non razionali degli agenti. Se la progressiva patrimonializzazione dei redditi familiari, che passa attraverso l’investimento del risparmio in quote azionarie, ma anche attraverso la diffusione dei fondi pensionistici e previdenziali, può spiegare parzialmente la maggiore vulnerabilità dei salari al ciclo economico e il generale deterioramento delle condizioni di lavoro, altre dinamiche strutturali non possono essere sottovalutate. Innanzitutto perché, basandosi sulle stime di vari autori, Peralta e García (2008) mostrano che nel 2000 la quota di famiglie detentrici di titoli finanziari in Francia e negli Stati Uniti ammontava, rispettivamente, al 25% e al 50% dell’intera popolazione, negando perciò che, almeno per la Francia, il coinvolgimento dei lavoratori nella patrimonializzazione fosse così ampio. Inoltre, nel caso degli USA, più dell’80% degli investimenti erano concentrati nel 10% della popolazione, presumibilmente la più ricca, mettendo così in discussione la rilevanza del dato anche per gli USA. Secondo Peralta e García (2008) il punto centrale della questione è che i salari sono stati utilizzati come leva per recuperare sulla diminuzione di profittabilità di lungo periodo del capitalismo globale attraverso: i) la crescente sostituzione di tipologie contrattuali ben retribuite e stabili con tipologie meno stabili e più precarie; ii) il congelamento dei saggi di salario al di sotto della produttività marginale; iii) il parziale trasferimento del rischio di impresa sul lavoro, reso possibile da una maggiore facilità di licenziamento. Inoltre, le politiche di liberalizzazione e la necessità di attrarre capitale dall’estero, hanno determinato tagli alla spesa pubblica che hanno ulteriormente indebolito i salari (Graf. 10.8). Per di più, sul finire degli anni Settanta il modello di business americano dell’impresa si era imposto su quello europeo, determinando una maggiore indipendenza del management rispetto alla proprietà, rafforzata peraltro dalla progressiva parcellizzazione delle quote azionarie e dall’introduzione delle stock options, che vincolavano parte dei redditi dei dipendenti alla profittabilità dell’impresa. Questo passaggio è di estrema importanza, perché fa venir meno rapporti di lavoro storicamente e territorialmente determinati, basati sulla concertazione tra le parti politiche e sociali (IRPET, 2010). L’unbundling del processo produttivo (Baldwin, 2006) e la crescente possibilità (o minaccia) di delocalizzazione e outsourcing in paesi con un costo del lavoro 249 più basso, hanno spinto verso la de-sindacalizzazione e la divisione dei lavoratori, nonché ad un’ulteriore flessione dei salari verso il basso. Grafico 10.8 Saggio di profitto percentuale. Francia. 1978-2006 50 45 40 35 30 25 20 15 10 Financial corporations profit rate 2006 2004 2002 2000 1998 1996 1992 1992 1990 1988 1986 1984 1982 1980 1978 5 Nonfinancial corporations profit rate Fonte: Peralta e García (2008) L’impossibilità dei lavoratori di contrattare un salario equo e di incidere sulla propria capacità di potere di acquisto, ha facilitato il ricorso a prodotti finanziari rischiosi che dessero loro la possibilità di sostenere il consumo, incentivati peraltro da intermediari assolutamente non neutrali ed orientati al profitto sul breve periodo piuttosto che alla protezione e valorizzazione dei risparmi. Di conseguenza, la deregolamentazione dei mercati finanziari ha reso i lavoratori ancora più vulnerabili al ciclo economico e ha ulteriormente allentato il nesso tra lavoro e salario. Tuttavia, il deterioramento delle condizioni di lavoro ha cause profonde e lontane, che riguardano l’intera economia reale. 10.2 Risposte di politica economica alla crisi 10.2.1 Introduzione: interventi possibili e limiti di bilancio I dati drammatici che abbiamo mostrato nel paragrafo precedente e, 250 soprattutto, i rischi di isteresi e di conseguenze, sul mercato del lavoro e sull’economia globale in generale, che vanno oltre la congiuntura economica negativa (Guichard e Rusticelli, 2010), implicano che l’intervento pubblico non sia un’alternativa ma una necessità. Tutti i paesi sviluppati sono intervenuti implementando politiche fiscali espansive al fine di stimolare la domanda interna e prevedere misure di protezione del lavoro e dei gruppi sociali più indigenti. Gli interventi sono stati, però, molto diversi tra loro, con riferimento sia all’entità dei pacchetti approvati nel periodo 2008-2010, sia alle misure effettivamente implementate; tali differenze derivano sostanzialmente dall’impatto che la crisi ha avuto sul mercato del lavoro nazionale ma anche dallo stato dei conti pubblici, che, in molti casi, lascia limitati spazi di manovra per i decisori politici (OECD, 2009d; 2009f). Come mostra il grafico 10.9, paesi come il Giappone, la Grecia e l’Italia, che presentano un debito pubblico molto elevato e superiore all’intero ammontare del PIL, rischiano di non avere sufficienti risorse per intervenire e di risultare poco affidabili di fronte ai creditori e al mercato. D’altra parte, una politica fiscale restrittiva ha effetti fortemente regressivi, essendo i gruppi più indigenti quelli maggiormente colpiti dalla crisi, e rischia di peggiorare ulteriormente la distribuzione dei redditi e di far cadere l’economia in una spirale di stagflazione. Grafico 10.9 Debito pubblico dei paesi OECD come % del PIL. 2000-2006, 2008 200 150 2000-2006 2008 100 0 Australia Norvegia Nuova Zelanda Svizzera Messico Repubblica Slovacca Repubblica Ceca Irlanda Canada Corea Finlandia Danimarca Spagna Svezia Germania US Polonia Olanda Francia Austria UK Ungheria Portogallo Belgio ITALIA Grecia Giappone 50 Fonte: elaborazione dell’autrice su dati OECD Il grafico 10.10 mostra l’entità dei pacchetti fiscali approvati dai paesi OECD. I paesi che hanno speso di più per attuare misure contro la crisi sono stati il Giappone (4,2%), nonostante il suo 251 alto debito pubblico, l’Australia (4%) e la Corea (3%), mentre i paesi che hanno speso di meno sono stati l’Italia (0,2%), la Svizzera (0,3%) e la Repubblica Ceca (0,3%). L’Ungheria, l’Irlanda e la Nuova Zelanda hanno addirittura diminuito la propria spesa pubblica. Alcuni paesi sono intervenuti ricorrendo a misure ordinarie di politica economica piuttosto che attraverso misure Keynesiane “radicali”, come le definisce Pascal Petit (2005), cioè diminuendo la pressione fiscale e, di conseguenza, aumentando il reddito disponibile. Il grafico 10.10 mostra che la Nuova Zelanda (-4%), gli Stati Uniti (3,2%) e il Canada (2,3%) sono i paesi che hanno diminuito maggiormente la pressione fiscale. Interessante mettere in evidenza il caso dell’Irlanda, che ha attuato una politica fortemente restrittiva, aumentando la pressione fiscale del 6% del PIL e diminuendo la spesa pubblica di oltre il 2% del PIL. Grafico 10.10Misure fiscali e spesa pubblica contro la crisi (% PIL). 2008-2010 Spagna US Danimarca Turchia Corea Australia Giappone Norvegia Olanda Belgio Messico Germania Svezia Canada Spesa pubblica totale Austria UK Finlandia Francia Rep. Slovacca Polonia Misure fiscali Ungheria Irlanda Nuova Zelanda Grecia ITALIA Svizzera Rep. Ceca 8 6 4 2 0 -2 -4 -6 -8 Fonte: elaborazione dell’autrice su dati OECD La maggior parte dei paesi, Stati Uniti compresi, ha scelto un mix di spesa pubblica e taglio delle tasse e l’effetto netto dipende dall’elasticità della domanda alle variazioni di reddito e dalla propensione al consumo. Secondo le linee guida dell’OECD, un taglio delle tasse ha effetti significativi sulla domanda solo se rivolto ai redditi più bassi, che hanno un’elasticità della domanda maggiore rispetto a quelli più alti. Inoltre, una diminuzione delle tasse per le imprese o per i redditi alti non ha effetti significativi né immediati, perché, in entrambi i casi, non incide sulla liquidità e sulla fiducia nel mercato. Infine, una diminuzione delle tasse per i redditi più bassi ha effetti progressivi e di protezione contro l’indigenza (OECD, 2009f). 252 Anche nel caso del mercato del lavoro, esistono due diversi approcci di intervento pubblico. Il primo si limita sostanzialmente ad intervenire sulle variabili macroeconomiche standard per rilanciare la crescita e, dunque, l’occupazione; si tratta di un intervento neo-liberista, in cui l’obiettivo è limitare i danni della crisi, sostenere la domanda aggregata e rafforzare l’effetto degli ammortizzatori sociali, che, dato il ciclo economico negativo, potrebbero non essere sufficienti. Il secondo approccio, secondo cui lo stato interviene al fine di creare o incentivare la creazione di nuovi posti di lavoro e favorire la riallocazione delle risorse, è più autenticamente Keynesiano. Pascal Petit (2005) mostra come questi due tipi di approccio siano storicamente determinati, facendo riferimento il secondo ad una fase di sviluppo tipicamente fordista ed il primo ad una post-fordista e neo-liberista. Si distinguono perciò due macro-categorie di misure (OECD, 2009b): •• Misure passive (sostegno al reddito): - sussidi di disoccupazione; - assistenza sociale e trasferimenti in-cash o in-kind; - misure fiscali. •• Misure attive (interventi diretti sul mercato del lavoro): - sostegno alla domanda di lavoro (investimenti pubblici, incentivi alle imprese, riduzione del costo del lavoro, riduzione delle ore lavorate); - misure di sostegno ai job-seekers (programmi di attivazione: incentivi allo start-up d’impresa, training e rafforzamento dei PES e dei meccanismi di job-search & matching). Il grafico 9.11 mostra i principali risultati48, a livello aggregato, del questionario fatto circolare dall’OECD nel gennaio 2009 tra i paesi membri, in cui si chiedeva di riassumere le principali misure di politica economica implementate per contrastare gli effetti della crisi sul mercato del lavoro. La maggior parte dei paesi hanno scelto di intervenire attivamente sulla domanda di lavoro, riducendo le ore lavorate, agendo sul costo del lavoro, investendo direttamente in opere pubbliche o incentivando le imprese ad assumere. Una larga parte dei paesi ha rafforzato i propri meccanismi di assistenza alla ricerca di lavoro, finanziando programmi di training e di job-search & matching. Le misure di sostegno al reddito si sono tradotte nell’estensione dei benefici legati allo status di disoccupato, in altri trasferimenti diretti, in-cash o in-kind, o indiretti (misure fiscali), mentre pochi paesi sono ricorsi a misure di assistenza sociale (OECD, 2009g). I risultati riassumono le risposte di 29 paesi. 48 253 Grafico 10.11Numero di paesi OECD per tipologia di risposta alla crisi implementata 30 25 Measures to support labour demand for jobseekers and vulnerable workers Measures to help unemployed find work Income support for job losers and low paid Other training measures 20 15 10 Apprenticeship schemes Training for existing workers Fiscal measures for low earners Social assistance Other payments or in-kind support Generosity or coverage of unenployment benefits Training programmes Work experience programmes Job-finding and business start-up incentives Activation requirements Job search assistance and matching Short-time work shemes Reductions in non wage labour costs 0 Job subsidies, recruitment incentives or public sector job creation 5 Fonte: OECD (2009g) 10.2.2 Misure passive Le misure passive o di sostegno al reddito svolgono un ruolo fondamentale durante i periodi di recessione perché garantiscono ai lavoratori e alle proprie famiglie di restare al di sopra della soglia di povertà. Nel Piano di rilancio approvato nel 2008 dalla Commissione Europea, si leggeva che uno dei pilastri fondamentali per la ripresa fosse proprio sostenere il potere di acquisto e stimolare la domanda aggregata e la fiducia del sistema economico: in particolare, si proponeva di destinare l’1,5% del PIL europeo, circa 200 miliardi di euro, proprio a questo scopo, al fine di garantire solidarietà e giustizia sociale (European Commission, 2008). I dati che abbiamo presentato all’inizio di questo lavoro, mostrano che i lavoratori a tempo determinato o con contratti non-standard sono i più colpiti dalla crisi, proprio perché, la maggior parte delle volte, essi non sono coperti da benefici di disoccupazione o altre garanzie durante i periodi in cui non lavorano. Inoltre, i principali titolari di questi contratti sono generalmente i giovani, un’altra categoria fortemente colpita dalla recessione. Di conseguenza, un modo per permettere loro di far fronte al ciclo economico negativo e di evitare la “corsa al ribasso” e, quindi, perdite di capitale umano, è estendere i criteri di eleggibilità per accedere ai sussidi di disoccupazione. Inoltre, l’entità dei benefici potrebbe essere aumentata per far fronte ad eventuali gap di reddito dovuti ai piani di riduzione dell’orario di lavoro. 254 Tabella 10.12Benefici di disoccupazione Incremento della soglia di reddito fino Marzo 2011 Estensione dei benefici ai giovani disoccupati Austria Estensione del piano di sussidi pubblici volto a compensare fino al 90% della perdita di salario Belgio Estensione dei benefici di un anno Estensione dei benefici a 50 settimane per due anni (OECD, 2009c) Canada Fondi addizionali (circa 6 miliardi di dollari) per l’Employment Insurance programme (Canadian Government 2010) Riduzione della durata di occupazione richiesta per l’eleggibilità Estensione da 185 a 200 giorni lavorativi Finlandia Rimozione permanente del limite di 36 mesi per accedere ai benefici di disoccupazione per i lavoratori part-time Eleggibilità estesa a coloro che hanno lavorato almeno 4 mesi nei precedenti 28 (36 mesi per gli over-50) Francia Estensione dell’eleggibilità per la disoccupazione parziale per i contratti interinali, part-time e a progetto Germania Estensione dell’indennità di lavoro parziale agli interinali Aumento permanente del sussidio di disoccupazione Grecia Bonus natalizio Pagamento straordinario per contratti a progetto Italia Fondi addizionali per la Cassa Integrazione Guadagni (CIG) Requisiti meno stringenti per l’accesso all’assicurazione di occupazione per i lavoratori a tempo indeterminato Estensione del sussidio per i disoccupati di lungo termine a tre anni Giappone Estensione dei sussidi di disoccupazione ai disabili e ai lavoratori anziani (Ministry of Health, Labour and Welfare 2009) Job Card system: indennità di disoccupazione ai lavoratori atipici che partecipano a programmi di training (Ministry of Health, Labour and Welfare 2009) Job Card system: indennità di disoccupazione ai lavoratori atipici che partecipano a programmi di training (Ministry of Health, Labour and Welfare 2009) Corea Estensione dei benefici di disoccupazione Olanda Estensione temporanea dei benefici di disoccupazione ai lavoratori part-time Polonia Aumento permanente del livello di sussidio e riduzione della durata da gennaio 2010 Concessione del diritto di mantenere l’eleggibilità per i disoccupati che entro sei mesi trovano lavoro Portogallo Estensione della durata dei benefit per i disoccupati di lungo termine Repubblica Riduzione di un mese/aumento del sussidio nei primi due mesi Ceca Aumento del sussidio per coloro che hanno lavorato 24 mesi negli ultimi 3 anni Sospensioni dei contratti di lavoro o riduzione delle ore lavorate non incidono sull’eleggibilità per i benefit Spagna da disoccupazione Svezia Proposta di riduzione nella durata di attesa per accedere all’assicurazione di disoccupazione Turchia Aumento del sussidio di disoccupazione UK Estensione del Pathway to Work scheme (benefici per lavoratori disabili) (OECD, 2010e) Estensione dell’Emergency Unemployment Compensation Act fino al dicembre 2009 (DOL, 2010) Estensione in tutti gli stati dei benefici di disoccupazione fino a 14 settimane (20 per gli stati con una disoccupazione oltre l’8.5%) (EPI, 2009) Incremento del sussidio settimanale di 25$ (EPI, 2009) Esclusione dal pagamento delle tasse federali per il primo pagamento compensativo di disoccupazione US (EPI, 2009) Sussidio del 65% del costo di mantenimento dell’assicurazione sanitaria anche dopo il licenziamento (EPI, 2009) Special Transfers for Unemployment Compensation Modernization: fino a 7 miliardi di dollari trasferiti agli stati sotto forma di incentivi per incoraggiare misure specifiche, come la copertura del tempo ridotto (DOL, 2010) Fonte: adattata da OECD (2009b) Australia 255 La tabella 10.12 mostra le misure passive implementate relative ai benefici di disoccupazione. La stragrande maggioranza dei paesi ha scelto di estendere il periodo di copertura dei benefici, prevedendo, evidentemente, una ripresa molto lenta. La Francia, la Germania e l’Australia hanno scelto interventi più mirati, estendendo la copertura a tipologie contrattuali diverse da quelle standard e ai giovani, mentre il Regno Unito e il Giappone hanno rafforzato i benefici già esistenti per i disabili e gli anziani. In parte anche l’Italia, in cui la quasi totalità della contrazione congiunturale dell’occupazione è dovuta alla perdita dei contratti atipici (circa 260.000; OECD, 2009c), è intervenuta per sostenere i lavoratori non-standard, prevedendo un pagamento straordinario. L’estensione della durata va dai 14 mesi degli Stati Uniti fino a un anno in Belgio. Il timore di estendere i benefici a particolari categorie di lavoratori risiede nel rischio che tali benefici possano diventare permanenti, incidendo sui bilanci statali ma anche sull’incentivo a lavorare. Di conseguenza, dovrebbe essere chiaro che si tratta di misure limitate al periodo di recessione (OECD, 2010d). D’altra parte, potrebbero spingere verso una più ampia riflessione sulla condizione di precarietà di alcune categorie e sulla loro maggiore vulnerabilità al ciclo economico. La tabella 10.13 mostra gli interventi di assistenza sociale attuati e i pagamenti in-cash o in-kind previsti per far fronte alla crisi. Come si è già detto, i paesi OECD sono intervenuti raramente attraverso l’assistenza sociale, ma ciò può essere attribuito ai diversi modelli di welfare che, in alcuni casi, erano già sufficienti a coprire i lavoratori in difficoltà. Per esempio, l’intervento degli Stati Uniti si inserisce in una revisione più ampia del modello sociale e mira al rafforzamento dell’assistenza sanitaria e dell’istruzione. D’altra parte, sia la Francia che la Germania sono intervenute, prevedendo pagamenti straordinari agli assistiti l’una ed un rafforzamento del sistema educativo in età pre-scolare l’altra (con un impatto potenzialmente strutturale). Il Giappone, invece, cui la stessa OECD consigliava di ridurre il gap di protezione tra contratti standard ed atipici, ha colto l’occasione della crisi per bilanciare la situazione ed assicurare copertura assistenziale a tutti i lavoratori. 256 Tabella 10.13 Interventi di assistenza sociale e altri pagamenti in-cash o in-kind Assistenza sociale Australia Austria Rimborso per le spese “extra” legate alla cura e all’educazione dei figli (OECD, 2010e) Estensione del piano speciale di prepensionamento Aumento permanente dei contributi di assistenza Trasferimenti in-cash/in-kind Stanziamento di 21 miliardi di dollari per le famiglie, i redditi medio-bassi, i pensionati, i veterani, gli agricoltori colpiti dalla siccità e gli studenti (Australian Government, 2009) Rinegoziazione dei mutui Copertura delle spese di trasporto e cura dei figli per gli job-seekers a basso reddito Canada Garanzie per ex lavoratori di imprese insolventi Voucher per i figli in età pre-scolare alle famiglie con un Corea reddito inferiore a quello medio urbano Finlandia Accesso facilitato al “change security” system Pagamento lump-sum per gli assistiti (prime Voucher per coloro che cercano lavoro da spendere per exceptionnelle de solidarité active, 200€) vari bisogni Francia Accordo con le parti sociali per l’estensione dell’assistenza sociale per ulteriori 6 mesi per la creazione di asili e incentivi per Aumento del sussidio per i figli dei disoccupati fino Germania Sussidi l’orario scolastico full-time (OECD, 2010e) novembre 2011 Pagamento lump-sum per coloro che ricevono il sussidio di disoccupazione Grecia Pagamento addizionale fino a 1.000€ per disoccupati Sussidi ai datori di lavoro che continuano a fornire un’abitazione ai lavoratori licenziati Riforma dell’assistenza sociale che Giappone garantisce un trattamento più bilanciato tra Sostegno economico per chi perde il lavoro attraverso un fondo contratti atipici e standard (OECD, 2010e) di emergenza (Ministry of Health, Labour and Welfare 2009) Sostegno al reddito per i contratti atipici (OECD, 2009c) Aumento degli asili nido ed estensione Irlanda della pre-scuola (Early Childhood Care and Education scheme) Estensione dei criteri di eleggibilità e dell’ammontare disponibile per accedere al fondo pensionistico Aumento del periodo di copertura dei benefici di maternità e Messico sanitari per disoccupati e familiari Temporaneo sospensione del pagamento degli interessi per disoccupati Aumento del 2% delle pensioni e dei sussidi di disoccupazione, invalidità, malattia e familiari (Ministry of Nuova Social Development, 2010) Zelanda Aumento del 2% contributo agli studi (Ministry of Social Development, 2010) Contributo addizionale ai governi locali per la previsione di interventi mirati Incremento del contributo minimo per Polonia l’assistenza sociale Pagamento dei debiti senza interessi per i disoccupati, fino a due anni Sostegno ai disoccupati che scelgono di entrare in Portogallo programmi di training Posposizione del pagamento dei debiti per chi perde il lavoro Spagna Sostegno ai contratti di affitto Sussidio per i disoccupati di lungo termine che hanno esaurito il sussidio di disoccupazione standard (OECD, 2009c) Istituzione di un fondo per ripagare i debiti di coloro che Ungheria perdono il lavoro Belgio 257 Assistenza sociale UK Trasferimenti in-cash/in-kind Riduzione nei tempi di attesa per ricevere supporto per il pagamento dei debiti per disoccupati Estensione del “State Children’s nei sussidi sanitari per alcuni gruppi di lavoratori Health Insurance Program” che prevede Incremento e L’ILO (2009b) stima che il governo nazionale stia copertura sanitaria per i bambini delle famiglie a basso reddito (OECD, 2010e) spendendo il 14% del proprio budget in aiuti alla salute US Fondi addizionali per il programma di miglioramento delle performance scolastiche “No Child Left Behind” (OECD, 2010e) Fonte: adattata da OECD (2009b) Riguardo ai trasferimenti, la maggior parte dei paesi ha previsto dei pagamenti straordinari o delle indennità per chi perde il posto di lavoro, a volte condizionati alla partecipazione a programmi di training (Polonia) o ad essere assistiti nella ricerca di lavoro (Belgio). In alcuni casi, invece, l’aiuto è stato esteso ad altre categorie considerate più vulnerabili al ciclo economico: per esempio, l’Australia ha stanziato 21 miliardi di dollari per le famiglie, i redditi medio-bassi, i pensionati, i veterani, gli agricoltori colpiti dalla siccità e gli studenti, nonché concesso la rinegoziazione dei mutui. La maggior parte dei paesi è intervenuta diminuendo le tasse sui redditi personali, anche se alcuni paesi hanno abbassato le tasse delle piccole e medie imprese (PMI) (Finlandia) o quelle dei liberi professionisti (Francia). Molti paesi hanno implementato delle misure fiscali sostanzialmente congiunturali: per esempio, l’Austria ha ridotto le tasse e la contribuzione, incidendo così anche sul costo del lavoro, per i lavoratori a basso reddito, nonché ridotto alcune tasse sul consumo, intervenendo sull’IVA per specifiche categorie di beni. Altri paesi hanno introdotto delle agevolazioni per le famiglie numerose, come la Svizzera e gli Stati Uniti, mentre altri hanno scelto interventi più strutturali, volti ad una generale riduzione della pressione fiscale, come nel caso della Danimarca. Da sottolineare il caso dell’Italia, il cui taglio delle tasse nel periodo 2008-2010 è stato pari allo 0,1% del PIL (vedi Graf. 10.10), in cui si prevedono agevolazioni fiscali condizionate all’aumento retributivo legato alla produttività (Tab. 10.14). 258 Tabella 10.14Misure fiscali Australia Previsione di detrazioni per redditi medio-bassi. Generale riduzione delle tasse individuali (e.g. cancellazione dell’IVA sui medicinali e delle tasse scolastiche) e sgravi fiscali per le famiglie con figli, gli imprenditori e i lavoratori autonomi Austria Revisione dei benefici per specifici gruppi (anziani, disabili, persone che ritornano a lavoro dopo almeno sei mesi di disoccupazione) Riduzione del contributo per l’assicurazione di disoccupazione per i lavoratori a basso reddito Belgio Riduzione delle tasse per i lavoratori a basso reddito e introduzione del credito d’imposta. Introduzione del credito d’imposta per i lavoratori a basso reddito (Working Incombe Tax Benefit) Aumento dello primo (esentasse), del secondo e del terzo scaglione di reddito Canada “Home Renovation Tax programme”: temporanee agevolazioni fiscali per ristrutturazione delle abitazioni (Canadian Government) Riduzione delle tasse per tutti i livelli di reddito e ulteriore taglio delle tasse sul lavoro approvato nel 2009 (OECD Observer, 2009; OECD, 2010e) Danimarca Rimborso delle tasse temporaneo per coloro che hanno scelto di continuare a lavorare oltre i 60 anni (OECD, 2010e) Taglio dei contributi di assistenza sociale a favore delle piccole e medie imprese. Finlandia Taglio delle tasse sui redditi e della contribuzione sociale Riduzione delle tasse sui redditi bassi Francia Previsione di detrazioni fiscali per tutti i redditi Sospensione della “taxe professionnelle” Aumento delle soglie di reddito imponibile Germania Riduzione dello scaglione d’imposta più basso Aumento dello scaglione esentasse e generale riduzione delle tasse sui redditi (OECD, 2010e) Grecia Una-tantum sui redditi più alti Esclusione di alcune famiglie dal pagamento delle tasse sul reddito (anche se la contribuzione per Irlanda l’assistenza sociale è aumentata) (OECD, 2010e) Estensione della deducibilità dell’IRAP Italia Riduzione delle tasse sugli incrementi retributivi legati agli incrementi di produttività Nuova Zelanda Generale riduzione delle tasse dal 2010 (Ministry of Social Development, 2010) Riduzione della tassazione media per i lavoratori a basso reddito (OECD, 2010e) Repubblica Introduzione di un credito d’imposta sui figli e di un’indennità per coloro che cercano lavoro (OECD, Ceca 2010e) Riduzione dello scaglione Repubblica Slovacca Introduzione del credito d’imposta sul lavoro Riduzione dell’aggravio fiscale Spagna Flessibilità/posposizione del pagamento delle tasse per i lavoratori in difficoltà e le piccole imprese Generale riduzione delle tasse e introduzione del credito d’imposta Svezia Credito d’imposta sulle riparazioni Introduzione di un terzo scaglione di reddito Svizzera Sgravi fiscali a favore delle famiglie con figli (SECO, 2010) Ungheria Generale riduzione delle tasse UK Aumento del credito d’imposta sul lavoro Introduzione del credito d’imposta per i redditi medio-bassi US Aumento del credito d’imposta per i lavoratori con almeno tre figli Fonte: adattata da OECD (2009b) Riassumendo, si può dire che le misure di sostegno al reddito si sono concentrare sull’estensione temporale dei benefici di disoccupazione e sulla diminuzione della pressione fiscale sui redditi bassi. Salvo alcune eccezioni, nella maggior parte dei 259 casi le categorie più deboli, lavoratori atipici e giovani, restano senza alcuna protezione, perché gli interventi sono rivolti al rafforzamento degli ammortizzatori sociali esistenti piuttosto che alla loro estensione ad altre categorie, nel timore che permangano nel tempo. Tuttavia, il caso del Giappone dimostra che è possibile cogliere l’occasione della crisi per rendere più equa la distribuzione dei benefici tra lavoratori regolari e lavoratori atipici. 10.2.3 Misure attive Le misure attive comprendono il sostegno alla domanda di lavoro e le misure di attivazione, che si contraddistinguono per una diversa gradualità di intervento da parte dello stato. Infatti, nel primo caso lo stato interviene per creare posti di lavoro o incentivarne la creazione nel settore privato, mentre nel secondo l’intervento è volto alla riqualificazione del lavoratore oppure a fornire servizi di assistenza ed informazione per favorire l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. La tabella 10.15 mostra le misure di sostegno alla domanda di lavoro che sono state implementate nei paesi OECD. La creazione di lavori pubblici e di lavori socialmente utili (LSU) è un tipico strumento Keynesiano, ampiamente utilizzato durante gli anni del New Deal Rooseveltiano e durante la ricostruzione post-bellica. Secondo l’OECD (2009g), alcuni studi mostrerebbero la scarsa rilevanza di questa misura in quanto tenderebbe a risolvere il problema della disoccupazione solo temporaneamente e a ridurre gli incentivi del lavoratore a cercare una nuova occupazione. Inoltre, inciderebbe fortemente sul bilancio dello stato. Tuttavia, non va dimenticato che i paesi sviluppati si trovano attualmente in una fase di potenziale riconversione degli impianti industriali a tecnologie a maggiore efficienza energetica (WDR, 2010) o di ammodernamento dei propri edifici pubblici e delle proprie infrastrutture, che in molti casi hanno una vita secolare e sono insufficienti a rispondere alle esigenze di una società post-industriale. La crisi potrebbe rilevarsi perciò un’occasione per rilanciare l’economia attraverso questi investimenti (OECD, 2009d). Pochi paesi hanno, tuttavia, attuato questo tipo di misure (Tab. 10.15). Tra di essi l’Australia, che ha investito cifre considerevoli nell’ammodernamento degli edifici scolastici e delle strade urbane, nonché nella diffusione della banda larga, nonché la 260 Svizzera, che ha investito nell’ammodernamento degli edifici pubblici, nell’efficienza energetica e nella protezione ambientale. Investimenti in infrastrutture sono stati fatti anche dalla Francia, dal Regno Unito e dalla Svezia, mentre gli altri paesi si sono perlopiù limitati all’assunzione temporanea di LSU a livello locale. Un altro modo per incentivare la creazione di posti di lavoro, è fornire incentivi alle imprese private affinché aprano nuove posizioni, attraverso sussidi o riduzione del costo del lavoro. Questo tipo di misure comporta tutti i rischi legati all’erogazione di sussidi, per esempio può minare la competitività e disincentivare gli investimenti, ma nello stesso tempo può essere un efficace mezzo di mantenimento del capitale umano, soprattutto se temporaneo e rivolto all’assunzione di giovani laureati, come nel caso del Belgio o del Canada. Il governo neozelandese, per esempio, attraverso il programma “Job Ops” -che prevede un sussidio di 5000 dollari alle imprese per ogni disoccupato non qualificato, di età compresa tra i 16 e i 24 anni, assunto per almeno 6 mesi- nel 2009 è riuscito a creare 4000 posti di lavoro; per il 2010 sono stati stanziati ulteriori fondi per 6000 posti di lavoro (Ministry of Social Development, 2010). La maggior parte dei paesi ha scelto di ridurre il costo del lavoro, diminuendo, temporaneamente o permanentemente, la contribuzione sociale: per esempio, il Canada ha congelato il pagamento dei contributi per gli anni fiscali 2009 e 2010, mentre la Polonia ha ridotto, in maniera permanente, i contributi dei lavoratori anziani e dei nuovi assunti over-50. Un caso a sé è quello dell’Italia, che, per incentivare nuove assunzioni, è intervenuta indirettamente sul costo del lavoro, reintroducendo tipologie contrattuali meno costose e più flessibili, come i contratti a chiamata o a intermittenza, che erano state abolite precedentemente. Ha inoltre semplificato il ricorso ai contratti a tempo determinato e ne ha esteso la durata (CIACE, 2010). 261 Tabella 10.15Sostegno alla domanda di lavoro Interventi/investimenti pubblici Incentivi alle imprese/riduzione Riduzione ore lavorate costo del lavoro Australia Piano di investimenti nell’ammoder-namento di edifici scolastici, ristrutturazione di edifici pubblici e nella costruzione di infrastrutture a livello locale (Australian Government, 2009) 4.6 miliardi di dollari investiti nel miglioramento delle strade urbane, circa 6 miliardi di dollari per la costruzione di ospedali, università e TAFEs* 43 miliardi di dollari per la diffusione della banda larga Austria Belgio Canada Programmi di lavoro sussidiati rivolti a giovani ed Aborigeni (e.g. “Summer Job Programme”: circa 3.500 posti di lavoro creati) 16.000 progetti pubblici, di cui 12.000 completati che hanno contribuito fino ad ora alla creazione di 135000 posti di lavoro (Canadian Government) 20 progetti del “Knowledge Infrastructure Programme” per favorire l’innovazione e lo sviluppo di tecnologie sostenibili “Grand social compact”: (accordi tra le parti sociali; al marzo 2009 ne erano già stati firmati 422) Corea Temporanea espansione dei lavori pubblici e revisione delle regole per la creazione di LSU 3% della forza lavoro maschile e Sussidi alle imprese che 9% della forza lavoro femminile assumono tirocinanti licenziati tra lavorano part-time dalla metà il 2009 e il 2010 del 2009. In totale il monte ore lavorative è diminuito del 2,6% Temporanea indennità del 30% (50% per le piccole imprese) sugli investimenti (Australian Government, 2009) Circa 70.000 lavoratori (un quarto della forza lavoro) beneficiano di sussidi pubblici volti a compensare le perdite di reddito Rimborso della contribuzione dovute alla riduzione delle ore sociale per le ore non lavorate lavorate (fino al 90% del salario) (dal 7° mese di riduzione) Combinazione tra riduzione delle ore lavorate e partecipazione ai programmi di training Permanente estensione della Sussidio annuale alle imprese delle ore per alcuni che assumono lavoratori con più riduzione amministrativi con contratti a di 50 anni (federale) tempo determinato (federale) Sussidi addizionali per chi assume Aumento della compensazione per giovani lavoratori (federale) lavoratori a tempo ridotto (federale) Incremento di tutti i sussidi alla retribuzione (anche redditi medio-alti) Riduzione della contribuzione sociale in caso di riduzione delle ore lavorate per 6 mesi Inventivi alle PMI che assumono Work-sharing (da 38 a 52 ore) laureati Congelamento dei contributi assicurativi per il 2009 e il 2010 Aumento temporaneo dei sussidi per lavori a tempo ridotto Agevolazioni fiscali per le piccole e medie imprese coinvolte nel job-sharing 262 Interventi/investimenti pubblici Incentivi alle imprese/riduzione Riduzione ore lavorate costo del lavoro investimenti in Danimarca Aumento infrastrutture Finlandia Francia Riduzione ed eventuale abolizione del contributo d’impresa al piano pensionistico Aumento degli investimenti pubblici nelle infrastrutture, nella ricerca, nella difesa e nella protezione del Bonus per le imprese che patrimonio dello Stato, per un totale assumono tirocinanti di 4 miliardi di euro (Présidence de la République Francaise, 2008) Riduzione della contribuzione per le piccole imprese Espansione dei lavori sussidiati, sociale (meno di 10 addetti) che assumono specialmente per anziani e lavoratori non-qualificati. La giovani non-qualificati riduzione è massima in caso di salario minimo Soppressione della contribuzione sociale per le imprese che assumono tirocinanti Strategie basate su LSU (Bürgerarbeit) e su voucher Riduzione del contributo di professionali (Federal Ministry of disoccupazione Economics and Technology, 2010) Germania Grecia Irlanda Maggiore flessibilità nel worksharing Estensione temporanea della durata massima annuale di lavoro a tempo ridotto (da 600 a 800 ore) Riduzione delle ore lavorate combinata con programmi di training o lavori multipli per mantenere un adeguato livello di salario 1.4 milioni di lavoratori lavorano a tempo ridotto, con una riduzione delle ore medie lavorate pari a un terzo, grazie ai sussidi per lavoro a tempo ridotto (Kurzarbeitergeld), volte combinati con programmi di training. Il programma per anziani (Altersteilzeit) sarà invece gradualmente eliminato Semplificazione delle procedure per la qualificazione dei lavoratori a tempo ridotto Estensione temporanea della durata massima di lavoro a tempo ridotto (da 6 a 24 mesi nel 2009, ma nel 2010 è stata limitata a 18 mesi) e parziale rimborso della contribuzione per le ore non lavorate (dal 7° mese o in caso di training il rimborso è totale) Sussidi alle imprese che assumono lavoratori eleggibili per i benefici di disoccupazione e per i lavoratori stagionali del turismo “FAS Wage Subsidy Scheme”: Piano pilota di riduzione delle Sostegno alla creazione di LSU a sussidio alle imprese che ore lavorate, combinato con livello locale (FAS, 2009) assumono disabili (FAS, 2009) programmi di training “Employers’ PRSI Exemption Scheme”: per i primi due anni l’impresa che assume un disoccupato di lungo termine è esente dal pagamento della contribuzione (FAS, 2009) Creazione di lavori pubblici per giovani, disoccupati e lavoratori stagionali (ma tagli dei LSU) 263 Interventi/investimenti pubblici Incentivi alle imprese/riduzione Riduzione ore lavorate costo del lavoro Estensione della causale per ricorrere a contratti a termine, per una durata massima di 36 mesi (CIACE, 2009) Italia Stanziamento di 8 miliardi di euro per il rafforzamento della cassa integrazione e mobilità in deroga nel biennio 2009-2010 (CIACE, 2009) Ripristino dei contratti a chiamata o intermittenza (CIACE, 2009) Fondi temporanei per la Sussidi alle imprese che creazione di lavoro a livello locale assumono lavoratori anziani e e nelle piccole imprese regolarizzano giovani lavoratori Giappone Messico Norvegia Previsione di LSU per lavoratori della contribuzione licenziati senza una casa (Ministry of Riduzione Health, Labour and Welfare, 2009) sociale Incremento dei sussidi per lavori a tempo ridotto e sussidi addizionali per le imprese che non licenziano riducendo le ore di straordinario Temporanea espansione del programma di LSU per disoccupati e sottoccupati Espansione degli incentivi alle donne per aprire un asilo Estensione del numero massimo di Rimborso parziale della giorni concesso per lavori a tempo contribuzione sociale per i nuovi determinato da 88 a 132 giorni assunti Aumento della spesa in infrastrutture “New Opportunities” programme: incentivi alle municipalità che aprono nuove opportunità di lavoro provenienti da paesi extraeuropei, combinate con progetti di assistenza sociale (RNMLSI, 2008) Aumento della spesa pubblica in Riduzione permanente della infrastrutture contribuzione sociale Nuova Zelanda Olanda “Job Ops” programme: sussidio di 5.000 dollari alle imprese per Aumento dei LSU negli ospedali ogni disoccupato non qualificato di e incremento dei fondi per età compresa tra i 16 e i 24 anni assumere ulteriori dipendenti assunto per 6 mesi. Nel 2009 sono pubblici (Ministry of Social stati creati 4.000 posti di lavoro, per Development, 2010) il 2010 sono stati stanziati fondi per 6.000 posti di lavoro (Ministry of Social Development, 2010) “Investing in Young People” Act: proposta di legge secondo cui le municipalità devono farsi carico di avanzare una proposta di lavoro o di training ai giovani disoccupati fino a 27 anni (Ministry of Social Affairs and Employment, 2009) Sussidio alle imprese che non licenziano, fino al 50% del costo di mantenimento. Il sussidio deve essere utilizzato per programmi di riqualificazione professionale (Ministry of Social Affairs and Employment, 2009) 264 Estensione del tempo ridotto ai lavoratori con una copertura dell’assicurazione di disoccupazione inferiore a 6 mesi Sussidi per le imprese che partecipano a piani di riduzione delle ore lavorative, soprattutto nel settore dei beni durevoli Supporto temporaneo alle imprese che negoziano riduzioni dell’orario di lavoro, senza ricorrere al licenziamento. L’iniziale piano di lavoro a tempo ridotto approvato nel 2008 è stato ritirato nel 2009. Tuttavia, i lavoratori delle imprese che continuano a lavorare ad orario ridotto possono godere dei benefici di disoccupazione per le ore non lavorate, per una riduzione massima del 50% (Ministry of Social Affairs and Employment, 2009) Interventi/investimenti pubblici Incentivi alle imprese/riduzione Riduzione ore lavorate costo del lavoro Possibilità di sospendere le attività qualora necessario Incentivi alle imprese che assumono disoccupati Riduzione permanente della contribuzione sociale per i lavoratori anziani e per i nuovi assunti al di sopra dei 50 anni Esenzione dalla contribuzione sociale per i lavoratori che rientrano dal parental leave. Sussidi per le imprese coinvolte nel piano di riduzione dell’orario di lavoro Incentivi temporanei ed esenzione biennale dalla contribuzione sociale per l’assunzione a tempo indeterminato e full-time di disoccupati di lungo termine e giovani Riduzione temporanea della contribuzione per piccole e micro imprese e lavoratori oltre i 45 anni Polonia Portogallo Repubblica Ceca Riduzione temporanea della contribuzione per i lavoratori a basso reddito Repubblica Slovacca Sussidi per le imprese che assumono disoccupati con contratti di almeno 12 mesi Semplificazione temporanea delle procedure di assunzione delle imprese sociali Spagna Svezia Introduzione di un piano di riduzione dell’orario di lavoro, combinato con una maggiore flessibilità permanente Fondi per la creazione di LSU a livello locale; si stima che abbia contribuito alla creazione di 400.000 posizioni (anche se a tempo determinato) Sussidi alle imprese che assumono lavoratori part-time Riduzione biennale della contribuzione per i nuovi assunti disoccupati con figli con contratti full-time a tempo indeterminato Investimenti nell’ammodernamento Raddoppio della deduzione di strade e autostrade fiscale per le nuove assunzioni (Regeringskansliet, 2010) (Regeringskansliet, 2010) Proroga dei pagamenti per la contribuzione 2009, che è stata ridotta permanentemente 265 Sussidi alle imprese che riducono l’orario di lavoro proporzionali alla partecipazione a programmi di training Rimborso alle imprese per le ore non lavorate Interventi/investimenti pubblici Incentivi alle imprese/riduzione Riduzione ore lavorate costo del lavoro Svizzera Investimenti nell’ambito del risanamento energetico, dell’edilizia urbana, delle strade e ferrovie (SECO, 2010) Green economy: protezione ambientale, risanamento energetico e promozione delle fonti rinnovabili (SECO, 2010) Assunzioni a tempo determinato di disoccupati di lunga durata presso Cantoni, Comuni, relative imprese e fornitori di prestazioni (SECO, 2010) Estensione temporanea della durata dell’orario ridotto da 12 a 18 mesi Allentamento dei vincoli che limitano l’accesso ai programmi di training durante lavori ad orario ridotto Riduzione permanente della contribuzione per disabili e Aumento della durata massima lavoratori anziani. Rimborso per le di lavori ad orario ridotto da 3 imprese con più di 50 addetti che a 6 mesi assumono il 3% di lavoratori disabili Turchia Riduzione permanente della contribuzione per i primi 5 anni per l’assunzione di donne disoccupate e giovani fino a 29 anni Creazione di LSU a livello locale Incentivi alle imprese che per giovani e disoccupati nelle assumono e formano disoccupati aree ad alta disoccupazione di lungo termine (più di 6 mesi) “Future Job Funds”: fondo cui Sussidi alle imprese che possono attingere imprese e enti assumono apprendisti di 16-17 UK locali per la creazione di posti di anni (Department for Work and lavoro (Department for Work and Pension, 2009) Pension, 2009) Aumento della spesa in infrastrutture (e.g. Strategic Road Network) Sussidi temporanei alle imprese Piano di riduzione delle ore che assumono lavoratori lavorate, combinato con licenziati da altre imprese programmi di training Piano di riduzione della contribuzione Ungheria Rimborso della contribuzione, dei costi di training e fino al doppio del salario minimo di ore non lavorate (fino a 12 mesi) Work Opportunity Tax Credit: Stanziamento di 50 miliardi di Espansione dell’eleggibilità per il agevolazioni fiscali alle imprese dollari per infrastrutture (EPI, di compensazione ad che assumono veterani disoccupati programma 2009) o giovani problematici (DOL, 2010) orario ridotto (Washington State) Local Jobs for America Act: 75 miliardi di dollari per il mantenimento di lavoratori nelle comunità locali US (Biven e Edwards, 2010) Aumento dei sussidi e della durata del programma di assunzione di disoccupati oltre i 50 anni (che hanno perso il lavoro per offshoring o competizione delle importazioni) * Techinal and Further Education provider Fonte: adattata da OECD (2009b) 266 Infine, molti paesi hanno ridotto i tempi di lavoro o abolito gli straordinari, incidendo negativamente sulla produttività oraria ma salvando posti di lavoro. L’OECD (2009g) stima che durante questa recessione i paesi sviluppati abbiano fatto un largo uso di questo strumento, permettendo così di evitare numerosi licenziamenti. La riduzione delle ore lavorate comporta, sul breve periodo, molti aspetti positivi perché, oltre a rappresentare un’alternativa al licenziamento, permette all’impresa di riallocare gli input in maniera più efficiente e di non affrontare i costi del licenziamento (per esempio, sul trattamento di fine rapporto) e quelli meno tangibili legati alla conflittualità tra le parti sociali e alla demotivazione della forza lavoro (Mosley, 1993). Nel lungo periodo, questo strumento può, però, rivelarsi progressivamente meno efficace, determinando distorsioni sul mercato del lavoro ed effetti di spiazzamento (OECD, 2010d). Inoltre, può incidere in maniera negativa sui livelli di reddito e, quindi, di benessere dei lavoratori e ciò spiega perché molti paesi hanno scelto di estendere i sussidi o la copertura assicurativa di disoccupazione alle categorie di lavoratori in cassa integrazione oppure di colmare il gap di reddito dovuto alla riduzione delle ore lavorate. Per esempio, in Austria, in cui un quarto della forza lavoro (70.000 persone) è occupata part-time, il governo si è impegnato a coprire fino al 90% del salario totale. Anche la Germania ha scelto di implementare questa misura (Kurzarbeitergeld), prevedendo sussidi per il milione e quattrocentomila lavoratori a tempo ridotto, nonché una diminuzione della contribuzione totale, qualora la riduzione delle ore fosse combinata con programmi di training (altrimenti a partire dal settimo mese). La combinazione tra riduzione delle ore e training è un’alternativa scelta da diversi paesi, tra cui l’Austria, la Repubblica Ceca, l’Irlanda e l’Ungheria: si tratta sostanzialmente di una condizionalità legata all’aiuto, ma rappresenta anche uno strumento efficace di riqualificazione professionale, che può generare effetti positivi anche sul lungo periodo. Canada e Danimarca hanno, invece, incentivato meccanismi di work-sharing, secondo cui una posizione full-time è coperta da due part-time e non è possibile la rotazione a zero ore. L’Italia, che, tradizionalmente, ha utilizzato la riduzione dell’orario di lavoro come strumento ordinario di aggiustamento strutturale, nonché di mantenimento delle disuguaglianze a livello regionale e tra categorie di lavoratori diversamente tutelati (Mosley, 1993), ha stanziato 8 miliardi di euro nel biennio 2009267 2010 per il rafforzamento della cassa integrazione e mobilità in deroga, estendendo perciò la copertura anche ai lavoratori non previsti dalla legislazione ordinaria. Il Dipartimento Politiche dell’Organizzazione della CGIL stima che dal gennaio 2009 sono state autorizzate più di 240 milioni di ore di cassa integrazione in deroga, mentre il numero di lavoratori in mobilità in deroga ammonta a 120000 persone (CGIL, 2010). Piuttosto che intervenire direttamente sulla domanda di lavoro, lo stato può scegliere di favorire l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro, fornendo servizi amministrativi e finanziari per i disoccupati oppure programmi di training e attivazione. Inoltre, i programmi di attivazione possono essere fondati su un principio di “mutua obbligazione”, cioè l’attribuzione di benefici può essere condizionata all’effettivo impegno di chi perde il lavoro alla ricerca di un nuovo impiego o alla sua riqualificazione personale (OECD, 2009g). Se gli effetti di lungo periodo di questo tipo di misure possono essere estremamente positivi, perché incidono sul capitale umano e sulla dimensione motivazionale e degli incentivi dei lavoratori, dall’altro lato, con l’aumentare del tasso di disoccupazione, gravano sempre di più sul budget dello stato (OECD, 2010d). Un’alternativa alla disoccupazione può essere di iniziare una propria attività autonoma. Clark (2009) mostra che i lavoratori autonomi sono mediamente più soddisfatti dei lavoratori dipendenti e che la maggior parte degli intervistati preferirebbe essere un libero professionista. Nonostante ciò, il lavoro autonomo comporta un rischio d’impresa, che aumenta nelle fasi di ciclo economico negativo, nonché maggiore insicurezza dal punto di vista retributivo, soprattutto rispetto al numero di ore lavorate, e della copertura assicurativa. Per affrontare questa incertezza è necessario perciò che lo stato preveda sufficienti incentivi per lo start-up d’impresa. Pochi paesi, a dire il vero, hanno implementato questo tipo di misure (Tab. 10.16). Tra di essi, la Finlandia il Portogallo ed il Regno Unito hanno previsto fondi addizionali per le nuove attività autonome, mentre la Corea, la Danimarca, la Repubblica Slovacca e la Spagna hanno attuato tagli sui costi amministrativi o della contribuzione sociale. Infine, la Francia, la Polonia e l’Italia hanno introdotto dei nuovi meccanismi amministrativi di assistenza allo start-up d’impresa, attraverso la (ri)attivazione di sportelli unici o di comitati per l’imprenditoria femminile. Dal 268 punto di vista strutturale, questo tipo di innovazioni amministrative ha, probabilmente, un maggior potenziale, garantendo una raccolta rapida delle informazioni ed un monitoraggio costante sullo stato dell’imprenditoria. D’altra parte, qualsiasi riforma volta ad incentivare lo start-up d’impresa rischia di essere inutile durante questa crisi, che è basata proprio sulla mancanza di liquidità e sulla difficoltà dei principali fornitori di credito, cioè le banche. Quasi tutti i paesi hanno invece attivato programmi di training, più o meno rivolti a specifici gruppi. La maggior parte dei programmi si rivolge, ovviamente, ai lavoratori licenziati, spesso in cambio di benefici o copertura assicurativa. Il Canada, per esempio, ha stanziato quasi 300 milioni di dollari per finanziare borse di studio o programmi di tirocinio attivati dalle province o dai territori; il dipartimento per le risorse umane stima che almeno 16000 persone abbiano attualmente completato il percorso di formazione. L’Irlanda, invece, ha previsto la creazione di due fondi, uno per finanziare programmi di training, l’altro, più flessibile, per coprire tutti gli eventuali costi che il disoccupato deve affrontare per partecipare al programma, come le spese di trasporto o per la cura dei propri figli. L’Italia ha stretto degli accordi Stato-Regioni per incentivare la riqualificazione professionale. Altri programmi sono rivolti prevalentemente ai giovani. Interessante il caso del Regno Unito, dove la disoccupazione giovanile è tradizionalmente alta, seppure limitata nel tempo (Gregg e Wadsworth, 2010). Si prevede un programma di training per i disoccupati tra i 18 e i 24 anni, prima che raggiungano i sei mesi di disoccupazione, e sono state attivate due iniziative rivolte ai cosiddetti NEET (not in education, employment or training people) e ai giovani laureati disoccupati da almeno sei mesi: in entrambi i casi, si offre loro un’occupazione o una possibilità di riqualificazione professionale. La Danimarca ha approvato un pacchetto contro la disoccupazione giovanile (Ungepakke) volto, tra le altre cose, alla creazione di 5000 tirocini sotto il principio di mutua obbligazione. Anche il Recovery Act americano include diverse attività per i giovani, tra cui i lavori estivi, che rappresentano un potente mezzo di learning-by-doing e di esperienza sul campo a basso costo, e un fondo per giovani problematici, cui attingere per attività di training o lavoro. In Italia non sono stati previsti programmi specifici per i giovani, anche se è stata estesa la durata massima dell’apprendistato, che, nella maggior 269 parte dei casi, è una tipologia contrattuale rivolta ai giovani. Se, da una parte, questa misura evita di perdere il lavoro laddove l’assunzione risulti insostenibile per l’impresa, dall’altra, se non se ne specifica la natura temporanea, rischia di estendere ulteriormente lo status di precarietà. Infine, un’ultima misura di attivazione riguarda l’avviamento o il rafforzamento dei PES (public employment service), ovvero dei servizi di assistenza alla ricerca di lavoro, e l’aiuto o la previsione di un maggior coordinamento con i vari soggetti, pubblici o privati, che si occupano di questa tipologia di servizi. Anche in questo caso, molto spesso l’assistenza è una condizione vincolante all’attribuzione di benefici, come nel caso dell’Australia (Tab. 10.16). Quasi tutti i paesi hanno rafforzato i propri PES: per esempio, la Svezia vi ha investito 30 milioni di euro, mentre la Spagna ha assunto 1.500 consulenti e aperto circa 700 uffici regionali. Interessante, ancora una volta il caso del Regno Unito, che ha rafforzato i servizi già esistenti, orientandoli prevalentemente verso specifici gruppi (disoccupati di lungo termine, over-50 e professionisti), ha aumentato la coordinazione tra Jobcenters e agenzie private e vincolato i salari dei consulenti al raggiungimento di risultati. Tabella 10.16Misure di attivazione Australia Austria Belgio Incentivi allo start-up d’impresa Training/attivazione “Producitivy Places programme”: dall’aprile 2008 quasi 200.000 disoccupati hanno iniziato programmi di training e 40000 li hanno completati (Australian Government, 2009) Aumento dei programmi di orientamento professionale e dei tirocini PES, job-search & matching Assistenza immediata per la ricerca di lavoro a lavoratori licenziati e giovani, come condizione vincolante per l’attribuzione dei benefici di disoccupazione Semplificazione delle modalità di istituzione delle fondazioni per l’assistenza alla ricerca di lavoro. Tra di esse, si sta pianificando l’istituzione di una fondazione speciale per i giovani disoccupati Alle imprese con oltre di 20 Aumento dei lavoratori in addetti è richiesto di assistere i programmi di training (Flanders) lavoratori licenziati nella ricerca di lavoro Estensione dell’assistenza alla ricerca di lavoro ai lavoratori a tempo determinato (Wallonia) Aumento del personale per PES (Flanders) Espansione dei programmi regionali di training per disoccupati 270 Canada Corea Danimarca Finlandia Incentivi allo start-up d’impresa Training/attivazione “Apprenticeship Transitional Grant”: stanziamenti annuali di 40 milioni di dollari fino al 2013 per programmi di tirocini (HRSDC 2010). Circa 16.000 persone hanno completato il percorso (Canadian Government) “Strategic Training and Transition Fund”: fondo di 250 milioni di dollari (rinnovabili per il 2011) per le province e i territori che attivano programmi di training per i lavoratori colpiti dalla crisi (HRSDC, 2010) Riduzione del tasso d’interesse per i genitori single a basso Espansione dei programmi di reddito che iniziano un’attività attivazione e training autonoma “Youth Internship Programme” per PMI Riduzione da 6 a 3 mesi di per partecipare a Taglio ai costi amministrativi per disoccupazione, programmi di attivazione (principio l’apertura di nuove imprese di mutua obbligazione) rivolti ai disoccupati sotto i 30 anni Il pacchetto contro la disoccupazione giovanile del governo (Ungepakke) prevede, tra le altre cose, la creazione di 5.000 tirocini (Danish Government, 2010) Aumento automatico dei fondi per l’attivazione proporzionale all’incremento dei disoccupati dei programmi di training Aumento dei fondi per lo start-up Aumento i disoccupati, soprattutto nond’impresa per disoccupati e non per qualificati e giovani Creazione del “Nouvel accompagnement pour la création et la reprise d’entreprise” (Nacre) Francia Nel novembre 2009 è stata approvata una riforma dell’orientamento e della formazione professionale 500.000 giovani sotto i 26 anni sono oggi coinvolti in attività di apprendistato e tirocinio, sostenute dal governo Germania 271 PES, job-search & matching Maggiore flessibilità nei requisiti richiesti per coloro che elaborano un proprio piano individuale Rafforzamento dei PES e delle agenzie interinali Rafforzamento dei PES e particolare attenzione per i disoccupati di lungo termine (Danish Government, 2010) Incremento delle attività di jobsearch ed elaborazione rapida del job-plan Fondi addizionali per i PES ed estensione delle attività di consulenza ai lavoratori licenziati Creazione del Pôle Emploi, ufficio unico per rendere più efficienti le operazioni di ricerca del lavoro “Contract de transition professionelle” (CTP): offre fino all’80% dell’ultimo salario lordo percepito in cambio dell’assistenza per la ricerca di un nuovo lavoro Rafforzamento dei PES e previsione di ridurre il numero di programmi al fine di renderli più efficienti e mirati (Federal Ministry of Economics and Technology, 2010) Incentivi allo start-up d’impresa Training/attivazione Previsione di training di lungo termine come parte del programma di riallocazione (Ministry of Health, Labour and Welfare 2009) Giappone Grecia Irlanda Italia Messico Programmi di training per i settori del turismo e dell’edilizia PES, job-search & matching Creazione di un programma di emergenza per l’assistenza al lavoro come parte del programma di riallocazione (Ministry of Health, Labour and Welfare 2009) Espansione del programma “Mothers’ Hello Work”: assistenza alle madri disoccupate per la ricerca di una nuova occupazione (Ministry of Health, Labour and Welfare 2009) Creazione di tre centri di assistenza per lavoratori atipici (Ministry of Health, Labour and Welfare 2009) Rafforzamento dei PES al fine “Start your own business” training di far fronte all’aumento di programme: per lavoratori con disoccupati e personalizzare i esperienza licenziati (FAS, 2009) propri percorsi professionali e di training (FAS, 2009) “Technical Employment Support I giovanissimi in cerca di lavoro Grant” (TESG): fondo per assistenza immediata programme di training di breve ricevono nei PES (FAS, 2009) termine (FAS, 2009) “Personal Reemployment Accounts” (PRAs): strumento flessibile da usare per training o coprire spese extra della riqualificazione (FAS, 2009) Ricostituzione del comitato Eliminazione del limite di durata per l’imprenditoria femminile massima dell’apprendistato (CIACE, 2009) (CIACE, 2009) Accordo Stato-Regioni per combinare la cassa integrazione con programmi di riqualificazione professionale (CIACE, 2009) Assistenza ai disoccupati con Aumento dei fondi disponibili scarse possibilità di riallocazione per programmi di training offerti Aumento dei fondi per PES per iniziare un’attività autonoma dai PES Programma di internship per Creazione di un portale internet studenti per la ricerca di lavoro Creazione di un programma di assistenza ai disabili 272 Incentivi allo start-up d’impresa Training/attivazione Risorse disponibili per programmi i training per disoccupati, massimo 3 mesi (Ministry of Social Affairs and Employment, 2009) PES, job-search & matching Aumento delle risorse per i PES e creazione di 30 centri di mobilità (Ministry of Social Affairs and Employment, 2009) Creazione dei Leerwerkloketten Disponibilità di 150 milioni di (learning and working service euro per programmi di training desks) per facilitare la transizione agli occupati (Ministry of Social dalla formazione al mercato del Affairs and Employment, 2009) lavoro (Ministry of Social Affairs and Employment, 2009) Accordo tra le parti sociali per Rimborso del 50% alle imprese che coprono il costo di avanzare un’offerta di tirocinio a formazione di un lavoratore non giovani disoccupati da almeno 3 mesi (Ministry of Social Affairs qualificato (Ministry of Social Affairs and Employment, 2009) and Employment, 2009) Disponibilità di 90 milioni di euro dal Fondo Sociale Europeo per la riallocazione (Ministry of Social Affaire and Employment, 2009) Garanzia di offerta di lavoro per i Rafforzamento di coordinamento disoccupati da almeno 6 mesi di tra i PES, con particolare età compresa tra i 20 e i 24 anni riferimento alle iniziative rivolte (RNMLSI, 2008) ai giovani (RNMLSI, 2008) Estensione del programma Rafforzamento delle attività di rivolto agli adulti di orientamento al lavoro per gli apprendimento delle capacità immigrati (RNMLSI, 2008) essenziali (RNMLSI, 2008) Estensione del programma di riallocazione di vari beneficiari di assistenza sociale e conferma dei fondi per il finanziamento dei progetti di attivazione (RNMLSI, 2008) Olanda Norvegia Nuova Zelanda Polonia Portogallo Repubblica Slovacca Spagna Incremento dei fondi per PES Creazione di uno sportello unico per lo start-up d’impresa Credito sussidiato ai disoccupati Creazione di nuovi programmi di che iniziano una nuova attività training nelle aree disagiate Sostegno al reddito per i disoccupati che partecipano a programmi di training Esenzione temporanea del pagamento dell’assicurazione sanitaria per le persone che iniziano un’attività autonoma Riduzione della contribuzione per i giovani o i disabili che iniziano una nuova attività autonoma 273 Rafforzamento dei PES, attraverso l’assunzione di 1500 consulenti, che hanno assistito più di un milione di disoccupati nei 706 uffici regionali spagnoli (Ministerio de trabajo e inmigracion, 2010) Creazione del sito web “redtrabaja” per facilitare l’accesso alle offerte di lavoro (Ministerio de trabajo e inmigracion, 2010) Svezia Incentivi allo start-up d’impresa Training/attivazione Programmi di riqualificazione professionale per lavoratori esperti e training per disoccupati (Regeringskansliet, 2010) Svizzera Turchia Sostegno finanziario e amministrativo per chi inizia un’attività autonoma (Department for Work and Pension, 2009) UK US Fonte: adattata da OECD (2009b) Contributi post-tirocinio per giovani disoccupati e complementi salariali per prima occupazione (SECO, 2010) Incentivi per la ferma nell’esercito (SECO, 2010) Sussidi per il perfezionamento durante il lavoro a tempo ridotto e nel settore energetico (SECO, 2010) Espansione dei programmi di training per disoccupati, giovani e donne “September Garantee” e “January Garantee”: garanzia di offerta di training ai giovanissimi e ai NEET* (Department for Work and Pension, 2009) “Young Person Guarantee”: offerta di lavoro o training ai disoccupati di età compresa tra i 18 e 24 anni, prima che raggiungano i 6 mesi di disoccupazione (Department for Work and Pension, 2009) PES, job-search & matching Aumento delle risorse disponibili (circa 30 milioni di euro per il 2009) per i PES e per coaching & matching (Regeringskansliet, 2010) Maggiore coordinazione tra PES e altre agenzie (Regeringskansliet, 2010) Aumento delle offerte di stage (SECO, 2010) Stanziamento di 5 miliardi di sterline per politiche di attivazione (Department for Work and Pension, 2009) Rafforzamento dei PES (Jobcenters Plus) e dell’assistenza ai disoccupati di lungo termine, agli over-50 e ai professionisti (Department for Work and Pension, 2009) Local Employment Partnerships: accordi tra Jobcenters e “Graduate Garantee”: sostegno imprese per training e job-trials o offerta di internship ai laureati (Department for Work and Pension, 2009) in caso di disoccupazione continuata per 6 mesi Incentivi basati sui risultati alle (Department for Work and agenzie private di lavoro per Pension, 2009) riallocare i disoccupati di lungo termine (Department for Work and Pension, 2009) Adult Employment and Training Activities (DOL, 2010) Youth Activities, including summer jobs for youth (DOL, 2010) Dislocated Worker Employment and Training Activities (DOL, 2010) Fondi addizionali per PES Program of Competitive Grants for Worker Training and Placement in High Growth and Emerging Industry Sectors (DOL, 2010) YouthBuild Activities (DOL, 2010) 274 Altri paesi hanno, invece, creato alcuni servizi specifici. Il Giappone, coerentemente con l’obiettivo di diminuire il gap tra lavoratori atipici e regolari, ha creato tre centri di assistenza specifica per la prima tipologia contrattuale, nonché altri servizi di assistenza per il periodo di emergenza della crisi. Ha inoltre esteso il programma di assistenza rivolto alle madri lavoratrici. L’Olanda, oltre ad aver rafforzato i propri PES, ha creato i Leerwerkloketten (learning and working service desks), cioè degli sportelli che facilitano la mobilità e la transizione da un posto di lavoro ad un altro. Infine, interessante evidenziare le iniziative di Messico e Spagna, che, sfruttando le potenzialità dell’ICT, hanno creato due portali web per favorire la diffusione dell’informazione sulle posizioni aperte e diminuire drasticamente i costi di transazione legati all’attività di ricerca di lavoro. Riassumendo, si può dire che lo stimolo della domanda di lavoro è avvenuto prevalentemente attraverso incentivi fiscali alle imprese e riduzione delle ore lavorate, mentre il ricorso ad investimenti pubblici è stato tutto sommato limitato, malgrado molti paesi abbiano creato posizioni temporanee per i LSU. Se, da una parte, l’intervento dello stato è limitato dagli alti debiti pubblici e, conseguentemente, dall’impossibilità di finanziare la spesa attraverso ulteriori deficit di bilancio, dall’altra, in molti paesi, si sta perdendo l’occasione di rammodernare molte infrastrutture ed edifici pubblici ormai desueti e di riconvertire gli impianti a tecnologie con un impatto ambientale più limitato. Bisogna anche considerare la scarsa sostenibilità di misure temporanee, come la riduzione delle ore e del costo del lavoro, che implicano, l’una, crescenti investimenti all’aumentare della disoccupazione e, l’altra, perdite notevoli per lo stato sociale. Per quanto riguarda, invece, le misure di attivazione, gli stati si sono concentrati soprattutto sul finanziamento dei programmi di training e sul rafforzamento dei PES, destinando invece scarsa attenzione allo start-up d’impresa. Come sottolineato in precedenza, questa scelta appare sensata laddove difficilmente un disoccupato, soprattutto se scarsamente qualificato, si caricherà del rischio d’impresa, soprattutto con un accesso al credito attualmente molto ristretto. D’altra parte, i programmi di training hanno un impatto strutturale a livello individuale e sistemico molto positivo, soprattutto se rivolti a specifiche categorie in difficoltà, come i giovani e i lavoratori non qualificati, perché 275 consentono di ampliare o mantenere attivo il proprio spazio di combinazioni possibili (capabilities). Mentre lo sforzo di formazione e riallocazione dei giovani da parte dei paesi OECD è intenso, sembra che lo sia molto meno quello per i lavoratori non qualificati o atipici (fa eccezione il caso del Giappone). Anche il rafforzamento dei PES può avere un impatto positivo, come anche una maggiore coordinazione con gli altri soggetti che operano sul territorio, anche se la fornitura di un bene pubblico così fondamentale come quello dell’informazione sull’offerta e sulla domanda di lavoro, che implica necessariamente una visione sistemica, dovrebbe restare pubblico. 10.3 Considerazioni conclusive e scenari possibili L’obiettivo di questo lavoro è stato di illustrare i principali contributi sugli effetti della crisi finanziaria sul mercato del lavoro e sulle misure di policy adottate dai governi dei paesi sviluppati per contrastare tali effetti. Inizialmente sono stati mostrati alcuni dati sull’impatto della crisi sul mercato del lavoro, che hanno restituito un quadro della drammaticità della situazione. In particolare, considerando gli incrementi dei tassi di disoccupazione, si nota come la crisi abbia colpito più duramente l’Irlanda, gli Stati Uniti e la Spagna ma che, in generale, in tutta l’area dei paesi sviluppati gli effetti sono molto pesanti, con un tasso di disoccupazione medio vicino all’8%. Inoltre, la crisi non ha colpito uniformemente tutti i gruppi sociali, incidendo in maniera pervasiva soprattutto sui contratti atipici, sui lavoratori non qualificati, sui giovani e sulle donne. Al di là delle conseguenze di breve periodo, esiste un rischio concreto che la recessione sia la causa di una serie di effetti di lungo periodo che potrebbero influenzare gravemente le prospettive di crescita e sviluppo, determinando una persistente perdita di benessere per le nuove generazioni e di capitale umano a livello individuale e sistemico, nonché una diminuzione degli investimenti in R&S. Si è sottolineato, inoltre, che la mancanza di adeguati interventi per contrastare tali effetti, potrebbe portare ad una riduzione dello spazio di opportunità possibili per l’individuo o, parafrasando Sen, delle sue capabilities. 276 La drammaticità della situazione e il timore di isteresi, che trova la sua manifestazione principale in quel fenomeno che molti autori denotano come “jobless recovery”, ci hanno spinto ad una riflessione più ampia sulle trasformazioni intervenute sul mercato del lavoro negli ultimi decenni, che hanno profondamente inciso sul nesso tra salario e lavoro e determinato un peggioramento delle condizioni di lavoro e del potere contrattuale dei lavoratori. Ciò si è tradotto in persistenti perdite di benessere, soprattutto delle classi medie. Da questa prospettiva, la bolla speculativa e l’accesso dei consumatori a prodotti finanziari innovativi e rischiosi, che per molto tempo ha permesso di sostenere la domanda aggregata, spiegano in parte questi effetti, che, però, vanno inseriti anche in un contesto di ampi mutamenti organizzativi dell’economia reale, all’interno dei quali si è scelto di privatizzare i profitti e socializzare le perdite, usando il lavoro come leva contro la caduta tendenziale del saggio di profitto. Al fine di contrastare la crisi, tutti i paesi sono intervenuti attraverso misure di politica economica, seppure seguendo ognuno traiettorie proprie e al di fuori di dinamiche sistemiche. Nel corso di questo lavoro, sono state individuate due grandi categorie di politiche, passive ed attive, che si distinguono per una diversa gradualità di intervento da parte dello stato e fanno riferimento a framework teorici specifici e storicamente determinati. Anche all’interno di queste categorie, il ruolo giocato dallo stato può essere molto diverso e, comunque, le modalità di implementazione variano da paese a paese e a seconda della libertà di manovra dei governi, che, in moltissimi casi, è limitata dagli elevati debiti pubblici. Per quanto riguarda le misure passive, che mirano a sostenere il reddito e la domanda aggregata senza intervenire direttamente sul mercato del lavoro, dalla rassegna delle politiche identificate si possono trarre le seguenti considerazioni: •• I governi sono intervenuti soprattutto attraverso misure volte a diminuire in vari modi la pressione fiscale, in particolare per le fasce di reddito più basse, e sugli ammortizzatori sociali, estendendo il periodo di copertura e/o aumentando l’entità dei benefici. Al contrario, si è ricorsi molto poco all’utilizzo di strumenti più propriamente assistenziali. •• Per quanto riguarda i trasferimenti, la maggior parte dei paesi ha scelto di condizionarli alla partecipazione a programmi di training (Polonia) o all’assistenza nella ricerca di lavoro (Belgio). 277 •• Raramente gli interventi sono mirati a specifiche categorie di disoccupati, in particolare quelle che risentono di più dell’attuale crisi, come peraltro previsto dalle linee guida dell’OECD. Fa eccezione, per esempio, l’Australia, che, oltre a prevedere fondi aggiuntivi per specifiche categorie, ha anche concesso la rinegoziazione dei mutui, che, soprattutto per le modalità che hanno determinato la recessione, può rappresentare una misura fortemente progressiva. Un altro paese che sta intervendo attraverso misure mirate è sicuramente il Giappone, che, nonostante l’elevato debito pubblico, ha deciso contributi ad hoc per i lavori atipici al fine di ri-equilibrare, almeno parzialmente, le forti iniquità sul mercato del lavoro. Le misure attive implicano un maggior coinvolgimento dello stato sul mercato del lavoro ed hanno come obiettivo principale la creazione di posti di lavoro e facilitare l’incontro tra domanda e offerta. Dalla rassegna presentata nel paragrafo precedente si possono trarre le seguenti considerazioni: •• Pochi governi sono ricorsi alle tradizionali politiche di creazione diretta di lavori pubblici, mentre si è preferito fornire incentivi alle imprese per creare nuove posizioni e finanziare programmi di riduzione delle ore lavorate. Inoltre, si sono abbondantemente sovvenzionati programmi di attivazione, sia promuovendo la (ri) qualificazione del personale, sia rafforzando i PES. Al contrario, pochi paesi hanno scelto di promuovere l’imprenditorialità, concedendo fondi per lo start-up d’impresa. •• Sono soprattutto i paesi più ricchi e moderni dell’area OECD che hanno scelto di intervenire attraverso opere pubbliche: paesi come l’Australia, il Canada, la Danimarca, la Svizzera, la Francia e la Germania stanno cogliendo l’opportunità della crisi per rammodernare i propri edifici scolastici, investire nella banda larga o in tecnologie più sostenibili. In questo modo, si creano nuovi posti di lavoro e si gettano le basi per una traiettoria di crescita e sviluppo lungimirante e, possibilmente, sostenibile. •• Sia gli incentivi alle imprese che i programmi di riduzione dell’orario di lavoro comportano aspetti molto positivi sul breve periodo, perché consentono di salvare posti di lavoro e capitale umano, nonché di evitare i costi di transazione dovuti al licenziamento. Tuttavia, nel medio-lungo termine e con l’aumentare dei tassi di disoccupazione, si rivelano sempre più onerosi per le casse dello stato ed implicano perdite di reddito non sostenibili a lungo. 278 •• I programmi di attivazione rappresentano un modo per cogliere la crisi come un’opportunità di (ri)qualificazione per i lavoratori e quindi di ulteriore creazione di capitale umano e di crescita delle capabilities. Un maggior accesso all’informazione, sfruttando anche l’ICT, facilita notevolmente il matching tra domanda e offerta. Tuttavia, se non si interviene sulle cause strutturali della disoccupazione questa tipologia di interventi potrebbero rivelarsi poco utili. Peraltro, per rivelarsi efficaci, dovrebbero fornire servizi indirizzati a specifiche categorie di lavoratori, quelle maggiormente colpite dalla crisi: in questo senso, le esperienze dei centri di assistenza per lavoratori atipici giapponesi e dei Jobcenters britannici risultano assai interessanti. •• Come già sottolineato in precedenza, lo scarso ricorso agli incentivi per lo start-up di impresa appare sensato in una situazione di insufficiente liquidità. Come corollario di quanto detto finora, si possono aggiungere due considerazioni finali. Il fatto che paesi già avanzati stiano spendendo di più per contrastare la crisi e si avviino su traiettorie di sviluppo che implicano un avanzamento ulteriore, rischia di allargare ancora di più le differenze di sviluppo nell’aerea dei paesi sviluppati e di allontanare definitivamente qualsiasi ipotesi di catching-up. In questo senso, bisognerebbe riflettere sull’opportunità di interventi di politica economica volti esclusivamente a contenere gli squilibri macroeconomici e la spesa pubblica (Bivens, 2010). Un altro aspetto che vale la pena considerare riguarda le condizioni di lavoro. Il Giappone, richiamato dall’OECD per l’ampio divario tra le condizioni di lavoro dei contratti standard e di quelli atipici, sta approfittando della crisi per inserire le proprie risposte di politica economica in un quadro di generale ripensamento delle politiche per il lavoro, che sia in grado di ristabilire un’equità minima sul mercato del lavoro. D’altra parte, un paese come l’Italia, in cui la quasi totalità della contrazione occupazionale della crisi è attribuibile alla perdita di posti di lavoro atipici, ha colto l’occasione per ristabilire tipologie contrattuali estremamente flessibili e che non comportano alcuna garanzia per il lavoratore. La crisi può rappresentare un’opportunità per riflettere attentamente sulle generali condizioni di precarietà e di malessere di molti lavoratori, se non si coglie si rischia di peggiorarle ulteriormente e nessuna misura passiva di sostegno al reddito potrà mai restituire l’insieme di capabilities perdute (Tab. 10.17). 279 Tabella 10.17Studi recenti sull’impatto della crisi sul mercato del lavoro e sulle misure di policy adottate Articolo Bivens J. (2009), “How we Know the Recovery Package is helping”, EPI Issue Brief Paper #265 Bivens J. (2010), “Budgeting for recovery: The need to increase the federal deficit to revive a weak economy”, EPI Briefing Paper #253 Bivens J., Irons J., Pollack E. (2009), “Transportation investments and the labor market: how many jobs could be generated and what type?”, EPI Issue Brief #252 Eisenbrey R. (2009), “The plan to end the jobs crisis: the economy requires a comprehensive response for a full recovery”, EPI Policy Memorandum #152 Bivens J., Edwards K. A. (2010), “Cheaper than you think: Why Smart Efforts to Spur Jobs Cost Less Than Advertised”, EPI Policy Memorandum #165 EPI (2009), American Jobs Plan: A five-point plan to stem the U.S. jobs crises Guichard S., Rusticelli E. (2010), “Assessing the impact of the financial crisis on structural unemployment in OECD countries”, Economics Department Working Paper No. 767 Abstract Breve studio sull’impatto dell’American Recovery and Reinvestment Act (ARRA) sulla ripresa L’articolo sostiene la necessità di una strategia di deficit spending per finanziare la ripresa e studia la relazione tra deficit federale, tasso d’interesse, inflazione, debito internazionale ed equità inter-generazionale. Breve studio sull’impatto degli investimenti pubblici in infrastrutture previsti da ARRA sul mercato del lavoro, in termini di ammontare e tipologia di posizione. Si stima che per ogni 100 miliardi spesi in nuove infrastrutture, sarà possibile creare un milione di posti di lavoro Proposte di policy dell’EPI per promuovere la ripresa sul mercato del lavoro. In particolare si sottolinea la necessità di rafforzare gli ammortizzatori sociali, ridurre la pressione fiscale sugli stati, creare LSU, approvare un nuovo credito d’imposta sul lavoro e, infine, investire in infrastrutture. L’articolo sostiene l’opportunità di tenere sotto controllo il deficit federale attraverso la creazione di posti di lavoro piuttosto che limitando la spesa pubblica Proposta per un programma di ripresa e risposta alla crisi sul mercato del lavoro americano in cinque punti. In particolare, si incoraggia il rafforzamento degli ammortizzatori sociali, la diminuzione della pressione fiscale, nuovi investimenti per l’edilizia scolastica e i trasporti, creazione di LSU e la previsione di un credito d’imposta sul lavoro. L’articolo considera le condizioni attraverso cui lo shock esogeno della crisi e il rischio di isteresi possano incidere sulla disoccupazione strutturale. Gli autori stimano che nell’area OECD la disoccupazione strutturale possa aumentare fino al 4%, anche se con ampie differenze tra paesi. Holland D., Kirby S., e Whitworth R. (2009), Labour markets in recession: Comparazione dell’impatto della crisi An international comparison, National sui mercati del lavoro dell’area OECD Institute Economic Review, 209, 35 280 Dati Trimestrali su spesa pubblica, PIL e imposizione fiscale Annuali su spesa pubblica e deficit di bilancio più previsioni per i prossimi dieci anni Stime comparate sull’impatto sul mercato del lavoro di diverse tipologie di spesa pubblica Stime sull’impatto della creazione di nuovi posti sui conti pubblici Annuali sulla distribuzione del reddito, l’imposizione fiscale e spesa ed impatto di ARRA. Stime sulla disoccupazione di lungo termine Annuali su disoccupazione, occupazione, partecipazione e salari reali nonché stime sul diverso impatto della recessione sull’occupazione e sull’elasticità di risposta dei vari mercanti agli interventi di politica economica e ad ulteriori diminuzioni di salario Articolo Abstract Holland D., Kirby S., Whitworth R. (2010), A comparison of labour market responses to the global downturn, National Institute Economic Review, 211:F38 Riprendendo il lavoro del 2009, si compara nuovamente l’impatto della crisi sui mercati del lavoro dell’area OECD ed eventuali evoluzioni rispetto al 2009 ILO (2009a), Recovering from the crisis: A Global Jobs Pact adopted by the International Labour Conference at its Ninety-eighth Session, Ginevra ILO (2009b), “Tackling the Global Jobs Crisis: Recovery through Decent Work Policy”, Report of the Secretary General, Ginevra L’Organizzazione Internazionale per il Lavoro propone il Global Jobs Pact come base per un accordo internazionale condiviso volto a ridurre l’intervallo di tempo tra la ripresa economica e la ripresa sul mercato del lavoro e a realizzare un generale miglioramento delle condizioni di lavoro a livello globale Rapporto del Direttore Generale dell’ILO sull’attuale crisi e sulle misure di policy da attuare, a livello nazionale e globale Dati Annuali su disoccupazione, occupazione, partecipazione e salari reali nonché stime sul diverso impatto della recessione sull’occupazione e sull’elasticità di risposta dei vari mercanti agli interventi di politica economica e ad ulteriori diminuzioni di salario. Infine si mostra come le precedenti previsioni relative alla diminuzione dell’occupazione fossero ottimistiche rispetto ai mutamenti reali Vari sui principali indicatori del Analisi dell’attuale stato dei mercati mercato del lavoro ma anche sulle del lavoro nazionali ed internazionali condizioni socio-economiche dei lavoratori Mishel L. (2009a), “Generating jobs Breve studio sulle policy previste da for a robust recovery”, EPI Policy ARRA e sul suo impatto e proposte di Memorandum #151 policy ancora da adottare L’articolo affronta la questione Mishel L., Shierholz H., Green A. della perdita di reddito legata alla (2009), “The recession’s hidden Annuali sui tassi nominali di crescita delle ore lavorate e delle costs: workers lucky enough to keep riduzione del salario per varie categorie di sue conseguenze, che è probabile their jobs still feel the pain in their lavoratori determini ulteriori perdite di paycheck”, EPI Briefing Paper, # 240 benessere per la classe media OECD (2009b), “Addressing the labour market challenges of the Risultati del questionario proposto da economic downturn: A summary of OECD e Commissione Europea ai sulle misure di politica country responses to the OECD-EC paesi membri sulle politiche sociali e Tabelle adottate classificate per questionnaire”, background paper del lavoro adottate contro la crisi. In economica prepared for the meeting of the OECD totale contiene i risultati di 29 paesi tipologia e paese Employment, Labour and Social Affaires Committee, 28-29 Settembre ILO (2010), Global Employment Trends, Ginevra Il rapporto riporta i risultati di una serie di workshop ed analisi condotte dalla Direzione per la Scienza, la Tecnologia e l’Industria (DSTI) dell’OECD sull’impatto della recessione sui fattori di crescita di lungo periodo, in particolare quelli legati all’innovazione Il paper si concentra sui recenti del mercato del lavoro, OECD (2010d), “Labour markets and sviluppi mettendo in evidenza le incertezze the crisis”, Economics Department della ripresa e discutendo le varie Working Paper, n. 756, ECO/ opzioni di policy per evitare ulteriori WKP(2010)12, Unclassified mutamenti strutturali e facilitare una ripresa rapida e robusta OECD (2009d), Policy Responses to the Economic Crisis: Investing in Innovation for Long-Term Growth, Paris 281 Trend dell’impatto della crisi sugli investimenti in nuovo capitale e sull’imprenditoria. Inoltre, si mostrano vari dati e casi studio sulle misure di policy adottate per stimolare la crescita nel medio-lungo periodo Stime su vari indicatori -produttività del lavoro, ore lavorate, tassi di disoccupazione- che mettono a confronto l’impatto dell’attuale recessione con quello di altre recessioni. Tabelle con le principali misure di policy adottate dai paesi OECD Articolo Abstract Breve studio sull’impatto della crisi sul benessere dei lavoratori e sulle OECD (2009a), “Helping workers di politica economica che weather the economic storm”, OECD misure i paesi dovrebbero adottare per Observer Policy Brief, Settembre contrastare tali effetti e gettare le basi per una ripresa stabile e duratura Turner A. (2010), “Jobs crisis and the Breve nota sull’impatto della crisi Great recession”, EPI Facts Sheet e le misure previste da ARRA per Unclassified contrastarla Fonte: elaborazione dell’autrice 282 Dati Trend comparativi sull’impatto della crisi e sulla spesa pubblica per tipologia di misura adottata Parte III Il modello di crescita occupazionale in Toscana 11. Chi fa crescere l’occupazione? Il caso toscano e l’Europa 11.1 Premessa In linea con quanto avvenuto a livello nazionale, la Toscana si è caratterizzata nell’ultimo quindicennio per un modello di crescita estensiva, determinata cioè da un forte incremento dell’occupazione a fronte di una lenta dinamica della produttività, che ha visto come principali protagonisti tre specifiche categorie di lavoratori, donne, immigrati e atipici. A partire da queste osservazioni, il presente capitolo intende evidenziare le specificità del modello di crescita occupazionale in Toscana in un’ottica di analisi comparata rispetto a quanto accaduto nelle ripartizioni geografiche dell’Europa meridionale, centrale e settentrionale. Nei due capitoli successivi si cercherà di proseguire l’analisi, puntando l’attenzione sulle implicazioni in termini di mobilità complessiva del lavoro determinate dall’ingresso di questi nuovi soggetti nel mercato del lavoro e sulle specificità che ne caratterizzano le carriere rispetto alla forza lavoro tradizionale, in termini di continuità contrattuale e occupazionale. 11.2 La dinamica dell’occupazione Fra il 1997 e il 2008, la popolazione toscana occupata, come abbiamo visto nelle precedenti versioni di questo Rapporto, è aumentata. Anche il tasso di occupazione è stato decisamente dinamico, rispondendo positivamente allo stimolo delle politiche di attivazione e di convergenza fra paesi membri lanciate dall’Unione Europea. Le politiche europee del lavoro possono essere suddivise in implicite ed esplicite. Fra le prime hanno avuto un ruolo cruciale le riforme delle pensioni, le politiche per la conci285 liazione fra vita e lavoro, la pluralizzazione dei contratti di lavoro. Fra le seconde possiamo includere la costruzione giuridica, perseguita attraverso l’allargamento dell’Unione, di un mercato del lavoro europeo. Essa ha favorito l’immigrazione dai paesi membri dell’Europa a 27 membri verso quelli dell’Europa dei 15 e la diminuzione del controllo sulla circolazione degli stranieri nei confini europei. Più in generale, le azioni antidiscriminatorie promosse dal trattato di Amsterdam hanno fatto da sponda alle politiche nazionali e regionali per la cittadinanza delle donne e dei migranti. Per evidenziare la dinamica dell’occupazione, nel quadro europeo, abbiamo confrontato la Toscana con le macroaree territoriali dell’Europa dei 15, ottenute aggregando i microdati dell’European Labour Survey di EUROSTAT: il Nord, il Centro e il Sud d’Europa. Si tratta di aggregazioni meramente geografiche: della macroarea del Nord fanno parte i paesi scandinavi, l’Irlanda e la Gran Bretagna, della macroarea del Sud Europa Italia, Grecia, Spagna e Portogallo, della macroarea del Centro tutti gli altri paesi dell’Europa a 15 membri. È però evidente che queste linee di divisione territoriale coincidono in senso lato con quelle che distinguono i tre regimi di Welfare europei nelle classificazioni di Ferrera ed Esping Andersen: un modello settentrionale caratterizzato da meccanismi universalistici (la variante “socialdemocratica” dei paesi scandinavi) o di universalismo selettivo (la variante “liberale” dell’Inghilterra e dell’Irlanda), un modello dell’Europa centrale conservatorecorporativo; un modello mediterraneo conservatore-familista (Esping Andersen, 2000; Ferrera, 1993). Abbiamo inoltre considerato, per una maggiore chiarezza sugli andamenti complessivi, il dato medio dell’Europa a 15 membri. L’analisi dei tassi di occupazione (Graf. 11.1), mostra il particolare dinamismo del meridione europeo, partito da posizioni svantaggiate. Il dato toscano, superiore anche all’inizio a quello dell’Europa centrale supera, a partire dal triennio 2002-2005, anche il dato medio europeo; quello dei paesi del Sud, aggregati insieme, supera a sua volta il dato medio dell’Europa centrale. L’Europa del nord, che ha una posizione iniziale più alta, presenta un dato meno dinamico, anche se continua a crescere, rendendo per ora tendenziale il processo di convergenza con le altre macroaree. 286 Grafico 11.1 Tassi di occupazione. Serie storica. Dati medi triennali 1997-2008. Toscana e macroaree europee 75 65 60 61 59 59 57 55 56 53 50 1997-1999 72 71 71 70 69 63 60 60 57 2000-2002 Toscana 65 64 62 60 63 59 2003-2005 EU nord EU centro 2006-2008 EU sud EU 15 Fonte: elaborazioni IRPET su microdati EUROSTAT, ELS Quali sono state, in questo quadro, le componenti più dinamiche del mercato del lavoro? Per rispondere a questa domanda abbiamo ristretto il periodo di osservazione agli anni Duemila, dato che per il periodo precedente alcune variabili, fra cui la distinzione fra contratti a termine e contratti a tempo indeterminato, non erano disponibili. L’analisi della variazione della popolazione occupata, in questo periodo, documenta il processo di convergenza che abbiamo osservato. Il dinamismo dell’Unione europea è determinato dalla variazione degli occupati nei paesi mediterranei. In questo quadro, l’occupazione è in Toscana più dinamica di quella delle macroaree centrale e settentrionale (Graf. 11.2). Grafico 11.2 Variazione % della popolazione occupata in Toscana e nelle macroaree dell’Europa dei 15. Triennio 2006-2008 su triennio 2000-2002 15 10 5 0 5 Nord EU 9 9 TOSCANA EU15 7 Centro EU 14 Sud EU Fonte: elaborazioni IRPET su microdati EUROSTAT, ELS Specifichiamo meglio, dunque, il nostro interrogativo. Quali attori sociali hanno contribuito di più alla crescita dell’occupazione? I protagonisti della crescita toscana sono gli stessi che si 287 sono attivati nel resto d’Europa? Donne e uomini, immigrati e lavoratori autoctoni, giovani e anziani, lavoratori temporanei e a tempo indeterminato, occupati con livelli di istruzione diversi: queste figure sono evidentemente, in molti casi, sovrapposte, ma è utile capire quali di esse hanno contribuito di più al dinamismo dell’occupazione, confrontando il percorso toscano con quello delle grandi macroaree europee. 11.3 Donne e uomini Alla crescita dell’occupazione hanno contribuito, in Toscana, sia la componente femminile che quella maschile, con un dinamismo legato in gran parte alla crescita della popolazione. La sex ratio ha favorito le donne, segnando un percorso di convergenza con la distribuzione di genere degli occupati delle macroaree europee. Infatti i paesi del Nord Europa, che già all’inizio del periodo si caratterizzavano per un peso delle donne quasi equilibrato (46% del totale degli occupati), hanno registrato una variazione più debole delle occupate (+5,5%); la Toscana, dove il peso delle occupate era relativamente basso (41%), ha registrato una variazione più significativa del numero di occupate (+13,5%), raggiungendo un peso del 43% (Graf. 11.3). Grafico 11.3 % di donne occupate sul totale, 2000-2002 e 2006-2008, e variazione % degli occupati per genere in Toscana e nelle macroaree dell’Europa dei 15. Triennio 2006-2008 su triennio 2000-2002 50 40 38 41 43 41 44 43 46 44 46 46 30 20 10 0 22 13 14 9 Sud EU 6 5 Toscana 2000-2002 2006-2008 EU15 11 4 Centro EU Variazione % F intero periodo Variazione % M intero periodo Fonte: elaborazioni IRPET su microdati EUROSTAT, ELS 288 5 4 Nord EU La crescita dell’occupazione è stata molto più dinamica, fino al 2006-2008, nell’insieme dei paesi mediterranei, che partivano da livelli inferiori, sia al femminile (+22%) che al maschile (+9%). Il peso delle donne sugli occupati è passato dal 38 al 41%. 11.4 Italiani e immigrati È impossibile sviluppare, per quanto riguarda la distinzione fra occupati nazionali e non nazionali, un’analisi altrettanto estesa nel tempo. EUROSTAT registra la distinzione fra queste figure, infatti, solo a partire dal 2007. I dati dell’ultimo biennio sono comunque significativi per mostrare la recente dinamica di crescita dell’occupazione straniera. In tutta Europa l’occupazione straniera cresce, infatti, mentre quella nazionale è statica, in lieve crescita o in lieve diminuzione. I paesi mediterranei hanno la percentuale di lavoratori immigrati più alta, presumibilmente a causa dei bassi tassi di attività degli autoctoni, siano essi anziani, giovani, o donne, e di una crescita più recente e rapida del fenomeno migratorio, regolata da politiche di cittadinanza restrittive. La quota degli occupati non nazionali varia in Europa, nel 2007, dal 6% del Centro Europa al 9% dei paesi mediterranei. Una logica che non si sovrappone, dunque, alla linee geografiche dell’asse Nord-Sud, ma che chiama in causa motivi geopolitici più complessi, che qui non intendiamo analizzare. Un processo di convergenza, cioè una dinamica di crescita dei lavoratori stranieri occupati più elevata nelle aree dove il fenomeno è inizialmente più debole, è comunque presente nel biennio qui considerato. Sono in questo caso i paesi del Nord dell’Europa, quelli che, con livelli iniziali più bassi, hanno variazioni più elevate del numero degli stranieri occupati. Minore è tuttavia la variazione del Centro Europa, dove gli stranieri pesavano meno che altrove anche all’inizio del periodo considerato. La Toscana emerge in questo quadro, come l’aggregato dei paesi mediterranei, per una incidenza degli occupati non nazionali già elevata, nel 2007, rispetto alla media dell’Europa dei 15. La crescita del fenomeno nell’anno successivo, del 15%, è più limitata che nel Nord e nel Centro Europa, ma non irrilevante (Graf. 11.4). 289 Grafico 11.4 % di occupati non nazionali sul totale (2007 e 2008) e variazione % degli occupati non nazionali e nazionali in Toscana e nelle macroaree dell’Europa dei 15 24 20 20 16 12 8 7 6 15 15 17 7 8 8 7 8 9 9 10 9 4 0 -4 0 Centro EU -0 -1 Nord EU 2007 2008 EU16 1 Toscana -1 Sud EU Variaz. % nazionali 2008 su 2007 Variaz. % non nazionali 2008 su 2007 Fonte: elaborazioni IRPET su microdati EUROSTAT, ELS 11.5 Lavoratori giovani e maturi Nella distribuzione per età degli occupati vi sono, in Europa, differenze di una certa consistenza. Dove i tassi di attività sono più alti, il protagonismo della classe di età centrale è minore, e la curva per età dell’occupazione è più tonda, meno sfavorevole ai giovani e agli occupati più maturi. È il caso dei paesi del Nord Europa, dove la curva dell’occupazione ha una forma a campana non solo al maschile, ma anche al femminile. Nei paesi del Sud e del Centro Europa la curva riflette la persistenza del modello tradizionale del male breadwinner, che pone al centro del lavoro per il mercato i maschi capofamiglia (Graf. 11.5). In questo quadro la Toscana, come mostra il grafico 11.6, condivide, nel biennio 2002-2002, il modello meridionale, per quanto riguarda il peso degli adulti. Ma è evidente la specificità di una presenza dei giovani particolarmente limitata. A una lenta integrazione delle donne adulte nel modello breadwinner non corrisponde l’inclusione dei giovani, intrappolati in processi di transizione alla vita adulta (fine degli studi, accesso al lavoro, formazione di nuove famiglie), particolarmente lenti. 290 Grafico 11.5 % di occupati giovani, % di occupati maturi (media 2000-2002) e variazione % di occupati in queste classi di età in Toscana e nelle macroaree dell’Europa dei 15. Triennio 2006-2008 su triennio 2000-2002 Fino a 30 anni 60 36 40 38 38 39 Nord EU Centro EU Sud EU 38 20 0 -20 TOSCANA EU15 2000-2002 50-64 anni 30 24 20 18 12 6 0 Centro EU Var. % su assoluti 20 21 21 Sud EU TOSCANA EU15 24 Nord EU Fonte: elaborazioni IRPET su microdati EUROSTAT, ELS Grafico 11.6 Distribuzione % degli occupati per età. Toscana e macroareee europee. 20002002 e 2006-2008 47 48 38 28 18 35 31 23 41 38 36 35 25 23 42 35 23 43 22 fino a 35-49 50-64 fino a 35-49 50-64 fino a 35-49 50-64 fino a 35-49 50-64 fino a 35-49 50-64 34 34 34 34 34 Toscana EU15 Nord EU Centro EU Sud EU 2000-2002 2006-2008 Il successivo cambiamento non si svolge, in questo caso, lungo una linea di convergenza. I giovani occupati diminuiscono infatti ulteriormente, e in misura significativa (-7%), proprio in Toscana, dove erano già poco presenti. Il confronto con i paesi del Sud Europa, dove gli occupati giovani aumentano, anche in valore assoluto, è eloquente. Gli occupati in età matura aumentano in Toscana del 18%, con una crescita significativa, ma inferiore a quelle del Centro e del Sud d’Europa. 291 La forma della curva per età toscana, nel 2006-2008, appare dunque anche più atipica, nel quadro europeo, di quella dell’inizio del secolo. Gli occupati hanno una forte concentrazione nell’età centrale, mentre i giovani sono sempre meno presenti. 11.6 Occupati e livelli di istruzione L’ulteriore rallentamento dell’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro riflette, oltre alla persistenza di un modello di protezione sociale familista, gli effetti di una forte accelerazione del processo di scolarizzazione, che ha accresciuto il numero dei giovani diplomati e laureati, complicandone, al tempo stesso, i percorsi di accesso al mercato del lavoro (Antoni, 2010; Ricci, 2010). L’aumento dei laureati si è sviluppato soprattutto dopo la maturazione degli effetti della riforma dei cicli di studi universitari e l’introduzione del nuovo ordinamento 3+2. Il fenomeno ha avuto in Toscana modalità in parte atipiche. Le caratteristiche della domanda di lavoro, appiattita sui livelli intermedi, ha rallentato, al maschile, la spinta verso l’istruzione superiore, mentre le donne hanno avuto una crescita più rapida concentrandosi, più che negli altri paesi europei, nel campo delle scienze umane e sociali, viste come chiave di accesso agli impieghi pubblici (IRPET, 2010). In ogni caso la Toscana si è inserita, sotto il profilo del livello di istruzione degli occupati, in un processo di tendenziale convergenza, sviluppatosi in modo trasversale all’Europa (Graf. 11.7). Esito di questo processo è stato l’avvicinamento fra paesi per quanto riguarda la presenza di diplomati, indebolito solo dalla persistente spinta alla scolarizzazione secondaria dei paesi del Nord Europa che, già al vertice della graduatoria, risaltano nel biennio più recente per una incidenza molto forte dei diplomati (53%). A questa caratteristica corrisponde per converso un peso contenuto dei bassi livelli di istruzione (13%) che risalta nel confronto con il dato del Sud Europa (42%) e della Toscana (40%). Molto significativa è stata, inoltre, la crescita degli occupati laureati, in Toscana (+63%), a partire da un livello particolarmente basso anche in confronto all’Europa mediterranea (Graf. 11.7). Possiamo dunque parlare, in questo caso, di un fenomeno di convergenza, anche se il profilo educativo dei toscani resta, nel quadro europeo, appiattito su livelli più bassi (Graf. 11.8). 292 Grafico 11.7 % di occupati diplomati, % di occupati laureati (media 2000-2002) e variazione % degli occupati con questi livelli di istruzione in Toscana e nelle macroaree dell’Europa dei 15. Triennio 2006-2008 su triennio 2000-2002 Diplomati 60 40 31 20 29 0 Sud EU 40 42 46 52 17 14 7 9 TOSCANA EU15 Centro EU Nord EU 2000-2002 Variazione % sugli assoluti Laureati 80 63 60 40 45 24 19 11 20 0 TOSCANA 28 26 30 24 Sud EU EU15 23 Centro EU Nord EU Grafico 11.8 Distribuzione % degli occupati per livello di istruzione. Toscana e macroareee europee. 2000-2002 e 2006-2008 60 50 40 30 20 10 0 40 16 basso medio Toscana 54 44 43 28 46 33 28 13 alto basso medio alto EU15 basso medio alto 42 35 24 basso medio alto basso medio alto Nord EU 2000-2002 30 24 Centro EU Sud EU 2006-2008 11.7 Occupati temporanei e a tempo indeterminato Per quanto riguarda gli occupati temporanei si è sviluppato in Europa, negli ultimi anni, un processo di ulteriore divergenza: alla variazione positiva dei paesi del Meridione, già al vertice della graduatoria nel triennio 2000-2002, si affianca infatti quella negativa dei paesi del Nord Europa, che erano già caratterizzati da una bassa presenza. In questo quadro la Toscana, contrasse293 gnata anch’essa da un’incidenza inizialmente limitata, ha avuto una notevolissima crescita di questo tipo di contratto (+72%). La regione tende dunque ad allinearsi ai livelli di incidenza del lavoro atipico caratteristici dei paesi del Sud Europa, piuttosto che al modello liberale tipico della Gran Bretagna e dell’Irlanda. Grafico 11.9 % di occupati a tempo determinato e variazione % degli occupati a tempo determinato. Toscana e macroaree dell’Europa dei 15. Triennio 2006-2008 su triennio 2000-2002 80 72 60 40 20 0 -20 8 7 8 13 -9 Nord EU TOSCANA 2000-2002 13 14 14 14 9 14 Centro EU EU16 2006-2008 20 27 21 Sud EU Variaz. % 11.8 Considerazioni conclusive La Toscana ha avuto una crescita dell’occupazione comparativamente elevata, nel quadro europeo, fra il 2000 e il 2008 (+9%): la variazione positiva è stata intermedia fra quella del Sud Europa (+14%) e quella del Nord Europa (+5%). Quali sono stati, in questo quadro, i principali attori della crescita? Un forte dinamismo ha caratterizzato la regione per quanto riguarda gli occupati laureati e gli immigrati. L’occupazione femminile ha seguito un trend di crescita, ma con un minore dinamismo. Questi fenomeni si inquadrano in un processo di convergenza transeuropeo, che indebolisce ma non annulla le differenze ereditate dal passato. Sia nell’ambito delle differenze di genere che in quello dei dislivelli di istruzione la Toscana conserva, nonostante le variazioni positive, una distribuzione abbastanza tradizionale. Ma un forte elemento di innovazione e trasformazione del tessuto dell’occupazione è venuto, invece da una incidenza degli stranieri sugli occupati particolarmente elevata, nonostante un dinamismo non particolarmente accentuato fra il 2006 e il 2007. 294 In un quadro di divergenza, di differenziazione e tipizzazione dei modelli lungo le linee della geografia e dei modelli nazionali di protezione sociale, si collocano invece altri aspetti della crescita dell’occupazione toscana. Anzitutto l’ulteriore declino del numero dei giovani occupati, legato alla persistenza di una modalità di protezione sociale di tipo familista. Questa modalità consente ai giovani italiani di limitare i processi di mobilità sociale discendente, e di tentare una mobilità ascendente, col sostegno delle famiglie. Lasciando agli stranieri i lavori meno qualificati, i giovani attuano strategie di ingresso nei pochi lavori qualificati, pagando tuttavia il costo di un forte rallentamento del percorso formativo e dell’ingresso nella vita attiva. La classe di età intermedia, per converso, acquista in Toscana un nuovo protagonismo nel mercato del lavoro, accentuando il modello breadwinner, che tuttavia si estende a nuove figure: donne e persone dotate di livelli di istruzione più alti che in passato. Si tratta in ogni caso di figure innovative, di una risorsa da non sottovalutare per l’evoluzione del modello toscano. Della rallentata attivazione dei toscani fa parte anche l’intensa crescita del numero degli occupati atipici. Lavoro atipico e lento ingresso dei giovani nel lavoro si presentano, dunque, come due facce della stessa medaglia, due tratti importanti del modello toscano. La prima caratteristica, la diffusione dei contratti temporanei, non si è finora sviluppata fino ai livello raggiunti nell’Europa meridionale, ma è in forte crescita. La seconda, l’ingresso tardivo dei giovani, è distante, invece, da quel modello, poiché nei paesi del Sud la presenza dei giovani nell’occupazione, più elevata anche all’inizio del periodo considerato, è cresciuta nel corso del tempo. Il frantumarsi del modello familista, nella sua versione aggiornata, che rafforza la dipendenza dei figli e affievolisce quella delle donne, è spesso evocato come una necessaria premessa di un ulteriore passo verso una modernizzazione del mercato del lavoro. Il rischio, alla luce di questi scenari, è tuttavia che la Toscana meridionalizzi ulteriormente il suo equilibrio, andando nella direzione di un ingresso nel mercato del lavoro dei giovani anticipato ma precario. 295 12. La mobilità del lavoro 12.1 Premessa A seguito dei cambiamenti demografici e delle sollecitazioni economiche imposte dalla globalizzazione, negli ultimi due decenni i mercati del lavoro di gran parte dei Paesi industrializzati hanno subito profonde riforme, individuando nella flessibilità il comune denominatore per il raggiungimento di migliori standard occupazionali. Il punto di partenza di questo approccio è riconducibile all’affermazione dell’idea che i migliori risultati in termini di occupazione raggiunti dagli USA rispetto all’Europa fossero spiegati essenzialmente dalla maggiore fluidità del mercato statunitense e che, quindi, la deregolamentazione del lavoro fosse la via maestra da percorrere anche in Europa. In realtà, questa posizione ha sempre trovato importanti oppositori, sia in ambito accademico che istituzionale, e gli effetti della recente crisi globale ne hanno fatto emergere più chiaramente i limiti, avvantaggiando un approccio più meditato, come quello della flexsecurity emerso a livello europeo. Appare condivisibile, infatti, l’idea che i problemi dell’occupazione non siano attribuibili esclusivamente alle rigidità del mercato del lavoro, né che la protezione offerta ai lavoratori dalle istituzioni pubbliche possa essere ridotta alla mera risoluzione delle sue frizioni (Contini e Trivellato, 2005). Nessuna teoria, tuttavia, è riuscita ad affermare uno schema definitivo di valutazione della flessibilità dei mercati, né gli studi comparati sono riusciti a stabilire una misura consolidata dello stato di flessibilità ‘ideale’ del fattore lavoro: mobilità, occupazione, produttività, salari, distribuzione del reddito e crescita economica restano tessere di un puzzle non ancora composto. Nonostante le incertezze, l’impegno dedicato alla valutazione del grado di flessibilità dei mercati del lavoro nazionali ha prodotto alcuni risultati interessanti, tra cui l’ideazione, da parte dell’OECD, di un indice sintetico dei regimi di protezione dell’impiego. L’indice, 297 chiamato EPL (Employment Protection Legislation), si basa su un ricco database legislativo che consente di analizzare le procedure e i costi a cui sono sottoposte le imprese nell’assunzione di personale con contratti a tempo determinato e nel licenziamento dei propri dipendenti con contratti standard. Attraverso l’ELP, dunque, è possibile effettuare confronti internazionali tra le normative in vigore nei paesi appartenenti all’area OECD e misurare l’evoluzione di quest’ultime nel tempo. Nel 2000, i primi risultati dell’indice hanno posizionato l’Italia tra i Paesi più rigidi dell’area (su 6 punti complessivi l’Italia ne aveva accumulati 2,9), ma l’ultimo aggiornamento ha riconosciuto gli sforzi compiuti in materia di flessibilità (nel 2008 l’ELP era passato al 2,4), segnalando il nostro Paese tra quelli che hanno migliorato maggiormente il risultato precedente grazie alla deregolamentazione dell’impiego temporaneo, che passa dai 5,4 punti del 1990 ai 2,0 del 2008 (i contratti standard mantengono invariato il proprio punteggio di 1,8 punti) (CNEL, 2010). Come dimostrano le numerose critiche rivolte all’indice, l’EPL non è una misura esente da limiti perché si basa sulla mera valutazione normativa della rigidità attraverso procedure standardizzate, che possono includere delle approssimazioni e che, in ogni caso, non comprendono valutazioni di contesto come la distribuzione della flessibilità, la capacità di enforcement e le ricadute prodotte dalle riforme. L’analisi del mercato del lavoro e della flessibilità continua, quindi, ad essere condotta prevalentemente su basi empiriche, cercando di tenere in debita considerazione i mutamenti economici, la dinamica demografica e le molteplici sfumature delle politiche del lavoro e delle loro implicazioni sulla società. Anche a seguito delle valutazioni ottenute in ambito internazionale, in Italia a partire dagli anni ’80 si è sviluppato un vivace dibattito sulla flessibilità del lavoro, che ha accompagnato le riforme dell’ultimo ventennio e che si impone tutt’oggi tra le principali voci dell’agenda politica. Nel corso degli anni ‘90, accanto ad una sostanziale stabilità della regolazione del lavoro standard, si è affermata con crescente vigore una fase di riorganizzazione delle condizioni di accesso al mercato nell’intento di abbassare il costo del lavoro attraverso l’istituzione di nuove forme di impiego (tempo determinato, part-time, lavoro interinale, contratti di collaborazione, ecc.). Dal punto di vista normativo, la legge n. 196 del 24 giugno 1997 (il cd. pacchetto Treu) costituisce la prima formalizzazione organica delle nuove forme contrattuali, seguita dalla legge n. 30 del 14 febbraio 2007 (la cd. Legge Biagi), che ha ampliato ulteriormente la 298 gamma dei lavori non-standard. Il tratto comune alle due riforme è rappresentato dalla marginalità, poiché entrambe le leggi si indirizzano ai lavoratori in ingresso sul mercato del lavoro, prevalentemente giovani e donne, che vedono ampliarsi le modalità di accesso all’impiego nel segno di una flessibilità sempre più spinta. Per gli insiders, invece, le condizioni di permanenza sul mercato non sono state rinegoziate. L’obiettivo dichiarato delle riforme è quello di favorire l’inserimento delle categorie di forza lavoro più ‘fragili’ attraverso la riduzione del loro costo da parte delle imprese. Con l’introduzione di regole del gioco differenti in funzione dello status di partenza, tuttavia, si corre il rischio di alimentare la segmentazione all’interno del mercato e, nel caso specifico, tra generazioni di lavoratori. Un ulteriore aspetto problematico delle leggi citate è la mancanza di un adeguamento degli ammortizzatori sociali alle nuove categorie contrattuali che, data l’impostazione assicurativa del nostro sistema di protezione, risultano scarsamente protette dalle misure di sostegno al reddito e all’occupazione (CNEL, 2010). Infine, va osservato che entrambe le norme escludono dalla propria disciplina le retribuzioni, un aspetto non sottoposto a riforma sebbene sia indirettamente influenzato dalle caratteristiche dei nuovi contratti. Dalle statistiche nazionali emerge, infatti, che il reddito medio pro capite si è ridotto significativamente negli ultimi anni per effetto della minore redditività dei nuovi contratti, della discontinuità lavorativa e, non ultima, dell’accresciuta propensione ad accettare impieghi meno remunerativi in un contesto di grave crisi occupazionale. Complessivamente, quindi, l’Italia non sembra aver ancora recepito nella propria normativa il principio della flexsecurity proposto dalle istituzioni europee, limitando all’incremento della mobilità il proprio concetto di flessibilità. Quanto agli effetti, la crescita dell’occupazione registrata nella seconda metà degli anni ‘90 sembra aver beneficiato dell’ampliamento della gamma di contatti atipici, pur avendo subito una pesante battuta d’arresto in coincidenza della recente crisi globale. Va osservato, inoltre, che, mentre per i candidati al lavoro sono aumentate le modalità di assunzione, si è accentuata la dicotomia tra insiders e outsiders, lavoratori tipici e atipici, e tra i più giovani si rileva un crescente scoraggiamento, un segnale preoccupante e che impone una riflessione più matura sul ruolo del lavoro in Italia. Per valutare la dimensione della mobilità e delle riforme in Italia e, più dettagliatamente, in Toscana sono stati analizzati innanzitutto alcuni degli indicatori sintetici di mobilità più tradizionali per poi 299 approfondire nel capitolo successivo lo studio attraverso l’esame delle carriere lavorative, distinguendo le categorie di lavoratori che sembrano essere stati investiti maggiormente dalle riforme: gli outsiders e le categorie ‘fragili’ ovvero i giovani, le donne ed i migranti. 12.2 I dati In Italia, gli studi empirici sull’occupazione sono stati spesso penalizzati dalla scarsità di dati accessibili e puntuali sulle carriere dei lavoratori. Negli ultimi anni, tuttavia, il sistema informativo è significativamente migliorato e si sono affermate due principali fonti statistiche sull’argomento: la Rilevazione Continua sulle Forze di lavoro (RCFL) dell’ISTAT e l’archivio WHIP (Work Histories Italian Panel) del Laboratorio Riccardo Revelli. La RCFL costituisce il principale strumento di analisi e di monitoraggio dell’occupazione49, ma si rivela poco adatto allo studio della mobilità, in particolare per lo studio delle carriere lavorative, in quanto le serie panel dei dati non sono liberamente accessibili50. Al fine di disporre di serie storiche sufficientemente lunghe e dettagliate circa le transizioni dei lavoratori, il presente lavoro usa la banca dati WHIP fornita dal Laboratorio Revelli in collaborazione con l’INPS. L’utilizzo di questo archivio rappresenta uno degli aspetti più innovativi di questo studio e consente di effettuare un’analisi dettagliata della mobilità in Italia e, più in particolare, in Toscana. Oltre all’impostazione panel, tra i vantaggi di WHIP si ricorda l’origine amministrativa delle informazioni, la natura di Linked Employer-Employee Database, che consente di risalire anche ai dati dell’impresa in cui è occupato ciascun lavoratore, e la disponibilità delle fondamentali informazioni individuali e contrattuali (retribuzione, tipo di contratto e qualifica). Tra i vantaggi che rendono la RCFL lo strumento più utilizzato per le analisi del mercato del lavoro si ricorda: la buona rappresentatività del campione fino al livello di disaggregazione regionale e provinciale, l’aggiornamento puntuale e frequente dei dati e la disponibilità di informazioni dettagliate sulle caratteristiche individuali e familiari degli individui. Tra i principali limiti, invece, va notato che l’intervallo temporale minimo di riferimento è il trimestre, la durata massima di ogni ciclo panel corrisponde a due anni (dopodiché cambiano gli individui intervistati) ed infine, essendo la RCFL un’indagine condotta tramite interviste, le informazioni contenute riflettono lo status dichiarato dagli individui sebbene l’informazione sullo stato occupazionale sia sottoposto ad un sistema di domande incrociate che limita molto la probabilità di errore. 50 In particolare, il riferimento è al Metodo dell’abbinamento a tre occasioni utilizzato. Per i dettagli si veda Baretta e Trivellato (2004). 49 300 Inoltre, a partire dal 1998 la banca dati consente di distinguere la tipologia di contratto di lavoro subordinato (stagionale, tempo determinato, formazione lavoro, interinale, apprendistato) e contiene i dati sulla mobilità dei lavoratori parasubordinati (co.co.co., contratti a progetto e attività professionali). Il limite principale di WHIP è rappresentato dalla lentezza dell’aggiornamento dei dati, che attualmente consentono di coprire il periodo 1985-2004, e dall’esclusione dei lavoratori del settore pubblico e degli iscritti a casse previdenziali autonome. Nonostante ciò, la mole di informazioni contenute in WHIP, tutte di tipo panel, rende questo archivio uno strumento prezioso per l’analisi della mobilità e degli effetti di medio periodo prodotti dalle recenti riforme della normativa sul lavoro. Box 12.1 l’archivio WHIP WHIP (acronimo di Work Histories Italian Panel) è una banca dati di storie lavorative individuali, costruita a partire dagli archivi gestionali dell’Inps e curata dal Laboratorio Revelli. La popolazione di riferimento è costituita da tutte le persone -italiani e stranieriche hanno svolto parte o tutta la loro carriera lavorativa in Italia. Da questa popolazione è stato estratto un ampio campione rappresentativo: nel file completo, di cui disponiamo, il coefficiente di campionamento è di circa 1:90 per una popolazione dinamica di circa 370.000 persone (queste cifre sono dimezzate nella versione standard e scaricabile dal sito del Laboratorio Revelli). Per ognuna di queste persone vengono osservati i principali episodi che caratterizzano la loro carriera lavorativa, tra cui i rapporti di lavoro dipendente, i periodi di lavoro parasubordinato, le attività di lavoro autonomo come artigiano, commerciante e alcune attività da professionista, il pensionamento, nonché periodi nei quali l’individuo ha beneficiato di prestazioni sociali, quali gli assegni di disoccupazione o la indennità di mobilità. Gli episodi lavorativi da dipendente pubblico e quelli dei liberi professionisti dotati di cassa previdenziale autonoma, invece, non sono registrati in WHIP. La sezione WHIP che riguarda il lavoro dipendente è un Linked Employer-Employee Database: grazie ad un abbinamento con l’Osservatorio delle Imprese dell’Inps, oltre ai dati sul rapporto di lavoro, sono presenti anche i dati relativi all’impresa presso la quale la persona è impiegata. Nel 2010 è stata resa disponibile una versione aggiornata dell’archivio WHIP (versione 3.2), in cui è stata rivista la sezione anagrafica, sono state modificate le scelte di pubblicazione degli individui e degli episodi di lavoro, sono stati aggiornati e armonizzati gli archivi sui rapporti di lavoro e sono stati corretti alcuni errori di procedura. Al momento, quindi, la banca dati WHIP copre il periodo 1985-2004 (non tutti gli archivi, tuttavia, hanno la stessa copertura temporale). Un dettagliato resoconto dei contenuti di WHIP è disponile al link: http://www.laboratoriorevelli.it/whip/whip_datahouse.php?lingua=ita&pagina=home. 301 12.3 Gli indicatori di mobilità Per descrivere in maniera sintetica i tratti principali della mobilità del lavoro in Italia e, più in particolare, in Toscana, si è scelto di procedere attraverso l’utilizzo dei tradizionali indicatori di mobilità e specificatamente il tasso di associazione e di separazione, il tasso di rotazione (GWT, Gross Worker Turnover) e il tasso di riallocazione (TWR, Total Worker Reallocation). L’inizio o la fine di un rapporto di lavoro costituiscono gli “eventi elementari” della mobilità e vengono misurati rispettivamente con il tasso di associazione e il tasso di separazione. Queste misure compongono a loro volta l’indice di rotazione (GWT), che rappresenta l’indicatore sintetico più usato in letteratura come misura aggregata di mobilità dei mercati. Solitamente l’arco temporale di riferimento è l’anno solare e il denominatore degli indici corrisponde ad una misura dei lavoratori presenti sul mercato, ovvero lo stock degli occupati oppure il totale dei lavoratori che hanno avuto almeno un rapporto di lavoro nell’anno (pur non essendo presenti all’inizio -o alla fine- del periodo). Il tasso di associazione è calcolato secondo la seguente formula: a = associazioni occupazione Il tasso di separazione coglie l’altra faccia della mobilità del lavoro: separazioni s= occupazione Il GWT rappresenta la misura aggregata delle transizioni ed è composto dalla somma dei due indici presentanti, quindi: associazioni + separazioni gwt = occupazione A livello interpretativo va precisato che queste misure di mobilità fanno riferimento ai rapporti di lavoro e non agli individui, che possono aver avuto più rapporti di lavoro nel periodo considerato e quindi contribuire agli indicatori con più movimenti. è importante scomporre il tasso di rotazione nei due movimenti che lo compongono, in modo da capire la direzione delle transizioni e valutare la direzione della mobilità. Inoltre, va tenuto presente che tutti e tre gli indicatori sono strettamente legati al ci302 clo economico: le associazioni hanno un andamento pro-ciclico, mentre le separazioni hanno un andamento meno chiaro in linea di principio perché dipendono da due dinamiche contrapposte, ovvero le dimissioni volontarie (pro-cicliche e legate ai passaggi job-to-job) e i licenziamenti (anti-ciclici). In generale, il saldo di questi movimenti determina una relativa stabilità del tasso di separazione rispetto al ciclo economico. Quanto al GWT, sommando gli effetti dei precedenti indici, segue un andamento moderatamente pro-ciclico perché ‘trainato’ della relazione positiva tra associazioni e crescita: in teoria i passaggi da un lavoro all’altro nelle fasi espansive dovrebbero determinare una correlazione positiva tra mobilità aggregata e andamento dell’economia. Per passare dallo studio dei rapporti di lavoro al numero di individui coinvolti nelle transizioni è necessario introdurre un ulteriore indicatore, il tasso di riallocazione (TWR). Il TWR è definito come rapporto tra numero di persone coinvolte nelle transizioni (le c.d. “teste mobili”) e la somma dei lavoratori presenti sul mercato nel periodo studiato. La formula per il calcolo del tasso di riallocazione è: twr = individui “mobili” occupazione Questo indicatore segnala il numero di soggetti che sperimentano carriere instabili rispetto ai lavoratori presenti sul mercato nel periodo di riferimento. Ovviamente, al pari del tasso di associazione e di separazione, anche questo indicatore può essere scomposto in funzione della direzione dei movimenti degli individui, siano essi in entrata o in uscita dal mercato. Inoltre, il TWR può essere confrontato con il GWT per avere un’indicazione del coinvolgimento delle forze di lavoro nella definizione della mobilità complessiva. Tuttavia, per approfondire le caratteristiche ed i costi della mobilità dei lavoratori è necessario indagare sulle singole carriere occupazionali, un’operazione resa possibile dalle caratteristiche dell’archivio WHIP. Va infine precisato che nel presente studio il denominatore degli indicatori è rappresentato dalla popolazione “a rischio” di mobilità, ovvero dalla somma degli individui sul mercato all’inizio dell’anno e dei lavoratori che vi sono transitati per almeno una volta nel periodo51. 51 Diversamente da altri studi, in questo caso non sono stati introdotti criteri di ponderazione per la durata della presenza sul mercato. In sostanza, ogni individuo che ha lavorato nell’anno di riferimento partecipa alla formazione del denominatore a prescindere dalla durata del proprio rapporto di lavoro. 303 12.4 I risultati Come anticipato, lo studio di lungo periodo della mobilità dei lavoratori si è svolto principalmente secondo due linee di analisi, che ricalcano i tradizionali indicatori sintetici: il tasso di rotazione (GWT), che indica il volume delle transizioni operate dai lavoratori, e il tasso di riallocazione (TWR), che consente di monitorare la dinamica della numerosità dei lavoratori che sperimentano una carriera flessibile. Il grafico 12.1 riporta la dinamica dell’occupazione e del prodotto dell’ultimo decennio assieme ai principali indicatori di mobilità registrati in Italia (linea uniforme) e in Toscana (linea tratteggiata). Il decennio studiato denota un contesto di debole crescita economica e occupazionale, che tende a contrarsi nei primi anni studiati per tornare a crescere a partire dal 1997. Complessivamente, nel corso del decennio il PIL è cresciuto di oltre 18 punti percentuali e il tasso di occupazione ha registrato un aumento di 8 punti percentuali, accumulati tutti nell’ultimo quinquennio. L’introduzione del pacchetto Treu, nel 1997, comporta un evidente salto nei livelli di mobilità, con un aumento del tasso di rotazione di oltre 50 punti percentuali tra il 1997 e il 2000, che tuttavia si stabilizza negli anni successivi. Il legame positivo tra crescita e mobilità è dunque evidente e conferma l’andamento pro-ciclico dell’indicatore di turnover. Quanto all’indicatore di riallocazione (TWR), si osserva un andamento più lineare, ma segnato dalla stessa dinamica del GWT. In Toscana, diversamente da quanto osservato a livello nazionale, entrambi gli indici di mobilità mostrano una ripresa della crescita dopo il 2001, a dimostrazione dell’elevata mobilità del lavoro che contraddistingue i sistemi distrettuali della piccola impresa. In sostanza, dall’analisi temporale degli indicatori emerge chiaramente l’esistenza di due distinte fasi: la prima denota una situazione di mobilità stabile e assenza di crescita occupazionale e la seconda traccia un quadro di debole ripresa dell’occupazione ed elevata mobilità. Il 1998-1999 rappresenta il momento di svolta tra i due periodi, premiando gli sforzi compiuti dai Governi nell’apertura di nuovi spazi di flessibilità all’interno del mercato. L’immediata stabilizzazione della mobilità a livello nazionale, tuttavia, induce a riflettere più attentamente sull’ipotesi di ‘saturazione’ della domanda di flessibilità da parte delle imprese in 304 un contesto di stagnazione come quello che ha caratterizzato il nostro paese a partire dalla fine degli anni ‘90. Grafico 12.1 PIL (a prezzi costanti 2000), Tasso di occupazione, tasso di rotazione, tasso di riallocazione. Italia e Toscana. 1993-2003. Numeri indice a base fissa (anno base 1996=100) 180 160 140 120 100 80 1993 1994 1995 PIL PIL Toscana 1996 1997 1998 Occupaz. Occupaz Toscana 1999 2000 GWT GWT Toscana 2001 2002 2003 TWR TWR Toscana Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP e ISTAT, Conti economici e Forze di lavoro L’analisi dei livelli di mobilità in Italia e in Toscana sconfessa la convinzione che prima delle riforme il mercato italiano fosse eccessivamente rigido, sia sul versante dei movimenti che su quello degli individui coinvolti nelle transizioni52. L’indice di rotazione, infatti, nel 1997 risultava superiore al 60%, un valore che colloca l’Italia su livelli di elevata mobilità anche a livello europeo. Successivamente, con l’introduzione delle forme contrattuali flessibili del pacchetto Treu, la mobilità del lavoro ha sperimentato un’impennata evidente, che ha portato il tasso di rotazione poco al di sotto del 90% (nel 2003 il GWT era pari all’88%). Inoltre, il fatto che il tasso di riallocazione corrisponda al 43% indica l’esistenza di una fascia piuttosto ampia di popolazione molto mobile. Quanto alla Toscana, va osservato che negli anni successivi alla riforma ha registrato dei livelli di mobilità superiori alla media nazionale, come dimostra lo scostamento del tasso di riallocazione e, soprattutto, quello di rotazione (Graf. 12.2). Si osservi che i risultati ottenuti in questo lavoro differiscono leggermente da quelli riportati in precedenti studi sulla mobilità che usano l’archivio WHIP. Tali differenze sono legate principalmente alle differenze nella scelta delle procedure di impostazione del database e dal fatto che in questo caso è stata utilizzata una versione aggiornata della banca dati, che riporta alcuni miglioramenti rispetto all’edizione precedente (nel nostro caso si tratta della versione 3.2 dell’archivio). Più in particolare, le stime della mobilità riportate risultano mediamente superiori di circa cinque punti percentuali a quelle degli altri studi, sebbene la dinamica rimanga sostanzialmente coerente. 52 305 Grafico 12.2 Tasso di rotazione e tasso di riallocazione. Italia e Toscana. 1993-2003. Valori % 100% 80% Italia GWT Toscana GWT Italia TWR Toscana TWR 60% 40% 20% 0% 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP La mobilità dei lavoratori è influenzata anche dalla struttura economica locale, che rende alcuni mercati più flessibili di altri. L’Italia, infatti, presenta notoriamente una marcata tipizzazione territoriale dei sistemi produttivi, con la grande industria localizzata prevalentemente nelle regioni nord occidentali, i sistemi distrettuali della piccola impresa tipici delle regioni orientali e centrali, mentre le regioni meridionali ed insulari si contraddistinguono per una quota rilevante di dipendenti pubblici a cui si associa una scarsa presenza della grande impresa e tassi di occupazione inferiori al resto del paese. Le relazioni tra mobilità e struttura produttiva sono note in letteratura e dimostrano l’esistenza di un nesso negativo tra la dimensione d’impresa e gli indicatori di mobilità dovuto alla maggiore natalità e mortalità delle aziende di piccole dimensioni. Il grafico 12.3 riporta la composizione dei lavoratori inclusi nella banca dati WHIP in base alle dimensioni d’impresa e all’area geografica in cui essa opera. Il grafico 12.4 mostra le serie storiche del tasso di rotazione, confermando quanto detto finora circa le caratteristiche territoriali delle imprese e la mobilità dei lavoratori. La grande industria risulta il gruppo dimensionale che ha beneficiato maggiormente della flessibilità introdotta dal pacchetto Treu, mentre si osserva che al ridursi della dimensione d’impresa gli effetti della riforma si stemperano e si accentuano le oscillazioni legate al ciclo economico. 306 Grafico 12.3 Tasso di rotazione e distribuzione dei lavoratori dipendenti per dimensione d’impresa (numero di addetti). Aree Italia e Toscana. 2001. Valori % 100% >=1.000 80% 200-999 60% 20-199 40% 10-19 20% 0-9 0% Nord ovest Nord est Centro Sud e isole TOSCANA GWT Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Grafico 12.4 Tasso di rotazione dei lavoratori dipendenti per dimensione d’impresa (numero di addetti). Italia. 1986-2001. Valori % 100% 0-9 80% 10-19 60% 20-199 40% 200-999 20% >=1000 0% 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Guardando all’indicatore dell’intensità dei movimenti dei lavoratori (Tab. 12.5), viene innanzitutto confermato il record di mobilità delle regioni meridionali fino al 199853, quando, con l’introduzione delle nuove forme di flessibilità, l’indicatore si massimizza nelle regioni nord orientali e il sud si posiziona su valori più vicini a quelli del nord ovest, area caratterizzata da una minore mobilità. Le regioni dell’Italia centrale si collocano in una posizione intermedia, registrando un tasso di rotazione Le regioni meridionali, infatti, si contraddistinguono da sempre per una elevata mobilità del lavoro spiegata dalla prevalenza della piccola impresa, ma anche dalla maggior diffusione di lavori precari e dell’economia sommersa. In effetti, dalle analisi delle carriere lavorative è emerso che al sud prevale un modello di ‘cattiva’ mobilità con poche transizioni job-to-job e molte transizioni da e verso l’occupazione intervallate da lunghi tempi di in occupazione (Contini, Trivellato, 2005 pp. 171 ss.). 53 307 costantemente superiore alle regioni nord occidentali ma inferiore al nord est. In questo quadro la Toscana rappresenta piuttosto fedelmente la dinamica del GWT dell’Italia centrale, con un indice medio di turnover pari al 66% nel periodo considerato e del 93% nell’ultimo anno disponibile. Tabella 12.5 Tasso di rotazione. Macroaree e Toscana. 1986-2003. Valori % 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 Nord ovest 43,9 46,4 49,4 50,8 52,1 Nord est 60,1 63,5 65,9 66,6 65,6 Centro 55,4 55,9 57,3 55,2 57,3 Sud e isole 74,6 77,4 75,9 73,8 74,2 Toscana 56,1 57,7 57,4 56,0 58,2 Italia 56,5 58,9 60,5 60,3 61,1 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP 48,1 62,6 55,0 73,3 56,8 58,3 46,2 62,1 55,9 71,6 56,6 57,4 40,2 56,4 50,9 67,6 52,9 52,1 44,0 61,5 51,8 67,9 54,7 54,9 47,4 67,2 55,2 69,4 58,4 58,5 49,1 65,2 57,0 72,4 59,9 59,5 50,1 64,7 59,6 74,7 60,5 60,7 52,9 66,0 60,0 69,7 60,9 61,0 81,4 90,2 88,4 84,9 89,0 85,7 83,5 94,8 89,2 83,5 88,8 87,5 82,3 93,0 86,4 83,1 87,5 86,0 81,9 94,0 87,8 83,9 91,0 86,5 83,5 93,5 91,4 85,6 92,6 88,0 Passando all’indicatore del numero di lavoratori coinvolti in carriere ‘mobili’ (Tab. 12.6), si osserva innanzitutto una maggiore stabilità del pattern di mobilità, che cresce durante tutto il periodo e indica che la riforma del mercato del lavoro ha inciso più sulla frequenza dei movimenti che sulla numerosità dei lavoratori sottoposti alle transizioni. In ogni caso, a livello nazionale tra il 1997 e il 2003 si rileva un incremento di 11 punti percentuali del tasso di riallocazione, che passa dal 34% al 43%. Dal punto di vista territoriale, si rileva che nelle regioni meridionali il tasso di riallocazione corre costantemente al di sopra della media delle altre aree e che, sebbene negli ultimi anni il differenziale di mobilità si sia ridotto, in queste regioni la percentuale di lavoratori che sperimentano almeno un movimento nell’anno resta nettamente superiore alla media. Le regioni centrali registrano una quota di lavoratori mobili in forte crescita, che alla fine del periodo portano l’indice di riallocazione di questa area poco al di sotto di quello del meridione e delle isole. Anche al nord est si rileva una crescita considerevole del TWR, che all’inizio del periodo risulta secondo solo alle regioni del sud mentre a partire dal 1999 viene superato dalle regioni del centro Italia. Nell’area nord occidentale del paese il numero di lavoratori coinvolti nelle transizioni cresce ad un ritmo sostenuto, pur confermandosi l’area con la minore incidenza di carriere mobili sul totale. In Toscana l’indicatore di riallocazione risulta tra i più elevati del paese e rileva una crescita di 11 punti percentuali nel pe308 riodo analizzato, di cui 9 maturati nell’ultimo quinquennio, posizionando la regione al di sopra della mobilità media nazionale e delle restanti regioni dell’Italia centrale. Tabella 12.6 Tasso di riallocazione. Macroaree e Toscana. 1986-2003. Valori % 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 Nord ovest 27,5 28,5 29,6 30,1 30,6 Nord est 34,8 36,0 36,5 36,6 36,2 Centro 33,4 33,7 34,8 33,6 34,3 Sud e isole 44,6 45,4 44,7 44,0 44,0 Toscana 33,7 34,3 34,4 33,3 34,4 Italia 34,0 34,9 35,5 35,3 35,5 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP 29,0 34,7 33,1 43,4 33,4 34,3 28,6 34,7 34,0 43,3 34,0 34,3 25,9 32,8 32,0 42,5 32,4 32,3 27,9 34,9 32,5 42,6 33,7 33,6 28,5 36,3 33,0 42,6 33,5 34,3 30,1 36,1 34,3 44,1 35,4 35,3 30,3 35,9 35,3 44,8 35,5 35,6 32,2 36,8 35,9 43,5 36,2 36,4 37,8 41,7 43,0 47,6 43,3 41,8 38,7 42,9 43,6 47,2 42,1 42,5 38,7 42,7 43,2 47,4 43,0 42,4 39,4 43,2 44,4 46,8 44,5 42,9 39,1 42,9 44,2 46,6 44,8 42,7 Scendendo al dettaglio della Toscana, è importante analizzare gli indicatori di mobilità a popolazione effettiva e a popolazione costante, in modo da verificare quale parte dell’aumento di mobilità sia da imputare ad un effetto di composizione demografica. In particolare si è ipotizzato che la composizione della popolazione per classe di età non sia mutata rispetto a quella rilevata nel 1986, primo anno per cui si dispone dei dati sulle carriere lavorative. Dal grafico 12.7 emerge che negli anni antecedenti alla riforma del mercato del lavoro entrambi gli indicatori a popolazione costante risultavano inferiori al valore effettivo, mentre successivamente tale relazione si inverte ed i tassi calcolati a popolazione costante divengono leggermente superiori a quelli effettivi. Questo effetto è da ricondurre in parte alla demografia delle forze di lavoro, che mostra importanti segnali d’invecchiamento, e alle caratteristiche della riforma stessa, che agendo sulle condizioni di accesso al mercato ha inciso principalmente sui giovani al primo ingresso nel mondo del lavoro. Mentre la generazione dei baby-boomers, molto pesante sul totale della popolazione, ha stabilizzato la propria presenza sul mercato, le generazioni dei più giovani sperimentano carriere mobili ma incidono sempre meno sulle forze di lavoro54. Il risultato è che, se i giovani toscani avessero mantenuto le stesse proporzioni registrate nel 1986, oggi il tasso di rotazione sarebbe superiore di circa due punti percentuali. In Toscana nel 1986 la quota di popolazione di età compresa tra i 15 ed i 29 anni rappresentava il 30,2% della popolazione attiva mentre nel 2003 tale percentuale era scesa al 22,9%. 54 309 Grafico 12.7 Tasso di rotazione e tasso di riallocazione a popolazione effettiva e a popolazione costante (anno base 1986). Toscana. 1986-2003. Valori % 100% GWT effettivo 80% GWT costante 60% TWR effettivo 40% TWR costante 20% 0% 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 Fonte: elaborazioni IRPET su dati ISTAT e WHIP Dal rapporto tra TWR e GWT emerge che la crescita dei movimenti indotta dalle norme sulla flessibilità è superiore all’aumento delle persone coinvolte nelle transizioni, che nei dati finora presentati coinvolgono sia i lavoratori tipici che gli atipici55, tra cui, dal 1998, i parasubordinati (co.co.co, contratti a progetto e prestazioni professionali). L’archivio WHIP, tuttavia, consente di distinguere le tipologie di contratto e quindi di verificare la mobilità di ciascuna categoria di lavoratori. Guardando alla composizione per tipologie contrattuali delle forze di lavoro toscane (Graf. 12.8), si rileva una graduale riduzione dei lavoratori a tempo indeterminato, che passano dal 74% nel 1998 al 63% nell’ultimo anno studiato. La perdita di posizioni stabili risulta compensata dalla crescita delle altre tipologie contrattuali, tutte a termine, ed in particolare dall’ampliamento dell’area dei contratti a tempo determinato, che aumentano la propria incidenza di 8 punti percentuali. Cresce anche il ruolo dei nuovi contratti introdotti dalla riforma Treu, come dimostra l’incremento delle prestazioni professionali e stagionali (+4 punti percentuali) e dei lavoratori con contratto interinale (+2 punti percentuali). L’area delle collaborazioni in senso stretto (co.co.co. e contratti a progetto), invece, rileva un’incidenza altalenante nel tempo, che all’inizio del periodo Sono stati considerati “tipici” i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, anche parttime, con contratto di formazione lavoro e gli apprendisti. Questa categoria di occupati, quindi, include anche una parte dei giovani con contratti a termine, mentre tra i contratti “atipici” sono conteggiati tutti gli altri rapporti di lavoro temporaneo, ovvero i contratti a tempo determinato, gli interinali, gli stagionali, le collaborazioni in senso stretto (collaborazioni coordinate e continuative o a progetto) e le attività professionali afferenti alle gestioni separate dell’INPS (amministratori, partecipanti a collegi e commissioni, ecc.). 55 310 corrisponde all’8% dei lavoratori totali, scende sotto il 5% negli anni seguenti e torna sui livelli di partenza nell’ultimo biennio. I contratti di apprendistato e di formazione lavoro, preesistenti alla riforma, riducono sensibilmente la propria incidenza, passando dal 9% dei rapporti in vigore nel 1998 all’8% di quelli presenti nel 2004. Questi dati sembrano dunque attestare il successo delle nuove forme contrattuali, che hanno ridotto significativamente l’area del lavoro a tempo indeterminato spostando l’attenzione sul tempo determinato e sulle nuove figure professionali. Grafico 12.8 Composizione dei lavoratori per tipologia contrattuale. Toscana. 1998-2003 100% Altro (stagionale e altri collaboratori) 80% Interinale 60% Collaborazione in senso stretto 40% Tempo determinato 20% Apprendistato e formazione lavoro 0% Indeterminato 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP I dati sulla mobilità per classe di età (Tabb. 12.9 e 12.10) registrano un’elevata mobilità tra i giovani, che riportano, per il 2003, un tasso di riallocazione del 60% e un tasso di rotazione del 120%. L’analisi delle serie storiche conferma l’aumento della mobilità delle generazioni in ingresso sul mercato del lavoro in seguito alla riforma del 1997, anche se ciò non comporta un incremento del differenziale di mobilità tra generazioni. Più in particolare, la stabilità delle relazioni di mobilità tra classi di età esclude un effetto specifico del pacchetto Treu sulla categoria dei giovani poiché, sia sul versante dei movimenti che su quello degli individui esposti alle transizioni, i differenziali di mobilità tra generazioni registrano un andamento decrescente durante l’intero periodo studiato, senza variazioni degne di nota negli anni post-riforma. Guardando allo scarto degli indici di mobilità dei giovani rispetto alla media, si osserva che nel 2003 lo scarto tra 311 generazioni si mantiene vicino ai valori del 1986 e si riduce sensibilmente rispetto a quelli del 1997, anno di approvazione della riforma. Tabella 12.9 Tasso di riallocazione per classi di età. Toscana. 1986-2003. Valori % 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 15-29 48,9 50,4 50,9 47,8 48,2 47,4 30-49 22,5 22,5 21,9 23,2 23,7 22,9 50+ 29,4 28,4 27,0 25,1 28,7 26,8 Totale 34,0 34,5 34,6 33,6 34,6 33,5 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP 47,3 24,0 30,0 34,2 44,8 23,6 30,4 32,6 46,3 23,9 36,3 33,8 48,3 24,3 28,9 33,7 49,1 26,2 37,6 35,7 51,6 26,9 30,6 35,8 54,1 32,9 41,2 40,9 59,0 34,9 42,4 43,7 57,9 34,2 39,5 42,5 59,0 35,2 40,8 43,3 59,7 37,4 42,8 44,8 60,3 37,3 44,1 45,0 Tabella 12.10Tasso di rotazione per classi di età. Toscana. 1986-2003. Valori % 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 15-29 83,4 87,0 86,0 82,9 83,2 83,9 30-49 38,3 39,2 38,2 39,5 41,2 38,9 50+ 41,2 38,8 38,4 34,8 40,7 37,4 Totale 56,5 58,3 57,9 56,6 58,5 57,2 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP 82,5 39,7 40,5 57,0 74,9 39,8 40,3 53,3 79,8 38,6 47,3 54,9 87,7 42,3 40,9 58,8 86,8 45,0 49,3 60,4 89,0 47,2 42,8 61,0 98,0 65,0 81,8 77,9 113,5 75,0 92,9 89,8 115,8 75,6 83,8 89,5 118,3 73,8 77,7 88,0 116,1 79,1 89,5 91,6 119,5 79,8 90,4 93,0 Passando all’analisi della mobilità per tipologia contrattuale (Tab. 12.11), i dati evidenziano chiaramente l’ampiezza dei differenziali tra di mobilità tra i ‘vecchi’ ed i nuovi contratti, dando una misura della flessibilità introdotta con le recenti riforme. Sul versante della numerosità dei movimenti, i lavoratori atipici riportano un turnover superiore al 220%, che significa che in ciascuno degli anni studiati questi lavoratori hanno sperimentato mediamente più di due movimenti e quindi due contratti di lavoro per anno. Inoltre, le transizioni degli atipici risultano oltre tre volte superiori a quelle dei lavoratori tipici, il cui turnover è elevato ma resta inferiore al 50%. Tabella 12.11Tasso di rotazione e tasso di riallocazione per tipologia di lavoratori. Toscana. 1998-2003. Valori % 1998 GWT tipici 49,9 GWT atipici 231,3 TWR tipici 31,4 TWR atipici 92,5 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP 1999 2000 2001 2002 2003 52,1 258,9 31,7 96,8 50,9 253,8 30,2 94,2 51,2 234,0 30,6 93,1 48,1 236,5 29,7 94,8 48,8 221,5 29,0 91,2 Passando all’indicatore di riallocazione, si osserva anche in questo caso una differenza sostanziale tra il numero di lavoratori ‘mobili’ con contratto di lavoro atipico, che rappresentano oltre 312 il 90% della categoria, e i lavoratori tipici, il cui turnover è circa un terzo di quello rilevato per gli atipici. In sostanza, nove occupati atipici su dieci sperimentano un’associazione o una separazione nel corso dell’anno mentre l’eventualità di tale movimento coinvolge meno di un terzo degli occupati standard. Il grafico 12.12 consente di evidenziare più chiaramente la dinamica del tasso di rotazione e di quello di riallocazione rispetto alle due categorie di lavoratori. Come si osserva, tra il 1998 e il 1999 gli indici di mobilità dei lavoratori atipici crescono in misura nettamente superiore a quelli dei lavoratori con contratti di tipo standard, soprattutto sul versante del turnover. Nel biennio successivo, tuttavia, gli indicatori di mobilità degli atipici subiscono una forte contrazione, che riporta entrambi gli indici sui valori registrati nel 1998. In questo biennio anche la mobilità dei dipendenti con contratto di lavoro ‘tipico’ si contrae facendo registrare nel 2002 dei risultati inferiori a quelli dell’inizio del periodo, con particolare riferimento alla quota di lavoratori ‘mobili’ che scende di 5 punti percentuali. Nel 2003, dopo un biennio di relativa stabilità, anche la mobilità dei lavoratori atipici crolla raggiungendo i livelli minimi del periodo. Sul versante dei lavoratori tipici, invece, si rileva un andamento contrastante dei due indicatori: l’indice di turnover mostra una leggera ripresa mentre la percentuale di lavoratori ‘mobili’ conferma una andamento decrescente. Questa circostanza segnala che, tra i lavoratori tipici si sta riducendo il numero di soggetti coinvolti in almeno una transizione nell’anno, ma per coloro che non sono inseriti in una posizione stabile aumenta la frequenza dei passaggi. Grafico 12.12Tasso di rotazione e tasso di riallocazione per tipologia di lavoratori. Toscana. 1998-2003. Numeri indice a base fissa (anno base 1998=100) 115 GWT tipici 110 GWT atipici 105 TWR tipici 100 TWR atipici 95 90 1998 1999 2000 2001 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP 313 2002 2003 Dopo aver osservato le differenze di mobilità tra i lavoratori giovani e meno giovani, tipici e atipici, vale la pena di analizzare anche la direzione della mobilità, distinguendo i movimenti verso il lavoro da quelli che portano all’inoccupazione, o meglio, all’estinzione dei contratti in essere (associazioni e separazioni). In sostanza, si tratta di scomporre il tasso di rotazione tra movimenti da e verso il lavoro e verificare quale delle due componenti ha pesato di più nella definizione della mobilità56. In questo caso, inoltre, è fondamentale distinguere l’età dei lavoratori, in modo da individuare le probabili uscite verso la pensione dei lavoratori più maturi da quelle dei più giovani verso l’inoccupazione. A livello nazionale, dall’archivio WHIP rileva che nel 2003 il tasso di associazione corrisponde al 45% e il tasso di separazione è pari al 43%, quindi il totale dei movimenti verso il lavoro è risultato leggermente superiore a quello delle separazioni. Per effetto della maggiore mobilità, in Toscana nel 2003 si registrano dei tassi superiori a quelli rilevati dalla media nazionale, ma il differenziale tra assunzioni e separazioni risulta pari a 2 punti percentuali a favore delle assunzioni, in linea con la media italiana. La maggiore mobilità della Toscana rispetto alla media, quindi, è da imputare a una maggiore intensità di transizioni in entrambe le direzioni. Le tabelle 12.13 e 12.14 descrivono più dettagliatamente la situazione della Toscana, evidenziando il ruolo propulsivo dei più giovani nel trainare la mobilità complessiva. Come atteso, sul versante delle associazioni la mobilità dei giovani risulta abbondantemente superiore di quella delle altre classi di età anche se, con l’introduzione dei contratti flessibili, il differenziale del tasso di associazione per età si riduce significativamente. Tra il 1997 e il 1998, infatti, il tasso di associazione dei più giovani sale di 4 punti percentuali, mentre quello dei lavoratori nella fascia centrale cresce di 10 punti e quello dell’ultima fascia aumenta di oltre 20 punti percentuali. L’introduzione dei contratti flessibili, quindi, ha comportato un aumento del tasso di associazione soprattutto nelle classi di età meno giovani ed in particolare tra gli ultra 50enni, che alla fine della propria carriera possono beneficiare della nuova gamma di contratti flessibili. Questa scomposizione potrebbe anche essere fatta sull’indicatore di riallocazione, permettendo così di individuare la quota di assunti e di separati nell’anno di riferimento. 56 314 Tabella 12.13Tasso di associazione per classe di età. Toscana. 1986-2003. Valori % 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 15-29 45,2 46,6 47,4 45,4 44,9 44,2 30-49 18,2 18,3 18,9 19,7 20,4 19,2 50+ 14,3 13,7 14,1 11,6 15,1 11,7 Totale 28,3 29,0 30,0 29,0 29,7 28,4 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP 43,1 19,1 12,6 27,8 38,1 18,5 12,6 25,2 43,0 19,7 14,3 27,5 48,2 21,5 15,8 30,6 46,0 22,6 15,2 30,0 48,7 23,2 16,2 31,1 52,6 33,4 37,1 40,1 62,3 39,0 43,3 47,1 63,7 39,8 39,1 47,3 64,1 38,3 36,1 46,0 63,9 42,5 43,1 49,0 63,9 40,3 42,8 47,6 Come anticipato, l’andamento del tasso di separazione per classe di età consente di distinguere le possibili uscite dei lavoratori verso la pensione dai movimenti interni al mercato del lavoro. Si osservi, inoltre, che la dinamica del tasso di separazione degli ultra 50enni è influenzata dalle ondate di pensionamenti legate alle riforme pensionistiche, oltre che alla progressiva uscita delle coorti di lavoratori figli del baby-boom degli anni ‘50. Quanto agli effetti della riforma del mercato del lavoro, si osserva che a partire dal 1997 e fino al 1999 i tassi di separazione dei lavoratori segnano un aumento considerevole in tutte le fasce di età e che l’incremento più consistente riguarda, oltre agli over 50, la fascia di età centrale (+23 punti percentuali rispetto al dato del 1997). Anche per i giovani si registra un aumento di oltre 10 punti percentuali del tasso di separazione, che continua a crescere anche negli ultimi anni studiati, fino a raggiungere il 56% nel 2003. Tabella 12.14Tasso di separazione per classe di età. Toscana. 1986-2003. Valori % 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 15-29 38,2 40,4 38,6 37,5 38,3 39,7 30-49 20,0 20,9 19,3 19,9 20,8 19,6 50+ 26,9 25,2 24,2 23,1 25,6 25,8 Totale 28,2 29,3 28,0 27,6 28,7 28,8 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP 39,5 20,6 27,9 29,2 36,8 21,3 27,8 28,1 36,8 18,9 33,0 27,4 39,5 20,8 25,1 28,2 40,8 22,4 34,1 30,4 40,3 24,0 26,7 29,9 45,4 31,7 44,7 37,8 51,2 36,0 49,6 42,7 52,2 35,8 44,7 42,2 54,1 35,5 41,6 42,1 52,2 36,6 46,5 42,6 55,6 39,5 47,7 45,4 Nella disaggregazione degli indicatori di mobilità vale la pena di analizzare anche la dimensione di genere per verificare la distribuzione degli effetti prodotti dalla maggiore mobilità degli ultimi anni. Come si osserva nel grafico 12.15, le donne rilevano tassi di mobilità superiori a quelli dei colleghi maschi durante tutto l’arco temporale di riferimento, sia sul fronte della frequenza delle transizioni contrattuali che rispetto alla probabilità di appartenere alla categoria dei lavoratori mobili. Successivamente alla riforma, tuttavia, i differenziali di mobilità per genere si attenuano, soprattutto rispetto all’indice di riallocazione, che nel 315 2003 registra un valore superiore a quello degli uomini di soli due punti percentuali. Va osservato, inoltre, che la riduzione dei divari di genere della mobilità mostrano una tendenza al riallineamento già a partire dagli anni ‘90 in contemporanea al progressivo incremento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro, una circostanza che porta ad escludere un ruolo decisivo della nuova disciplina contrattuale nel contenimento degli storici squilibri di genere in ambito occupazionale. Grafico 12.15 Tasso di rotazione e tasso di riallocazione per genere. Toscana. 1986-2003. Valori % 100% GWT femmine 80% GWT maschi 60% TWR femmine 40% TWR maschi 20% 0% 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Un ultimo aspetto che merita di essere analizzato è quello relativo alla cittadinanza dei lavoratori. Nell’ultimo ventennio, infatti, nonostante la repentina evoluzione del fenomeno dell’immigrazione, gli indicatori di mobilità dei lavoratori stranieri in Toscana mostrano dei risultati costantemente superiori a quelli degli italiani ed elevati in termini assoluti (Graf. 12.16). Più in particolare, il tasso di rotazione dei cittadini stranieri mostra valori superiori al 100% durante l’intero periodo studiato e nel 2003 il GWT raggiunge quota 121%, mentre nello stesso anno l’indicatore corrisponde all’88% per il gruppo dei lavoratori italiani. Anche il tasso di riallocazione conferma la forte mobilità dei lavoratori immigrati, che nel 2003 hanno sperimentano almeno un movimento nell’anno nel 63% dei casi (per gli italiani il TWR del 2003 corrisponde al 42%). Quanto all’andamento dei due indicatori nel tempo, si rileva una maggiore instabilità delle curve associate agli stranieri, caratterizzate da continue oscillazioni, che tuttavia mostrano una scarsa sensibilità alla riforma del lavoro del 1997. Più evidenti, invece, appaiono le variazioni di 316 mobilità in corrispondenza delle regolarizzazioni dei lavoratori immigrati varate dai Governi nell’ultimo decennio. Tra il 1986 e il 2003, infatti, in Italia si sono succedute cinque sanatorie, che hanno sancito l’accesso alla regolarità per quasi un milione e mezzo di cittadini stranieri57. Grafico 12.16 Tasso di rotazione e tasso di riallocazione per cittadinanza. Toscana. 1986-2003. Valori % 150% GWT italiani 125% 100% GWT stranieri 75% TWR italiani 50% TWR stranieri 25% 0% 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP La scarsa reattività della mobilità dei lavoratori stranieri alla riforma del mercato, comunque, può essere spiegata dall’elevata flessibilità sperimentata da questo gruppo di lavoratori durante l’intero periodo studiato, che restituisce l’immagine di una componente strutturalmente molto mobile. Guardando alla dinamica di crescita dei lavoratori atipici, infatti, tra gli immigrati si registra una crescita più che proporzionale di questa categoria di occupati rispetto al gruppo dei lavoratori con contratti standard (Tab. 12.17). Nonostante la crescita esponenziale dei lavoratori atipici stranieri, tuttavia, negli ultimi anni si osserva un rallentamento della loro incidenza sul totale, mentre tra gli italiani la crescita degli stessi è costante. Come mostrato nel grafico 12.18, infatti, tra il 2002 ed il 2003 la percentuale di atipici tra i lavo Più in particolare, la prima regolarizzazione del periodo è avvenuta nel 1986, quando si sono aperte le porte della legalità a circa 105.000 lavoratori stranieri. Nel 1990, in concomitanza con la prima legge che ha affrontato in maniera diretta la materia dell’immigrazione (L. 39/1990 detta Legge Martelli), sono stati regolarizzati oltre 215mila lavoratori e, successivamente, con il Decreto Dini del 1995 sono state sanate più di 250mila posizioni di lavoro. Le ultime due sanatorie corrispondono rispettivamente all’entrata in vigore della L. 40/1998 detta Legge Turco Napolitano, con la quale è stata prevista la regolarizzazione di altri 250mila immigrati, e della L. 189/2002 conosciuta come Legge Bossi Fini, che ha sanato la posizione legale di quasi 635mila lavoratori immigrati. A questi provvedimenti si aggiunge la sanatoria delle collaboratrici domestiche varata nel 2009 e per la quale sono giunte circa 295.000 domande. 57 317 ratori stranieri è scesa al di sotto della soglia degli italiani, per tornare sullo stesso livello nel 2004, quando in Toscana un lavoratore su quattro era occupato con un contratto non standard a prescindere dalla propria nazionalità. Tabella 12.17Lavoratori stranieri per tipologia di contratto. Toscana. 1998-2003. Numeri indice a base fissa (anno base 1998=100) 1998 Lavoratori atipici 100 Lavoratori tipici 100 Totale 100 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP 1999 2000 2001 2002 2003 2004 127 120 121 174 138 145 215 165 175 261 217 226 326 244 260 352 246 266 Grafico 12.18Incidenza dei lavoratori atipici per cittadinanza. Toscana. 1998-2003. Valori % 30% 24% 18% 12% 6% 0% 1998 Italiani 1999 2000 2001 2002 2003 Stranieri 2004 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Dai dati disponibili nell’archivio WHIP emerge, quindi, che la componente straniera dei lavoratori toscani costituisce un elemento di forte mobilità, anche se, contemporaneamente al processo di stabilizzazione dell’immigrazione, alcune differenze iniziano a stemperarsi. Gli elevati tassi di mobilità confermano, comunque, una diffusa instabilità delle carriere dei migranti che, se non accompagnate da una maggiore frequenza di transizioni job-to-job, potrebbero determinare serie difficoltà nel mantenimento dello status di regolarità in Italia. Al fine di analizzare più dettagliatamente l’influenza delle riforme sul mercato del lavoro toscano e le tendenze occupazionali degli ultimi anni, nel prossimo capitolo saranno analizzate le carriere lavorative degli occupati in Toscana, dedicando un’attenzione particolare alle categorie che sperimentano maggiori difficoltà a collocarsi sul mercato, ovvero i giovani, le donne e gli immigrati. 318 13. La dinamica delle carriere tra persistenza e discontinuità 13.1 Premessa Come evidenziato nei capitoli precedenti donne, giovani (soprattutto atipici) e immigrati rappresentano i soggetti protagonisti della crescita occupazionale dell’ultimo quindicennio. L’obiettivo di questo capitolo è quello di studiare le carriere di questi soggetti esordienti nel mercato del lavoro attraverso i dati del Work Histories Italian Panel (WHIP)58. L’ipotesi è che l’accresciuta mobilità riscontrata nel mercato del lavoro a partire dalla fine degli anni ‘90 si sia concentrata prevalentemente su queste tre categorie di lavoratori, le cui carriere occupazionali mostreremo essere caratterizzate da una maggiore discontinuità contrattuale (misurata attraverso la durata dei contratti) e occupazionale (misurata attraverso la frequenza dei passaggi all’inoccupazione, la durata e il numero degli episodi di inoccupazione). Poiché la documentazione dettagliata di tutte le storie lavorative è circoscritta al settore privato extragricolo (non sono incluse le esperienze di lavoro come dipendente pubblico, né come libero professionista) e alla disoccupazione indennizzata, è opportuno precisare che la condizione di non occupazione potrebbe essere imputabile a condizioni estremamente differenziate, ossia di definitiva uscita dal mercato del lavoro in qualità di inattivo, oppure a situazioni di disoccupazione non indennizzata oppure a episodi di occupazione non osservabile tramite WHIP (il passaggio alla Pubblica Amministrazione, al settore agricolo, alla libera professione ad esempio). Per ovviare ai possibili effetti distorsivi collegati a tali specificità dell’archivio, sono state eliminate dall’analisi le storie lavorative nelle quali i periodi di non lavoro erano pari a 30 mesi sui complessivi 72 mesi di osservazione (ossia due anni e mezzo su sei). 58 In questo capitolo si riportano i risultati delle elaborazioni statistiche realizzate sui dati contenuti nella versione 3.2 di WHIP presentata il 4 maggio scorso. Per le novità dell’attuale versione rispetto al precedente rilascio (Whip v. 2.3) si rimanda a Leombruni, Quaranta e Villosio (2010). 319 13.2 Tipici e atipici a confronto L’analisi è condotta su due gruppi definiti di lavoratori in Toscana: i giovani (15-35 anni) entranti nel mercato del lavoro nel 199959, ossia che non sono stati mai osservati negli anni precedenti disponibili nell’archivio (dal 1985 al 1998), e gli adulti (3650 anni) che nel 1999 hanno iniziato un contratto di lavoro (indipendentemente dal fatto di essere o meno esordienti). Se osserviamo le tipologie contrattuali, solo nel 29% dei casi il primo contratto per gli esordienti è risultato essere quello a tempo indeterminato, mentre prevalgono gli ingressi con rapporti di lavoro a termine, che già nel 1999 rappresentavano quasi il 60%. In larga maggioranza si tratta di ingressi con contratti di apprendistato (24%), a tempo determinato (16%), seguono i contratti di formazione-lavoro60 (8%), le collaborazioni (7%), il lavoro stagionale e quello interinale con valori di poco inferiori al 3%. L’ingresso nel mercato del lavoro con un lavoro autonomo in qualità di artigiano o commerciante riguarda circa il 10% dei giovani. Ovviamente al crescere dell’età aumenta la probabilità di aver accesso ad un lavoro in forma stabile, tant’è che tra gli adulti la quota di contratti tipici avviati nel 1999 sale al 44%, mentre si riduce quella dei contratti a termine (29%). Non molto dissimile è l’incidenza degli autonomi (poco più del 10%), mentre è decisamente più rilevante la quota di quanti hanno un contratto come altri contribuenti alla gestione separata, che probabilmente è indicativa di soggetti che in realtà svolgono altre professioni non rilevabili da WHIP (in particolare la libera professione) (Tab. 13.1). In termini di durate contrattuali, non emergono differenze particolarmente apprezzabili tra gli entranti giovani e gli adulti presenti: per quanto riguarda i primi poco più della metà dei contratti avviati nel 1999 si esaurisce entro dodici mesi e quasi i 2/3 entro i primi due anni. La variabile che invece sembra fare è stato scelto come anno di inizio il 1999 per poter osservare i possibili riflessi sulla mobilità del lavoro e sulle traiettorie occupazionali dei lavoratori all’indomani dell’introduzione del cosiddetto Pacchetto Treu del 1997, con il quale ha inizio il processo di deregolamentazione del mercato del lavoro in Italia. 60 A partire dalla Legge 30/2003 (e successive modifiche), il contratto di formazione lavoro è stato sostituito dal contratto di inserimento che si rivolge oltre che ai giovani anche a una serie di categorie deboli (giovani, donne, non occupati over 50) da inserire o reinserire nel mercato del lavoro. Il contratto di formazione lavoro rimane tuttavia una fattispecie contrattuale applicabile solo nell’ambito della Pubblica amministrazione. 59 320 la differenza è la tipologia contrattuale, come è evidente nel grafico 13.2, per cui a curve più elevate corrispondono durate contrattuali inferiori. Con l’esclusione del lavoro autonomo, che sembra rappresentare la tipologia lavorativa più stabile, per cui dopo tre anni ancora quasi l’80% è occupato in quella posizione, negli altri casi si registrano durate piuttosto brevi, sia tra i contratti atipici ma anche tra quelli tipici. Si va dalle durate minime per le collaborazioni, il lavoro stagionale e l’interinale, che si esauriscono per circa il 90% nel primo anno, seguono i contratti a tempo determinato (70%) e decisamente distaccati l’apprendistato (50%) e la formazione-lavoro (26%). Per i contratti a tempo indeterminato la quota si riduce al 48%. Tabella 13.1 LAVORATORI ENTRANTI E PRESENTI PER TIPOLOGIA CONTRATTUALE. TOSCANA. Valori % Entranti 15-35 anni Presenti 36-50 anni Tipico Indeterminato Indeterminato part time 29,4 22,5 6,9 44,3 35,9 8,5 Atipico Tempo determinato Apprendistato Formazione-lavoro Interinale Stagionale Collaborazione 59,8 15,8 24,2 7,9 2,5 2,6 6,9 28,8 15,5 0,1 0,4 3,6 9,2 9,7 1,1 100,0 10,4 16,5 100,0 Autonomi (artigiani e commercianti) Altri contribuenti alla gestione separata TOTALE Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP L’analisi delle durate contrattuali tra i lavoratori adulti non è molto dissimile, con livelli senza dubbio superiori, ma non particolarmente distanti da quelli rilevati per i più giovani: complessivamente il 45% dei contratti attivati nel 1999 da parte di lavoratori adulti si esaurisce entro l’anno (contro il 51,4% dei giovani), il 55% entro i primi due anni (contro il 64% dei giovani). Le durate più brevi contraddistinguono anche in questo caso le collaborazioni (il 91% finisce entro un anno), il lavoro stagionale (89%), l’interinale (89%), mentre quelle più lunghe si riscontrano nei contratti tipici (32%). Di nuovo si conferma la maggiore stabilità per il lavoro autonomo (Graf. 13.2). 321 Grafico 13.2 DURATE DEI CONTRATTI ATTIVATI NEL 1999 PER TIPOLOGIA. TOSCANA. % cumulate Entranti 15-35 anni 100 80 60 40 20 0 1-2 mesi 3-4 mesi 5-6 mesi 7-12 mesi Collaborazione Apprendistato Indeterminato Presenti 36-50 anni 13-18 mesi 19-24 mesi 25-36 mesi Contratti a termine (det+stag+inter) Formazione-lavoro 100 80 60 40 20 0 1-2 mesi 3-4 mesi 5-6 mesi 7-12 mesi 13-18 mesi 19-24 mesi 25-36 mesi Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP In generale si può affermare che all’aumentare dell’età aumentano anche le durate contrattuali indipendentemente dalla tipologia del rapporto di lavoro; i contratti atipici hanno durate decisamente inferiori rispetto a quelli tipici, soprattutto nel caso dei più giovani61; anche i contratti tipici, che solitamente associamo a elevati livelli di stabilità, in realtà sono soggetti a frequenti interruzioni. Come si nota in Berton et al. (2009), la discontinuità contrattuale associata alla breve durata dei contratti, soprattutto di quelli atipici, non necessariamente implica maggiori probabilità di accesso alla disoccupazione o all’inattività, se i passaggi da un contratto all’altro, soprattutto in modalità job-to-job, sono sufficientemente frequenti da compensare la minore durata dei contratti. In parte una breve durata dei contratti e quindi una maggiore discontinuità contrattuale può essere connaturata alla fase iniziale di ingresso nel mercato del lavoro, quando soprattutto i contratti flessibili sono utilizzati come finalità formative oppure come opportunità di esplorazione del mercato del lavoro. 61 322 In realtà solo una quota contenuta di lavoratori sembra aver effettuato transizioni job-to-job alla fine del contratto, senza affrontare quindi un periodo di inoccupazione: 11,4% tra gli esordienti giovani, 13,5% tra gli adulti già presenti, con l’unica eccezione rappresentata dai collaboratori che mostrano valori superiori al 40%. L’altro dato da segnalare è che nel caso dei lavoratori adulti la frequenza delle transizioni job-to-job è più elevata rispetto ai giovani, sia nelle principali tipologie contrattuali a termine (con l’esclusione del lavoro stagionale), sia nei lavori a tempo indeterminato (Tab. 13.3). Tabella 13.3 QUOTA DI LAVORATORI CHE HANNO EFFETTUATO UN PASSAGGIO JOB TO JOB. TOSCANA. % su quanti sono stati disoccupati almeno una volta Entranti 15-35 anni Presenti 36-50 anni 7,9 7,2 12,2 6,8 11,3 8,4 41,1 11,4 9,2 7,9 2,8 0,0 45,2 13,5 Indeterminato Tempo determinato Stagionale Interinale Apprendistato Formazione-lavoro Collaborazione TOTALE Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Per poter affermare che le carriere atipiche siano caratterizzate, oltre che da episodi lavorativi con durate contrattuali inferiori rispetto ai lavoratori tipici, anche da una maggiore discontinuità occupazionale, è necessario prendere in esame anche la frequenza degli episodi di inoccupazione nella finestra temporale di osservazione e la durata degli stessi. Osservando le percentuali cumulate nel grafico 13.4 (e ricordando che a curve più elevate corrisponde un numero inferiore di episodi di in occupazione), si nota innanzitutto come tra i giovani le carriere caratterizzate da un maggior numero di interruzioni lavorative siano più frequenti rispetto agli adulti già presenti nel mercato del lavoro: tra i primi infatti circa i 2/3 ha avuto 1 o 2 episodi di inoccupazione a fronte del 59% per gli adulti. In secondo luogo le differenze contrattuali risultano significative, con un dato particolarmente negativo, sia tra i giovani che tra gli adulti, per le collaborazioni. 323 Grafico 13.4 NUMERO DI EPISODI DI IN OCCUPAZIONE. TOSCANA. % cumulate Entranti 15-35 anni % cumulate 100 80 60 40 20 1 2 3 Episodi inoccupazione 4 Collaboraz. in senso stretto Apprendistato Indeterminato Presenti 36-50 anni 5 Tempo determinato Formazione e lavoro % cumulate 100 70 40 10 1 2 3 Episodi inoccupazione 4 5 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Una seconda indicazione ci viene fornita dalle durate degli episodi di inoccupazione. Nel caso dei giovani in ingresso al lavoro, solo il 45% degli episodi di inoccupazione termina entro i primi 12 mesi e poco più di 2/3 entro i primi due anni: Non si discostano in maniera significativa dalla media le durate per i lavoratori tipici, i titolari di un contratto di formazione-lavoro e di apprendistato; viceversa si registrano tempi di rientro più elevati nel caso degli altri contratti a termine, segnalando dunque anche una maggiore frequenza di situazioni di inoccupazione di lunga durata. Ancora più marcate risultano le differenze nella componente adulta della forza lavoro: complessivamente poco più del 35% dei periodi di inoccupazione si esaurisce nel primo anno, l’82% entro i primi due anni. Nel caso dei lavoratori a termine le percentuali risultano più contenute soprattutto in riferimento a periodi superiori ai 12 mesi: nel secondo anno rientra al lavoro solo il 44% degli interinali, il 63% degli stagionali, il 73% dei collaboratori, il 74% dei lavoratori a tempo determinato a fronte dell’89% dei lavoratori stabili full time e dell’83% dei part timers (Tab. 13.5). 324 Tabella 13.5 DURATE DEI PERIODI DI IN OCCUPAZIONE. TOSCANA. % cumulate Entranti Fino a 6 mesi Fino a 12 mesi Fino a 24 mesi Tipici Indeterminato 24,8 Indeterminato part time 17,1 Atipici Tempo determinato 12,9 Stagionale 10,2 Interinale 13,0 Apprendistato 17,5 Formazione-lavoro 28,6 Collaborazione 14,7 Altri contribuenti alla 0,0 gestione separata Autonomo 37,8 TOTALE 20,5 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Presenti Fino a 6 mesi Fino a 12 mesi Fino a 24 mesi 47,5 44,2 67,8 69,8 21,8 22,7 37,9 36,6 88,9 83,1 32,7 28,6 41,3 44,6 66,7 29,5 63,6 49,0 67,4 69,2 79,6 55,0 18,7 9,6 22,2 13,4 37,0 24,7 33,3 23,5 74,1 63,0 44,4 73,3 14,3 47,6 12,8 25,0 74,4 61,1 44,8 69,4 67,1 36,5 20,2 54,5 35,5 92,4 81,5 In conclusione, emerge come la minore durata contrattuale in capo ai lavoratori a termine significa anche una maggiore discontinuità occupazionale, che si traduce in una maggiore durata media degli episodi di inoccupazione, ma soprattutto in un numero di mesi trascorsi in stato di inoccupazione superiore rispetto a quanto rilevato per i lavoratori tipici. Tali evidenze risultano ancora più accentuate nella componente adulta della forza lavoro (Tab. 13.6). Tabella 13.6 DURATE MEDIE DEI CONTRATTI E MESI TRASCORSI IN INOCCUPAZIONE/OCCUPAZIONE. TOSCANA Tipici Indeterminato 24,2 Indeterminato part time 27,8 Atipici Tempo determinato 14,6 Stagionale 5,5 Interinale 7,3 Apprendistato 22,8 Formazione-lavoro 37,4 Collaborazione 4,4 Altri contrib. alla 2,6 gestione separata Autonomo 54,5 TOTALE 24 Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Mesi trascorsi come inoccupato Mesi trascorsi come occupato N. medio episodi inoccupazione Durata media dei contratti (mesi) Mesi trascorsi come inoccupato Presenti Mesi trascorsi come occupato N. medio episodi inoccupazione Durata media dei contratti (mesi) Entranti 2,2 2,2 56,9 57,3 15,1 14,7 35,6 32,4 2,1 2,2 64,2 61,1 7,8 10,9 2,4 2,5 2,4 2,3 1,9 2,6 53 49 54,1 55,6 60,9 53,9 19 23 17,9 16,4 11,1 18,1 17,6 8,6 6,3 2,4 3 2,5 56,6 52,1 47,7 15,4 19,9 24,3 5,2 3,2 58 14 4,3 55,5 16,5 6,8 4,6 58,3 13,7 1,1 2,2 63,9 56,5 8,1 15,5 56,8 26,1 1,2 2,4 65,9 60,9 6,1 11,1 325 Diventa dunque essenziale, soprattutto all’aumentare dell’età, la transizione al lavoro stabile entro breve termine. Infatti, se il mercato del lavoro locale non costituisce una garanzia affidabile contro i rischi connessi all’instabilità del lavoro, altrettanto fragili risultano essere i meccanismi pubblici di protezione sociale, poiché il nostro sistema di welfare non prevede efficaci strumenti di sostegno al reddito in caso di disoccupazione per coloro che hanno contratti a termine e spesso la brevità dei contratti rende impossibile godere delle (poche) tutele previste dalla legge. 13.3 Quali differenze di genere? Tra i lavoratori presenti con un nuovo contratto avviato nel 1999 poco più del 40% è rappresentato da donne, concentrate in larga maggioranza nei servizi (oltre il 70% a fronte del 41% per i maschi), con una netta prevalenza di rapporti di lavoro a termine (il 53% contro il 42% degli uomini) e una maggiore incidenza dei contratti stabili part time (11% contro il 3%) (Tab. 13.7). Tabella 13.7 LAVORATORI 15-50 ANNI PRESENTI PER GENERE E TIPOLOGIA CONTRATTUALE. TOSCANA. Valori % Tipici Indeterminato Indeterminato par time Atipici Tempo determinato Stagionale Interinale Apprendistato Formazione-lavoro Collaborazione Altri contribuenti alla gestione separata Autonomo (artigiani e commercianti) TOTALE Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Femmine Maschi 23,5 11,3 36,1 3,3 20,2 5,1 1,1 11,5 4,3 10,6 5,2 7,1 100,0 13,0 2,9 1,4 12,1 5,6 7,1 9,4 9,1 100,0 Ciononostante non emergono differenze di genere così evidenti nelle durate contrattuali: per le donne il 54% si conclude entro i primi dodici mesi contro il 52% degli uomini; per entrambi circa i 2/3 si esauriscono entro due anni (Graf. 13.8). Allo stes326 so modo risultano sostanzialmente allineate le frequenze di passaggi job-to-job (poco più del 15% in entrambi i casi). Grafico 13.8 DURATE DEI CONTRATTI ATTIVATI NEL 1999 PER GENERE. TOSCANA. % cumulate 75 % cumulate 65 55 45 35 Femmine 25 15 0-2 mesi 3-4 mesi 5-6 mesi 7-8 mesi 9-10 mesi 11-12 mesi 13-14 mesi 15-16 mesi 17-18 mesi 19-20 mesi Maschi 21-22 mesi 23-24 mesi 25-36 mesi Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Se dal punto di vista della discontinuità contrattuale le donne non sembrano essere particolarmente svantaggiate rispetto agli uomini, in termini di esiti occupazionali, tuttavia, si rileva una più elevata frequenza di passaggi all’inoccupazione, rispettivamente 7,8% contro 5,6% per gli uomini, e al contempo minori risultano essere i passaggi da rapporti di lavoro a termine verso la stabilizzazione lavorativa sia come occupati dipendenti (rispettivamente 48% e 52%) sia come autonomi (rispettivamente 8% e 15%) (Tab. 13.9). Tabella 13.9 DONNE E UOMINI CHE HANNO LAVORATO ALMENO 30 MESI PER GENERE E ESITO OCCUPAZIONALE 4 ANNI DOPO. TOSCANA Inoccupato Da atipico a tipico Da atipico a autonomo Da tipico a atipico Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Maschi Femmine 5,6 51,8 14,6 12,0 7,8 47,6 7,7 17,7 La maggiore probabilità delle donne di passare all’inoccupazione non si traduce in un numero più elevato di interruzione dei rapporti di lavoro (Tab. 13.10), tuttavia tali episodi sono caratterizzati nel caso delle donne da durate complessivamente più elevate (a curve più elevate infatti corrispondono durate inferiori) (Graf. 13.11): poco meno del 60% termina entro i primi dodici mesi e il 78% entro i primi due anni contro il 54% e l’82% per le donne. 327 Tabella 13.10NUMERO DI EPISODI DI INOCCUPAZIONE PER GENERE. TOSCANA 0 1 2 3e+ Numero medio Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Femmine Maschi 34,1 25,7 16,8 23,5 1,6 35,1 25,3 15,2 24,3 1,6 Grafico 13.11DURATE DEI PERIODI DI INOCCUPAZIONE PER GENERE. TOSCANA. % cumulate % cumulate 100 80 60 40 20 <2 mesi Femmine 3-4 mesi 5-6 mesi 7-8 mesi 9-10 mesi 11-12 mesi 13-14 mesi 15-16 mesi 17-18 mesi 19-20 mesi Maschi 21-22 mesi 23-24 25-36 mesi mesi Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Complessivamente le carriere al femminile non sembrano distinguersi per una maggiore discontinuità contrattuale, tuttavia risultano essere caratterizzate da più elevate probabilità di passaggi all’inoccupazione e soprattutto dalla presenza di interruzioni lavorative di durata senza dubbio superiore rispetto a quanto rilevato per la componente maschile. 13.4 Quanto pesa la cittadinanza? La terza componente della forza lavoro che ha influito maggiormente sulle dinamiche del mercato del lavoro nell’ultimo ventennio è senza dubbio rappresentata dai lavoratori stranieri. Come evidenziato nel capitolo precedente, gli indicatori di mobilità mostrano livelli superiori per gli stranieri rispetto alla componente italiana, che evidentemente risulta essere più radicata sul territorio e più selettiva rispetto al tipo di lavoro da svolgere. L’analisi verrà svolta osservando le carriere dei lavoratori stranieri presenti in età 15-50 anni, che nel 1999 hanno attivato 328 un contratto osservabile nell’archivio WHIP. Si tratta di circa il 12% della popolazione complessivamente osservata, con una struttura per età più giovane e una netta prevalenza di rapporti di lavoro stabili full time (rispettivamente 43% e 29%). Il dato è presumibilmente imputabile alla concentrazione settoriale e professionale dei lavoratori immigrati, largamente impiegati in attività strutturali per il ciclo produttivo e per le quali risultava difficoltoso trovare la disponibilità da parte della componente autoctona della forza lavoro (Tab. 13.12). Tabella 13.12LAVORATORI ITALIANI E STRANIERI 15-50 ANNI PRESENTI PER TIPOLOGIA CONTRATTUALE. TOSCANA Tipici Indeterminato Indeterminato part time Atipici Tempo determinato Stagionale Interinale Apprendistato Formazione-lavoro Collaborazione Altri contribuenti alla gestione separata Autonomo (artigiani e commercianti) TOTALE Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Italiani Stranieri 29,2 6,4 42,8 8,4 16,1 3,7 1,1 12,4 5,0 9,1 8,2 8,6 100,0 15,2 4,8 2,3 7,8 5,4 4,3 3,3 5,8 100,0 Ciononostante la storia lavorativa è contrassegnata da durate contrattuali inferiori rispetto agli italiani, come mostra la curva più elevata: il 58% si conclude entro il primo anno contro il 52% degli italiani; il 70% entro i primi due anni contro il 63% degli italiani (Graf. 13.13). Inferiori risultano essere anche i passaggi job-to job, che hanno interessato poco più del 10% degli stranieri contro il 16,4% per gli italiani. Come già evidenziato nei paragrafi precedenti non necessariamente minori durate contrattuali implicano carriere lavorative più discontinue, se queste sono associate ad un minor numero di episodi di inoccupazione e con durata contenuta. A tal riguardo, se guardiamo gli esiti occupazionali a distanza di 4 anni dall’avvio del contratto nel 1999, si rileva una probabilità quasi doppia per gli stranieri di transitare verso una situazione di inoccupazione: (5,9% contro il 10,6% degli italiani), con livelli superiori per tutte le tipologie contrattuali di partenza (Tab. 13.14). 329 Grafico 13.13DURATE DEI CONTRATTI ATTIVATI NEL 1999. TOSCANA. % cumulate 90 70 50 30 10 <2 mesi Italiani 3-4 mesi 5-6 mesi 7-8 mesi 9-10 mesi 11-12 mesi 13-14 mesi 15-16 mesi 17-18 mesi 19-20 mesi Stranieri 21-22 mesi 23-24 mesi 25-36 mesi Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Tabella 13.14ITALIANI E STRANIERI CHE HANNO LAVORATO ALMENO 30 MESI PER ESITO OCCUPAZIONALE 4 ANNI DOPO. TOSCANA Inoccupato Stranieri Tipici Atipici Autonomi+altri contribueni TOTALE Italiani Tipici Atipici Autonomi+altri contribueni TOTALE Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Occupato a Occupato a tempo Autonomo+altri termine indeterminato contribuenti Totale 11,8 10,1 6,3 10,6 11,1 26,7 8,8 17,1 58,1 50,3 12,5 50,9 18,9 12,9 72,5 21,4 100,0 100,0 100,0 100,0 5,9 6,5 4,3 5,9 14,8 32,6 9,1 22,3 69,1 49,7 14,0 50,6 10,1 11,1 72,6 21,1 100,0 100,0 100,0 100,0 Una maggiore frequenza di passaggi verso l’inoccupazione si traduce anche in un numero più elevato di episodi di inoccupazione con durate decisamente più elevate (curve più elevate infatti indicano durate inferiori): nel caso dei lavoratori italiani, circa i 2/3 termina entro i primi 12 mesi e oltre l’80% entro i primi due anni; per gli stranieri rispettivamente il 54% e il 75% (Graf. 13.15). In conclusione, emerge come la minore durata contrattuale in capo ai lavoratori stranieri significa anche una maggiore discontinuità occupazionale, che si traduce in un numero maggiore di episodi di inoccupazione, con durata media superiore, e un numero di mesi trascorsi in stato di inoccupazione superiore rispetto a quanto rilevato per i lavoratori italiani (Tab. 13.16). 330 Grafico 13.15DURATE DEI PERIODI DI INOCCUPAZIONE ITALIANI E STRANIERI. TOSCANA. % cumulate 90 70 50 30 10 0-2 mesi Italiani 3-4 mesi 5-6 mesi 7-8 mesi 9-10 mesi 11-12 mesi 13-14 mesi 15-16 mesi 17-18 mesi 19-20 mesi Stranieri 21-22 mesi 23-24 mesi Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP Tabella 13.16ITALIANI E STRANIERI A CONFRONTO: DURATE MEDIE DEI CONTRATTI, DEI PERIODI DI INOCCUPAZIONE E MESI TRASCORSI IN INOCCUPAZIONE Durata media dei contratti Numero medio episodi inoccupazione Mesi trascorsi come inoccupato Mesi trascorsi come occupato Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP 331 Italiani Stranieri 24,9 1,6 11,7 60,3 21,0 1,9 15,0 57,0 Riferimenti Bibliografici Amador J., Cabral S. (2009), “Vertical Specialization Across the World: A Relative Measure”, North American Journal of Economics and Finance, pp. 267-280 Anastasia B., Disarò M., Emireni G., Gambuzza M., Rasera M. (2010), Istruzioni per l’uso delle comunicazioni obbligatorie nel monitoraggio del mercato del lavoro, http://www.venetolavoro.it Antoni L. 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Finito di stampare nel mese di Luglio 2011 da Grafiche Martinelli s.r.l. - Bagno a Ripoli (FI) per conto di IRPET - Firenze Il mercato del lavoro Regione Toscana - Rapporto 2010 Il mercato del lavoro - Regione Toscana - Rapporto 2010 Lavoro - Studi / 86 Collana Lavoro - Studi e Ricerche / 86 IRPET ISBN 978-88-6517-027-4 Istituto Regionale Programmazione Economica Toscana IRPET Istituto Regionale Programmazione Economica Toscana