Parte II Oltre la crisi: sentieri di fuoriuscita

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Parte II Oltre la crisi: sentieri di fuoriuscita
Parte II
Oltre la crisi: sentieri di fuoriuscita
9.
Ritorno alla “normalità”?
9.1
Un profilo di stabilizzazione?
“But we are far from being out of woods” (Bernanke, 2010) e possiamo
trarre alcune lezioni
Siamo nel pieno di una crisi iniziata nel 2007 e di cui è difficile ipotizzare le implicazioni di lungo periodo, che saranno certamente
profonde. Nel corso di un’audizione dinanzi alla Dallas Regional
Chamber il Governatore della Federal Reserve ha recentemente
affermato (7 aprile 2010) che “non siamo fuori dai guai”, dal
momento che la crisi finanziaria è “un evento complesso” con
molte cause, alcune delle quali non sono state rimosse. Tra queste sono certamente da annoverare le distorsioni strutturali del
sistema finanziario, celate dalla “bolla immobiliare” ed emerse
dopo il suo scoppio: 1) deterioramento delle regole nella gestione
degli affidamenti; 2) moltiplicarsi delle forme e degli strumenti di
credito fino a configurare un vero e proprio “sistema bancario
ombra”, ovvero un abnorme sviluppo di un apparato finanziario
non bancario; 3) generalizzata e sistemica perdita di percezione
del rischio e quindi della capacità di gestirlo; 4) inadeguatezza
del vigente sistema di regole.
Ai fattori indicati Bordo (2008) aggiunge che un periodo eccezionalmente lungo di tassi di interesse molto bassi distingue
quanto è accaduto negli ultimi anni rispetto alle fasi precedenti
alle crisi del passato. Vi sono, però, ulteriori e più rilevanti specificità, che connotano la situazione odierna. Innanzitutto il “sistema bancario ombra” ha di fatto generato un alto potenziale
di rischio sistemico. L’eliminazione nel 1999 dello Glass Stegall
Act (Eichengreen, 2008), che separava il credito a breve da quello a medio-lungo termine, ha portato ad un incremento di tale
potenziale, grazie anche al fatto che in tal modo i mercati sono
dominati da istituti con un basso rapporto tra capitale e debito.
Sulle orme della visione esposta dallo stesso Bernanke (2005),
167
altri analisti hanno sottolineato l’importanza degli ampi “squilibri esterni”, consolidatisi nell’ultimo decennio: dal 2002 in poi,
nella ripresa seguita allo scoppio della “bolla speculativa connessa alla new economy, gli Usa hanno mostrato un’ accentuazione
della tendenza -in atto dagli anni ’80- ad una declinante formazione del risparmio nazionale sia nella componente pubblica che
privata, fino a raggiungere valori negativi” (Obstfeld e Rogoff,
2004). Per contro nei Paesi emergenti, specie dell’Estremo Oriente, i tassi di risparmio sono stati crescenti ed elevati, formando
eccedenze attratte dalle opportunità di investimento fornite dal
mercato finanziario statunitense (Bosworth e Flaaen, 2009). In
questa prospettiva Bosworth e Flaaen individuano le specificità Usa dell’odierna crisi globale nella combinazione di due elementi basilari: incentivi distorti (bassi tassi di interesse, enorme
crescita del mercato sub-prime) e una profondamente distorta
regolamentazione dei mercati.
È controversa la questione relativa alle reali dimensioni della
dinamica involutiva in corso, ma un dato è indubbio: a differenza
di quando accadde durante la grande crisi del 1929, le autorità
di (quasi) tutti i Paesi del mondo hanno affrontato gli eventi con
una serie di azioni di stabilizzazione senza precedenti. Su tutte è
il sostegno diretto al mercato finanziario con iniezioni di liquidità praticamente senza limiti: solo negli Usa la Federal Reserve
ha acquistato titoli del Tesoro ed altri a supporto degli interventi diretti a contenere la crisi del mercato immobiliare per circa
1,7 migliaia di miliardi di dollari (Bernanke, 7 aprile 2010). In
effetti essa sta contemporaneamente agendo come supervisore
del sistema bancario, funzione che non sembra aver esercitato al
meglio nel decennio scorso.
Misure finanziarie così rilevanti, per di più diffuse in vari paesi, pongono in realtà altri problemi, in merito alla sostenibilità
dei debiti pubblici e al probabile scenario involutivo che si avrà
quando esse avranno termine. Non è questa la sede per approfondire tali temi; ci limitiamo per il momento ad alcune lezioni
che si possono trarre dalle vicende in questione. Oltre alla necessità di modificare profondamente alcune regole basilari del
funzionamento del sistema finanziario, il ruolo e la funzione delle Banche centrali richiede un riesame sistematico sulla base di
“quattro lezioni-insegnamenti” tratti dalle crisi del passato e da
quella odierna (Bernanke, Conferenza al Centro Studi per la Presidenza e Il congresso, 8 aprile 2010): 1) la stabilità finanziaria è
168
condizione essenziale per “la prosperità economica”, non un accessorio; 2) le autorità politiche devono rispondere “con forza e
creatività alle crisi finanziarie profonde”; 3) le crisi internazionali richiedono risposte ad una scala corrispondente; 4) la “storia
non è mai una guida perfetta”, ma non di rado genera similarità
di situazioni, che però richiedono l’elaborazione di idee innovative, modulate sulle specificità che emergono.
Siamo dunque in un contesto economico-finanziario in profonda evoluzione, con aspetti fondamentali ancora da chiarire e
quindi con diversi insegnamenti che possono essere appresi. Per
acquisire ulteriori spunti conoscitivi e stimoli alla riflessione può
essere allora utile analizzare le modalità evolutive della dinamica
involutiva iniziata nel 2007 e le forme che essa sta ora assumendo, mettendo però l’accento sulle variabili reali (produzione, occupazione, andamento dei settori produttivi).
9.2
Modalità evolutive della crisi. Il “crollo sincronizzato”: comparazioni
storiche, specificità odierne
Il crollo degli scambi internazionali è stato “improvviso, severo,
sincronizzato” (Baldwin, 2009): “per due quadrimestri successivi i flussi commerciali sono stati il 15% al di sotto del livello dell’anno precedente”. Il calo non è stato intenso come nella
Grande Depressione, ma molto più rapido. I dati relativi ai 27
Paesi dell’UE e ad altri 10 mostrano andamenti che si sovrappongono quasi del tutto nella rappresentazione grafica, mentre
la variazione negativa del commercio è molto maggiore di quella
del PIL. In breve, nel periodo che dall’Aprile 2008 al Marzo 2009
la gamma di variazioni negative nelle varie regioni del mondo ha
oscillato tra il 25% e il 30%, mentre il PIL mondiale è diminuito
del 13% (Baldwin e Taglioni, 2009, p. 48).
Nella ricerca di spiegazioni a questa singolarità gli studiosi
hanno messo l’accento sui fattori di domanda e fattori di offerta.
Per quanto riguarda i primi, viene descritto un vero e proprio
“shock da domanda”, dovuto all’effetto “composizione”. Si tratta di questo: una volta scoppiata la “bolla immobiliare”, è caduta immediatamente la domanda di beni il cui acquisto può essere
“posposto” (postponeable), beni di consumo durevoli e beni d’investimento. Essi sono una componente non rilevante del PIL,
169
ma costituiscono una quota molto importante del commercio
mondiale. In sostanza, quindi, lo shock da domanda si è propagato in gran parte nel world trade e in una percentuale minore nel
PIL dei Paesi. La sincronizzazione indica chiaramente una correlazione tra eventi avvenuti in diverse aree geo-economiche; ciò
implica che esistono relazioni molto strette fra le loro strutture
produttive. Di qui il ruolo che possono aver esercitato processi di trasmissione connessi all’esistenza di legami di produzione
verticali (vertical production linkages) (Di Giovanni e Levchenko,
2009).
Per quanto concerne i fattori di offerta, Baldwin (2009) descrive l’”effetto isteresi”, per cui l’innesco della crisi e la contrazione
non inducono le imprese ad uscire dai mercati, perché l’esistenza
di “alti e non recuperabili costi di entrata nei mercati” le spinge
ad adottare strategie di riduzione della scala di produzione.
Questi spunti conoscitivi inducono a cercare di delineare con
precisione la traiettoria evolutiva dell’economia mondiale, in
modo da trarre elementi utili per comprenderne le cause.
Ripercorriamo brevemente la sequenza di eventi con l’aiuto
di Bénassy-Quéré et al. (2009), distinguendo una successione di
fasi: 1) estate 2006-207: aumento di crisi di credito “localizzate”
negli Usa, emergere di default nel mercato immobiliare, primo
affiorare di timori; 2) estate-autunno 2007: inizio di vere proprie crisi di fiducia e tensioni in tema di liquidità; 3) autunno
2007-estate 2008: accumulazione delle perdite e crescenti problemi di liquidità; 4) estate 2008: intensificazione dei fenomeni indicati nel punto precedente. Insolvenza di Fannie Mae e Feeddy
Mac, problemi nel finanziamento di banche Usa; 5) settembre
2008: massiccia perdita di fiducia: fallimenti di Lehman Brothers
e di altri istituti a livello internazionale; 6) autunno 2008-primavera 2009: la crisi si estende al settore reale.
Approfondiamo l’ultimo punto nel tentativo di rispondere a
due interrogativi: perché gli effetti reali sono stati così profondi
(forti diminuzioni del PIL in molti Paesi) e quali le implicazioni
di lungo periodo (natura e durata)?
Occorre tenere presente che l’alterazione di meccanismi e
circuiti finanziari influenzano le dinamiche reali dell’economia
agendo sui seguenti fattori: 1) si generano vincoli nell’offerta di
credito (crisi di liquidità, accentuato razionamento e rarefazione
del credito); 2) effetto ricchezza, cioè il fatto che la diminuzione
dei valori sui mercati finanziari induce la riduzione della spesa
170
per consumi e quindi di quella per investimenti; 3) perdita generalizzata della fiducia, con conseguente decremento di produzione (Reihnart e Rogoff, 2009).
Gli aspetti indicati hanno inoltre nel biennio trascorso interagito a scala globale, determinando effetti combinati incontrollabili nell’immediato e al tempo stesso anomalie come quelle
attinenti alla difformità di andamento tra commercio mondiale
e PIL. Intendiamo riferirci ad una prima peculiarità messa in
luce da studi ed analisi. Innanzitutto, come hanno evidenziato
Eichengreen e O’Rourke (2010, aggiornamenti di precedenti issues di VoxEU.org di aprile e giugno 2009), la situazione odierna
presenta analogie e profonde differenze rispetto agli anni ‘30. La
produzione mondiale è diminuita meno nel periodo più recente
che nel decennio di raffronto, ma è ancora il 6% meno del picco
raggiunto prima della crisi, dopo aver toccato il limite inferiore
di -13% (Graf. 9.1).
Grafico 9.1 PRODUZIONE INDUSTRIALE MONDIALE (SX). VOLUME DEL COMMERCIO MONDIALE (DX)
110
100
95
100
90
85
90
80
80
75
70
70
65
60
5
10
15
20 25 30 35
Months since peak
40
45 50
Giugno 1929=100
60
5
10 15 20 25 30 35 40
Months since peak
45 50
Aprile 2008=100
Fonte: Eichengreen e O’Rourke (2010), Figg. 1 e 2
L’andamento del commercio mondiale rimane al di sotto dei
massimi livelli toccati in precedenza: ha un valore pari all’8% in
meno rispetto all’apice pre-crisi, dopo aver toccato il fondo del -20%.
Ciò che appare interessante è la durata: negli anni ‘30 il declino del
commercio mondiale si è manifestato per quasi tre anni, mentre ora
171
la ripresa è apparsa dopo un anno e mezzo. C’è comunque da osservare che l’evoluzione nel periodo più recente mostra una contrazione del commercio globale del tutto comparabile a quella degli anni
’30, anche se sembra aver raggiunto il punto di inversione inferiore.
Non vi sono però segnali univoci di un definitivo superamento, dato
l’emergere di elementi che inducono qualche analista a paventare
una possibile ricaduta (cosiddetto double dip).
Le stime del Fondo Monetario Internazionale (IMF, WEO,
Tab. A.9., p. 204; IMF, WEO, Update, Table 1.1, 2010) indicano un decremento in volume di -12,3%, a fronte di variazioni dei
prezzi in media di -15,4%, con forti differenziazioni tra beni: notevoli cali per petrolio e metalli (40% in meno), diminuzioni meno
marcate ma pur sempre notevoli per altri (oltre il 20% in meno
per le materie prime). Tutto ciò avviene mentre, come è noto, nelle economie avanzate si sono verificati riduzioni significative della
capacità di produrre di ricchezza, ma minori di quello del commercio mondiale: i valori più alti sono quelli di Giappone (-5,3%),
Germania (-4,8%), Inghilterra (-4,8%), Italia (-4,8%).
Dall’analisi dei dati emergono, pertanto, due fenomeni rilevanti: la diminuzione del commercio mondiale è stata molto
superiore al calo del PIL ed è evidente una sincronizzazione dei
processi a livello globale, con una dinamica recessiva con caratteri nettamente più marcati di quelli del 2001 (Graf. 9.2).
Grafico 9.2 COMMERCIO MONDIALE IN VOLUME E IN VALORI UNITARI
Trade collapse in 2009
110
Trade collapse in 2009
170
160
100
150
140
World exports volume
Fonte: Berthou e Emlinger (2010), Fig. 1
172
2000M7
2000M9
2000M11
2001M1
2001M3
2001M5
2001M7
2001M9
2001M11
2002M1
2002M3
2002M5
2002M7
2002M9
2002M11
90
2009M9
2009M7
2009M5
2009M3
120
2009M1
130
2008M1
2008M3
2008M5
2008M7
2008M9
2008M11
Index, base 100 in 2000
180
Unit values
Questi “fatti stilizzati” meritano di essere approfonditi con
l’individuazione delle cause, perché possono essere espressione
di dinamiche strutturali, su cui sarebbe opportuno riflettere.
Le analisi svolte da alcuni studiosi hanno prodotto conferme statistiche del grado avanzato di realizzazione di un processo
più volte descritto a livello micro oppure da case studies, ovvero
la frammentazione dei processi economico-produttivi e la loro
distribuzione a livello internazionale attraverso le global value
chains ed i global production networks (trattati anche nel precedente Rapporto sul Mercato del lavoro in Toscana per il 2009).
Iniziamo cercando di comprendere i fattori causali di due processi verificatisi simultaneamente: crollo del commercio mondiale e recessione sincronizzata in molti Paesi. Per quanto riguarda
il primo, non vi sono dubbi che esso sia un evento eccezionale sul
piano storico, con peculiarità da mettere in luce adeguatamente.
Il dato più evidente è l’intensità del decremento dall’inizio del
2008 alla ripresa (Graf. 9.3).
Grafico 9.3 livello del commercio mondiale. Miliardi di dollari 2005
16.000
14.000
12.000
10.000
8.000
6.000
4.000
2.000
1976
1980
1984
1988
1992
1996
2000
2004
2008
Fonte: Cheung e Guichard (2009), Fig. 1
Non meno rilevante è il fatto che vi sia un divario tra il fenomeno appena descritto e la diminuzione della domanda, connessa a quella del PIL nei vari paesi. Quest’ultimo fattore ha evidentemente agito nel generare e diffondere impulsi recessivi, ma ul173
teriori meccanismi devono essersi messi in moto nel determinare
il divario da spiegare: tra la seconda metà del 2008 e i primi mesi
del 2009, “la contrazione del volume del commercio mondiale è
stata otto volte maggiore della riduzione dell’output mondiale”
(Cheung e Guichard, 2009, p. 7).
Certamente ha influito in modo significativo il credit crunch e
la crisi di liquidità, che hanno favorito la diffusione degli impulsi,
ma i due fattori non sono sufficienti per un’esauriente spiegazione. Le componenti finanziarie hanno indubbiamente concorso
a causare la sincronizzazione recessiva, data l’integrazione raggiunta dai mercati e dall’enorme scala delle connessioni tra entità economiche in essi attive.
È da rilevare, però, un elemento nuovo rispetto al passato:
la maggiore reattività del commercio mondiale rispetto alle variazioni della produzione di ricchezza, in altri termini la maggiore elasticità del world trade verso il reddito mondiale. Freund
(2009a) stima che il suo valore sia salito da 2 a 3,5 negli ultimi
anni. Cheung e Guichard (2009, pp. 8-9) introducono a questo
proposito una serie di argomenti molto interessanti. Innanzitutto, nel corso degli anni ’90 sono diminuiti i costi di trasferimento
delle merci in seguito alle innovazioni tecnologiche nei sistemi
di trasporto marittimo e alla liberalizzazione degli scambi, con
conseguente rimozione totale o parziale delle tariffe. Di qui la
potenziale maggiore sensibilità a variazioni di reddito.
Bisogna tenere anche presente, però, che il PIL è misurato in
valore aggiunto, mentre le stime degli scambi commerciali sono
effettuate in termini “lordi”. Ciò implica che una crescita del PIL
“può portare ad un maggiore outsourcing e quindi a scambi più
alti, nella misura in cui un crescente numero di parti e componenti circolano nel globo prima di essere assemblate ed arrivare
successivamente al mercato finale” (Freund, 2009, p. 6). Su queste
basi è individuabile un ulteriore fattore causale, costituito dalla
frammentazione dei processi produttivi, ovvero l’unbundling già
discusso nel precedente Rapporto sul mercato del Lavoro (cap.
3). In particolare ciò significa che un qualsiasi bene, prodotto
manifatturiero o servizio, è l’esito di flussi di componenti, semilavorati e funzioni, tutti distribuiti su più aree. Hummels et al.
(2001) hanno stimato che oltre il 30% della crescita del commercio mondiale è dovuto alla specializzazione verticale, cioè alla
creazione e al consolidamento di sequenze economico-produttive disperse su una serie ampia di Paesi e aree. Il metodo impiega174
to da Hummels et al. (2001, tavole I/O riferite a 10 Paesi OECD
e a 4 economie emergenti), è stato esteso da Amador e Cabral
(2009) attraverso una metrica che combina informazioni desunte
da matrici I/O e dati sugli scambi internazionali per Paesi e aree
geografiche. Il punto di arrivo della loro analisi è che tali sequenze economico-produttive riguardano in modo particolare prodotti high-tech e sono l’elemento fondamentale alla base dell’integrazione economica crescente nell’Estremo Oriente durante il
decennio in corso. Le international supply chains (vertical linkages) avrebbero quindi svolto la funzione di amplificatore degli
impulsi di contrazione della domanda, dal momento che i flussi
di import/export connessi a tali sequenze economico-produttive
producono variazioni degli scambi che sono un multiplo della
variazione negativa iniziale (Bems et al., 2009; Yi, 2009). Naturalmente questo avviene in entrambe le direzioni e può pertanto
contribuire alla spiegazione sia del divario e dell’intensità prima
segnalati, sia della ripresa negli ultimi mesi.
È possibile individuare delle ulteriori conferme di questa tesi,
finora argomentata sulla base di analisi delle matrici I/O. Intendiamo riferirci alla composizione settoriale dei processi di diffusione delle spinte recessive, nel senso che i settori maggiormente
investiti dai processi di specializzazione verticale dovrebbero aver
risentito in misura più consistente della dinamica indicata. Ebbene stime dell’OECD, riprodotte in Cheung e Guichard (2009),
indicano che proprio le produzioni più “globalmente frammentate” rappresentano una larga quota degli scambi internazionali:
veicoli a motore, beni d’investimento, beni di consumo durevoli
(si veda anche Feund, 2009, Fig. 14, con un’analisi molto specifica per tipologie di prodotto). Si tratta delle attività sulle quali
ha inciso in misura più consistente la contrazione del world trade,
con la controprova in atto: la ripresa in atto da alcuni mesi vede
le stesse componenti mostrare un dinamismo più accentuato
(OECD, 2010a).
L’incremento di elasticità degli scambi rispetto al reddito pare
confermata da un altro elemento: i valori più di elevati di essa
sono rilevati non solo per i comparti merceologici, ma anche
per le aree geografiche dove le International supply chains hanno
mostrato una dinamica particolarmente significativa. Nel caso
dell’Estremo Oriente, il Giappone e i Paesi ASEAN-5 (Filippine,
Vietnam, Tailandia, Malesia, Indonesia) sembrano confermare
l’ipotesi interpretativa; non è così per la Corea, dove le grandi
175
imprese hanno attuato strategie di risposta alla crisi di grande
interesse ed efficacia (vedi oltre).
In merito al “duro colpo” subito dall’economia giapponese Wakasugi (2009) ha descritto il processo di creazione di una
“triade commerciale” (Usa, Cina, Giappone), sviluppatosi negli
anni 2000-2007: crescenti importazioni americane di prodotti
cinesi, flussi di componenti e beni intermedi dal Giappone alla
Cina, per poi essere esportati. La brusca caduta dell’import statunitense si è riverberato in misura amplificata, anche perché nel
corso del tempo il Giappone ha ristretto la gamma dei beni di
alta gamma esportati negli Usa ed ha ampliato quella dell’export verso il sistema cinese. Per questa via l’economia giapponese è diventata direttamente vulnerabile ad improvvise variazioni
della domanda Usa e al tempo stesso maggiormente colpita da
ripercussioni accresciute dalla “triangolazione” con la Cina.
Per quanto riguarda la Corea, un recente studio comparato di
global player internazionali e di un campione delle prime 100 imprese coreane, appartenenti a 10 settori industriali, ha messo in
luce i disegni strategici grazie ai quali sia i primi che le seconde
sono riusciti a realizzare percorsi di crescita (SERI, 2010a). Sono
stati individuati vari tipi di risposte strategiche, differenziate per
tipologie merceologiche: 1) diversificazione verticale oppure orizzontale lungo la catena del valore, per massimizzare il potere di
negoziazione e ottenere una stabile dotazione di risorse, quindi un
accesso ai mercati in posizioni di leadership (10 imprese del comparto dell’acciaio e del settore energetico); 2) sviluppo della capacità di soddisfare la domanda di un mercato “segmentato” (“customized”), attraverso le seguenti direzioni strategiche: ampliamento
della gamma di prodotti (“product portfolio”) per rispondere ad
esigenze sempre più diversificate dei consumatori; combinazione
di servizi alla clientela, al fine di ottenere profitti di lungo periodo,
competitività dei costi mediante un’incessante innovazione di processo (15 imprese dell’elettronica, delle ICT, dell’auto, della cantieristica, incluse HP, Volkswagen); 3) sviluppo di partnership a
breve e lungo termine in progetti di R&S, in modo da massimizzare le probabilità di successo di nuovi prodotti e coniugare strategie
globali e identità locali (farmaceutica, alimentare, distribuzione,
15 imprese incluse Pfizer, Nestlé e Tesco); 4) perseguimento di economie di scale e di varietà, crescita basata su domanda interna e
contemporanea internazionalizzazione dell’attività (telecomunicazioni, costruzioni, 10 imprese incluse Vodafone, Vinci).
176
Questi spunti conoscitivi aiutano a comprendere come, proprio durante la fase critica, vi sia stata un’accelerazione dei disegni di ristrutturazione industriale, basati su avanzamenti tecnico-scientifici e una profonda revisione dei modelli manageriali.
La realizzazione di combinazione di successo tra questi fattori
dipende in modo cruciale dalla capacità di perseguire strategie
multi-dimensionali, ovvero dallo sviluppo di meccanismi dinamici su molti piani: costi, tecnologia, diversificazione, specializzazione verticale/orizzontale, ecc..
Tornando alla riflessione avviata sulla dinamica “atipica” del
commercio internazionale, è interessante rilevare che il perseguimento di specializzazione verticale mediante investimenti diretti
all’estero è stato particolarmente accentuato per le multinazionali giapponesi, che hanno fortemente distribuito fasi del ciclo
produttivo in paesi con abbondante forza lavoro unskilled (Tanaka, 2009b). Per contro le grandi imprese Usa avrebbero investito
e frammentato le sequenze economico-produttive in un numero
limitato di Paesi (Canada, Messico). Ciò contribuisce a spiegare
in misura significativa il maggiore impatto negativo della crisi sul
Giappone, protagonista molto più attivo degli Usa nei processi
di specializzazione verticale (Tanaka, 2009a).
Oltre alla sua intensità, un altro aspetto del crollo del commercio internazionale ha colpito l’attenzione di analisti e studiosi, cioè la “grande sincronizzazione” tra più Paesi con valori
negativi, come è stata definita (Araùjo e Martins, 2009). Anche
dopo l’11 Settembre c’è stata una diminuzione generalizzata degli scambi internazionali, ma il fatto nuovo del 2008 è che oltre il
90% dei Paesi OECD hanno registrato cali delle importazioni e
dell’export superiori al 10%.
Abbiamo già indicato in precedenza che non tutti i sottoinsiemi dell’industria sono stati caratterizzati dalla contrazione,
che ha investito in misura più accentuata beni durevoli e strumentali, componenti di autoveicoli, e così via.
A tutto ciò va aggiunto un altro fenomeno molto interessante:
la sincronizzazione recessiva ha interessato quasi tutti i Paesi e i
settori economico-produttivi, ma emerge una differenza sostanziale tra servizi e beni, in quanto i primi hanno subito un declino
molto meno marcato. I primi, che costituiscono un quinto degli
scambi mondiali, hanno evidenziato una “resilienza” sorprendente (OECD, Monthly Statistics of International Trade, http://stats.
OECD.org), con addirittura un decremento di appena -10%, ne177
gli Usa, a fronte dei valori molto più accentuati della produzione
manifatturiera (Borchert e Mattoo, 2009). È anche interessante rilevare che all’interno dell’aggregato in questione i comportamenti sono stati molto eterogenei: se le attività di trasporto e quelle
turistiche sono scese in modo consistente, non altrettanto è accaduto per le assicurazioni e le telecomunicazioni, quelle inerenti
al business24 e alle componenti tecnologiche, che sono addirittura
leggermente aumentate. Va inoltre rimarcato che Paesi come l’India, particolarmente specializzata in servizi a livello internazionale, hanno visto contrazioni abbastanza contenute delle relazioni di
scambio con gli Usa e altre aree economiche.
Nel determinare tale tendenza possono aver agito diversi
fattori: 1) particolari tipologie di attività terziarie sono meno
dipendenti dalla finanza per il loro svolgimento; 2) sulla domanda
di alcuni servizi agiscono meccanismi di “attaccamento”, che la
rendono meno sensibile, in quanto gli aspetti discrezionali sono
attenutati dalla necessità di ricorrere ad essi.
Siamo dunque di fronte ad un’altra peculiarità dell’evoluzione
odierna, tale da rendere ancora più problematico il quadro e
incerte le prospettive di fuoriuscita dalla crisi, nella misura in cui
l’eterogeneità degli andamenti e le “anomalie” rispetto agli schemi
consolidati di analisi deve indurre alla cautela interpretativa e
alla prudenza nel formulare ipotesi previsive.
9.3
La crisi in Italia
Anche il nostro Paese, né poteva essere altrimenti, è stato investito dalla dinamica recessiva, con una diminuzione del PIL nel
periodo 2008-2009 di circa 6 punti percentruali, valore più lato
di quello registrato nelle crisi del 1992-93 (-1,9%) e del 197475 (-3,8%). L’intensità e la durata sono state le più elevate del
dopoguerra e potrebbero essere analoghe a quelle degli anni ’30
(Bassanetti et al., 2009). La flessione ha riguardato soprattutto
l’industria in senso stretto, con un calo del valore aggiunto di
-16,7%, anche in questo caso il valore più elevato degli ultimi
decenni, unitamente ad un dato emblematico: “le quantità prodotte, misurate dall’indice di produzione industriale, sono scese
Il riferimento qui è alle attività e funzioni legate alle transazioni economico-produttive e finanziarie
a scala internazionale.
24
178
nella primavera del 2009 sui livelli del 1987” (Bassanetti et al.,
2009, p. 9). Anche in Italia, dunque, emerge una certa “resilienza” dei servizi, anche se nel nostro caso devono aver agito
fattori specifici, non facilmente generalizzabili ad altri Paesi.
Se il crollo delle esportazioni nel periodo (primo trimestre
2008-primo semestre 2009) ammonta a -21,7%, la spesa per
consumi ha mostrato contrazioni di notevole intensità, superiore al 15% per i beni di consumo durevoli e di poco inferiore
al 10% per quelli semidurevoli.
In queste condizioni il reddito disponibile delle famiglie non
poteva che vedere accentuato un profilo di progressivo indebolimento, iniziato negli anni ’90: “Dal 1992 la crescita media
annuale del potere d’acquisto è stata infatti solo dello 0,3%... I
redditi da lavoro, in termini reali e pro capite, sono rimasti pressoché invariati sui livelli dei primi anni ’90, sia per gli autonomi
che i dipendenti” (Bassanetti et al., 2009, p. 12).
Ulteriori elementi conoscitivi molto interessanti possono essere desunti dall’Indagine annuale Banca d’Italia presso
un campione di circa 4000 imprese (Bugamelli et al., 2009).
Dall’ottobre 2009 al marzo 2009 il fatturato è diminuito in media del 20%, con effetti reali più marcati nelle imprese industriali maggiormente orientate all’esportazione e alla produzione di
beni strumentali. Le imprese hanno reagito alla contrazione dei
mercati con differenti e complementari strategie. Innanzitutto
si è cercato di comprimere i costi e i margini di profitto, a cui
si è unita una riduzione degli input di lavoro facendo prevalentemente ricorso a tutte le forme possibili di flessibilità. Il
dato più preoccupante è il calo significativo degli investimenti,
ma bisogna tenere presente che il quadro delle imprese italiane
rappresentate dal campione è più diversificata di quanto emerge dal dato medio. Dall’indagine risulta, infatti, che la capacità
di reazione alla crisi e quindi di contenerne gli effetti negativi
è molto più accentuata in quelle unità (appartenenti a molti
settori economici) che hanno avviato un processo di ristrutturazione verso un miglioramento della propria posizione competitiva, mentre per le altre aumentano le posizioni debitorie e
l’orizzonte futuro diviene problematico.
Da queste sintetiche informazioni possiamo dedurre che esiste una parte non esigua del sistema produttivo che non è stata
sorpresa dalla dinamica involutiva dell’economia mondiale ed
è tuttora in grado di riposizionarsi nello scenario competitivo.
179
Rimane sempre però, come vedremo successivamente, la debolezza di fondo del sistema nel suo complesso, dal momento che
determinate proprietà basilari rendono l’economia italiana molto
vulnerabile rispetto ai cambiamenti delle coordinate generali e dei
parametri di comportamento strategico imposti dalla dinamica
tecno-economica in atto e prevedibile per il prossimo futuro.
9.4
L’evoluzione nel periodo più recente
9.4.1 “Rimbalzo” o ripresa?
Le misure di sostegno e stimolo adottate nei vari paesi hanno
indubbiamente prodotto effetti nel breve periodo, se la dinamica
involutiva ha toccato il fondo e segnali di ripresa sono emersi nel
periodo più recente. Occorre tenere presente che un ammontare
senza precedenti di risorse è stata destinata a fini di stabilizzazione: poco più di 2 trilioni di miliardi, l’82% dei quali ad opera di 4
Paesi (Usa, Cina, Giappone, Germania) (GIA; 2009).
La quota più cospicua è quella statunitense: 787.000 miliardi di
dollari su 10 anni, pari al 5,9% del PIL annuale, con obiettivi di sviluppo di lungo periodo incentrati su energie rinnovabili, trasporti,
modernizzazione delle infrastrutture, riforma del sistema sanitario.
Le risorse finanziarie cinesi ammontano a 586.000 miliardi
di dollari, pari a circa il 13% del PIL, finalizzati al sostegno della domanda interna, all’upgrading tecnologico del sistema economico, al miglioramento del sistema di sicurezza sociale, alla
stabilizzazione finanziaria. Tra i settori maggiormente interessati
sono i trasporti e le infrastrutture energetiche, l’ambiente, l’istruzione e la sanità.
Il Giappone ha destinato 207.000 miliardi di dollari (4% del
PIL), soprattutto in industrie-chiave. La Germania ha previsto
somme pari a 109.000 miliardi di dollari (3,4% del PIL), orientate a
varie forme di riduzione del peso fiscale e in progetti di investimento
a livello federale e municipale.
Tutte queste misure, finalizzate ad ottenere effetti di lungo periodo, si aggiungono ai poderosi interventi di sostegno del sistema
finanziario, tramite acquisti -da parte delle banche centrali- di titoli
detenuti dagli intermediari finanziari soggetti a rischi di insolvenza.
L’entità delle risorse impiegate o previste può aver indubbiamente influenzato la repentina e inattesa rivitalizzazione
180
dell’economia globale a partire dal secondo semestre 2009, con
previsioni di ulteriore crescita per il 2010, sia pure differenziata
per i vari Paesi ed aree. Il rovesciamento della tendenza recessiva è effetto di una drastica ripresa del commercio mondiale,
cresciuto a giugno 2010 del 21% rispetto al punto di minimo di
un anno prima (Carnegie Endowment, 2010). Abbiamo dunque
assistito ad una sequenza atipica: un crollo improvviso e molto
intenso, seguito da un processo inverso con proprietà analoghe,
con andamenti più accentuati di quelli rilevati durante le crisi
precedenti. Bisogna comunque tenere presente che la produzione
industriale è cresciuta di 12 punti percentuali rispetto al punto di
minimo, ma rimane del 2% inferiore al picco pre-crisi.
Uno degli aspetti più rilevanti della nuova situazione è la
differenza di comportamento tra le varie aree geo-economiche:
l’Estremo Oriente e l’America Latina registrano di nuovo importazioni molto vigorose, mentre l’Europa e gli Usa sono ancora
ben al di sotto dell’acme precedente al crollo (-13% circa). Anche
la produzione di ricchezza segna un +8% nei Paesi emergenti e
valori appena positivi (+2,6%) in quelli sviluppati, ma con significative differenziazioni interne.
Per quanto riguarda l’Europa, nonostante il deprezzamento
dell’euro (più del 20% rispetto al dollaro e al remimbi negli ultimi
sei mesi) e la debole domanda interna, le esportazioni cinesi nell’Unione Europea sono aumentate di più del 30%, in linea con il trend
generale dell’export di quel Paese (Carnegie Endowment, 2010).
Gli andamenti indicano un chiaro rovesciamento degli indicatori riferiti al processo involutivo precedentemente descritto:
vi è una netta ripresa degli acquisti mondiali di beni “sensibili al
credito” (veicoli a motore e beni di investimento), dal momento
che i primi sono aumentati del +25% nel primo quadrimestre del
2010. Emerge una chiara rivitalizzazione dei mercati finanziari,
con flussi in crescita di +3% nel 2009, anche se permangono restrizioni quantitative e qualitative.
Una nota significativa può essere desunta dagli indicatori concernenti gli squilibri commerciali: dopo essersi ridotti in
modo sostanziale in conseguenza della crisi, sono di nuovo in
aumento il deficit dei conti con l’estero USA e il surplus europeo
(specie della Germania) e del Giappone25.
25
Il deficit USA è sceso dal 5,9% del 2007 al 2,9% del 2009, ma è previsto al 3,5% nel 2010; il surplus
del Giappone, diminuito dal 4,9% del 2007 al 2,8% del 2009, dovrebbe risalire al 3,1% nel 2010; il
surplus della Germania, passato negli stessi anni di riferimento dal 7,7% al 6,1%, dovrebbe scendere
ulteriormente al 5,7% nel 2010 per poi tornare al 6,4% nel 2011.
181
Più in generale le previsioni WTO e OECD sul commercio internazionale ipotizzano tassi di crescita intorno al 10% nel 2010,
mentre indicatori di centri specializzati indicano per gli Usa un
itinerario di crescita continua degli ordini (Morgan, 2010), che
dura da oltre 14 mesi (ISM, 2010). I motori della ripresa sono
comunque le economie emergenti, tra le quali in primis la Cina,
il cui contributo alla crescita del PIL mondiale dovrebbe essere
del 20% nel 2010 (Carnegie Endowment, 2010).
9.4.2 “Era della bassa crescita” o di un cambiamento nel potenziale
di crescita delle economie?
Tutti questi elementi inducono a porsi il seguente quesito: dopo
la fine dell’era della “crescita elevata” siamo entrati nell’“era della crescita lenta” (SERI, 2010b) e dominata dall’incertezza?
Innanzitutto si profilano “nuovi pericoli per l’economia mondiale” (The Economist, 2010c): 1) la forza della ripresa; 2) il problema dei “debiti sovrani”; 3) l’abilità strategico-decisionale e il
coordinamento internazionale tra le autorità di politica economica nel ridurre gli interventi di sostegno all’economia.
Questi tre elementi sono in realtà tra loro strettamente integrati: gli effetti più devastanti della crisi sono stati evitati con
le grandi “iniezioni di liquidità” nel sistema da parte delle Banche Centrali e bassi tassi di interessie con una strategia definita “quantitative easing”. L’intervento di emergenza ha prodotto
l’effetto sperato, ma come e quando smettere con “la medicina”
(The Economist, 2010d) a cui il paziente è forse ormai abituato?
Studiosi ed analisti iniziano a parlare di exit strategy e già emergono almeno due “scuole di pensiero”: la prima (nell’ambito del
Fondo Monetario Internazionale) sostiene che è prematuro ipotizzare la fine delle azioni di stimolo alle economie sviluppate
prima del 2011, con politiche di contenimento monetario e fiscale; la seconda, sostenuta dalla Banca Centrale Europea ma
ancora minoritaria, argomenta che non sono più efficaci le misure “keynesiane” finora intraprese di supporto alla domanda
privata e pubblica ed occorra procedere al riordino delle finanze
pubbliche.
In effetti le incognite che gravano sullo scenario mondiale
sono molte, fino a determinare prospettive dense di incertezza
(SERI, 2010c). La ripresa è stata indubbiamente favorita dai
programmi di stimolo su larga scala intrapresi dai governi, ma i
debiti pubblici sono saliti in misura preoccupante e nel terzo tri182
mestre dell’anno in corso un rilevante ammontare di titoli pubblici verranno a scadenza in non pochi Paesi. L’eventualità di
rischi di default per taluni di essi non è remota, alla luce di quello
che è accaduto in Grecia e del fatto che le maggiori banche europee detengono il 75% del debito dei Paesi del Sud Europa. Siamo
quindi di fronte ad una consistente interdipendenza fiscale all’interno dell’Unione Europea, anche se normative e regole di comportamento restano profondamente difformi. Ciò significa che
non è del tutto arbitraria l’ipotesi di un ulteriore credit crunch,
qualora emergano le avvisaglie di tensione sui fabbisogni pubblici, specialmente in relazione ai cambiamenti della regolamentazione indotte dall’attuazione del famoso accordo di Basilea sulla
supervisione del sistema bancario.
A questi fattori di debolezza o di rischio fanno da pendant
componenti positive quali la rapida crescita cinese, e la vitalità
che sembra mostrare l’economia Usa, che è ancora il principale motore della crescita mondiale, dal momento che costituisce
ancora il 26,4% del PIL mondiale e il 12,8% delle importazioni
globali. Il Samsung Economic Research Center ritiene bassa la
probabilità di una nuova contrazione economico-produttiva generalizzata (double dip), ma un nuovo pericolo sembra profilarsi
all’orizzonte: la crescita dei prezzi delle materie prime. Quello del
petrolio è salito a 87 dollari al barile, cioè ad un ritmo analogo
a quello del 2008, il rame è aumentato quest’anno del +6,2%, il
nickel di +37,2% e anche l’acciaio, uno degli ingredienti basilari dello sviluppo industriale, sta aumentando (SERI, 2010c).
È dunque possibile la ripresa dell’inflazione in alcuni Paesi, soprattutto alla luce del fatto che l’andamento crescente dei costi
degli input primari si basa sul rinnovato vigore della dinamica
dei Paesi emergenti, in primo luogo la Cina, le cui importazioni
sono aumentate del 6% su base annua. La vitalità economicoproduttiva cinese implica una probabile crescita della domanda
di altri Paesi dell’Estremo Oriente e non solo, grazie ai profondi
legami esistenti nell’ambito dei processi di specializzazione verticale e dei global production networks (vedi § 9.5.2.). Non è quindi
improbabile che la ripresa in atto inneschi una crescita diffusa
dei prezzi a causa di una domanda globale che si addensa su
un’offerta di input primari non elastica nel breve priodo, senza
considerare la possibilità di eventi infausti come il disastro conseguente allo scoppio della pitattaforma petrolifera della BP nel
Golfo del Messico. In questo caso potrebbe innescarsi un circolo
183
vizioso di questa natura: pericoli inflazionistici possono minare i germi della ripresa in atto con l’innesco di una contrazione
della domanda e al tempo stesso con l’impulso verso vari paesi
e imprese global leaders ad attuare strategie preventive di anticipazione dei movimenti dei prezzi tramite l’accumulo preventivo
di stock degli input. Ciò sia al fine di stabilizzare i prezzi26, sia
allo scopo di sfruttare variazioni di valore degli asset nel corso
del tempo. Data l’abbondanza di liquidità esistente sui mercati finanziari di tutto il mondo non è difficile immaginare che i
movimenti speculativi possano prendere consistenza e generare
un circuito di interazioni esplosive con le spinte strategiche del
primo tipo.
Queste considerazioni e i fenomeni indicati costituiscono l’espressione esteriore di processi strutturali che hanno modificato
e stanno modificando l’economia mondiale. Essi devono essere
messi al centro dell’analisi, se si intende comprendere le forme e
l’intensità delle trasformazioni e i sentieri futuri dell’evoluzione
globale.
Cerchiamo allora di mettere a fuoco quali sono le “forze” che
stanno modellando l’economia mondiale.
Tabella 9.4 Transizione di sistema a livello internazionale
Alta crescita
Modello pre-crisi
Modello post-crisi
Era della “low growth”
Neo-liberismo
Funzioni delle Istituzioni
Leva finanziaria e investimenti rischiosi
Nuove regole di funzionamento e riduzione
delle possibilità di indebitamento
Rapida crescita dell’apparato finanziario
Nuove funzioni del sistema finanziario
Egemonia dei paesi industrializzati negli
accordi internazionali
Ruolo crescente dei Paesi emergenti
Una sola moneta di riserva
Indebolimento del dollaro come moneta
di riserva
Egemonia dei Paesi industrializzati sui
mercati delle risorse
Fonte: adattamento da SERI (2010b)
Mondo “multipolare”
Alcuni parametri strutturali di base sono radicalmente cambiati oppure si stanno modificando (Tab. 9.4). Gli alti valori del In Seri (2010c) viene esplicitamente formulato questo tipo di ipotesi.
26
184
la propensione al consumo, basata sull’indebitamento e in genere sulla sovra-esposizione verso gli istituti finanziari, sono un
ricordo del passato, dati i vincoli all’erogazione del credito, la
tendenza generale alla compressione dei redditi, la crescita della
disoccupazione e l’impennata dei deficit pubblici che impongono
pesanti restrizioni sugli interventi delle istituzioni. Fattori analoghi condizionano negativamente la tendenza ad investimenti
rischiosi, anche se l’enorme immissione di liquidità da parte delle Banche centrali viene da analisti finanziari ritenuta foriera di
prossimi movimenti speculativi.
Cambiamenti sostanziali del sistema finanziario (deleveraging) e nuove regole di funzionamento sono inevitabili, con conseguente mutamento di meccanismi basilari delle strategie decisionali degli agenti. Ciò è tanto più importante in quanto una
delle coordinate di fondo delle economie nei prossimi decenni è
la ristrutturazione dei sistemi di produzione sulla base di un radicalmente diverso impiego degli input energetici e lo sviluppo di
traiettorie innovative. Si tratta infatti di uno dei campi scientifici
in cui è atteso uno dei più consistenti avanzamenti della frontiera
tecnico-scientifica.
Connessa al punto precedente è la crescente competizione
a livello internazionale nell’acquisizione e nell’uso delle risorse
basilari per le economie. Ciò naturalmente dipende anche dallo
sviluppo impetuoso di nuovi Paesi e dal progressivo spostamento
delle relazioni egemoniche, nel senso che è in corso un processo
di ridefinizione dei rapporti a scala mondiale verso un assetto
“multipolare”.
In questo scenario è probabile che vada ripensata la funzione
delle istituzioni, passando da una visione neo-liberista ad una
che riprenda in considerazione, anche se su scala molto differente geo-economica, temi fondamentali della Teoria Generale di
Keynes, quali l’instabilità della funzione degli investimenti (Cap.
XXII) e il possibile ruolo stabilizzatore delle azioni di politica
economica.
Vanno in questa direzione importanti indicazioni formulate
dal Council of Economic Advisors del Presidente Usa. Nell’ultimo Economic Report of the President (Febbraio 2010) sono stati esposti i capisaldi di un’impostazione strategica che potrebbe avere rilevanti effetti di lungo periodo. Il fulcro è il binomio
tra ripresa e riorientamento della spesa pubblica, perché non è
importante solo l’inizio di una nuova fase di crescita, bensì so185
prattutto il mutamento nella composizione della spesa: “the
composition of spending needs to be reoriented” (CEA, 2010,
p. 118, cap. 4). Ciò significa che nel prossimo futuro una crescita
stabile di lungo periodo richiede aggiustamenti di grande portata:
1) minore ruolo della spesa per consumi e contenimento del mercato immobiliare; 2) aumento del risparmio privato; 3) rovesciamento della tendenza in atto dal 2001 e ripresa di una dinamica
degli investimenti, che possono alimentare una traiettoria espansiva di lungo periodo; 4) riordinamento del sistema finanziario, dal
momento che solo mutamenti della composizione così significativi
sono strettamente connessi a cambiamenti strutturali nella sfera
finanziaria; 5) raddoppio delle esportazioni in 5 anni.
Abbiamo in precedenza visto, però, che in realtà la ripresa ha
portato di nuovo ad un peggioramento del deficit dei conti con l’estero Usa, mentre l’economia americana da poderosa job creating
machine si sta trasformando in un sistema con debolezze di fondo.
Innanzitutto il mercato del lavoro statunitense è tornato al livello
di occupazione del 1991: “oggi sono al lavoro gli stessi americani
del 1991” (The Economist, 2010a) e la disoccupazione è al livello
più alto mai raggiunto dopo la Grande Depressione. La ripresa
nel Maggio 2010 non ha ancora portato occupazione a milioni di
persone senza lavoro in conseguenza della recessione e tutto lascia
pensare che, mentre nelle precedenti crisi del 1991 e del 2001 il
periodo per il ritorno al picco occupazionale è stato abbastanza
lungo (rispettivamente 23 e 39 mesi), questa volta il lasso temporale sarà quasi certamente più ampio (The Economist, 2010a). Quali
le cause di questa ripresa contraddistinta da questa bassa capacità
di creare posti di lavoro? Non sembrano fondate ipotesi attinenti
alla domanda, perché in tal caso l’assorbimento occupazionale sarebbe maggiore. In realtà non siamo di fronte solo a una questione
di ordine quantitativo, bensì a problemi concernenti la struttura
dell’apparato produttivo. La disoccupazione non ha uniformemente colpito tutti i settori produttivi, ma li ha investiti con intensità molto differente e il peso della crisi si è distribuito in modo
asimmetrico nel sistema economico. Ai fini di una ripresa stabile
sarà necessario avviare un processo di aggiustamento strutturale
tra settori e affontare problemi di mismatch delle competenze di
coloro che hanno perso lavoro rispetto ai fabbisogni di un apparato di produzione soggetto a forti cambiamenti.
La consapevolezza di questo problema di fondo è al centro di
molte analisi interessanti dell’evoluzione di lungo termine dell’e186
conomia americana. Sono stati infatti analizzati aspetti molto
importanti, connessi al prolungamento dello status di disoccupato. Innanzitutto il rischio che la disoccupazione diventi una
“trappola” (The Economist, 2010b): la lontananza dal posto
di lavoro può provocare la perdita di alcuni skills oppure la necessità di partire da zero. In molti casi può poi accadere che la
persone in tali condizioni possano andare incontro a difficoltà
sempre maggiori proprio per il divario tra skills e nuove esigenze generate dai processi di aggiustamento strutturale. Un altro
aspetto molto importante, analizzato dagli studiosi (ad esempio
Kahn, 2009), è la perdita progressiva della capacità di ottenere il
reddito percepito prima della caduta nella disoccupazione. L’arretramento progressivo e sostanziale delle potenzialità reddituali
certamente non favorisce la ripresa, può anzi indebolirla, mentre
le coorti di popolazione di età più avanzata possono andare incontro a perdite consistenti sul piano del trattamento previdenziale, intensificando così fenomeni di disuguaglianza dei redditi.
Per tale via, infatti, coloro che sono privi di titoli di istruzione
superiore avranno gravi difficoltà di reinserimento, che diminuiscono via via che aumenta il livello di istruzione richiesto; molto
ovviamente dalla capacità di realizzare un positivo macthing dinamico tra domanda e offerta di lavoro e di competenze. Bisogna
tenere anche presente che è molto difficile prevedere gli effetti a
catena endogeni a processi come quelli descritti in un quadro di
trasformazione strutturale.
Uno degli elementi meno controversi dello scenario odierno è
indubbiamente lo spostamento progressivo del meccanismo propulsore dalle economie sviluppate a quelle emergenti, né potrebbe essere diversamente in presenza di realtà di dimensioni continentali (Cina, India), che divengono protagoniste di uno sviluppo accelerato e su scala mai vista prima nella storia umana. Non
bisogna poi dimenticare la dinamica tecnologica, che consente
flussi internazionali di merci, informazioni e persone, dando pertanto origine ad un vero e proprio mercato internazionale del
lavoro, dove competono un numero sempre maggiore di funzioni
economico-produttive (unbundling dei processi produttivi, task
trade, vedi Rapporto sul Mercato del lavoro 2009, cap. 3.3).
Un altro aspetto, connesso a quelli evidenziati, è l’enorme
incremento dei consumatori, appunto nelle realtà emergenti. A
queste due “forze modellatrici dell’economia globale” (McKinsey, 2010) vanno aggiunte altre, ad esse strettamente legate: 1)
187
l’ingresso sul mercato mondiale di popolazioni giovani e con titoli di studio crescenti, oltre che con livelli di reddito molto contenuti, è destinato a generare pressioni molto elevate sulla produttività del lavoro anche e soprattutto dei Paesi più avanzati;
2) l’importanza di gestire un ciclo economico-produttivo che si
basa su competenze diversificate, appartenenti a livelli qualitativi
molto articolati sul piano tecnico-scientifico. Un’implicazione di
ciò è la centralità assunta dal loro management in un mercato
del lavoro sempre più globale; 3) il controllo e gestione strategica
delle risorse naturali deve diventare una priorità essenziale degli
orizzonti di lungo periodo di organismi pubblici e imprese private; 4) il ruolo crescente dei governi non solo a fini di contenimento della crisi, bensì soprattutto di stabilizzazione a lungo termine
delle economie è ritenuto essenziale.
La consapevolezza più o meno esplicita dell’azione di queste
forze nel modellare l’economia mondiale è presente nella survey
effettuata da McKinsey presso un campione di global player.
Non è comunque arbitrario ipotizzare che lo scenario odierno
sia estremamente incerto per la compresenza di fattori ambivalenti: essi possono agire da vincoli e al tempo stesso costituire
innesco di nuove potenzialità da sviluppare oppure da cogliere
mediante adeguate strategie. Si pensi all’aumento del prezzo degli input primari che, opportunamente messo a fuoco, potrebbe
dare origine da un lato a disegni di radicale trasformazione dei
processi produttivi e dei modelli di consumo, dall’altro ad un rilevante sviluppo tecnico-scientifico. La Corea e le imprese coreane da tempo si muovono infatti su questa strada con risultati
già visibili, sia dal punto di vista della loro collocazione vicino
alla frontiera tecno-economica che sul piano del successo nella
competizione internazionale proprio durante il biennio di crisi.
Un altro esempio potrebbe essere costituito dall’invecchiamento della popolazione, il quale è fonte di preoccupazioni circa
la sostenibilità della spesa pensionistica e il potenziale di sviluppo di un’economia, alla luce della possibile riduzione della produttività di un sistema nel suo complesso.
Più in generale, poi, le problematiche ambientali sono destinate
ad influenzare profondamente lo svolgimento di processi di produzione e le sfera di vita e consumo delle popolazioni, ponendo vincoli
stringenti alle tradizionali modalità di utilizzazione delle risorse. Si
pensi ai sistemi di trasporto, ai sistemi di produzione e distribuzione dell’elettricità, ai modelli di costruzione delle case, per fare solo
188
alcuni esempi. Anche in questi casi i vincoli devono indurre a nuovi
schemi concettuali, nuovi frames tecno-economici, tali da indurre a
formulare ed attuare nuove strategie di potenziale sviluppo produttivo e occupazionale (vedi § 9.6).
Dagli elementi conoscitivi addotti si evince nettamente che i
processi di scambio a livello internazionale sono le forme emergenti di profondi cambiamenti, verificatisi nell’organizzazione dei
cicli economico-produttivi e nelle modalità con le quali nuove realtà nazionali e continentali entrano nella ribalta internazionale.
Cerchiamo di delineare una macro-rappresentazione degli
esiti di tali processi per trarne implicazioni in termini di prospettiva a livello generale e per quanto concerne singoli Paesi ed aree.
9.5
Evoluzione dello spazio tecno-economico internazionale:
combinazione dinamica di flussi di scambio, modelli di organizzazione
di attività e funzioni economico-produttive, mutamenti socioeconomici
9.5.1 Dinamica e caratteristiche dei flussi di scambio a livello
internazionale
Iniziamo tratteggiando l’evoluzione geo-economica e mettendo in
relazione i flussi di scambi e il ruolo svolto da Paesi e continenti.
Una considerazione preliminare è doverosa: i comportamenti
differenziati di crescita e sviluppo delle aree sono l’esito di complesse dinamiche, in cui si intrecciano evoluzione tecno-produttiva, cambiamenti nella composizione settoriale delle economie,
evoluzione dei modelli di organizzazione delle imprese nonché delle loro strategie e regole d’azione, meccanismi di intervento pubblico, proprietà costitutive dei sistemi economici, propensione al
cambiamento delle popolazioni in base a valori e a schemi di percezione collettivi. Siamo in sostanza di fronte ad una delle epoche
storiche caratterizzate da intensi processi di trasformazione, che
hanno due caratteristiche fondamentali: 1) hanno natura multi-dimensionale, in quanto sono molteplici le fonti del cambiamento e
i fattori che influenzano i percorsi evolutivi; 2) sono multi-scalari,
perché gli stessi fattori agiscono simultaneamente a molti livelli,
determinando situazioni complesse di interazioni a differente scala. Il primo aspetto su cui fermare l’attenzione è il grande cambiamento intervenuto nel decennio 1996-2006 (Graf. 9.5).
189
Il peso dei Paesi emergenti è enormemente cresciuto dal 19,5%
al 30%, con l’incidenza quasi raddoppiata dei cosiddetti big five
(Indonesia più BRIC, Brasile, Russia, India, Cina), dal 7,6% al
13,4%. Soprattutto la Cina ha triplicato la propria quota, salendo dal 2,7% al 7,6%, mentre l’India ha mostrato un andamento molto più moderato, anche se nei servizi la sua presenza è
aumentata sensibilmente (dallo 0,6% al 2,5%). I Paesi MENA
hanno realizzato una notevole performance, passando dall’1,4%
al 4,5%.
È per contro diminuito lo spazio occupato dai Paesi industrializzati: gli Usa scendono dal 13,9% al 9,5%; il Giappone mostra
un significativo decremento dall’8,6% al 5,4%; l’UE ha invece registrato un minore decremento della propria quota in un decennio
di forte dinamismo degli scambi internazionali, grazie alla quadruplicazione delle esportazioni verso la Cina e alla triplicazione
di quelle verso Russia, Est Europa e i paesi del Centro Asia, mentre quello verso il Giappone è rimasto praticamente invariato.
Il peso dei Paesi emergenti è enormemente cresciuto dal 19,5%
al 30%, con l’incidenza.
È interessante rilevare le differenze di comportamento tra UE
e Usa. L’export di questi ultimi verso le stesse destinazioni viste
in precedenza sono aumentate, ma in misura molto minore: dal
31% al 38% verso i Paesi emergenti nel suo complesso.
Grafico 9.5 Composizione geografica del commercio mondiale. Quote dell’export mondiale
EU** : commercio extra-EU. MENA: Middle East and North Africa
Fonte: Carnegie Endowment (2010)
190
I trend riferiti ai flussi di scambi sono associati a determinati
macro-trend sul piano economico-produttivo e finanziario.
Per quanto riguarda i primi, la Cina ha triplicato le esportazioni di prodotti manifatturieri (dal 3,2% al 9,8%), superando
così Usa e Giappone, mentre i Paesi dell’Africa sub-sahariana
hanno registrato un aumento delle esportazioni di manufatti dal
7,1% al 18,7%.
Strettamente intrecciato alla dinamica reale appena descritta
è l’avanzamento del processo di integrazione finanziaria, dato il
significativo aumento dei flussi di capitali privati dai paesi industrializzati a quelli in via di Sviluppo: da 151.000 miliardi nel
1995-97 ai 489.000 miliardi nel biennio 2004-2007. Sono parallelamente aumentati anche i flussi Sud-Sud da 3.700 miliardi nel
1990 a 73.800 miliardi nel 2007.
è chiaro, dunque, che integrazione reale e finanziaria si sono
reciprocamente alimentate, mentre si sviluppavano i processi,
precedentemente indicati, di unbundling e di specializzazione verticale (§ 9.1.2).
Prima di sviluppare questo punto è però opportuno sottolineare un altro aspetto, che ha interagito “virtuosamente” con gli
altri nell’amplificare gli scambi. Intendiamo riferirci alla crescita
di quella che la World Bank (2007) ha definito global middle class,
ovvero colo che percepiscono tra 4.000 e 17.000 dollari, calcolati
secondo la parità del potere d’acquisto al 2005.
Essi sono dalla WB stimati in 400 milioni nel 2005 e in 1
miliardo e duecento milioni nel 2030, con un aumento progressivo dell’incidenza delle popolazioni appartenenti ai Paesi
emergenti. Carnegie Endowment stima che la Global MiddleRich Class (GMR), con reddito di almeno 4.000 dollari, cambierà in misura sensibile la composizione nei prossimi decenni
(Graf. 9.6), in conseguenza dell’ulteriore sviluppo di intere
aree continentali e di grandi entità come Cina, India, Indonesia, e così via. India e Cina costituiscono il 42% della GMR
dei G20 nel 2009 e la loro incidenza dovrebbe salire ulteriormente nel 2050, quando dovrebbero raggiungere il 70% insieme all’Indonesia.
Tralasciando proiezioni aggiuntive, concernenti altri paesi
(Brasile e Russia in primis), è evidente che siamo sulle soglie di
radicali mutamenti nella domanda mondiale di beni di consumo
e degli stili di vita, anche perché si tratta dell’ingresso sulla scena non di un aggregato omogeneo, ma di fasce di popolazioni
191
differenti per storia, valori, religione, aspirazioni (Pew Research
Center, 2009).
Popolazione (milioni)
Grafico 9.6 Dimensioni della Global Middle-Rich Class
Economie in via di sviluppo G20
Economie avanzate
Fonte: Carnegie Endovment (2010)
Alle profonde implicazioni economico-produttive su scala globale del processo indicato occorre aggiungere un altro elemento
di grande rilevanza, cioè l’ipotesi che uno dei motori della nuova
crescita nei prossimi decenni sarà nel mercato delle infrastrutture
che si svilupperà nei paesi emergenti. Calcoli basati su dati forniti
dall’OECD (OECD, 2007a) portano a stimare che nel decennio in
corso la spesa annua media per investimenti in infrastrutture27 sarà
pari a 2 milioni e centomila miliardi (SERI, 2010d).
La domanda e la spesa cinese sono ovviamente una delle
maggiori componenti, ma è soprattutto rilevante il fatto che questo enorme ammontare di risorse per far fronte ad una domanda crescente di dimensioni enormi sprigiona una serie di forze
competitive del tutto nuove sia sul terreno tecnico-scientifico e
produttivo che sul terreno più propriamente economico, dove
sarà necessario definire nuovi modelli di business che sappiano combinare fattori strategici e politico-istituzionali. È chiaro,
però, che si amplia la scala competitiva per global player, i quali
Si tratta di investimenti in: strade e ferrovie, telecomunicazioni, elettricità, acqua.
27
192
devono essere in grado di muoversi agevolmente su una serie di
domini conoscitivi in continua evoluzione: dai nuovi materiali
ai sistemi di controllo, dalla sensoristica alla pianificazione di
sistemi complessi interagenti a varia scala (intelligent transport
systems), ambient intelligence (vedi § 9.6).
L’elemento cruciale dei prossimi decenni è che l’aggregato
eterogeneo, tradizionalmente definito “il resto del Mondo”, sarà
il motore fondamentale della crescita mondiale con basi strutturali del tutto differenti da quelle del passato, quindi con un
profondo cambiamento degli equilibri a molti livelli.
Oltre alla proiezione secondo la quale la popolazione delle
economie emergenti dovrebbe aumentare di 1,5 miliardi al 2050,
più di quanto è oggi la popolazione dei Paesi industrializzati,
la dinamica degli investimenti in rapporto al PIL sarà in quei
Paesi davvero imponente. Bisogna tenere peraltro presente che
in alcuni casi siamo di fronte ad enormi effetti di scala, dato
l’ammontare assoluto dei finanziamenti. Tale massa di risorse
viene immessa in sistemi socio-economici, i quali già negli ultimi
dieci anni hanno ridotto sostanzialmente il gap tecnologico che
li caratterizzava quando sono entrati nello scenario competitivo
globale (World Bank, 2008, p. 61). È stato infatti rilevato (Comin
e Hobijn, 2004) un trend di lungo periodo di un’accelerazione
del processo di diffusione delle tecnologie a livello internazionale, che vede protagonisti proprio le realtà emergenti, specialmente quando superano una certa soglia nei processi di adozione e adattamento tecnologico (World Bank, 2008, p. 89). Certo
permangono forti disparità all’interno di singoli Paesi ed aree
(si pensi all’India, che ha punte estremamente avanzate e larghe
zone di estrema arretratezza), ma è comunque interessante che
la diffusione di nuove tecnologie connesse a trasporti e comunicazioni sia molto più rapida ed incisiva delle tecnologie tradizionali, la cui penetrazione è certamente più sistematica e profonda. Bisogna tenere presente che le tendenze appena indicate
troveranno nuovi meccanismi propulsori nelle interazioni tra i
rilevanti investimenti in infrastrutture e le traiettorie di natura
tecnico-scientifica e ambientale (controllo e governo dei flussi,
monitoraggio delle proprietà dei sistemi complessi).
In definitiva, quindi, lo scenario dei prossimi decenni avrà al
centro due traiettorie fondamentali: 1) sviluppo delle direttrici
tecnico-produttive come quelle appena indicate; 2) consolidamento di una “nuova triade” (Cina, India, Usa) quali economie
193
in grado di esprimere i maggiori impulsi di domanda, con tutto
quello che implicano, specie per le prime due, i fabbisogni in termini di componenti essenziali per i processi di sviluppo e consolidamento nel lungo termine.
Il punto di arrivo dell’analisi e delle riflessioni svolte è il seguente: nei prossimi decenni il potenziale di sviluppo delle imprese e delle economie dipende dal posizionamento competitivo
che si acquisisce in un mondo multipolare, i cui centri propulsori
sono in uno spazio geo-economico e tecnico-produttivo non solo
molto differenti da quelli prevalenti nel passato, ma presumibilmente in forte accelerazione evolutiva.
Può essere allora proficuo indagare quale sia la dinamica
competitiva più recente di alcuni degli attuali protagonisti economici, per cercare di comprendere le potenzialità e itinerari di
crescita.
9.5.2 Dinamica e organizzazione dei flussi; posizionamento
competitivo di aree e Paesi
•• Le nuove economie emergenti e l’Estremo Oriente
Partiamo dalle relazioni commerciali tra Cina e Usa, Giappone,
UE-15 (Tab. 9.7).
Tabella 9.7 Saldo commerciale con la Cina. 2005. % sul PIL
Export in Cina
Impprt dalla Cina
SALDO
Fonte: Bosworth (2008)
USA
0,55
-2,38
-1,83
Giappone
2,96
-2,75
0,21
UE-15
0,76
-1,78
-1,02
Il Giappone ha per contro scambi più intensi fino a raggiungere un saldo leggermente attivo.
Emerge chiaramente che nel 2006 lo squilibrio nei rapporti CinaUsa è nettamente maggiore di quello rilevabile per gli altri due. Se
l’andamento delle importazioni è complessivamente simile, le esportazioni sono molto differenti. In particolare risulta più alta la propensione all’export dell’UE, che ha anche una minore quota di import
rispetto agli Usa, con conseguente più basso deficit commerciale.
Il contrasto tra Giappone e Usa non potrebbe essere più evidente. Del resto è differente anche il profilo temporale delle rispettive relazioni di scambio, dal momento che il primo ha fin
dagli anni ’80 instaurato flussi verso la Cina -in percentuale sul
194
PIL- costantemente più alti di quelli statunitensi, ma si tratta
di anni in cui la Cina non è ancora un mercato attraente. Solo
agli inizi del nuovo secolo la Cina ha acquisito importanza per
il Nordamerica: le esportazioni in Cina sono raddoppiate (dallo
0,26% allo 0,56% del 2006), ma negli stessi anni quelle giapponesi sono triplicate. L’analisi delle variazioni nel tempo dell’export
americano e giapponese in Cina indica che di fatto esse hanno
sostanzialmente seguito l’evoluzione del PIL e del mercato di
destinazione: quelle Usa rappresentano nel 2006 una quota del
2,9% (di fatto la stessa del decennio ’90), mentre per quelle giapponesi raggiungono stabilmente il 4,9% dagli anni ’90 in poi.
In sostanza, dunque, entrambi i Paesi sono riusciti a tenere il
passo con l’espansione cinese, ma su scala differente: un’economia più piccola ha di gran lunga sorpassato quella più grande,
mantenendo stabile nel tempo la propria posizione competitiva.
L’analisi comparata degli scambi con la Cina in base alle tipologie di beni a due-digit (Bosworth e Collins, 2008) mette in
luce che in realtà non vi è niente di “inusuale” nella composizione
dell’export e dell’import statunitense rispetto ai termini di raffronto, né tale composizione è differente da quella verso il resto del
mondo. L’unico elemento differenziale sono le strategie di business
attuate sul mercato cinese dalle società multinazionali americane
(MNCs, multinational corporations): esse operano come filiali che
cercano di conquistare il mercato di riferimento locale, assegnando un ruolo secondario alle operazioni di scambio con gli Usa. Per
il Giappone e l’UE-15 non è così: le MNCs operano nell’ambito
di strategie tendenzialmente integrate a scala globale, assegnando centralità ai legami con la “madrepatria”. Su questa base non
sorprende la conclusione che la modesta performance dell’export
Usa forse è una questione di natura generale e strategica, non un
problema generato dalle relazioni specifiche con la Cina.
Gli elementi addotti finora inducono a ritenere che la dinamica
dei flussi economico-finanziari a livello internazionale sia strettamente connessa all’evoluzione delle relazioni di scambio e alle
modalità con cui esse sono organizzate. Il ruolo degli agenti (imprese e istituzioni) viene quindi alla ribalta e spinge a inquadrare
su un terreno differente le questioni attinenti a: 1) competitività di
imprese, Paesi e aree; 2) regole e strategie di comportamento; 3)
dinamica tecnologica; 4) interconnessione tra le varie componenti.
Iniziamo dall’ultimo punto e ancora una volta dalla Cina,
sulla base di una serie di studi che forniscono spunti molto inte195
ressanti (Branstetter et al., 2006; Broda e Weinstein, 2005; Koopman et al., 2008; Rodrik, 2006; Schott, 2008; Sill, 2008).
Ciò che a nostro avviso è più significativo non è tanto la
crescente incidenza del PIL cinese su quello mondiale, salita
dall’1,5% al 5,5%, fino a diventare la quarta economia del mondo, dopo Usa, Giappone, Germania. Rilevante, ma non cruciale
ai nostri fini, è anche il dato relativo alla straordinaria espansione dell’industria manifatturiera cinese, la cui quota sul valore
aggiunto manifatturiero mondiale è salita dal 2,8% al 9,9%.
Due appaiono, invece, gli elementi di grande importanza nello scenario competitivo internazionale, quindi per valutare il potenziale di sviluppo delle economie industrializzate e le prospettive per l’evoluzione dei relativi mercati del lavoro.
Il primo è il rapido mutamento nella composizione dell’export cinese nel quindicennio 1992-2006: alla prevalenza di giocattoli, calzature, abbigliamento è subentrato il predominio di
beni high-tech connessi alle tecnologie dell’informazione. Rodrik
(2006) e Schott (2008) hanno messo in luce come la rapida evoluzione del “grado di sofisticazione” dell’export cinese sia “inattesa
alla luce del suo livello di sviluppo”. È bene tenere presente, però,
che ciò non è dovuto solo ai bassi costi del lavoro, alla inesistente o quasi regolamentazione dei rapporti di lavoro, all’assenza delle normative e dei vincoli esistenti nei Paesi di più antica
industrializzazione. Stime CEIC-IMF riportate in Kianan e Yi
(2009) indicano che in dieci anni (1996-2006) i salari manifatturieri sono aumentati in Cina del 232%, anche se è bene ricordare
i modestissimi livelli di partenza. Il trend salariale crescente ha
addirittura indotto global player come la Nike a spostare le loro
produzioni in “nuovi Paesi emergenti” (Vietnam, Bangladesh).
Il fatto è che l’aumento del grado di sofisticazione dell’export è
il risultato anche di una peculiare dinamica tecnico-produttiva.
Nel corso degli anni la struttura delle importazioni e delle esportazioni cinesi è divenuta sempre più simile soprattutto a quella di
Giappone, Corea, Germania, da cui la Cina ha progressivamente
accresciuto i flussi in entrata di parti e componenti; Koopman,
Wang e Wei (2008) calcolano che fino al 50% del valore aggiunto delle esportazioni cinesi provenga da beni importati; tale incidenza è eterogenea nei vari settori ed è più elevata per quelli
high-tech e più modesta per quelli a maggiore intensità di lavoro.
Questi dati e la rappresentazione dei flussi consentono a Yi e
Kianan (2009, p. 19) di fondare la tesi che nell’ultimo decennio si
196
sono sviluppate “relazioni di complementarità più che competitive con alcuni suoi partner commerciali” (Graff. 9.8 e 9.9).
Grafico 9.8 Geografia degli scambi commerciali in Asia. Integrazione della Cina nel “Network
asiatico. 1994-2006. Variazioni %
Economie asiatiche emergenti
78%
389%
“Grande Cina”
345%
USA
191%
24%
Giappone
Fonte: adattamento da Yi e Kianan (2009)
Grafico 9.9 Geografia degli scambi commerciali in Asia. Integrazione della Cina nel “Network
asiatico”. 2006. Dollari Usa
Economie asiatiche emergenti
171%
281%
“Grande Cina
252%
USA
129%
147%
Giappone
Fonte: adattamento da Yi e Kianan (2009)
Dai due grafici emergono nettamente le intense e sistematiche
connessioni sviluppatesi tra Paesi dell’Estremo Oriente e il ruolo
assunto dalla Cina all’interno di cicli produttivi a scala globale.
Complementarità e interdipendenze sono quindi basilari per lo
sviluppo del potenziale produttivo di Imprese, Paesi e aree. Ciò
evidentemente è direttamente connesso allo sviluppo di processi
di specializzazione verticale.
La frammentazione dei processi produttivi e la specializzazione verticale costituiscono per così dire la matrice genetica delle in197
terdipendenze strutturali che contraddistinguono la competizione
globale odierna. Ulteriori conferme delle affermazioni precedenti
possono essere desunte dall’applicazione di una particolare metodologia di analisi I/O e dall’impiego di peculiari metriche di valutazione dei fenomeni in questione (Amador e Cabral, 2009). Ebbene, tra i risultati più interessanti emersi è l’esistenza di una stretta
e crescente integrazione a network tra le economie dell’Estremo
Oriente, con una differenziazione interna in due sotto-gruppi ad
elevata interazione sulla base del loro livello di sviluppo: da un lato
Hong Kong, Singapore e Corea del Sud, dall’altro Malesia, Filippine, Tailandia. Impressionante è il dato riferito alla Cina, che in
20 anni è passata dall’1,7% al 15% della specializzazione verticale,
specialmente in conseguenza dell’evoluzione dei prodotti high-tech.
La dinamica tecno-economica si è dunque sviluppata secondo
un insieme integrato di definite traiettorie: 1) emergere di global production networks, distribuzione di fasi e componenti di esse in differenti aree e Paesi; 2) competizione basata non tanto sui “vantaggi
comparati” quanto sul possesso di competenze e la possibilità di
garantire input a prezzi più convenienti per lo svolgimento di determinate fasi del ciclo produttivo; 3) “commercio verticale”, in quanto gli scambi tra Paesi rappresentano sempre più i flussi economicoproduttivi e finanziari tra sequenze di fasi distribuite a varia scala
nell’ambito delle reti globali. Da ciò peraltro deriva la difficoltà di
interpretare gli indicatori statistici: l’export di un Paese, specie se di
grandi dimensioni, potrebbe essere correlato non alla domanda di
altri Paesi bensì alla sua stessa domanda, nella misura in cui le sue
imprese produttrici hanno frammentato il processo di produzione a
scala internazionale; 4) la dinamica di tali flussi è sempre più intrecciata con processi di trasferimento tecnologico e di diffusione delle
conoscenze insieme alle tecnologie, sia pure a seconda dei contesti e
delle strategie degli agenti locali (imprese, istituzioni).
L’insieme di questi fattori ha nell’ultimo decennio determinato combinazioni complesse di elementi appartenenti a differenti
economie. Ciò ha comportato la creazione di strette connessioni strutturali, che si sono manifestate secondo modalità peculiari:
1) crescente similarità delle strutture industriali28, spesso unite ad
analoghi andamenti di breve periodo (evoluzioni congiunturali
correlate); 2) progressivo consolidamento di aree integrate, definite anche bloc economies, vere e proprie basi strategiche per i global player, protagonisti dei processi di specializzazione verticale.
Aspetto già indicato a proposito della Cina.
28
198
Ciò è accaduto nell’Estremo Oriente ed anche in Europa, dove le
imprese tedesche sono state particolarmente attive e lungimiranti
nel costruire relazioni di complementarità e interdipendenza con
imprese, Paesi e contesti dell’ex blocco sovietico. La dinamica descritta ha raggiunto la punta più avanzata in Asia, dove Giappone
e Corea sono indubbiamente i principali elementi propulsori degli
scambi verticali, evidentemente incentrati sul ruolo svolto dalle imprese coreane. Si pensi che “nell’ultimo decennio il volume di beni
intermedi scambiati in Corea è quasi triplicato e nel 2006 ha raggiunto il 40% del totale degli scambi” (Suh, 2009, p. 26). L’azione
sistematica dei GPN coreani è stata cruciale e si è sviluppata anche
in un contesto di intensa competizione con quelli giapponesi per
quanto attiene alla penetrazione nell’economia cinese. Essi hanno
attuato una strategia composita di riduzione della presenza sul continente americano e di intensificazione del ruolo su quello asiatico,
alla ricerca di convenienze di costo attraverso un crescente volume
di finanziamenti diretti al paese di riferimento. Si è così creato un
connubio dinamico: “il mercato cinese è diventata la forza motrice
della stabilità e della crescita dell’economia coreana” (Suh, 2009, p.
29). Complementarità e interdipendenza tra le due economie, interazioni positive tra investimenti interni e quelli all’estero, aumento
dell’occupazione all’interno come effetto combinato della creazione
di imprese collegate in zone estere sono le componenti di un circolo
virtuoso incentrato negli ultimi su commercio “ad elevata stratificazione” (Suh, 2009, p. 31). L’esistenza di GPN dinamici ha nel caso
coreano garantito il coordinamento strategico tra flussi collegati
strettamente sia allo sviluppo di economie emergenti che l’innalzamento del livello tecnologico delle fasi svolte nel paese di partenza.
In sostanza, quindi, si è realizzato un processo di diffusione delle
tecnologie e di avanzamento della frontiera esteso a scala continentale, ma con effetti globali dal punto di vista dei mercati di consumo
e della dinamica tecnico-scientifica, visto l’elevato ammontare di risorse finanziarie in ricerca e sviluppo che tutto ciò ha comportato e
tuttora implica per mantenere posizioni di leadership.
Per questa via i GPN coreani hanno superato i “giganti” giapponesi, meno propensi ad attribuire minore importanza ai mercati dei Paesi industrializzati.
Dall’analisi svolta in questo paragrafo è allora desumibile
un’importante conclusione: lo scenario competitivo globale richiede lo sviluppo di complementarità e interdipendenze tra
economie. Al tempo stesso è basilare la creazione di basi eco199
nomico-produttive strettamente integrate a livello di aree, anche
perché devono essere affrontate le sfide poste da rapidi processi
di upgrading tecnologico di Paesi new comers.
Il quadro diviene ancora più complicato alla luce della dinamica tecnico-scientifica, innescata dalla necessità di rispondere
alle priorità dettate dai problemi ambientali e dalle probabilità
difficoltà inerenti agli approvvigionamento di input primari (costo e vincoli quantitativi).
Di qui derivano, pertanto, rischi e opportunità per le economie di tutto il mondo, con profonde ripercussioni sui mercati del
lavoro locali, tenendo però presente che ormai anche in questa
sfera sono in atto processi multi-scalari, che dovrebbero essere al
centro delle elaborazioni strategiche.
•• L’evoluzione del posizionamento competitivo dell’Europa e dell’Italia29
Vediamo come l’entrata nello scenario competitivo di nuovi protagonisti e il connesso forte dinamismo del commercio mondiale
hanno influenzato la posizione di un nucleo centrale di paesi europei (Germania, Francia, Italia).
Dall’analisi della dinamica dei flussi di scambio nel corso
degli ultimi due decenni emerge una crescente asimmetria tra
il comportamento di Germania da un lato, di Francia e Italia
dall’altro (Tab. 9.10).
Tabella 9.10 Quote dell’export mondiale Tassi cambio a prezzi costanti
Francia
Germania
1990
6,4
12,0
5,0
6,5
12,0
1991
6,2
11,4
4,8
6,3
11,6
1992
6,3
11,3
4,8
6,3
11,0
1993
5,6
10,3
4,6
5,8
10,6
1994
5,6
10,2
4,5
5,8
10,7
1995
5,7
10,3
4,6
5,7
10,3
1996
5,4
9,9
4,7
5,4
10,5
1997
5,2
9,3
4,4
5,5
10,5
1998
5,7
10,1
4,6
5,7
10,9
1999
5,4
9,7
4,2
5,7
11,0
2000
4,7
8,7
3,8
5,7
11,0
2001
4,9
9,5
4,1
5,8
11,5
2002
4,9
9,7
4,1
5,7
11,6
2003
4,9
10,2
4,0
5,3
11,7
2004
4,9
10,2
4,0
5,0
11,8
Fonte: Felettigh et al. (2006), dati IMF, ISTAT
Tassi di cambio a prezzi correnti
Francia
Germania
ITALIA
ITALIA
4,4
4,2
4,2
4,4
4,5
4,6
4,0
4,0
4,0
3,6
3,5
3,5
3,3
3,1
2,9
L’argomentazione sviluppata nel paragrafo segue le linee di analisi contenute in Felettigh et al.
(2006), ma se ne discosta per alcune riflessioni aggiuntive e differenti valutazioni.
29
200
Nel decennio ’90 la Germania riunificata è partita con una
certa debolezza sul terreno degli scambi, ma da metà decennio
è apparso un sentiero di incremento costante, poi accelerato nel
periodo 2000-2005.
La Francia ha invece perso costantemente quote degli scambi mondiali, anche se in misura relativamente minore di quanto
accade al nostro Paese.
Per contro l’Italia mostra una notevole performance sul piano dell’export fino al 1995, per poi progressivamente rallentare e
retrocedere all’inizio del nuovo secolo.
Negli anni 2000-2005 la divaricazione fra le tre realtà aumenta in misura sensibile. In particolare per la Germania il contributo alla crescita del PIL è fortemente cresciuto, a fronte di un
impulso in diminuzione da parte della domanda interna, mentre
nelle altre due realtà avviene l’opposto (Felettigh et al., 2006).
Possiamo in sostanza ritenere che, mentre nel cuore dell’Europa
nel decennio in corso la partecipazione al commercio internazionale ha agito da meccanismo propulsore, in Francia e Italia è stata la domanda interna a sostenere un ritmo di crescita peraltro
molto debole, specie nel nostro Paese. Il nesso tra performance
economica nazionale e forza della spinta degli scambi internazionali sembra dunque non possa essere messo in discussione.
Ferma restando la debolezza degli impulsi alla crescita di natura endogena, che non rientrano nel campo di analisi di questo
contributo, occorre allora cercare le radici di questa difformità
di andamento. A tal fine l’analisi della natura e dell’intensità dei
flussi con l’estero sono un terreno essenziale di osservazione.
Il punto di partenza non può che essere costituito dalla divergenza di andamenti nelle quote sul commercio internazionale,
che per la Germania sono in calo fino al 1995 e poi sempre in
crescita, mentre sono in decremento sempre più accentuato in
valore e quantità per l’Italia. Esse descrivono un lento ma costante cedimento per la Francia.
In un periodo di progressiva accelerazione degli scambi mondiali, indotti dalla crescita della domanda proveniente da nazioni
ed aree tradizionalmente estranee al processo di sviluppo economico, la prima delle tre è riuscita a mantenere la propria quota,
ma le altre due hanno perso competitività. è dunque a quest’ultima variabile che occorre guardare con attenzione, cercando
di comprendere quali fattori esogeni o endogeni alle economie
in questione possono aver indotto performances così differenti.
201
Prendiamone in considerazione quattro, che sono basilari a fini
del successo competitivo: 1) competitività di prezzo; 2) specializzazione geografica; 3) specializzazione settoriale; 4) competitività non di prezzo.
Competitività di prezzo
Per quanto riguarda la prima, l’esame dell’andamento dei prezzi
all’export mostra un’evoluzione sfavorevole per l’Italia, che
dalla fine degli anni ’90 aumenta costantemente il divario verso
la dinamica dei prezzi praticati sui mercati internazionali da
francesi e tedeschi (Graf. 9.11).
Grafico 9.11 Indice dei prezzi all’export. Prodotti industriali. Gennaio 1999=100. Crescite dell’indice significa
perdita di competitività
110
105
100
95
90
Italy
85
1996
Germany
1997
1998
France
1999
2000
2001
2002
2003
2004
Fonte: Felettigh et al. (2006)
Negli anni 1997-2003 i prezzi all’esportazione sono in Francia rimasti praticamente invariati, mentre in Germania sono aumentati leggermente solo nel 2004 ed in Italia si è verificato un
incremento superiore al 10%. Una delle prime cause da prendere in considerazione è la dinamica dei costo del lavoro, che
potrebbe essere aumentato per l’industria italiana ma non per
quella francese o tedesca. In effetti gli investimenti tedeschi nei
Paesi nell’est europeo ammontano al 21,5% del totale, superati
solo da quelli olandesi (22,3%), mentre quelli francesi e italiani
incidono molto meno (rispettivamente 8% e 2,8%) (ECB, 2005,
202
Table 12). Su queste basi è chiaro che i produttori tedeschi hanno potuto contenere i costi degli input intermedi e quindi fissare
prezzi competitivi sui mercati internazionali. Questo argomento
può valere nella spiegazione del divario tra Italia e Germania,
ma non spiega perché la Francia ha avuto un andamento moderato dei prezzi all’export. In realtà studi specifici indicano per
i due paesi latini comportamenti differenziati a livello settoriale che possono essere alla base di quelle tipologie di andamenti
medi dei prezzi. Nel caso italiano gli esportatori di alcuni settori (tessile, abbigliamento, prodotti in pelle, ceramiche e legnoarredamento) avrebbero utilizzato la specializzazione geografica
(differenziazione dei mercati) per praticare margini differenziati
sui prezzi a seconda del mercato di riferimento, esibendo così
un significativo “potere di mercato” (De Nardis e Pensa, 2004).
Per quanto riguarda la Francia, Cheptea et al. (2005, p. 4) così
descrivono il comportamento di imprese tedesche e francesi negli anni di deprezzamento del dollaro: le prime hanno ridotto i
prezzi, le seconde hanno aumentato i margini, dopo essersi spostate su settori più dinamici: chimico-farmaceutico, automobili,
attrezzature di trasporto e comunicazione30.
Dall’analisi relativa alla competitività di prezzo emergono tre
punti: 1) grazie a robusti investimenti nell’est europeo la Germania ha creato fonti di approvvigionamento di input molto favorevoli in termini di costo; 2) ha utilizzato questa chance per
offrire prezzi finali competitivi; 3) ha evidentemente creato le
condizioni per un’integrazione tendenziale tra la propria struttura industriale e quella nascente o in via di ristrutturazione dei
Paesi dell’ex blocco sovietico.
Specializzazione geografica
Per quanto riguarda la specializzazione geografica, Felettigh et al.
(2006) hanno rilevato alcuni elementi di notevole interesse. Due processi hanno nel corso degli anni influenzato l’evoluzione dell’export
di Germania, Francia e Italia: 1) allargamento dell’Unione Europea; 2) entrata in scena della Cina ed “esplosione” del commercio
internazionale, in seguito all’emergere di altri protagonisti.
È bene analizzare gli effetti di ciascuno dei due sui mutamenti
indotti nel mercato intra-Ue ed extra-Ue.
30
Più precisamente Cheptea et al. affermano: “Les exportateurs allemands ont augmenté leurs
volumes de vente en réduisant nettement les prix sur leurs marchés d’exportation, tandis que leurs
concurrents français augmentaient leurs marges en répercutant dans leurs prix une part plus réduite
de la dépréciation de l’euro. Ainsi, ce sont les différences”.
203
In merito al primo, è rilevabile ancora un’asimmetria evolutiva simile alla precedente: la Germania mostra una diminuzione
delle sue quote del mercato europeo dal 1988 (anno di picco con
17,1%) fino al 2000, per poi riprendere il movimento in ascesa
fino a ripristinare il valore del 1985 (14,5%). Francia e Italia, entrambe accomunate dalla tendenza crescente fino al 1995, seguita da un declino costante (Tab. 9.12).
Tabella 9.12 Quote di mercato nell’area euro delle importazioni di beni
FR
GER
IT 10 Nuovi Paesi membri
1995
9,9
15,2
7,4
3,0
1996
9,6
14,6
7,4
3,0
1997
9,3
13,8
6,9
3,2
1998
9,4
14,0
6,8
3,6
1999
9,4
14,0
6,6
3,8
2000
8,8
13,1
6,0
3,9
2001
8,7
13,5
6,1
4,3
2002
8,6
13,8
6,0
4,6
2003
8,7
14,1
5,9
5,0
2004
8,2
14,5
5,7
5,5
Note: tassi di cambio e prezzi correnti, punti percentuali. Denominatore: somma delle importazioni dei Paesi area
euro (inclusi essi stessi) dal resto del mondo; numeratore: totale dell’export di ciascuno dei Paesi verso l’area euro.
Fonte: Felettigh et al. (2006), EUROSTAT
Un’asimmetria del tutto differente emerge dall’esame delle
quote di export verso l’area euro in confronto all’export verso il
resto del mondo (Graf. 9.13). Risulta chiaro che per la Francia
i mercati europei sono più importanti di quanto non accade alle
altre due realtà, il cui orientamento verso nuove aree economiche
appare nettamente più marcato.
Ciò non è stato privo di effetti, in quanto la maggiore dipendenza dagli sbocchi continentali ha reso il Paese transalpino maggiormente sensibile alle caratteristiche della domanda generata
all’interno del continente europeo. La più favorevole specializzazione geografica di Germania e Italia, nel senso del loro orientamento più accentuato verso le aree con più elevati tassi di crescita dell’Estremo Oriente, ha indubbiamente creato le condizioni
per una migliore recettività degli impulsi dinamici dall’Asia. Se
a questo aggiungiamo le relazioni reciproche fra i tre Paesi, scopriamo un fatto interessante: dal 2000 al 2004 il 24% dell’export
francese va alle altre due nazioni, mentre le quote per le altre tre
due sono differenti: 18% (Germania) e 27% (Italia).
204
Grafico 9.13 Quote dell’export intra-Ue sul totale dell’export in valore
0,60
Italy
0,58
Germany
France
0,56
0,54
0,52
0,50
0,48
0,46
0,44
0,42
0,40
1981
1983
1985
1987
1989
1991
1993
1995
1997
1999
2001
2003
Fonte: Felertigh et al. (2006)
I dati inducono due considerazioni di rilievo. Per la Francia la
maggiore esposizione al mercato europeo e il peso relativo delle
altre due componenti della triade possono essere fondatamente
ritenute alla base della sua debole performance in termini di crescita, vista la debolezza della domanda interna di Italia e Germania. Per l’Italia pare aver agito un meccanismo simile dal punto di vista delle forze propulsive di origine europea (deboli), a cui
si è però unito il fatto che l’orientamento più accentuato verso
mercati extraeuropei non sembra aver consentito di intercettare
spinte espansive di particolare intensità. Esaminiamo la specializzazione settoriale alla ricerca delle ragioni di questo fatto.
Specializzazione settoriale
Già nel Rapporto sul Mercato del lavoro per il 2009 sono stati introdotti spunti di riflessione sul modello di specializzazione
europeo e in particolare di Germania, Francia e Italia, sulla base
del concetto di “vantaggio comparato rivelato” (§ 3.4). Ai fini
del presente contributo, ovvero l’individuazione della natura e
dell’intensità di fattori di crescita, prendiamo in considerazione
le sfide poste alla posizione competitiva dei Paesi, soprattutto
205
quelle concernenti la composizione del loro sistema produttivo e
l’evoluzione della tipologia di output.
Distinguendo in base al livello tecnologico dei prodotti, l’Italia è com’è noto specializzata in quelli a bassa tecnologia e ad
alta intensità di lavoro, dove ha subito forti pressioni competitive
da parte di numerosi Paesi (Cina, India, Pakistan, Bangladesh,
Spagna) (De Nardis e Pensa, 2004, pp. 26-29, Tabella 4). Anche
la Germania è esposta alla concorrenza di nuove realtà emergenti (Est Europeo, Cina, India, Brasile e Messico), ma negli anni
1999-2003 il contributo dei settori low-tech alla perdita di terreno
nella competizione per l’Italia è stato più marcato sia in valore
che in volume (Felettigh et al., 2006, p. 308). Negli stessi anni
la Cina ha aumentato la propria incidenza sull’export mondiale
di quei beni dal 5,1% al 17,7%, ma bisogna tenere comunque
presente che la quota di beni a bassa tecnologia è comunque in
diminuzione sul totale globale. Possiamo dunque concludere su
questo punto con la seguente affermazione: in una fase di elevata crescita degli scambi internazionali è avvenuta, per i prodotti
low tech e ad elevata intensità di lavoro, un progressivo calo di
incidenza complessiva e un profondo mutamento nella composizione dell’offerta, con l’ingresso di nuovi apparati economicoproduttivi. In tale quadro il nostro Paese ha perso costantemente
terreno più di quanto è avvenuto per altri.
Per quanto riguarda i settori a media tecnologia, sempre negli
stessi anni, Germania, Francia e Italia hanno tutte e tre perso
quote di mercato a beneficio di nuove realtà emergenti (Asia, Sudamerica, Europa dell’Est, Irlanda, Spagna), tranne l’Italia nel
segmento delle “macchine speciali, motori, componenti per autoveicoli”. La visione complessiva acquista una valenza molto
differente se si prendono in considerazione la frammentazione
dei processi produttivi e la distribuzione a livello internazionale, come è avvenuto per le imprese tedesche. Conferme indirette
del fenomeno in questione sono rinvenibili nel dato relativo agli
investimenti nell’Est europeo, precedentemente indicato, e nei
valori assunti dal contenuto di import delle esportazioni31, salito
di 8 punti percentuali per la Germania e di 3 per l’Italia, che ha
il più basso livello (35,4%), contro a quello massimo dell’Olanda (58,7%) (ECB, 2005, p. 64, Chart A). Lo spazio competitivo
francese sembra essere stato meno minacciato in questa tipologia
Questo concetto indica quanto dei beni esportati è in effetti prodotto all’estero e importato, talvolta
reimportato, temporaneamente.
31
206
di prodotti, a causa delle peculiari specializzazioni di quell’apparato produttivo: alimentari, aeronautica e farmaceutica, oltre ad
automobili e componenti per veicoli.
Alcuni brevi spunti, infine, per i prodotti hi-tech. Più volte,
anche nei due ultimi Rapporti sul mercato del lavoro è stato messo in luce la relativa debolezza dell’Europa nelle produzioni ad
elevata tecnologia, soprattutto per quanto concerne le tecnologie
dell’informazione. In questa sede è opportuno sottolineare, però,
un dato concernente la Germania, dove si è sviluppata una specializzazione in aggregati di attività molto interessanti: strumenti
di trasmissione e di misura, meccanica strumentale, chimica. Si
tratta di attività produttive funzionali alla peculiare configurazione del sistema produttivo nel suo complesso, incentrato su
produzioni a tecnologia medio-alta, quali auto e dispositivi per
la comunicazione e trasporto, industria dell’energia, ecc. I loro
output sono infatti essenziali, in quanto devono essere incorporati in sistemi complessi come quelli derivati dai nuovi processi
di produzione, che sono un insieme di flussi tecnico-scientifici
(ampliamento delle sfere di conoscenza) e socio-economici (nuovi parametri e vincoli per il consumo individuale e collettivo, soprattutto quelli di natura ambientale).
L’analisi svolta fonda quindi la seguente tesi: la Germania
presenta chiari segnali di una dinamica strutturale verso la creazione di un sistema economico-produttivo integrato e distribuito
a livello internazionale, con una base organizzata a livello continentale e un graduale innalzamento del contenuto tecnico-scientifico delle conoscenze incorporate nei processi e nei prodotti.
Nella ricerca di spiegazioni per le performances dell’export
europeo e quindi del suo posizionamento competitivo non va
trascurata l’influenza esercitata dalle specializzazioni in termini di prodotto, nel senso che i diversi beni hanno una differente
elasticità rispetto al ciclo economico mondiale. Beni strumentali,
aerei, beni di consumo durevoli reagiscono in misura più elevata
sia alle oscillazioni della domanda internazionale sia ai mutamenti tecnico-produttivi, nella misura in cui l’evoluzione delle
tecnologie e lo sviluppo di nuove “macchine produttive” industriali genera ‑sui sistemi economico-produttivi più avanzati- effetti immediati di contrazione e al tempo stesso di espansione, a
seconda del loro livello tecnologico, delle interdipendenze sviluppate a livello internazionale, del grado di ricezione dei flussi
innovativi.
207
Competitività non di prezzo
Queste ultime considerazioni aiutano a comprendere come
l’ultimo fattore preso in considerazione, ovvero la competitività
non di prezzo, non ha certo favorito il nostro Paese. Viene
a riguardo proposto un insieme di variabili: qualità, varietà
e contenuto tecnico-scientifico dei prodotti, non di rado in
combinazioni mutevoli nel corso di intervalli temporali sempre
più ravvicinati; livelli di istruzione e tipologia delle competenze
della popolazione (Felettigh et al., 2006). Anche in questo
caso è rilevabile, specie per il nostro Paese, una discrasia tra la
configurazione delle variabili e quelle maggiormente rispondenti
ad una dinamica tecno-economica internazionale che incorpori
nei beni più elevati input tecnico-scientifici, indipendentemente
dalla tipologia dei prodotti, siano essi di processi ritenuti
tradizionalmente low-tech oppure di aggregati medium-high-tech.
9.6
Una riflessione sulle traiettorie evolutive: un fondamentale
cambiamento di paradigma
Gli elementi analizzati nel paragrafo precedente delineano un
radicale mutamento delle coordinate entro cui si sta sviluppando lo scenario tecno-economico a livello mondiale. Innanzitutto
è opportuno comprendere che è oramai completato un profondo
mutamento del modello di organizzazione economico-produttiva,
con il passaggio -a partire dagli anni ’90- dal paradigma di matrice giapponese, incentrato su “reti relazionali di agenti produttori di prodotti, parti e componenti sulla base di strette relazioni di prossimità geografica ed economica” (Bok e Park, 2009), al
paradigma imperniato sul GPN (definiti global network business
nell’accezione coreana, Jung, 2009). Le reti relazionali ad alta integrazione avevano a sua volta sostituito con successo il modello
della produzione di massa, favorendo così lo sviluppo di flessibilità, competizione di prezzo e il perseguimento di alti livelli qualitativi. Il nuovo paradigma consente di combinare un insieme rilevante di elementi: abilità nell’utilizzare e diffondere conoscenze
tecnologiche, flessibilità, riduzione dei costi e ricerca di vantaggi
competitivi specifici per ciascuna fase di produzione, creazione di
strutture integrate a scala molto ampia tra componenti economico-produttive e finanziarie, diversificazione delle fonti di innova208
zione e accelerazione dei processi di sviluppo de prodotti. Oltre
ai punti descritti i GPN rappresentano opportunità, perché consente a agenti, specie in Paesi in via di sviluppo ma anche di aree
più avanzate, sia di accedere a un potenziale tecno-economico altrimenti inaccessibile, sia di trovare spazi per la valorizzazione di
proprie potenzialità di business, che rimarrebbero non utilizzate
o sostanzialmente depotenziate. Un’altra opportunità concerne
la possibilità che essi hanno di minimizzare i rischi inerenti a repentini cambiamenti della domanda, fonti di incertezza, possibili
defaillances, ecc.. Reti produttive distribuite ad ampia scala possono favorire più idonei processi di adattamento alle oscillazioni
della domanda e all’innesco di comportamenti di sintonizzazione
rispetto agli andamenti dei mercati e alla dinamica tecnologica.
Esse non sono peraltro prive di rischi e pericoli, relativi soprattutto alle difficoltà di generare sinergie tra elementi che possono
essere tra loro molto eterogenei e quindi rendere problematico lo
scambio di informazioni e la condivisione di risorse. Possono altresì emergere punti di debolezza concernenti il coordinamento
strategico tra entità operanti in contesti molto differenti, alle prese
con parametri e variabili decisionali non uniformi. Una conferma
significativa delle incognite e della vulnerabilità dei GPN può essere vista in quello che è di recente accaduto alla Toyota, costretta a richiamare milioni di autoveicoli in seguito alla scoperta di
componenti difettose. La vicenda dell’impresa giapponese mostra
con chiarezza alcune potenziali debolezze (Kang, 2010): 1) non è
semplice garantire standard qualitativi in impianti dispersi in località ed aree lontane; 2) componenti prodotte in aree differenti
possono incontrare difficoltà nel rispettare parametri qualitativi
congruenti; 3) non è arduo ipotizzare che in filiali o entità collocate lontano dai centri dei GPN si sviluppo dinamiche di diffusione
incontrollata di informazioni tecnologiche “sensibili”; 4) possono
insorgere problemi nell’ottemperare a regolazioni locali differenti,
da cui scaturiscono conflitti con le Istituzioni. Comunque sia tale
modello, nato negli Usa e in Europa per rispondere alla minaccia
costituita dai network giapponesi, è stato ampiamente sviluppato
a Singapore e in Corea, dove sono state create “piattaforme di produzione”, nucleo tecnico-produttivo grazie al quale segmenti del
processo di produzione possono essere poi distribuiti nelle zone
più attraenti dal punto di vista dei costi e delle competenze.
Si pensi che le aziende Taiwanesi producono più dell’80% dei
loro prodotti high-tech in varie parti del mondo, dopo aver acqui209
sito posizioni di vantaggio strutturale: “elevati costi di start-up e
elevata specializzazione adatta a specifici committenti pongono
ostacoli formidabili per qualsiasi nazione che sceglie di competere
con Taiwan” (Jung, 2009, p. 37). La scelta del modello di business
è stata finora premiante, se aziende coreane e taiwanesi hanno rovesciato la “gerarchia” nella leadership degli anni ’80 (Graf. 9.14).
Grafico 9.14 Fatturato dei primi produttori asiatici (elettronica). Migliaia di miliardi di dollari Usa
Kyocera
Seiko Epson
Acer
Nintendo
Compal
LG Display
Ricoh
Asustek
Quanta
Fujifilm
Canon
Nec Corp
Fujitsu
Hon Hai
Toshiba
Hitachi
Samsung
11,3
11,8
14,0
14,7
15,1
15,4
19,5
22,9
23,6
25,0
38,1
40,6
46,8
51,7
67,4
98,6
105,7
0
20
40
60
80
100
120
Fonte: Jung (2009)
Dal grafico risulta che il vertice è ora costituito da tre imprese
coreane e la quarta è Taiwanese, mentre solo dieci anni or sono
le entità giapponesi avevano una primazia apparentemente inattaccabile.
Non bisogna peraltro trascurare che i GPN comportano anche rischi globali, che riguardano soprattutto sia la possibilità
che si sviluppino posizioni monopolistiche, basate sul possesso
di marchi e conoscenze tecnico-scientifiche esclusive, sia l’eventualità che si creino coalizioni oligopolistiche tali da imporre
standard e prezzi.
Appare però indubbio che le strutture industriali stiano “gravitando” verso il nuovo paradigma, come documentano Bok e
Park (2009), che classificano 12 settori in base al grado di segmentazione dei processi di produzione, alla loro prontezza nel
210
trasformare questi ultimi in moduli distribuiti a varia scala. Essi
individuano tre gruppi: il primo è composto da quelle attività
che hanno più prontamente assorbito e realizzato il nuovo modello.Si tratta dell’abbigliamento, del farmaceutico e delle attrezzature per le tecnologie dell’informazione. Il secondo comprende
l’industria automobilistica e la produzione di beni strumentali,
la cui maggiore resistenza verso l’adozione di differenti assetti
strategici e regole di comportamento è dovuta alla necessità di
avere legami molto stretti tra dipartimenti interni e tra questi e
i sub-fornitori, con conseguenti imperativi di avere flussi di comunicazione intensi e agevoli, funzionali all’ottenimento elevati
standard qualitativi. Il terzo gruppo include attività con limiti
intrinseci verso l’adozione del modello: produzione di semiconduttori e componenti elettroniche, dove la conoscenza tacita nella gestione del processo è essenziale; cantieristica, per la quale la
segmentazione e il commercio verticale appare in prima battuta arduo; la siderurgia, che poco si presta alla frammentazione
della catena del valore. Per quest’ultima in effetti la tendenza è
ancora poco delineata, ma per la cantieristica vi sono già esempi
notevoli a scala asiatica.
Le riflessioni sul cambiamento di paradigma non devono indurre a trascurare un problema cruciale: le nuove forme organizzative
costituiscono una minaccia e generano opportunità per le piccole e
medie imprese di tutto il mondo, siano essere organizzate autonomamente o inserite in agglomerazioni economico-territoriali?
È chiaro che l’esistenza di strutture gerarchiche globali modifica radicalmente lo spazio della produzione, nella misura in
cui il rafforzamento e l’estensione della tendenza a scomporre
i cicli produttivi in moduli distribuiti su vasta scala introduce
mutamenti significativi nell’orizzonte operativo delle PMI che
intendano perseguire assetti organizzativi differenti. Siamo d’altra parte entrati in un’epoca contraddistinta dalla pluralità delle
morfologie evolutive delle imprese, i cui gradi di libertà sono potenzialmente aumentati proprio in relazione ai livelli prescelti di
frammentazione dei processi. Esistono, però, tendenze contraddittorie, che meritano di essere tenute presenti.
Da un lato le strutture produttive globali tendono per così dire
“naturalmente” ad assumere configurazioni monopolistiche o di
tipo oligopolistico, anche se è più frequente l’eventualità che si
istituiscano barriere all’entrata. Di qui il ridursi delle possibilità
per PMI in qualunque morfologia organizzativa esse assumano.
211
Dall’altro lato occorre tenere presente che la dinamica tecnoeconomia odierna genera spazi di opportunità per unità economiche di qualsiasi dimensione, perché apre continuamente nuovi
ambiti di ricerca tecnico-scientifica con ricadute produttive non
distanti nel tempo e sempre più spesso amplia i tradizionali domini di conoscenza tecnologica.
Ecco allora che per le PMI si profilano almeno tre opzioni per
strategie di crescita (Park e Bok, 2009).
La prima è quella di diventare esse stesse global companies,
grazie allo sviluppo di strategie, competenze tecnologiche, relazioni e modelli di business a scala adeguata.
La seconda si incentra sulla scelta di diventare fornitori di
secondo livello (second tier) di GPN, grazie anche in questo caso
al consolidamento di capabilities tecno-economiche di elevato
livello. L’entrata nell’”agone competitivo” mondiale in associazione con i GPN implica significativi mutamenti dei modelli manageriali e dei processi di elaborazione strategica, con un salto
qualitativo simultaneo in alcuni ambiti specialistici e culturali.
Strategie di questo tipo possono essere particolarmente feconde
nel perseguire disegni di penetrazione in mercati nuovi, oppure
nello sperimentare nuovi modelli di prodotti, commisurati a specifiche esigenze di domanda provenienti da fasce di popolazione
ben identificate.
La terza opzione significa la realizzazione di strategie mirate
su campi e aree di interesse ritenute meno attraenti dai GPN,
ma essa non è da trascurare ai nostri fini perché si incentra su
uno degli effetti dell’intensa dinamica innovativa odierna. Intendiamo riferirci al fatto che l’accelerazione evolutiva nel produrre conoscenze tecnico-scientifiche e l’incessante estensione/
ristrutturazione di domini d’indagine consolidati genera spazi
per sperimentazioni di beni e servizi prossimi alla frontiera e
di natura meno avanzata, ovvero applicazione estensiva di conoscenze consolidate. In uno scenario di questo tipo lo spazio
innovativo della “nicchia” è potenzialmente molto interessante
per le PMI, ma sono necessarie strategie originali e basate sulla
ricerca continua di nuove soluzioni a problemi tecnico-produttivi
da tempo affrontati e temporaneamente risolti. Le nicchie costituiscono una sfera di attrazione primaria per imprese non global
player, purché adottino forme organizzative adeguate: alleanze
strategiche, partnership progettuali, legami reticolari finalizzate, project-based organizations, e così via. Va peraltro ricordato
212
che un’ampia letteratura internazionale converge sulla tesi che
le modalità di appartenenza a network sono oggi fondamentali,
perché nessuna entità economico-produttiva può possedere tutte le conoscenze necessarie per produrre un numero crescente di
prodotti e al tempo stesso perché consentono processi di apprendimento, dovuti al fatto che in questo modo si realizzano intersezioni tra flussi di conoscenze sviluppate in domini conoscitivi
talvolta molto differenti.
Un altro punto sul quale fermare l’attenzione è che la frammentazione delle sequenze economico-produttive e la diffusione delle global value chains non riguardano solo l’industria, in
quanto i servizi (Business Process Services BPS; Information
Technology Services ITS; sanità) sono uno degli ambiti contraddistinti da maggiore dinamismo degli investimenti diretti all’estero e dall’espansione crescente di strutture gerarchiche globali:
processi di offshoring di attività terziarie con creazione di posti
di lavoro in nuove economie (OECD, 2007b), rapida crescita degli investimenti diretti all’estero proprio nei servizi, che costituiscono i 2/3 del volume globale al 2005 (OECD, 2006; Onodera,
2008) (Graf. 9.15).
Grafico 9.15 Composizione degli investimenti diretti all’estero: progressivo spostamento
verso i servizi. Migliaia di dollari Usa
5.000
4.500
Manufacturing
Service Sector
4.000
3.500
3.000
2.500
2.000
1.500
1.000
500
0
1990
1995
2000
2003
Fonte: adattamento da Onodera (2008)
Economie emergenti quali Cina, Repubblica Ceca, India e
Flippine sono protagoniste assolute del processo di espansione
213
di BPS e ITS (Engman, 2007). È importante notare che il settore
dei servizi (commercio all’ingrosso, intermediazione finanziaria,
istituti di deposito, comunicazioni) è stato alla base della forte
crescita degli investimenti in IT e della crescita della produttività
negli ultimi anni (Mann, 2007). Di grande interesse sono anche i
dati che emergono da numerose ricerche (studi di caso e indagini
econometriche)32: sia nel manifatturiero che nei servizi l’appartenenza a global value chains comporta l’innesco di processi di
diffusione innovativa anche in contesti non ancora pervasi da
“cultura di mercato”, anche se aree già market oriented hanno
visto dinamiche molto più intense. I meccanismi che hanno agito
sono molteplici: dalla trasmissione lungo la “catena del valore”
all’interazione con le culture locali, dall’introduzione di elementi di “mercato” alla stimolazione di forze endogene. È peraltro
ben documentato il processo che in talune esperienze ha portato
settori e agglomerazioni economico-territoriali, in passato esclusi da percorsi di sviluppo, a sostanziali spostamenti verso l’alto
nella global value chain, fino a raggiungere posizioni competitive
autonome rispetto agli impulsi iniziali, come è accaduto nell’industria dell’abbigliamento dello Sri Lanka (OECD, 2007).
9.7
Effetti di breve e di lungo periodo della crisi sul mercato del lavoro
La “peggiore crisi degli ultimi cinquanta anni” (OECD, 2010b)
ha prodotto un forte incremento della disoccupazione nell’area OECD: in due anni, fino al primo quadrimestre del 2010,
l’occupazione è diminuita di due punti percentuali e il tasso di
disoccupazione è salito del 50%, cioè dal 5,6% all’8,6%. Se al
dato ufficiale si aggiungono le stime dei lavoratori sotto-occupati
e “scoraggiati”, come vedremo tra breve per gli Usa, i valori diventano molto elevati e aumenta la probabilità che il tasso di
disoccupazione nell’area OECD rimanga al di sopra dell’8,5%
per tutto il 2011 (OECD, 2010c). Occorre tenere anche presente
che il contenimento degli input d lavoro è stato spesso perseguito
attraverso la riduzione degli orari, il che comporta che vi sono
risorse parzialmente utilizzate, alle quali si fa presumibilmente
ricorso in primis nel caso di una ripresa sostenuta. Disoccupa Si veda ad esempio Gorodidnichenko et al. (2008), che analizzano 11.400 imprese operanti in 27
paesi emergenti.
32
214
zione, slack resources, sotto-impiego configurano una situazione
tale da rendere molto improbabile che un sentiero di ripresa possa condurre in tempi brevi a livelli occupazionali vicini a quelli
pre-crisi.
Prima di trattare le implicazioni di questa affermazione, è
opportuno richiamare un fatto significativo: l’incremento della
disoccupazione non è stato uniforme nei vari Paesi, bensì molto
eterogeneo, con ritmi elevati di variazione in Spagna e Irlanda
e andamenti molto più contenuti in realtà come la Germania,
Austria, Belgio, Norvegia, Polonia.
Un aspetto fondamentale e nuovo della presente crisi occupazionale è la forte penalizzazione dei lavoratori giovani, il cui
tasso di disoccupazione è aumentato di circa 8 punti percentuali, ben quattro volte il tasso complessivo (OECD, 2010c, p. 21),
mentre in alcuni Paesi, ad esempio la Spagna, esso ha in realtà
raggiunto livelli enormi (40%). Si è dunque creata un’accentuata
divaricazione tra gruppi di lavoratori in età matura e quelli delle
fasce giovanili, per quanto attiene al rischio di diventare disoccupati. Per i primi, in effetti, l’evoluzione ciclica della perdita del lavoro nel passato è sostanzialmente analoga in tutte le recessioni,
in questa appare profondamente cambiata la sensibilità del loro
tasso di occupazione.
Molto interessante è anche il dato concernente le variazioni
occupazionali in base agli skills. Gli occupati con livelli di professionalità più bassi hanno registrato decrementi al di sopra della media, fenomeno analogo a quanto è accaduto alle persone
dotate di conoscenze tecnico-professionali di livello medio. Ciò
può essere stato verosimilmente indotto dalla composizione settoriale della dinamica involutiva, dal momento che la contrazione della domanda globale e degli scambi internazionali hanno
colpito soprattutto l’industria manifatturiera: dalle costruzioni
alla produzione di beni di consumo durevoli e non, alla produzione di attrezzature e macchinari.
Dati questi elementi relativi alla dimensione quantitativa e
qualitativa dei problemi occupazionali nell’area OECD, prima
di affrontare la questione del se e quando è legittimo ipotizzare
un ripristino dei livelli di occupazione precedenti alla crisi, è utile
prendere in considerazione le stime OECD del job gap, ovvero del
divario tra il livello di occupazione che si avrebbe nell’ultimo quadrimestre 2009 se fosse occupata la stessa proporzione di popolazione in età lavorativa dell’inizio della fase recessiva. Tale calcolo
215
per l’intera area OECD è pari al 3,3%, cioè 18 milioni di occupati.
La media complessiva risulta da andamenti molto differenziati
tra Paesi, dei quali rispecchia in qualche misura l’intensità con cui
sono stati colpiti dalla crisi e le modalità con cui fasce di popolazione hanno reagito al manifestarsi delle spinte involutive. Le
stime OECD del Maggio scorso indicano che non è prevedibile
il recupero dei livelli occupazionali pre-crisi in un arco temporale
ravvicinato; il recupero sarà lento, graduale e differenziato.
Molto interessanti sono anche le stime OECD di varie componenti della disoccupazione, in base a una metodologia impiegata
dal Bureau of Labour Statistics Usa. Vengono definite quattro tipologie di disoccupati: disoccupati standard (D1); disoccupati che
hanno perso il lavoro da almeno un anno. Si tratta di persone di
particolare interesse, perché hanno elevata probabilità di registrare perdite di remunerazione in caso di reimpiego oppure di perdere
contatto definitivamente con il mercato del lavoro (D2); disoccupati “marginali”, ovvero quelli che vorrebbero lavorare ma non
ricercano attivamente lavoro (“scoraggiati”) (D3); persone che lavorerebbero a pieno tempo, ma non possono perché non trovano
lavoro o hanno un orario ridotto per decisione dell’impresa (D4).
I risultati dell’analisi indicano che la disoccupazione di lungo
termine è particolarmente elevata in Germania e Italia, dove essa
raggiunge il 50%. È di particolare rilievo il fatto che la componente D3 sia il 30% più alta di D2, ad indicare che vi è una porzione cospicua di persone per le quali è elevata la percezione di
difficoltà di inserimento sul mercato del lavoro e le possibilità di
ingresso tendono a ridursi con il passare del tempo in condizioni
d inattività e di distanza dal mondo produttivo.
La somma di D3 e D4 mette in luce un dato ancora più emblematico: l’aggregato della forza lavoro in eccesso è il doppio
di quella contenuta nelle stime tradizionali della disoccupazione. A completare il quadro non roseo c’è il fatto che durante la
recessione i due sotto-insiemi in questione, rappresentativi della
componente denominata slack resources, sono cresciuti ad un
tasso analogo a quello della componente standard (D1). Ciò significa che non solo l’aumento della disoccupazione è maggiore
di quella ufficiale, ma soprattutto che l’impatto sul potenziale di
sviluppo di un’economia è profondo, anche in Germania dove i
sotto-insiemi D1, D2, D3 sono diminuiti.
Una questione interessante da approfondire brevemente è la
forte eterogeneità tra Paesi in termini di impatto della crisi sul
216
mercato del lavoro, ovvero del grado di sensibilità dello stock di
occupati rispetto a variazioni del PIL in 28 dei 30 Paesi OECD.
Le conseguenze dello shock, misurate attraverso il coefficiente di
Okun33, raggiungono il massimo valore per gli Usa e la Spagna,
ma valori elevati sono presenti anche in Canada, Grecia, Irlanda
e Nuova Zelanda, mentre gli effetti occupazionali sono stati molto minori in Belgio, Finlandia, Germania, Italia, Olanda, Norvegia, Giappone, Corea.
Il differente grado di sensibilità dell’occupazione rispetto a
variazioni del PIL riflette le diverse combinazioni di riduzione
della forza lavoro e dell’orario di lavoro realizzate nelle varie realtà nazionali.
L’“aggiustamento” sulle ore di lavoro è stato dunque molto
importante nel diversificare i comportamenti delle economie e
l’evoluzione temporale della crisi. Bisogna peraltro sottolineare
che molteplici fattori hanno influito sulle modalità differenziate
di reazione: 1) elementi specifici di regolazione del mercato, quali
misure di contenimento degli impulsi recessivi, forme di protezione rispetto alla perdita dei posti di lavoro, regolamentazioni
circa la possibilità di “liberare” forza lavoro; 2) variabili strategiche elaborate dalle imprese, nella misura in cui le modalità con
cui queste ultime hanno preferito agire sullo stock di occupati
anziché sull’orario di lavoro sono differenti per dimensione, livello tecnologico, situazione economico-finanziaria, come risulta dall’indagine panel svolta da OECD (2010c, Box 1.2).
Le considerazioni svolte contribuisono a spiegare come mai
la ripresa in atto non stia producendo un sostanziale riassorbimento di occupazione, anche se ovviamente i segnali positivi non
vanno sottovalutati.
Il quadro è davvero molto complesso e contraddittorio sul
lato dell’offerta di beni e della domanda di lavoro dell’economia.
Riprendiamo in esame alcuni elementi essenziali per sviluppare
la riflessione in tema di prospettive a medio-lungo termine.
Innanzitutto c’è stato un “rimbalzo” nelle variabili economico-produttive, con una forte ripresa del commercio mondiale
(+23% nell’anno 2009-2010, calcolato sul mese di maggio 2010)
e un incremento del PIL globale nel primo quadrimestre del 2010
pari a +5%. Un importante contributo alla crescita è scaturito
dall’inversione del ciclo nell’accumulazione delle scorte, dopo la
33
Il coefficiente di Okun è il rapporto tra la variazione percentuale del tasso di disoccupazione e la
variazione percentuale del Pil in termini reali.
217
riduzione attuata nel biennio critico; esso viene stimato in circa
1,5-2 punti percentuali del tasso di crescita complessiva (OECD,
2010, p. 23, Figure 1.8).
Recupero degli stock di scorte, stimoli fiscali, politica monetaria molto prodiga (quantitative easing), deficit pubblici
crescenti ma con piani di rientro, sono le coordinate globali di
uno scenario generale entro cui dovrebbe svilupparsi il processo di ripresa e quindi l’aumento dei livelli occupazionali. Oltre
all’intrinseca debolezza degli impulsi che questa configurazione
di meccanismi propulsori può generare, due “sfide congiunte”
si ergono di fronte alle economie OECD: da un lato ridurre
la disoccupazione elevata e la sotto-occupazione, dall’altro ridurre deficit fiscali senza precedenti (OECD, 2010b). Occorre
però assegnare centralità anche al problema dell’aumento di
forza lavoro in eccesso, destinata a rimanere a lungo fuori dal
mercato del lavoro e quindi con il rischio elevato di un divario crescente tra competenze possedute e caratteristiche della
domanda di lavoro connessa a sistemi economico-produttivi in
profonda trasformazione.
Sulla base di queste considerazioni, ai fini del presente contributo pare opportuno esaminare in modo più ravvicinato uno dei
fenomeni cruciali della disoccupazione, cioè la tendenza a durare nel tempo, partendo dagli Usa e poi estendendo l’orizzonte
dell’analisi. Gli indicatori odierni di una “ripresa senza occupazione” (Biven e Shierholz, 2010) non devono sorprendere, dato il
modesto tasso di crescita del PIL34, è difficile ipotizzare aumenti
dell’occupazione se gli orari di lavoro e la produttività del lavoro
aumentano, come è probabile che accada in presenza di slack
resources. Poiché negli Usa sono stati persi 8,4 milioni di posti
di lavoro dall’inizio della crisi, è probabile che impulsi positivi si
traducano nel breve periodo innanzitutto in tentativi di utilizzare maggiormente le risorse attualmente impiegate. Data l’entità
dell’ammontare di persone senza lavoro, il sentiero del recupero
verso livelli pre-cirisi richiederà molto tempo, mentre la recessione ha prodotto anche il fenomeno della “sparizione di lavoratori”, usciti dalla forza lavoro attiva, il cui livello nel Luglio 2008 è
tornato a quello Febbraio 1986 (Bivens e Shierholz, 2010, Figure
E). Simulazioni condotte sulla base di equazioni base della contabilità della crescita (nota 9) portano a ritenere che nel caso più
L’“aritmetica della crescita”, come sostiene l’approccio prevalente nell’analisi dei processi di
crescita, può essere sintetizzata con un’equazione molto semplice: occup= pil – (ore di lavoro +
produttività) [NB: le variabili considerate indicano tassi di variazione].
34
218
favorevole gli Usa solo nel 2014 potrebbero recuperare i massimi
livelli occupazionali precedenti alla recessione, un arco temporale molto più ampio di quelli rilevati nelle precedenti crisi, quando
i tempi di recupero furono non proprio fulminei: 11 mesi dopo
la fine della recessione nel 1948 e 1980, 23 mesi dopo la crisi del
1990, 39 mesi dopo la recessione del 2001 (Bivens e Shierlholz,
2010, Figure B). Non è facile né rapido il ripristino di situazioni
quasi ottimali sul mercato del lavoro nelle condizioni descritte
dalla survey del Marzo 2010 del Bureau of Labour Statistics,
che indica un miglioramento nell’ultimo periodo nel rapporto
tra numero di persone che chiedono lavoro e numero dei posti
di lavoro: sarebbe sceso da 6,0 a 5,4! (Shierlholz, 2010), mentre
l’impiego della capacità produttiva dell’economia -secondo l’ultimo Release della Federal Reserve (15 luglio 2001)- è ancora al
74,1%, 5,9% al disopra del tasso dell’anno precedente, ma 6% al
di sotto della media dal 1972 al 2009!
Approfondiamo ulteriormente in breve il profilo evolutivo
dell’occupazione, prendendo in considerazione un aspetto di
natura strutturale, cioè la correlazione tra andamento dell’occupazione e dinamica dei flussi di scambio con l’estero su base
settoriale. Scott (2010) ha mostrato che negli anni 2001-2008 si
è verificato un enorme incremento del deficit commerciale tra
Usa e Cina, con la triplicazione delle importazioni in valore, soprattutto di prodotti manifatturieri (99% del totale). Nello stesso
periodo si è registrata una perdita di occupati nell’industria manifatturiera pari a 1.616.300 (più di due terzi del totale dei posti
di lavoro persi, pari a 2.400.000), mentre riduzioni occupazionali
si sono avute anche nel settore dei servizi (amministravi e di supporto, professionali, scientifici e tecnici). Deficit commerciali e
perdite occupazionali tendono a coincidere dal punto di vista dei
settori coinvolti: quelli connessi alle tecnologie dell’informazione
(computer e componenti), abbigliamento, meccanica generale,
manifatture varie.
Emergono dunque connessioni sostanziali tra dinamica degli scambi internazionali, evoluzione settoriale, cambiamenti
tecnico-produttivi e modifiche nella composizione dei sistemi
economici, allorquando si consolida -come è avvenuto in quegli
anni- la tendenza a scomporre i cicli produttivi e a distribuirli a
livello globale.
Questi spunti riferiti agli Usa inducono a riprendere la questione sui caratteri permanenti che la disoccupazione tende ad
219
assumere sia durante la fase involutiva che nell’attuale periodo
di espansione dalle proprietà ancora incerte.
Uno studio empirico-econometrico (Guichard e Rusticelli,
2010) ha stimato i fattori che influiscono sulla disoccupazione di
lungo termine e le difformità di andamento nei vari Paesi OECD:
livello della disoccupazione aggregata, contesto istituzionale e regolamentazione del mercato del lavoro, specificità nazionali. Le
differenze nazionali sono marcate: “dopo uno shock permanente
sull’occupazione il 70% in media dei disoccupati tendono a diventare di lungo termine in Europa, una percentuale leggermente inferiore in Giappone e meno del 20% negli Usa” (Guichard
e Rusticelli, 20010, p. 9), con il valore più alto (80%) stimato per
l’Italia. L’elemento che deve far riflettere, soprattutto per il nostro Paese, è l’“effetto isteresi” che la disoccupazione prolungata
genera: maggiore è l’arco temporale di esclusione del lavoro, più
forte diviene la tendenza a diventare permanente, perché coloro
che sono in quella condizione divengono meno “attraenti” per i
datori di lavoro. Il capitale umano degli inoccupati si depaupera
più o meno rapidamente a seconda delle competenze possedute,
i costi di addestramento crescono e la domanda di lavoro prende
in considerazione la frequenza e la durata dei periodi di disoccupazione.
La disoccupazione di lungo periodo tende allora a diventare
“strutturale” per una serie di meccanismi che rendono i disoccupati “meno competitivi” e meno competenti rispetto a coloro restano occupati, con forme vere e proprie di insider/outsider, con
l’effetto finale di rendere problematico il reinserimento, il quale
eventualmente avviene a remunerazioni più basse. Gli effetti finali di una disoccupazione prolungata sono una pressione salariale verso il basso e l’aumento della disoccupazione di natura
strutturale. Di qui la necessità di misure a sostegno della disoccupazione di lungo termine (Furceri e Mourougane, 2010, anche
per l’analisi della tendenza verso la disoccupazione strutturale in
diversi contesti nazionali e aree).
Dato l’incedere della crisi e le peculiarità assunte da processi di evoluzione del mercato del lavoro, nel prosieguo di questo
lavoro svilupperemo delle riflessioni su determinati fattori, che
sono alla base della disoccupazione strutturale; in particolare
fermeremo l’attenzione sui nessi tra evoluzione della forza lavoro
e dinamica tecno-economica dell’apparato produttivo. Prenderemo in considerazione prima gli Stati Uniti e quindi l’Italia.
220
9.8
Le sfide per il capitale umano Usa
Un importante studio della McKinsey (2009) fornisce una massa
notevole di elementi conoscitivi e spunti di riflessione, che potrebbero in realtà essere estesi anche altri contesti.
L’elaborato pone al centro dell’analisi la crescente dispersione salariale, uno dei fenomeni più rilevanti dello senario socioeconomico statunitense durante gli anni 1994-2005, tentando di
individuare processi e meccanismi alla base del fenomeno.
Vengono descritti nove fattori, raggruppati in tre sotto-insiemi: 1) skill bias technical change, ovvero la domanda di competenze più elevate da parte delle imprese in conseguenza della
dinamica tecnologica; commercio internazionale, investimenti
all’estero e offshoring; complessità organizzativa, connessa all’evoluzione degli assetti e dei modelli gestionali delle imprese su
scala internazionale; 2) offerta di lavoro, partecipazione femminile al mercato del lavoro, invecchiamento della popolazione, immigrazione; 3) livelli di istruzione, meccanismi retributivi legati
ai risultati, declino del tasso di sindacalizzazione.
L’esame di tali variabili porta all’individuazione -all’interno
della forza lavoro statunitense- di nove raggruppamenti o cluster
retributivi, distinti in base al tasso di crescita del reddito da lavoro e all’evoluzione del profilo occupazionale35. Ne risulta un mercato del lavoro dalla configurazione a patchwork, nel senso che
segmenti trasversali, cioè appartenenti a differenti classificazioni
merceologiche, sono accomunati da proprietà simili dal punto di
vista degli elementi descritti utilizzati e dei risultati ottenuti.
Il risultato più rilevante dello studio è il seguente: i fattori inclusi nel primo gruppo sono quelli che hanno essenzialmente determinato la domanda di lavoro, dal momento che il loro effetto
combinato ha indotto un vero e proprio “cambiamento strutturale”
del sistema economico, mentre la struttura e le caratteristiche della
forza lavoro non sono riuscite a realizzare un matching dinamico. In
sostanza, le fasce di popolazione con redditi e competenze crescenti
sono quantitativamente ristrette, mentre sono molto più ampie le
quote di forza lavoro con skill e competenze più basse, quindi con
profili retributivi contenuti, proprio mentre le trasformazioni tecnoeconomiche richiedevano un profondo ed esteso cambiamento delle
35
L’analisi utilizza database dell’Indagine sulla popolazione (Current Population Survey) e del
Bureau of Labour Statistics.
221
conoscenze teoriche e pratiche in base alle quali erogare nuove prestazioni di lavoro. In altri termini, il 71% del lavoratori americani è
impiegato in lavori la cui domanda è in diminuzione e per i quali è
abbondante l’offerta di coloro che sono in possesso di conoscenze
di livello modesto. La dispersione salariale Usa ha quindi come fattori causali prevalenti da un lato la ridondanza di forza lavoro per
richieste di prestazioni dal profilo evolutivo decrescente, dall’altro la
scarsità di offerta di lavoro adatta alle esigenze di un’economia ad
alta intensità di conoscenza.
Questa discrasia di fondo del mercato del lavoro Usa è trasversale a tutti i settori produttivi e pone interrogativi fondamentali su quali mutamenti di sistema occorre introdurre e su quali
possono essere gli agenti del cambiamento in grado di raccogliere la “sfida che si erge di fronte al capitale umano” di quel Paese.
In realtà è da anni che analisti e studiosi hanno tentato di porre al centro dell’attenzione della società Usa “la tempesta che si
stava addensando” (gathering storm nel famoso Rapporto della
National Academy of Science, 2007). In quello studio sono descritte le forze globali che stanno modificando profondamente lo
scenario competitivo per imprese e sistemi economici36 e la centralità di scienza e tecnologia ai fini di un’economia che intenda
dotarsi di nuovi meccanismi generatori di prosperità. Mutamenti
rilevanti sono dunque necessari per i processi formativi a tutti i
livelli e per le strategie elaborate dagli agenti, soprattutto in relazione al fatto che sono erose le basi del “triangle” (Industria,
Università, Governo) che ha funzionato nel secondo dopoguerra
come meccanismo auto-rinforzantesi. Scelte drastiche si impongono, dalle quali dipende l’evoluzione di lungo periodo del sistema e le probabilità sia di ottenere performances adeguate in termini di ricchezza e benessere della popolazione, sia di rispondere
a nuove sfide globali (ambiente, scarsità degli input energetici)37.
Questa direttrice di analisi e d riflessione è stata ulteriormente
sviluppata negli anni successivi al Rapporto in questione, arricchendosi di contributi specifici di grande interesse, che mettono al centro il problema di come sviluppare competenze STEM
(science, technology, engineering, mathematics) per l’evoluzione
del sistema economico e per il mantenimento di adeguati livelli
36
Gli Usa sono di fronte ad un “disturbing mosaic” di componenti, che determinano un’evoluzione
“tettonica” per i sistemi produttivi: dinamica tecnologica, outsourcing e offshoring, evoluzione
accelerata delle competenze necessarie per competere in un orizzonte globale incentrato
sull’innovazione permanente.
37
Questo tipo di analisi e le conclusioni non sarebbero aliene per il nostro Paese.
222
occupazionali. Ripercorriamo alcuni degli elementi più significativi ai fini del presente contributo, tenendo presente che si tratta
di una selezione all’interno di un ricco insieme di spunti e stimoli.
Uno dei punti di maggiore rilevanza è l’esistenza di un mercato del lavoro globale, specialmente per le professioni più elevate
(Hira, 2009): le imprese che competono a livello internazionale
tendono sempre più ad essere globally integrated enterprises, che
sviluppano funzioni di R&S in numerosi Paesi, alcuni dei quali
a basso costo del lavoro anche con livelli di conoscenze molto
elevati. La globalizzazione della R&S è un processo destinato a
cambiare radicalmente la dinamica innovativa, anche se i segnali
sono ancora deboli ma inequivocabili: se nel 2002 la Cina aveva
solo 122 brevetti internazionali, a fronte dei 18.000 statunitensi
e dei 13.000 giapponesi, indagini presso le top 300 imprese mondiali da parte dell’ONU (2009) e dell’Economist (2007) indicano
che la Cina è la principale destinazione di investimenti in R&S.
Numerosi global palyer (GM, Pfizer, Motorola, Intel, Microsoft,
GE, ecc.) hanno già centri studi con un numero significativo e
crescente numero di addetti in Cina e soprattutto in India38. La
Cina è ormai una potenza sul piano della tecnologia (Cong Cao,
2009): 3,13 milioni di scienziati e ingegneri alla fine del 2007, 1,74
milioni dei quali impegnati a tempo pieno in attività di R&S;
secondo lo Science Citation Index nel 2007 scienziati e ingegneri
cinesi hanno contribuito al 9,8% delle pubblicazioni a carattere
tecnico-scientifico; 1200 centri di R&S stranieri sono operativi
in quel Paese (IBM, Cisco, GE, Procter & Gamble, Panasonic,
Samsung, tra gli altri); circa 62.500 cinesi con PhD acquisiti negli
Usa sono rientrati in patria ed il flusso di brain gain appare in
aumento (e preoccupante per gli Usa) (Wadwha, 2009).
La dinamica delle forze globali che stanno modificando profondamente le strutture delle economie di tutto il mondo delineano un
quadro di incertezze e di rischi, ma definiscono un insieme ricco di
enormi potenzialità anche per settori e attività tradizionali, che potrebbero oggi creare nuovi meccanismi propulsori. Già negli ultimi
due Rapporti sul Mercato del Lavoro sono state descritte possibili
traiettorie evolutive per manifattura e servizi. Aggiungiamo in queste sede alcuni spunti di riflessione elaborati da studiosi americani,
nella convinzione che siano molto utili anche per riflettere sul futuro
prossimo del sistema produttivo italiano e toscano.
38
Su queste basi l’imperativo di innalzare dal punto di vista quantitativo e qualitativo i lavoratori
STEM è per gli Usa cruciale e si traduce in una serie di direttrici di azione per agenti privati e
soprattutto pubblici.
223
Sfatiamo innanzitutto un luogo comune, relativo alla forte competitività di costo delle produzioni manifatturiere cinesi: nel 2007
uno studio del Michigan Manufacturing Technology Center (citato
in Helper, 2009) indica che “la maggior parte dei imprese manifatturiere Usa hanno costi superiori al massimo del 20% rispetto ai competitori cinesi”. Un’altra indagine del 2006 (Performance Benchmarking Service, PBS) argomenta che le piccole imprese americane
sono o possono essere agevolmente competitive nei confronti delle
unità del lontano oriente; analogamente una ricerca McKinsey del
2004 sostiene che in molti segmenti della produzione di componenti
per autoveicoli la differenza si aggira intorno al 20-30% per prodotti
simili. Il divario si riduce ulteriormente qualora si prendano in considerazione i cosiddetti hidden costs dell’offshoring quali: problemi
di comunicazione tra livelli di managament e di organizzazione dei
flussi in catene logistiche troppo lunghe, problemi di coordinamento
lungo le fasi di un ciclo disperso a livello internazionale. Comunque sia la strategia per un incremento della competitività delle produzioni negli Usa non può essere il taglio dei costi, bensì un’altra,
incentrata sulla diffusione dell’high road model of production, che
significa introduzione di pratiche innovative di questo tipo: avanzamento delle tecnologie manifatturiere di frontiera, innalzamento del
livello qualitativo di tutti gli input a partire dal lavoro, nuovi modelli
di business e di prodotto39, investimenti in una serie di infrastrutture
e nella realizzazione di un insieme di condizioni basilari (strumenti
di welfare, sviluppo di comunità di produttori, ecc.), relazioni sindacali di nuovo tipo.
Si tratta di temi, questioni e direttrici strategiche che già in
un’indagine presso un campione significativo di imprese manifatturiere (The Manfacturing Institute, Deloitte, 2005) aveva già messo a fuoco e sui quali nel quinquennio successivo sono state avanzate proposte e ipotizzati una serie di interventi strategici, al fine
di affrontare il problema cruciale per l’economia Usa, ma comune
a molte altre economia industriali: il divario tra competenze richieste dalle imprese per competere in un processo manifatturiero
globale e l’offerta di skills esistente nel sistema socio-economico40.
In seguito al Rapporto della National Academy of Science (Rising Above the Gathering Storm) si è sviluppato un ricco dibattito e
sono state avanzate proposte e definite linee strategiche.
A questo proposito è stato elaborato il Federal Manufacturing Extension Partnership (MEP),
discusso in Helper (2008).
40
I temi connessi allo skills gap shortage sono al centro dei documenti e degli studi elaborati nel corso
degli anni, disponibili nel sito http//institute.nam.org.
39
224
La rilevanza dei temi discussi va molto al di là del manifatturiero, perché tra i motivi ricorrenti di queste e di altre analisi è il
fatto che la produzione di beni nei prossimi decenni richiede alta
intensità di conoscenza, rendendo quindi del tutto obsolete classificazioni statistiche consolidate. È soprattutto rilevante, però, che
tutti i tipi di prodotti tendano a diventare sistemi complessi, in
quanto derivanti dalla confluenza di molteplici processi e attività
di ricerca. In questa prospettiva la creazione di nuovi beni e il riprogettazione di quelli tradizionali può essere fonte di produzione
di ricchezza e di grandi potenzialità occupazionali.
Proprio in questa prospettiva sono elaborati documenti strategici e progetti di grande rilievo per gli Usa, dal momento che coniugano industria manifatturiera, sviluppo di nuove traiettorie di
ricerca e diffusione delle innovazioni nell’enorme spazio tecnicoscientifico delle tecnologie energetiche e della riprogettazione dei
sistemi di trasporto o di produzione-distribuzione dell’energia. Si
tratta di temi di grande rilevanza per molti aspetti, che comportano possibilità di creare molti di posti di lavoro ad elevato contenuto qualitativo. I temi saranno sviluppati in modo più approfondito
e sistematico nei prossimi Rapporti sul Mercato del lavoro; in questa sede è opportuno sottolineare alcuni aspetti essenziali.
Innanzitutto è nel mondo in atto una vera e propria “corsa
all’energia pulita”, le cui ricadute tecnologiche, scientifiche, economiche, culturali, istituzionali saranno di portata non minore
di quella (ben più pericolosa) della “corsa agli armamenti” del
secondo dopoguerra. I Paesi dell’Estremo Oriente, definiti “clean
Energy tigers” (BI & ITIF, 2009) sono all’avanguardia nella ricerca in questo nuovo spazio della ricerca tecnico-scientifica. La
Cina, primo investitore al mondo nell’energia eolica, ha creato la
cosiddetta “Electricity Valley” intorno alla città di Baoding, precedentemente basata sull’automobile e sull’industria tessile. Una
delle più innovative aziende produttrici di celle solari è cinese,
come il secondo produttore al mondo. Il Giappone negli ultimi
cinque anni ha investito nella ricerca in questo campo fra i tre e
i quattromila miliardi di dollari all’anno e nel 2005 era giapponese la proprietà del 20% dei brevetti mondiali in tecnologie per
le energie rinnovabili, percentuale equivalente a quella Usa. In
Corea la spesa pubblica in R&S finalizzata agli stessi obiettivi è
cresciuta del 16% all’anno nel periodo 2003-2008, fino a raggiungere 398 milioni di dollari. Gli Stati Uniti, infine, mantengono
una posizione di leadership, come si evince dalla quota di brevet225
ti (20,2%) e dall’ammontare di risorse investite (le spese federali
in R&S sono pari a 5,3 miliardi di dollari), ma viene avvertito
che l’inseguimento delle rising tigers e degli sleeping giants sta
riducendo le distanze.
In questa prospettiva sono stati elaborati progetti molto interessanti. Prendiamo in considerazione uno di questi, concernente la riprogettazione di sistemi infrastrutturali e lo sviluppo
di tecnologie per il risparmio energetico (Atkinson et al., 2009).
Sono stimati gli investimenti necessari, i posti di lavoro potenziali in piccole imprese e nelle attività interessate al disegno strategico (Tab. 9.16).
Tabella 9.16 Stime dei posti di lavoro mantenti o creati da investimenti nelle infrastruttre
di rete
Banda larga
IT sanità
Rete elettrica (smart grid)
Totale
Fonte: B & I, ITIF (2009) Investimenti
(miliardi di dollari)
Posti di lavoro
Posti di lavoro
in piccole imprese
10
10
10
30
498.000
212.000
239.000
949.000
262.000
121.675
140.500
524.225
La linea incentrata sulla creazione della “banda larga” genera
rilevanti “effetti di rete”: induce nuovi modelli di business, genera
opportunità di investimento in una serie di segmenti di attività economica (telemedicina, e-commerce, strumentazione ad alta velocità
di calcolo), apre nuove opportunità di lavoro. I “sistemi di trasporto
intelligenti” significano integrazione tra tecnologie dell’informazione e nuove tecnologie per le infrastrutture (materiali, meccanismi
propulsori, tecnologie per il risparmio energetico e per il controllo
dei flussi). Gli effetti di natura ambientale e occupazionale (a cascata su una serie di settori), oltre che di incremento della produttività
e del benessere socio-economico sono potenzialmente enormi.
La rete intelligente comporta la creazione di un’infrastruttura distribuita per la produzione e la distribuzione di energia da
fonti estremamente decentrate, con sensori e strumenti di monitoraggio diffusi e sistemi di controllo e programmazione dei flussi basati su sistemi di automazione ubiquitari. Anche in questo
caso è ipotizzabile la realizzazione di combinazioni dinamiche
tra tecnologie standard ed altre innovative, come anche tra posti
di lavoro basati su competenze tradizionali e altri sempre più incentrati su competenze del tutto nuove.
226
Siamo dunque in presenza di strategie e progetti che si sviluppano su più dimensioni: sviluppo tecnico-scientifico, creazione
di nuovi posti di lavoro, progettazione di nuovi sistemi complessi
per rispondere simultaneamente a finalità ambientali e socioeconomiche, ridefinizione del ruolo degli agenti privati e di quelli
istituzionali.
Gli spunti di riflessione da tenere presenti nelle riflessioni sullo scenario evolutivo per il nostri Paese sono pertanto numerosi
e di grande rilievo.
9.9
Il potenziale di crescita dell’economia italiana: il sentiero su un terreno
franoso
Le coordinate generali sull’evoluzione dell’economia italiana ed
europea sono da tempo tracciate nel dibattito di analisti e studiosi: “eurosclerosi” versus dinamismo Usa, a causa dei declinanti
tassi di crescita della domanda e della produttività nel vecchio
continente nel periodo 1994-2007.
I temi discussi sono stati già in parte affrontati nei precedenti rapporti sul Mercato del Lavoro e saranno ulteriormente approfonditi nel prossimo; il presente contributo riprende alcuni
elementi della discussione per soffermarsi sul problema fondamentale del potenziale di crescita dell’economia italiana nello
scenario descritto.
Per quanto concerne il nostro Paese, già nel 2004 la European
Commission (DG/EFA e ECFIN, 2004) ha descritto il visibile
rallentamento dell’economia italiana nel decennio 1992-2002,
data la diminuzione del tasso di crescita del PIL dal 2,6% del
decennio ’80 all’1,4% della seconda metà degli anni ’90, quando
l’UE è cresciuta del 2% in media e gli Usa del 3%.
Si tratta di un significativo indebolimento del processo di crescita, connesso ad un progressivo arretramento della quota sul
commercio mondiale a prezzi costanti (dal 4,5% del 1995 al 3,0%
del 2003), a fronte di una costanza dell’incidenza francese -5,3%
-ed un aumento di quella tedesca- dal 10,1% all’11,6% (Banca
d’Italia, 2004).
La diminuzione della capacità competitiva dell’Italia appare
a molti evidente (Graf. 9.17).
227
Grafico 9.17 Quote di mercato dell’Italia sull’export mondiale
Fonte: IMF (2009)
Il dato è univoco e deve essere collegato alle informazioni concernenti l’evoluzione dei tassi di cambio in termini reali, che tiene conto dell’andamento dei prezzi e del costo del lavoro. Anche
in questo caso appare l’anomalia italiana di un profilo crescente
rispetto a quanto rilevato per altri Paesi europei (Graf. 9.18).
Grafico 9.18 Tassi di cambio reali (Metodologia: IMF. 2006
145
REER Based on
ULC and CPI
(1999=100)
France (ULC)
Germany (ULC)
Italy (ULC)
France (CPI)
Germany (CPI)
Italy (CPI)
135
125
145
135
125
115
115
105
105
95
95
85
85
2000
2002
2004
Fonte: IMF (2009)
228
2006
2008
Altri aspetti rilevanti nel determinare l’indebolimento sono individuati nella scarsità di “forze competitive” a causa della mancanza
di competitività in settori dei servizi ritenuti strategici (telecomunicazioni, trasporti, attività tecniche e professionali) e della prevalenza nella struttura industriale di comparti e attività (tessile, vestiario
e abbigliamento, mobili) vulnerabili dal punto di vista della penetrabilità alle importazioni e alla redditività. A tutto ciò il documento
ECFIN aggiunge la bassa percentuale delle spese in R&S sul PIL
(1%) e il basso livello di istruzione della popolazione in età lavorativa, sia in assoluto che in comparazione con altri Paesi.
Nelle analisi internazionali, condotte sulla base della metodologia standard definita “contabilità della crescita”, una delle
manifestazioni più evidenti del declino italiano è la progressiva
caduta della “produttività totale dei fattori” (PTF), che stima il
contributo alla crescita derivante dall’efficienza nell’impiego dei
fattori produttivi (Graf. 9.19).
Grafico 9.19 Potenziale di crescita dell’output in Italia: contributo dei fattori produttivi
Fonte: ECFIN (2004)
Esso è diminuito dall’1,1% degli anni ’80 allo 0,2% degli inizi
anni 2000, con un’accelerazione nella seconda metà del decennio
’90, proprio quando è iniziato il processo di rapida diffusione in
tutto il mondo delle tecnologie dell’informazione.
229
Il declino della TFP ha ovviamente indotto gli studiosi a
interrogarsi sulle cause (IMF, 2002), a partire da un “puzzle”:
come ha potuto l’economia italiana aumentare l’occupazione in
un periodo di rallentamento della TFP?
L’anomalia di una bassa crescita unita alla creazione di posti di
lavoro41, quindi di un trade-off tra occupazione e produttività, è in
effetti un fenomeno atipico all’interno di una dinamica accelerata
degli scambi internazionali, dell’innovazione tecnico-scientifica,
dei modelli organizzativi delle imprese. In anni cruciali l’Europa
e l’Italia sono passate “dalla crescita senza occupazione alla creazione di occupazione senza crescita” (Saltari e Travaglini, 2009).
Nella ricerca di risposte a quesiti teorici ed empirici un’analisi comparata può fornire elementi di riflessione molto interessanti, perché dai comportamenti differenziali si può risalire
alle difformità di componenti che sono alla base di essi. Analizziamo ancora una volta Germania, Francia e Italia. Esercizi di
contabilità della crescita per i tre Paesi (Bassanetti et al., 2006,
pp. 133-135) mettono in luce importanti differenze tra Francia
e Italia da un lato, e Germania dal’altro. Per le prime due la seconda metà degli anni ’90 è contraddistinta da una crescita del
costo del lavoro più bassa della produttività, mentre aumenta
la forza lavoro attiva e la disoccupazione diminuisce. Nella terza, invece, le ultime due componenti non mostrano oscillazioni
marcate, anzi il contributo del lavoro alla crescita appare in diminuzione. L’esame del ruolo del capitale nel contribuire alla
crescita attenua le differenze, perché mostra prima un profilo
in diminuzione (fine anni ‘90) e poi in leggero aumento (primi
anni 2000), con un’accentuazione nel caso tedesco. Attraverso
le oscillazioni cicliche si è di fatto verificato un rallentamento
nel tasso di crescita dello stock di capitale, che è stato del 2,7%
nel corso degli anni ’80 ed è sceso al 2,1% nel periodo 19912003. Questi elementi, uniti a quelli concernenti la riduzione
del costo del lavoro e l’aumento dell’occupazione, inducono a
ritenere che nel caso di Francia e Italia si sia verificato “un processo di parziale sostituzione tra capitale e lavoro” (Bassanetti
et al., 2006). Tale affermazione è confermata dall’andamento
del rapporto capitale/lavoro, che registra un significativo rallentamento a cavallo dei decenni ed una ripresa nel biennio 20022003, più macrata in Germania (Graf. 9.20).
L’anomalia in realtà si configura rispetto allo schema teorico prevalente, incentrato su una relazione
diretta tra crescita e occupazione.
41
230
Grafico 9.20 Rapporto capitale/lavoro. 1991=1. Stock di capitale netto diviso per il lavoro misurato in termini di numero degli occupati
Fonte: Bassanetti et al. (2006)
L’esame dell’andamento della PTF, stimata in generale e per i
macro-settori dell’economia, arricchisce il quadro con spunti di
grande interesse. Appare evidente il generale e consistente rallentamento, che è particolarmente marcato per il nostro Paese, l’unico dove assume un valore negativo, mentre la Francia registra
il valore più elevato nell’ultimo quinquennio (Graf. 9.21).
Ciò che più colpisce è ancora un altro elemento, ovvero l’evoluzione della PTF a livello settoriale. Dai contributi di Inklaar et
al. (2003) e Bassanetti et al. (2004)42 emerge la forte eterogeneità
tra Francia e Germania da un lato e Italia dall’altro. In quest’ultima, infatti, la PTF diminuisce vistosamente, soprattutto nei beni
non durevoli, che anticipano una tendenza generale. Per quanto
riguarda i servizi, è individuabile la differenza fondamentale fra
i tre Paesi, nei quali la PTF evidenzia un generale declino, e il
Nord Europa+Usa, dove avviene il contrario.
Gli elementi delineati compongono un quadro molto significativo, che può essere completato con la stima di una ulteriore variabile, l’intensità di capitale (capital deepening), che varia in modo
molto eterogeneo rispetto agli Usa, mostrando un profilo di marcato declino tendenziale nell’arco di quindici anni (Graf. 9.22).
42
I contributi e i temi in essi affrontati sono stati approfonditi negli ultimi Rapporti sul mercato del
lavoro.
231
Grafico 9.21 Produttività totale dei fattori. Variazioni %
Fonte: Bassanetti et al. (2006)
Grafico 9.22 Intensità di capitale .Tasso di variazione
Fonte: Saltari e Travaglini (2009)
Ciò indica chiaramente che le economie europee, quella italiana in primis, hanno progressivamente attuato uno spostamento verso forme di attività labour-intensive (Saltari e Travaglini, 2009), proprio nella fase storica contraddistinta da un’in232
tensa dinamica innovativa, in cui avrebbe dovuto realizzarsi un
robusto impiego di risorse verso mutamenti nella dotazione di
capitale dell’economia.
Converge su questa tesi una serie di lavori, tra i quali sottolineiamo il Rapporto sulle tendenze del capitalismo italiano
(Banca d’Italia, 2009), nel quale viene argomentata la seguente tesi: le variazioni negative della PTF, la perdita di efficienza
che ne è conseguita, sono da ascrivere al maggiore impiego di
tecnologie a maggiore intensità di lavoro, a sua volta indotto
dalle riforme del mercato del lavoro, le quali hanno modificato
profondamente le convenienze nell’uso degli input.
Possiamo dedurne che siamo di fronte ad un’anomalia strutturale: in anni contraddistinti da processi di globalizzazione,
mutamento del paradigma tecno-economico, da drastici mutamenti delle relazioni tra Paesi sia all’interno dell’Europa che
nel mondo, non solo il modello di specializzazione dell’economia italiana è cambiato poco, ma soprattutto si sono verificate
condizioni per un paradossale bias verso l’adozione di tecnologie ad alto contento di lavoro. In tale contesto non potevano
che predominare tendenze a preservare gli equilibri strutturali
esistenti, mentre sarebbe stato necessario generare forti spinte
innovative. Queste, peraltro, avrebbero potuto trarre alimento
da una stagione fortunata di profitti crescenti fino al 2001 (Banca d’Italia, 2009, p. 29).
Non è quindi sorprendente che l’economia italiana abbia
continuato sulla traiettoria intrapresa da decenni, con alcune
invarianti sistemiche, non modificate da una significativa dinamica strutturale, come per esempio il considerevole spostamento dall’industria ai servizi. Non di rado si è trattato, infatti,
di attività terziarie a modesto contenuto qualitativo, mentre i
servizi ad alta intensità di conoscenza (KIS-KIBS) hanno mostrato dinamiche di crescita piuttosto contenute.
Sulla base degli elementi evidenziati è logico che la propensione ad investire in R&S non sia cambiata, né abbia potuto
modificarsi sostanzialmente aspetti costitutivi dell’apparato
produttivo nazionale (prevalenza di unità di piccole dimensioni, limitata internazionalizzazione delle imprese, ecc.). Si sono
anzi innescati circoli viziosi tali da ridurre l’estensione e l’intensità dei mutamenti del sistema, che pure si sono verificati.
233
10.
Effetti della crisi finanziaria sui mercati del lavoro e
principali misure di politica economica: una rassegna
critica
10.1
Introduzione: gli effetti della crisi sul mercato del lavoro
L’obiettivo di questo lavoro è di illustrare i principali contributi
sugli effetti della crisi finanziaria sul mercato del lavoro e sulle
misure di policy adottate dai paesi sviluppati per contrastare tali
effetti.
La crisi finanziaria iniziata nel 2007 ha avuto conseguenze
drammatiche sul mercato del lavoro, interrompendo un periodo
di tassi di disoccupazione relativamente bassi e di occupazione
stabile. L’effetto immediato è stato una perdita di benessere dei
lavoratori e delle famiglie, ma, nel medio e lungo termine, la crisi
potrebbe determinare perdite significative di capitale umano e
diminuzione dello spazio delle opportunità di crescita e innovazione. Ciò renderebbe difficile la creazione di nuovi posti di lavoro, innescando così un circolo vizioso ed ulteriore sofferenza dei
ceti medio-bassi.
Nei paragrafi successivi cercheremo di capire se la gravità e
la profondità delle conseguenze della crisi sul mercato del lavoro
siano dovute esclusivamente a cause congiunturali -la bolla speculativa sul mercato immobiliare e il fallimento di alcune istituzioni bancarie, con conseguente riduzione della liquidità- oppure
ad un processo di trasformazione che, nel corso dei decenni, ha
mutato in maniera radicale la struttura del mercato del lavoro
globale, riducendo lo spazio di contrattazione dei lavoratori e
peggiorando le condizioni di lavoro ben prima dello scoppio della crisi. Inoltre, cercheremo di capire quali misure di politica economica sono state adottate per contrastare gli effetti della crisi e
fino a che punto tali misure possono incidere sulle prospettive di
cambiamento e crescita future.
Questo lavoro è articolato come segue. Nel primo paragrafo
mostriamo alcuni dati sull’impatto di breve e, potenzialmente, di
lungo periodo della crisi economica sul mercato del lavoro, sot235
tolineando alcune possibili cause congiunturali e strutturali. Nel
secondo paragrafo presentiamo le principali misure di politica
economica adottate dai governi, discriminando tra misure volte
al sostegno dei redditi e della domanda aggregata (passive) e misure di intervento diretto sul mercato del lavoro (attive). L’articolo si chiude con alcune considerazioni finali, in cui presenteremo
alcune traiettorie possibili, ed una tabella sinottica dei principali
lavori sulla crisi e il mercato del lavoro.
10.1.1 Effetti nel breve periodo: principali indicatori economici
La crisi finanziaria che ha colpito l’economia globale nel 2008
ha avuto conseguenza drammatiche sul mercato del lavoro.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO, International Labour Office) stima che, a livello globale, il numero di disoccupati nel 2009 fosse pari a 212 milioni di persone, circa il
6,6% della popolazione mondiale, con un incremento del 16%
rispetto al 2007, la maggior parte del quale avvenuto proprio
nel 2009 (ILO, 2010). L’Organizzazione per la Cooperazione
e lo Sviluppo Economico (OECD, Organization for Economic
Cooperation and Development) sostiene che gli incrementi di
disoccupazione registrati nel 2009 sono i più ampi dalla crisi
economica degli anni Settanta. Inoltre, rispetto ad altri periodi recessivi, le previsioni di ripresa appaiono più pessimistiche
(OECD, 2009g).
L’area dei paesi sviluppati e dell’Unione Europea ha subito, in termini percentuali, l’impatto maggiore, vedendo
aumentare, in media, il proprio tasso di disoccupazione di
circa il 2.3% (ILO, 2010). Uno studio comparato dell’OECD
sull’impatto della crisi sul mercato del lavoro, mostra che
nel febbraio 2010 il numero di disoccupati nell’area OECD
ha raggiunto quota 16 milioni (OECD, 2010d). Mediamente,
Holland et al. (2009) stimano che il tasso di disoccupazione
sia aumentato dell’1,9%, ma se si guarda allo stesso dato disaggregato per paese, si notano profonde differenze. L’Irlanda, gli Stati Uniti, la Spagna ed il Regno Unito sono i paesi
che hanno subito un impatto maggiore, con incrementi fino
al 3%, mentre in Polonia, Repubblica Slovacca, Norvegia e
Germania la disoccupazione è leggermente diminuita rispetto
al periodo 2000-2007. In Italia la situazione si è mantenuta
stabile (Graf. 10.1).
236
3,6
2,7
1,8
0,9
0,0
-0,9
-1,8
Polonia
Rep.Slovacca
Norvegia
Germania
Rep.Ceca
ITALIA
Finlandia
Grecia
Corea
Australia
Olanda
Francia
Belgio
Giappone
Austria
Svizzera
Canada
Danimarca
Nuova Zelanda
Svezia
Lussemburgo
Turchia
UK
Ungheria
Portogallo
Messico
Spagna
US
Irlanda
Grafico 10.1 Variazione del tasso di disoccupazione del 2009 rispetto al tasso medio 2000-2007
Fonte: elaborazione dell’autrice su dati OECD
Tuttavia, se si guarda ai tassi di disoccupazione in termini
assoluti (Graf. 10.2), appare evidente come la situazione della
Spagna sia particolarmente drammatica, con un tasso di disoccupazione vicino al 20%, ma anche quella di Turchia, Repubblica Slovacca, Irlanda, Grecia ed Ungheria. Gli unici paesi che
si mantengono nei limiti della disoccupazione strutturale sono
Norvegia, Corea, Olanda e Svizzera, mentre l’Italia è leggermente al di sopra della media OECD (7,8%).
Grafico 10.2 Tassi di disoccupazione. 2009
20
15
10
0
Norvegia
Corea
Olanda
Svizzera
Austria
Giappone
Messico
Lussemburgo
Australia
Danimarca
Nuova Zelanda
Rep.Ceca
UK
Germania
OECD
Belgio
Italia
Canada
Polonia
Finlandia
Svezia
Francia
US
Portogallo
Ungheria
Grecia
Irlanda
Rep.Slovacca
Turchia
Spagna
5
Fonte: elaborazione dell’autrice su dati OECD
Secondo il rapporto dell’ILO (2010), che cita uno studio EUROSTAT su sei paesi dell’area OECD, la crisi non ha aggravato
le discriminazioni di genere e il gap nei tassi di disoccupazione in
base al sesso si è mantenuto stabile tra il 2007 e il 2009. Bisogna
anche considerare che la crisi ha colpito in particolar modo il
settore dell’edilizia, che, tradizionalmente, è un settore maschile
e ciò confermerebbe quanto sostenuto dall’ILO. Tuttavia, se si
237
confrontano i tasso di disoccupazione del 2009 femminile e maschile con quelli medi del periodo 2000-2006, i segni sono spesso
contrastanti e favorevoli agli uomini, come nel caso della Finlandia, della Francia, dell’Italia e dell’Olanda. Peraltro, i dati sembrano suggerire che nei paesi dove la crisi ha avuto un impatto
maggiore, cioè Irlanda, Spagna e Stati Uniti, la variazione sia
stata anche più ampia (Tab. 10.3).
Tabella 10.3 Tassi di disoccupazione per sesso (2009) e variazioni (2000-2006)-2009
Tasso di disoccupazione Tasso di disoccupazione Variazione (2000-2006) Variazione (2000-2006)
femminile (2009)
maschile (2009)
- 2009, donne
- 2009, uomini
Australia
5,42
Austria
4,55
Belgio
8,11
Canada
6,98
Corea
3,02
Danimarca
5,36
Finlandia
7,53
Francia
9,31
Germania
7,31
Giappone
4,70
Grecia
13,15
Irlanda
8,05
Italia
9,28
Lussemburgo
6,13
Messico
4,80
Norvegia
2,65
Nuova Zelanda
6,14
Olanda
3,87
Polonia
8,66
Portogallo
10,15
Rep.Ceca
7,73
Rep.Slovacca
12,87
Spagna
18,39
Svezia
7,99
Svizzera
4,49
Turchia
14,32
UK
6,44
Ungheria
9,72
US
8,07
Fonte: elaborazione dell’autrice su dati OECD
5,71
4,96
7,74
9,41
4,09
6,53
8,99
8,86
8,08
5,28
6,85
15,09
6,76
4,36
5,41
3,61
6,13
3,89
7,76
8,86
5,85
11,40
17,72
8,62
3,72
13,91
8,78
10,25
10,30
-0,06
0,00
-0,07
0,04
-0,07
0,03
-0,17
-0,09
-0,20
0,04
-0,15
0,93
-0,20
0,31
0,32
-0,28
0,23
-0,09
-0,55
0,47
-0,20
-0,28
0,21
0,37
0,09
0,50
0,47
0,58
0,61
-0,02
0,21
0,14
0,28
0,00
0,54
0,06
0,12
-0,14
0,06
0,06
2,23
0,01
0,60
1,00
-0,14
0,34
0,12
-0,54
0,77
-0,10
-0,33
1,27
0,34
0,19
0,43
0,61
0,57
0,99
La crisi, di fatto, non colpisce tutti in maniera indiscriminata. L’OECD ha identificato le categorie che presentano una maggiore vulnerabilità al ciclo economico. In termini assoluti, coloro che presentano
indici di volatilità più alti sono i giovani con un’età inferiore ai 24
anni e i lavoratori temporanei, seguiti dai lavoratori non-qualificati e
da quelli con un’età superiore ai 55 anni (OECD, 2009g) (Graf. 10.4).
238
Grafico 10.4 Indice di sensibilità al ciclo economico per gruppi specifici
2,5
100%
Relative business-cycle volatility (left-hand scale)
Share of employment (right-hand scale)
2,0
80%
Temporary workers
Permanent workers
Men
Self-employed
0%
Women
0,0
High-skilled
20%
Medium-skilled
0,5
Low-skilled
40%
Older workers (55+)
1,0
Prime-age (25-54)
60%
Youth (15-24)
1,5
Fonte: OECD (2009c)
Il grafico 10.5 mostra i tassi disoccupazione per i giovani tra
i 15 e i 24 anni, che sono effettivamente più alti rispetto a quelli
presentati nel grafico 10.2. In Spagna addirittura la disoccupazione giovanile sfiora il 40%, ma anche in paesi come la Repubblica Slovacca, la Grecia, l’Ungheria, l’Italia, l’Irlanda, la Turchia e, persino, la ricca Svezia è molto alta, superando un quarto
della forza lavoro dell’età considerata.
Se i dati presentati fino ad ora danno già una misura della
drammaticità della crisi, non offrono un quadro completo del
mercato del lavoro globale e delle sue prospettive di crescita.
Inoltre, non ci dicono nulla sulle caratteristiche e sulle perdite di
benessere dei lavoratori coinvolti.
Un secondo indicatore che può dare la misura della gravità
della crisi è il confronto con il dato sulle perdite di prodotto interno lordo (PIL). Holland et al. (2009) e Holland et al. (2010)
sottolineano come l’aumento del tasso di disoccupazione sia più
che proporzionale alla diminuzione dell’output, anche se con
variazioni notevoli tra paesi. Per esempio in Canada, Spagna
e Stati Uniti l’aumento del tasso di disoccupazione sembra del
239
tutto sproporzionato rispetto alla perdita di output, mentre in
Italia, Germania e Giappone il numero di disoccupati è aumentato in misura molto minore rispetto alla diminuzione del PIL.
Tali differenze naturalmente sono dovute a diversità strutturali
dei mercati del lavoro ma anche all’implementazione di politiche
volte a contrastare gli effetti della crisi, come vedremo in seguito. Gli autori stimano che, mediamente, una diminuzione di un
punto percentuale di output comporti una riduzione del livello
di occupazione compreso tra lo 0,1 e lo 0,6%.
Grafico 10.5 tasso di disoccupazione in età 15-24 anni
40
32
24
16
0
Olanda
Svizzera
Giappone
Norvegia
Corea
Austria
Messico
Germania
Danimarca
Australia
Canada
Nuova Zelanda
Rep.Ceca
Lussemburgo
US
UK
Portogallo
Polonia
Finlandia
Belgio
Francia
Svezia
Turchia
ITALIA
Grecia
Irlanda
Ungheria
Rep.Slovacca
Spagna
8
Fonte: elaborazione dell’autrice su dati OECD
È interessante sottolineare che dal picco di depressione, avvenuto nel secondo quadrimestre del 2009, ad oggi, il tasso di
disoccupazione a livello aggregato nell’area OECD è continuato
a crescere, compresa la disoccupazione di lungo periodo (dai 6
mesi a un anno) (OECD, 2010d): molti commentatori ed analisti
denotano tale fenomeno come “jobless recovery”, che dipende,
sostanzialmente, dallo stato di incertezza e dalla diffusa sfiducia nel rebound, aggravate peraltro da nuovi attacchi speculativi
avvenuti nelle ultime settimane sui mercati finanziari e dal rischio di fallimento di alcuni stati43. L’evidenza empirica mostra
che spesso le imprese scelgono strategicamente di mantenere un
Vedi anche The Economist (2010). Per esempio in febbraio la Ford ha cominciato a re-investire
nella produzione di automobili più efficienti, per rispondere alla spinta competitiva nel settore della
Toyota, ma non ha ancora richiamato i lavoratori licenziati dal 2006 ad oggi -circa il 47% della propria
forza-lavoro- né sembra per il momento avere intenzione di aprire nuove posizioni. L’amministratore
delegato dell’azienda, Alan Mulally, afferma che “What we’re seeing is a relatively slower recovery
than what we’ve seen in the past” e che la possibilità di nuove assunzioni, “really depends on what the
swing of the recovery is because all of us don’t know right now”. Vedi Naughton (2010).
43
240
dato livello di output per lavoratore, seppure inferiore rispetto
alla propria capacità produttiva, (ri)aumentando gradualmente
le ore lavorate piuttosto che correre il rischio di assumere nuovi
lavoratori (Holland et al., 2009; OECD, 2010d).
Un altro indicatore dello stato del mercato del lavoro è la partecipazione della forza lavoro, che è data dal rapporto tra il totale
della forza lavoro, quindi la somma tra occupati e disoccupati,
e il totale della popolazione attiva. Se, a livello aggregato, nel
biennio 2008-2009, la partecipazione della forza lavoro globale
è rimasta invariata, a livello regionale le differenze sono notevoli. In particolare, nell’area OECD essa è diminuita dello 0,4%,
sostanzialmente per un “effetto scoraggiamento” che colpisce
coloro che vorrebbero lavorare, ma rinunciano a cercare lavoro
perché sfiduciati rispetto alle opportunità offerte dal mercato del
lavoro (ILO, 2010). Tale dato è particolarmente rilevante perché
molto spesso le categorie più colpite sono le più vulnerabili, cioè
i giovani che devono ancora entrare nel mercato del lavoro, gli
anziani che stanno per uscirne e le donne (OECD, 2010d).
Infine, un indicatore di estrema importanza è quello relativo al
trend dei salari, che non solo ci restituisce un’immagine dello stato
del mercato del lavoro ma anche del benessere relativo dei lavoratori e delle famiglie. Le imprese possono scegliere, in alternativa al
licenziamento, di tagliare i salari reali e, quindi, di bloccare il tasso
di crescita del salario nominale. Holland et al. (2010) mostrano
come ci sia una sostanziale varietà di comportamenti tra i paesi
OECD anche nel trend di questa variabile. Come appare evidente
dal grafico 10.6, l’Italia è un outlier assoluto, con una riduzione
media della crescita del salario reale nel biennio 2008-2009 pari al
3%. Anche nel Regno Unito si è registrata una leggera diminuzione ma assolutamente non comparabile con quella italiana. Gli autori ritengono che ciò spieghi la capacità dell’Italia di mantenere
un basso tasso di disoccupazione, ma, in termini di benessere generale, appare ancora più grave se si confronta con il dato relativo
al periodo 2000-2006, durante il quale il salario reale era cresciuto
solamente dello 0,5%, quindi meno dell’aumento annuale della
pur bassa inflazione44. Anche in Francia e in Irlanda la crescita dei
salari durante la crisi è stata molto contenuta, mentre in Canada,
Stati Uniti e Spagna, i salari sono aumentati più che nel periodo
precedente, al prezzo però di un maggior numero di licenziamenti.
44
L’incremento dei prezzi al consumo nel periodo 2000-2006 è rimasto stabile intorno al 2,4% (dati
OECD).
241
Grafico 10.6 Crescita media del reddito reale. 2000-2006 e 2008-2009
6
2000-2006
Average % growth per annum
5
2008qI-2009q3
4
3
2
1
0
-1
US
UK
Spain
Sweden
Neths
Japan
ITALY
Ireland
Germany
France
Finland
Canada
-3
Australia
-2
Fonte: Holland et al. (2010)
Sulla base di alcune simulazioni fondate su dinamiche storiche di ciascun paese, Holland et al. (2010) mostrano che il
taglio dei salari in paesi come la Germania, che presenta tassi
di crescita del salario reale positivi e tassi di disoccupazione
relativamente non elevati, gli Stati Uniti, il Regno Unito e, in
misura minore, la Spagna ha un impatto molto positivo sui livelli di occupazione. Al contrario, i mercati del lavoro di Finlandia, Svezia, Irlanda ed Italia sembrano molto meno reattivi,
giustificando ancor meno una misura che ha un effetto negativo
tanto sul benessere delle famiglie quanto sulla domanda aggregata e, di conseguenza, sulla ripresa.
Mishel et al. (2009) sottolineano che negli Stati Uniti il rallentamento della crescita del saggio di salario non ha colpito
tutti i gruppi sociali in maniera indiscriminata. Per esempio,
il tasso di crescita del salario nominale femminile è diminuito,
mediamente, del 57%, contro il 34% di quello maschile. Inoltre,
la riduzione è concentrata soprattutto nelle fasce medio-alte di
reddito, aggravando lo stato di insicurezza economica in cui
versa la classe media americana dall’inizio del Millennio (vedi
Demos, 2008).
242
10.1.2 Effetti di lungo periodo: cambiamenti strutturali nelle
traiettorie di sviluppo
Se quelli descritti sopra sono gli effetti nell’immediato della crisi,
altre conseguenze probabili possono verificarsi sul medio-lungo
termine e rischiano di diventare strutturali se non affrontate con
politiche adeguate. Irons (2009) individua i settori principali che
rischiano maggiormente di subire l’impatto della crisi:
•• Il disagio economico può spingere molti genitori a tagliare
sulle spese di istruzione dei propri figli, interrompendo o ritardando l’istruzione secondaria oppure rinunciando al doposcuola o ai campi scuola. Inoltre, l’insicurezza economica
che arriva fino a tagliare le spese per il cibo o la sanità può
generare ritardi cognitivi non recuperabili. Oreopolus et al.
(2005), utilizzando un ampio database longitudinale canadese e stimando un modello a due stadi, calcolano che i figli che
hanno subito lo shock del licenziamento dei padri guadagnano circa l’8% in meno dei figli del gruppo di controllo, i cui
padri hanno continuato a lavorare stabilmente. Inoltre, è più
probabile che essi sia beneficiari del sussidio di disoccupazione e dell’assistenza sociale.
•• La crisi ha anche effetti persistenti sullo spettro di opportunità di individui e famiglie. Irons cita uno studio del 2009 in
cui si mostra che i laureati che entrano nel mondo del lavoro
durante un ciclo economico negativo presentano un differenziale salariale fino al 7%, che persiste nel tempo (dopo 15 anni
il gap si riduce al 2,5%). Un recente studio dell’EPI sul mercato del lavoro giovanile americano mette in evidenza come
l’attuale crisi abbia duramente colpito i giovani con un’età inferiore a 25 anni, il cui tasso di disoccupazione tra il 2007 e il
2010 è cresciuto del 7,1%, rappresentando il 26,4% del totale
(sebbene i giovani rappresentino solo il 13% di tutta la forza
lavoro). Seppure la disoccupazione giovanile sia sempre stata
molto sensibile al ciclo economico, gli autori mostrano che
nel caso di questa crisi gli effetti sono più drammatici e rischiano di perdurare nel lungo periodo: infatti, i giovani sono
meno preparati ad affrontare la disoccupazione, non essendo,
presumibilmente, qualificati per posizioni con un alto valore
aggiunto, quindi più specializzate e meglio retribuite, né avendo accumulato risparmi. Il timore di una disoccupazione di
lungo termine e della povertà possono spingere ad accettare
qualsiasi tipo di posizione, a prescindere dalla propria quali243
fica ed esperienza, incidendo pesantemente sulla propria vita
professionale e determinando una perdita di capitale umano
per l’individuo e l’intera società (Edward e Hertel-Fernandez,
2010).
•• Peraltro, quest’ultimo effetto è aggravato dalla competizione per “accaparrarsi” le poche posizioni disponibili, che, la
maggior parte delle volte, si risolve in una competizione “al
ribasso”. Ciò, come si è accennato sopra, incide in maniera
permanente non solo sul reddito, ma anche sulle aspettative
di carriera e mobilità sociale ed ha conseguenze nefaste sulle
fasce di reddito medio-basse. L’ILO stima che tra il 2008 e il
2009 il gruppo di “working poor” sia aumentato del 7% su scala globale, coinvolgendo perciò circa 215 milioni di persone;
ulteriori 185 milioni di lavoratori sono oggi a rischio di cadere
sotto la linea assoluta di povertà (ILO, 2010). Ciò potrebbe
portare ad un ulteriore peggioramento del trend di crescente disuguaglianza iniziato in molti paesi, tra cui l’Italia, negli
anni Settanta (Franzini e Raitano, 2009).
•• La crisi ovviamente incide anche sugli investimenti privati,
a causa di i) riduzione della domanda aggregata per beni e
servizi; ii) difficoltà di accesso al credito; iii) aumento dell’incertezza che spinge le imprese a sfruttare il capitale fisico disponibile, senza investire nella R&S né nell’adozione di nuove
tecnologie; e, di conseguenza, iv) riduzione della domanda di
lavoratori qualificati. Questo tipo di comportamenti, perciò,
influenzano permanentemente la traiettoria di sviluppo, favorendo il lock-in tecnologico e limitando al massimo lo spazio
delle possibilità produttive.
•• La crisi crea forti disincentivi all’apertura di nuove imprese,
soprattutto piccole e medie. Infatti, gli imprenditori, aspettandosi una domanda limitata per i propri prodotti, tenderanno
a ritardare l’entrata nel mercato, dovendo anche affrontare
le molte difficoltà legate all’accesso al credito e all’espansione del capitale. Anche questo effetto può incidere in maniera
negativa e persistente sulla traiettoria di sviluppo: infatti, le
nuove imprese hanno una forte capacità innovativa e rappresentano una larga fetta della domanda di R&S. Irons cita uno
studio del 2002 che indaga sul nesso tra attività di R&S svolte
nelle università e la creazione di nuove imprese sul mercato
locale, facendo emergere che la spesa nelle università è fortemente correlata a quest’ultimo elemento.
244
Concludendo, la crisi non incide solo sui principali indicatori economici, ma anche sulle capabilities di un individuo, che
rappresentano lo spazio delle combinazioni possibili di ciò che
egli potrebbe desiderare di fare, disponendo di tutti i mezzi e le
conoscenze possibili. Come giustamente scrive il premio Nobel
Amartya Sen (2001, p. 99) “Ma se la disoccupazione ha anche
altre conseguenze gravi per le vite delle persone che colpisce, se
causa privazioni di altro tipo, nella misura in cui ciò accade il
sollievo dato dal sostegno al reddito è limitato”.
10.1.3 La crisi del lavoro: una questione congiunturale o
strutturale?
Pur non negando la gravità dell’attuale situazione economica,
secondo l’OECD le condizioni del mercato del lavoro erano abbastanza favorevoli quando la crisi è scoppiata. Questo perché
nel 2007 il tasso di disoccupazione nell’area dei paesi sviluppati
era basso (5,7%) e due terzi della popolazione in età attiva era
occupata. Inoltre, l’aumento della flessibilità, avvenuto in molti
paesi europei e in Giappone, ha permesso a molte imprese di ricorrere ad una riduzione delle ore lavorate piuttosto che al licenziamento, rendendo, tuttavia, i lavoratori più vulnerabili al ciclo
economico (OECD, 2009g).
In realtà, molti economisti ritengono che dagli anni Ottanta
ad oggi le condizioni del mercato del lavoro si siano sempre più
deteriorate e che ad essere colpiti in maniera drammatica dall’attuale crisi siano stati proprio i “figli della flessibilità”, cioè i lavoratori con contratti temporanei di varia natura (vedi Graf. 10.4),
non godendo, la maggior parte delle volte, di alcun diritto sindacale né di protezione sociale. Inoltre, in generale, le condizioni di
lavoro e il potere di contrattazione dei lavoratori sono peggiorati
(Kochan e Shulman, 2007), a vantaggio di un sistema economico
sempre più orientato a dividere la forza lavoro e ad indebolire il
nesso tra salario e lavoro e, paradossalmente, a rafforzare quello
tra capitale e lavoro (Peralta e García, 2008).
Per capire questo passaggio è necessario comprendere meglio
le trasformazioni strutturali avvenute nell’ultimo trentennio, che
hanno inciso profondamente sui comportamenti economici delle famiglie e delle imprese, condizionati dall’affermarsi del cosiddetto “Washington Consensus” e del capitalismo finanziario
e dall’imposizione del modello di business americano. L’espressione “Washington Consensus” fu coniata nel 1989 da John Wil245
liamson, economista del Peter Institute for International Economics. Egli sosteneva che le politiche neoliberali introdotte negli
Stati Uniti dal presidente Reagan e nel Regno Unito dalla premier Thatcher, potessero aiutare i paesi latino-americani a superare le difficoltà in cui versavano. Il pacchetto di policy, su cui
Williamson riteneva che ci fosse un ampio consenso tra i governi
dei paesi sviluppati, comprendeva una serie di misure che andavano dalla disciplina fiscale ad una generale deregolamentazione
dei flussi commerciali e finanziari e privatizzazione di vari servizi
(Williamson, 2004).
Questa concezione era il corollario teorico di politiche già
ampiamente implementate, che stavano smantellando un sistema di diritti del lavoro nato negli anni Trenta, il quale garantiva
la supervisione sui contratti di lavoro, la protezione sindacale, il
salario minimo e, un decennio più tardi, introduceva l’aggiustamento automatico dei salari all’inflazione (IRPET, 2010). Tuttavia, come affermano Kochan e Shulman (2007, p. 2-3): “A partire dagli anni Settanta, la capacità di negoziare divisioni eque e
bilanciate della produttività e della crescita economica generate
congiuntamente da lavoratori e datori di lavoro venne meno.
Dopo la vittoria dei Conservatori negli anni Ottanta, lo sdegno
per le politiche sociali del governo e l’attacco alla contrattazione
collettiva divennero un elemento chiave della nuova ideologia”
[trad. dell’autrice].
Così, in questo periodo, il salario minimo negli Stati Uniti fu
ridotto del 30%, mentre altri provvedimenti tesero a diminuire
ulteriormente le garanzie dei lavoratori, determinando una desindacalizzazione del mercato del lavoro45 ed un impoverimento
e precarizzazione della forza lavoro. Con il tempo, tali misure
furono estese anche al mercato del lavoro europeo, incidendo
profondamente sul benessere dei lavoratori. Un’analisi panel di
Clark (2009) su undici regioni britanniche mostra che esiste una
forte correlazione tra insoddisfazione personale e disoccupazione e che non esiste alcuna evidenza empirica della capacità dei
disoccupati di lungo termine di adattarsi alla propria condizione.
Uno degli aspetti più rilevanti di queste trasformazioni di lungo
periodo è sicuramente la finanziarizzazione dell’economia globale, dovuta ad una progressiva deregolamentazione dei mercati
dei capitali. Tale mutamento ha inciso in maniera profonda sulle
Kochan e Shulman (2007) sostengono che nel settore privato la percentuale di lavoratori iscritti al
sindacato è passata dal 25% negli anni ‘80 all’attuale 7,4%.
45
246
scelte di risparmio e consumo delle famiglie, rendendole sempre
più dipendenti dall’andamento dei mercati dei capitali e favorendo un meccanismo autoreferenziale di continua patrimonializzazione dell’economia, nonché una maggiore vulnerabilità dei
redditi alla volatilità finanziaria. Aglietta stima che nei periodi
1986-89 e 2001-2002, la patrimonializzazione delle famiglie sia
cresciuta, rispettivamente, del 13% e del 35% (citato in Peralta e
García, 2008). Ciò ha permesso di mantenere stabili i consumi o,
nel caso degli Stati Uniti, addirittura di aumentarli, nonostante
il progressivo deterioramento dei salari (Graf. 10.7).
Grafico 10.7 Spesa per il consumo finale delle famiglie (% PIL). 1980-2007
75
Canada
USA
70
Australia
Giappone
Area euro
65
60
2007
2005
2006
2004
2002
2003
2000
2001
1999
1997
1998
1996
1994
1995
1992
1993
1991
1989
1990
1988
1986
1987
1984
1985
1983
1980
50
1981
1982
55
Fonte: WDI (2009)
Come sostenuto dai Regolazionisti46, tali mutamenti hanno
cambiato radicalmente la struttura della domanda aggregata,
allentando il nesso tra salario e lavoro e riconciliando quello
tra lavoro e capitale. Questo perché le famiglie hanno affidato
il proprio risparmio alle banche, le quali, invece di comportarsi come istituti di credito, hanno agito come veri e propri fon46
Secondo Fumagalli e Lucarelli per teoria della regolazione “si intende un programma di ricerca
nel campo della teoria economica e della politica economica, sorto in Francia all’inizio degli anni
‘70 […]. Il modo di regolazione rappresenta il concetto cardine di questa programma di ricerca;
pertanto l’attenzione del ricercatore è rivolta innanzitutto all’insieme delle regole e delle procedure
(norme, consuetudini, leggi) che assicurano il funzionamento e la capacità di durare del processo
di accumulazione in un sistema capitalistico di produzione. Secondo la testimonianza dei suoi stessi
padri fondatori (Aglietta, Coriat, Lipietz...), la nascita della SdR deve essere riferita alla congiuntura
socio-economica che, dopo 1973, caratterizza la maggior parte dei paesi dell’OCSE; si tratta della
rottura irreversibile del modello di crescita proprio dei trent’anni gloriosi successivi alla fine della
seconda guerra mondiale […]. Il centro dell’analisi regolazionista è rappresentato dalla viabilité dei
regimi di accumulazione capitalistici. Viabilité significa qui sia avviamento che durabilità, indica
cioè le condizioni che consentono la nascita e la persistenza di un regime di accumulazione”. Vedi
Fumagalli e Lucarelli (2007).
247
di d’investimento, volti soprattutto a massimizzare il profitto di
breve periodo piuttosto che a regolare i flussi finanziari al fine di
minimizzare il rischio. Come sottolineano Fumagalli e Lucarelli
(2010, p. 23): “Non siamo di fronte a un virus (a una patologia
che ha afflitto i mercati finanziari) ma a una malattia strutturale,
connaturata ai mercati finanziari stessi”.
Se si prende il caso emblematico del mercato immobiliare, risulta evidente che, sebbene i salari reali ristagnassero e i prezzi
degli immobili seguitassero ad aumentare, la domanda continuava a crescere stabilmente, spinta da un meccanismo autoreferenziale di crescente redditività per gli speculatori. Ciò, ovviamente,
metteva in discussione i fondamentali della teoria economica,
secondo cui, al crescere del prezzo, la domanda dovrebbe diminuire, assumendo perfetta razionalità degli agenti47. Sia la bolla
speculativa sia quella immobiliare non sarebbero state possibili
se agli acquirenti finali non fossero stati facilitati nell’accesso al
credito. Orléan (2010) mostra che tra il 2000 e il 2006 l’indebitamento ipotecario è aumentato del 13%, in forte contrasto con il
risparmio delle famiglie che dal 2005 assume segno negativo.
Inoltre, nello stesso periodo, si osserva un ammorbidimento nei criteri di selezione per l’accesso al credito, che determina l’aumento del ricorso delle famiglie a crediti ad alto rischio,
tra cui i famigerati subprime. Peraltro, l’aumento del rischio non
comporta alcun aumento dello spread rispetto ad altri titoli, ma,
paradossalmente, una sua diminuzione: “Se c’è un’aspettativa
di rialzo, si acquista il titolo; in caso contrario si vende. Solo
secondariamente ci si interroga sulla pertinenza di quest’azione
rispetto ai fondamentali. Quest’analisi ci dice che le aspettative
degli agenti sono autoreferenziali: non guardano all’economia
reale, ma al comportamento degli altri agenti” (Orléan, p. 5556). Di conseguenza, le previsioni sul valore intrinseco dei titoli
delle agenzie di rating non erano necessariamente erronee, solo
In un famoso articolo, André Orléan, direttore agli studi dell’École des Haute Études en Science
Sociales (EHESS) e tra i principali rappresentanti della scuola Regolazionista, affronta la questione
teorica sulla razionalità dei mercati finanziari. Egli illustra sostanzialmente il punto di vista di due
scuole di pensiero: quella neoclassica, secondo cui, grazie all’efficienza del meccanismo di arbitraggio,
il prezzo di un titolo è uguale al suo valore intrinseco, e quella della finanza comportamentale, che,
invece, ammette un certo grado di irrazionalità degli agenti economici, soprattutto di fronte al rischio.
In particolare, una parte degli studiosi di questa scuola contestano che sia l’arbitraggio il principale
meccanismo di regolazione finanziaria ed oppongono la tesi in base alla quale presenza di agenti
irrazionali tende ad aggravare tanto il rischio fondamentale dell’arbitraggio, dovuto all’insostituibilità
dei titoli, quanto quello legato al rischio di valutazione, che allontana ulteriormente gli investitori
dalla valutazione reale del titolo, aprendo le porte alla speculazione. La versione italiana pubblicata
su Orléan (2010) fa riferimento a quella originale dal titolo “Les marchés fianciers sont-il rationnels?”,
in Askenazy, P., Cohen, D. (2008), Vingt sept questions d’économie contemporaine, Albin Michel, Paris.
47
248
prescindevano dalle aspettative reali e non razionali degli agenti.
Se la progressiva patrimonializzazione dei redditi familiari, che
passa attraverso l’investimento del risparmio in quote azionarie,
ma anche attraverso la diffusione dei fondi pensionistici e previdenziali, può spiegare parzialmente la maggiore vulnerabilità dei
salari al ciclo economico e il generale deterioramento delle condizioni di lavoro, altre dinamiche strutturali non possono essere
sottovalutate. Innanzitutto perché, basandosi sulle stime di vari
autori, Peralta e García (2008) mostrano che nel 2000 la quota
di famiglie detentrici di titoli finanziari in Francia e negli Stati
Uniti ammontava, rispettivamente, al 25% e al 50% dell’intera
popolazione, negando perciò che, almeno per la Francia, il coinvolgimento dei lavoratori nella patrimonializzazione fosse così
ampio. Inoltre, nel caso degli USA, più dell’80% degli investimenti erano concentrati nel 10% della popolazione, presumibilmente la più ricca, mettendo così in discussione la rilevanza del
dato anche per gli USA.
Secondo Peralta e García (2008) il punto centrale della questione è che i salari sono stati utilizzati come leva per recuperare
sulla diminuzione di profittabilità di lungo periodo del capitalismo globale attraverso: i) la crescente sostituzione di tipologie
contrattuali ben retribuite e stabili con tipologie meno stabili e
più precarie; ii) il congelamento dei saggi di salario al di sotto
della produttività marginale; iii) il parziale trasferimento del rischio di impresa sul lavoro, reso possibile da una maggiore facilità di licenziamento. Inoltre, le politiche di liberalizzazione e la
necessità di attrarre capitale dall’estero, hanno determinato tagli
alla spesa pubblica che hanno ulteriormente indebolito i salari
(Graf. 10.8).
Per di più, sul finire degli anni Settanta il modello di business americano dell’impresa si era imposto su quello europeo,
determinando una maggiore indipendenza del management rispetto alla proprietà, rafforzata peraltro dalla progressiva parcellizzazione delle quote azionarie e dall’introduzione delle stock
options, che vincolavano parte dei redditi dei dipendenti alla
profittabilità dell’impresa. Questo passaggio è di estrema importanza, perché fa venir meno rapporti di lavoro storicamente
e territorialmente determinati, basati sulla concertazione tra le
parti politiche e sociali (IRPET, 2010). L’unbundling del processo
produttivo (Baldwin, 2006) e la crescente possibilità (o minaccia)
di delocalizzazione e outsourcing in paesi con un costo del lavoro
249
più basso, hanno spinto verso la de-sindacalizzazione e la divisione dei lavoratori, nonché ad un’ulteriore flessione dei salari
verso il basso.
Grafico 10.8 Saggio di profitto percentuale. Francia. 1978-2006
50
45
40
35
30
25
20
15
10
Financial corporations profit rate
2006
2004
2002
2000
1998
1996
1992
1992
1990
1988
1986
1984
1982
1980
1978
5
Nonfinancial corporations profit rate
Fonte: Peralta e García (2008)
L’impossibilità dei lavoratori di contrattare un salario equo
e di incidere sulla propria capacità di potere di acquisto, ha facilitato il ricorso a prodotti finanziari rischiosi che dessero loro
la possibilità di sostenere il consumo, incentivati peraltro da intermediari assolutamente non neutrali ed orientati al profitto sul
breve periodo piuttosto che alla protezione e valorizzazione dei
risparmi. Di conseguenza, la deregolamentazione dei mercati finanziari ha reso i lavoratori ancora più vulnerabili al ciclo economico e ha ulteriormente allentato il nesso tra lavoro e salario.
Tuttavia, il deterioramento delle condizioni di lavoro ha cause
profonde e lontane, che riguardano l’intera economia reale.
10.2
Risposte di politica economica alla crisi
10.2.1 Introduzione: interventi possibili e limiti di bilancio
I dati drammatici che abbiamo mostrato nel paragrafo precedente e,
250
soprattutto, i rischi di isteresi e di conseguenze, sul mercato del lavoro
e sull’economia globale in generale, che vanno oltre la congiuntura
economica negativa (Guichard e Rusticelli, 2010), implicano che
l’intervento pubblico non sia un’alternativa ma una necessità.
Tutti i paesi sviluppati sono intervenuti implementando
politiche fiscali espansive al fine di stimolare la domanda interna
e prevedere misure di protezione del lavoro e dei gruppi sociali
più indigenti. Gli interventi sono stati, però, molto diversi tra
loro, con riferimento sia all’entità dei pacchetti approvati nel
periodo 2008-2010, sia alle misure effettivamente implementate;
tali differenze derivano sostanzialmente dall’impatto che la
crisi ha avuto sul mercato del lavoro nazionale ma anche dallo
stato dei conti pubblici, che, in molti casi, lascia limitati spazi di
manovra per i decisori politici (OECD, 2009d; 2009f).
Come mostra il grafico 10.9, paesi come il Giappone, la Grecia
e l’Italia, che presentano un debito pubblico molto elevato e
superiore all’intero ammontare del PIL, rischiano di non avere
sufficienti risorse per intervenire e di risultare poco affidabili
di fronte ai creditori e al mercato. D’altra parte, una politica
fiscale restrittiva ha effetti fortemente regressivi, essendo i gruppi
più indigenti quelli maggiormente colpiti dalla crisi, e rischia
di peggiorare ulteriormente la distribuzione dei redditi e di far
cadere l’economia in una spirale di stagflazione.
Grafico 10.9 Debito pubblico dei paesi OECD come % del PIL. 2000-2006, 2008
200
150
2000-2006
2008
100
0
Australia
Norvegia
Nuova Zelanda
Svizzera
Messico
Repubblica Slovacca
Repubblica Ceca
Irlanda
Canada
Corea
Finlandia
Danimarca
Spagna
Svezia
Germania
US
Polonia
Olanda
Francia
Austria
UK
Ungheria
Portogallo
Belgio
ITALIA
Grecia
Giappone
50
Fonte: elaborazione dell’autrice su dati OECD
Il grafico 10.10 mostra l’entità dei pacchetti fiscali approvati
dai paesi OECD. I paesi che hanno speso di più per attuare misure contro la crisi sono stati il Giappone (4,2%), nonostante il suo
251
alto debito pubblico, l’Australia (4%) e la Corea (3%), mentre i
paesi che hanno speso di meno sono stati l’Italia (0,2%), la Svizzera (0,3%) e la Repubblica Ceca (0,3%). L’Ungheria, l’Irlanda
e la Nuova Zelanda hanno addirittura diminuito la propria spesa pubblica. Alcuni paesi sono intervenuti ricorrendo a misure
ordinarie di politica economica piuttosto che attraverso misure
Keynesiane “radicali”, come le definisce Pascal Petit (2005), cioè
diminuendo la pressione fiscale e, di conseguenza, aumentando il
reddito disponibile. Il grafico 10.10 mostra che la Nuova Zelanda
(-4%), gli Stati Uniti (3,2%) e il Canada (2,3%) sono i paesi che
hanno diminuito maggiormente la pressione fiscale. Interessante
mettere in evidenza il caso dell’Irlanda, che ha attuato una politica fortemente restrittiva, aumentando la pressione fiscale del
6% del PIL e diminuendo la spesa pubblica di oltre il 2% del PIL.
Grafico 10.10Misure fiscali e spesa pubblica contro la crisi (% PIL). 2008-2010
Spagna
US
Danimarca
Turchia
Corea
Australia
Giappone
Norvegia
Olanda
Belgio
Messico
Germania
Svezia
Canada
Spesa pubblica totale
Austria
UK
Finlandia
Francia
Rep. Slovacca
Polonia
Misure fiscali
Ungheria
Irlanda
Nuova Zelanda
Grecia
ITALIA
Svizzera
Rep. Ceca
8
6
4
2
0
-2
-4
-6
-8
Fonte: elaborazione dell’autrice su dati OECD
La maggior parte dei paesi, Stati Uniti compresi, ha scelto un
mix di spesa pubblica e taglio delle tasse e l’effetto netto dipende
dall’elasticità della domanda alle variazioni di reddito e dalla propensione al consumo. Secondo le linee guida dell’OECD, un taglio
delle tasse ha effetti significativi sulla domanda solo se rivolto ai
redditi più bassi, che hanno un’elasticità della domanda maggiore
rispetto a quelli più alti. Inoltre, una diminuzione delle tasse per le
imprese o per i redditi alti non ha effetti significativi né immediati,
perché, in entrambi i casi, non incide sulla liquidità e sulla fiducia nel
mercato. Infine, una diminuzione delle tasse per i redditi più bassi ha
effetti progressivi e di protezione contro l’indigenza (OECD, 2009f).
252
Anche nel caso del mercato del lavoro, esistono due diversi approcci di intervento pubblico. Il primo si limita sostanzialmente
ad intervenire sulle variabili macroeconomiche standard per rilanciare la crescita e, dunque, l’occupazione; si tratta di un intervento neo-liberista, in cui l’obiettivo è limitare i danni della
crisi, sostenere la domanda aggregata e rafforzare l’effetto degli
ammortizzatori sociali, che, dato il ciclo economico negativo,
potrebbero non essere sufficienti. Il secondo approccio, secondo
cui lo stato interviene al fine di creare o incentivare la creazione
di nuovi posti di lavoro e favorire la riallocazione delle risorse, è
più autenticamente Keynesiano. Pascal Petit (2005) mostra come
questi due tipi di approccio siano storicamente determinati, facendo riferimento il secondo ad una fase di sviluppo tipicamente
fordista ed il primo ad una post-fordista e neo-liberista.
Si distinguono perciò due macro-categorie di misure (OECD, 2009b):
•• Misure passive (sostegno al reddito):
- sussidi di disoccupazione;
- assistenza sociale e trasferimenti in-cash o in-kind;
- misure fiscali.
•• Misure attive (interventi diretti sul mercato del lavoro):
- sostegno alla domanda di lavoro (investimenti pubblici,
incentivi alle imprese, riduzione del costo del lavoro, riduzione delle ore lavorate);
- misure di sostegno ai job-seekers (programmi di attivazione: incentivi allo start-up d’impresa, training e rafforzamento dei PES e dei meccanismi di job-search & matching).
Il grafico 9.11 mostra i principali risultati48, a livello aggregato,
del questionario fatto circolare dall’OECD nel gennaio 2009 tra i
paesi membri, in cui si chiedeva di riassumere le principali misure di
politica economica implementate per contrastare gli effetti della crisi
sul mercato del lavoro. La maggior parte dei paesi hanno scelto di
intervenire attivamente sulla domanda di lavoro, riducendo le ore lavorate, agendo sul costo del lavoro, investendo direttamente in opere
pubbliche o incentivando le imprese ad assumere. Una larga parte dei
paesi ha rafforzato i propri meccanismi di assistenza alla ricerca di lavoro, finanziando programmi di training e di job-search & matching.
Le misure di sostegno al reddito si sono tradotte nell’estensione dei
benefici legati allo status di disoccupato, in altri trasferimenti diretti,
in-cash o in-kind, o indiretti (misure fiscali), mentre pochi paesi sono
ricorsi a misure di assistenza sociale (OECD, 2009g).
I risultati riassumono le risposte di 29 paesi.
48
253
Grafico 10.11Numero di paesi OECD per tipologia di risposta alla crisi implementata
30
25
Measures to support
labour demand for jobseekers
and vulnerable workers
Measures to help
unemployed find work
Income support for job
losers and low paid
Other training
measures
20
15
10
Apprenticeship schemes
Training for existing workers
Fiscal measures for low earners
Social assistance
Other payments or in-kind support
Generosity or coverage of
unenployment benefits
Training programmes
Work experience programmes
Job-finding and business start-up
incentives
Activation requirements
Job search assistance and matching
Short-time work shemes
Reductions in non wage labour costs
0
Job subsidies, recruitment incentives
or public sector job creation
5
Fonte: OECD (2009g)
10.2.2 Misure passive
Le misure passive o di sostegno al reddito svolgono un ruolo fondamentale durante i periodi di recessione perché garantiscono ai lavoratori e alle
proprie famiglie di restare al di sopra della soglia di povertà. Nel Piano
di rilancio approvato nel 2008 dalla Commissione Europea, si leggeva
che uno dei pilastri fondamentali per la ripresa fosse proprio sostenere
il potere di acquisto e stimolare la domanda aggregata e la fiducia del
sistema economico: in particolare, si proponeva di destinare l’1,5% del
PIL europeo, circa 200 miliardi di euro, proprio a questo scopo, al fine
di garantire solidarietà e giustizia sociale (European Commission, 2008).
I dati che abbiamo presentato all’inizio di questo lavoro, mostrano
che i lavoratori a tempo determinato o con contratti non-standard
sono i più colpiti dalla crisi, proprio perché, la maggior parte delle volte, essi non sono coperti da benefici di disoccupazione o altre garanzie
durante i periodi in cui non lavorano. Inoltre, i principali titolari di
questi contratti sono generalmente i giovani, un’altra categoria fortemente colpita dalla recessione. Di conseguenza, un modo per permettere loro di far fronte al ciclo economico negativo e di evitare la “corsa
al ribasso” e, quindi, perdite di capitale umano, è estendere i criteri di
eleggibilità per accedere ai sussidi di disoccupazione. Inoltre, l’entità
dei benefici potrebbe essere aumentata per far fronte ad eventuali gap
di reddito dovuti ai piani di riduzione dell’orario di lavoro.
254
Tabella 10.12Benefici di disoccupazione
Incremento della soglia di reddito fino Marzo 2011
Estensione dei benefici ai giovani disoccupati
Austria
Estensione del piano di sussidi pubblici volto a compensare fino al 90% della perdita di salario
Belgio
Estensione dei benefici di un anno
Estensione dei benefici a 50 settimane per due anni (OECD, 2009c)
Canada
Fondi addizionali (circa 6 miliardi di dollari) per l’Employment Insurance programme (Canadian
Government 2010)
Riduzione della durata di occupazione richiesta per l’eleggibilità
Estensione da 185 a 200 giorni lavorativi
Finlandia
Rimozione permanente del limite di 36 mesi per accedere ai benefici di disoccupazione per i lavoratori
part-time
Eleggibilità estesa a coloro che hanno lavorato almeno 4 mesi nei precedenti 28 (36 mesi per gli over-50)
Francia
Estensione dell’eleggibilità per la disoccupazione parziale per i contratti interinali, part-time e a progetto
Germania Estensione dell’indennità di lavoro parziale agli interinali
Aumento permanente del sussidio di disoccupazione
Grecia
Bonus natalizio
Pagamento straordinario per contratti a progetto
Italia
Fondi addizionali per la Cassa Integrazione Guadagni (CIG)
Requisiti meno stringenti per l’accesso all’assicurazione di occupazione per i lavoratori a tempo
indeterminato
Estensione del sussidio per i disoccupati di lungo termine a tre anni
Giappone Estensione dei sussidi di disoccupazione ai disabili e ai lavoratori anziani (Ministry of Health, Labour
and Welfare 2009)
Job Card system: indennità di disoccupazione ai lavoratori atipici che partecipano a programmi di training
(Ministry of Health, Labour and Welfare 2009)
Job Card system: indennità di disoccupazione ai lavoratori atipici che partecipano a programmi di training
(Ministry of Health, Labour and Welfare 2009)
Corea
Estensione dei benefici di disoccupazione
Olanda
Estensione temporanea dei benefici di disoccupazione ai lavoratori part-time
Polonia
Aumento permanente del livello di sussidio e riduzione della durata da gennaio 2010
Concessione del diritto di mantenere l’eleggibilità per i disoccupati che entro sei mesi trovano lavoro
Portogallo
Estensione della durata dei benefit per i disoccupati di lungo termine
Repubblica Riduzione di un mese/aumento del sussidio nei primi due mesi
Ceca
Aumento del sussidio per coloro che hanno lavorato 24 mesi negli ultimi 3 anni
Sospensioni dei contratti di lavoro o riduzione delle ore lavorate non incidono sull’eleggibilità per i benefit
Spagna
da disoccupazione
Svezia
Proposta di riduzione nella durata di attesa per accedere all’assicurazione di disoccupazione
Turchia
Aumento del sussidio di disoccupazione
UK
Estensione del Pathway to Work scheme (benefici per lavoratori disabili) (OECD, 2010e)
Estensione dell’Emergency Unemployment Compensation Act fino al dicembre 2009 (DOL, 2010)
Estensione in tutti gli stati dei benefici di disoccupazione fino a 14 settimane (20 per gli stati con una
disoccupazione oltre l’8.5%) (EPI, 2009)
Incremento del sussidio settimanale di 25$ (EPI, 2009)
Esclusione dal pagamento delle tasse federali per il primo pagamento compensativo di disoccupazione
US
(EPI, 2009)
Sussidio del 65% del costo di mantenimento dell’assicurazione sanitaria anche dopo il licenziamento
(EPI, 2009)
Special Transfers for Unemployment Compensation Modernization: fino a 7 miliardi di dollari trasferiti
agli stati sotto forma di incentivi per incoraggiare misure specifiche, come la copertura del tempo ridotto
(DOL, 2010)
Fonte: adattata da OECD (2009b)
Australia
255
La tabella 10.12 mostra le misure passive implementate relative ai benefici di disoccupazione. La stragrande maggioranza dei paesi ha scelto di estendere il periodo di copertura dei
benefici, prevedendo, evidentemente, una ripresa molto lenta.
La Francia, la Germania e l’Australia hanno scelto interventi
più mirati, estendendo la copertura a tipologie contrattuali diverse da quelle standard e ai giovani, mentre il Regno Unito e
il Giappone hanno rafforzato i benefici già esistenti per i disabili e gli anziani. In parte anche l’Italia, in cui la quasi totalità della contrazione congiunturale dell’occupazione è dovuta
alla perdita dei contratti atipici (circa 260.000; OECD, 2009c),
è intervenuta per sostenere i lavoratori non-standard, prevedendo un pagamento straordinario. L’estensione della durata
va dai 14 mesi degli Stati Uniti fino a un anno in Belgio. Il
timore di estendere i benefici a particolari categorie di lavoratori risiede nel rischio che tali benefici possano diventare permanenti, incidendo sui bilanci statali ma anche sull’incentivo
a lavorare. Di conseguenza, dovrebbe essere chiaro che si tratta di misure limitate al periodo di recessione (OECD, 2010d).
D’altra parte, potrebbero spingere verso una più ampia riflessione sulla condizione di precarietà di alcune categorie e sulla
loro maggiore vulnerabilità al ciclo economico.
La tabella 10.13 mostra gli interventi di assistenza sociale
attuati e i pagamenti in-cash o in-kind previsti per far fronte
alla crisi. Come si è già detto, i paesi OECD sono intervenuti raramente attraverso l’assistenza sociale, ma ciò può essere attribuito ai diversi modelli di welfare che, in alcuni casi,
erano già sufficienti a coprire i lavoratori in difficoltà. Per
esempio, l’intervento degli Stati Uniti si inserisce in una revisione più ampia del modello sociale e mira al rafforzamento
dell’assistenza sanitaria e dell’istruzione. D’altra parte, sia la
Francia che la Germania sono intervenute, prevedendo pagamenti straordinari agli assistiti l’una ed un rafforzamento del
sistema educativo in età pre-scolare l’altra (con un impatto
potenzialmente strutturale). Il Giappone, invece, cui la stessa
OECD consigliava di ridurre il gap di protezione tra contratti
standard ed atipici, ha colto l’occasione della crisi per bilanciare la situazione ed assicurare copertura assistenziale a tutti
i lavoratori.
256
Tabella 10.13 Interventi di assistenza sociale e altri pagamenti in-cash o in-kind
Assistenza sociale
Australia
Austria
Rimborso per le spese “extra” legate alla
cura e all’educazione dei figli (OECD,
2010e)
Estensione del piano speciale di prepensionamento
Aumento permanente dei contributi di
assistenza
Trasferimenti in-cash/in-kind
Stanziamento di 21 miliardi di dollari per le famiglie, i redditi
medio-bassi, i pensionati, i veterani, gli agricoltori colpiti
dalla siccità e gli studenti (Australian Government, 2009)
Rinegoziazione dei mutui
Copertura delle spese di trasporto e cura dei figli per gli
job-seekers a basso reddito
Canada
Garanzie per ex lavoratori di imprese insolventi
Voucher per i figli in età pre-scolare alle famiglie con un
Corea
reddito inferiore a quello medio urbano
Finlandia
Accesso facilitato al “change security” system
Pagamento lump-sum per gli assistiti (prime Voucher per coloro che cercano lavoro da spendere per
exceptionnelle de solidarité active, 200€)
vari bisogni
Francia
Accordo con le parti sociali per
l’estensione dell’assistenza sociale per
ulteriori 6 mesi
per la creazione di asili e incentivi per Aumento del sussidio per i figli dei disoccupati fino
Germania Sussidi
l’orario scolastico full-time (OECD, 2010e)
novembre 2011
Pagamento lump-sum per coloro che ricevono il sussidio di
disoccupazione
Grecia
Pagamento addizionale fino a 1.000€ per disoccupati
Sussidi ai datori di lavoro che continuano a fornire
un’abitazione ai lavoratori licenziati
Riforma dell’assistenza sociale che
Giappone garantisce un trattamento più bilanciato tra Sostegno economico per chi perde il lavoro attraverso un fondo
contratti atipici e standard (OECD, 2010e) di emergenza (Ministry of Health, Labour and Welfare 2009)
Sostegno al reddito per i contratti atipici (OECD, 2009c)
Aumento degli asili nido ed estensione
Irlanda
della pre-scuola (Early Childhood Care
and Education scheme)
Estensione dei criteri di eleggibilità e dell’ammontare
disponibile per accedere al fondo pensionistico
Aumento del periodo di copertura dei benefici di maternità e
Messico
sanitari per disoccupati e familiari
Temporaneo sospensione del pagamento degli interessi per
disoccupati
Aumento del 2% delle pensioni e dei sussidi di
disoccupazione, invalidità, malattia e familiari (Ministry of
Nuova
Social Development, 2010)
Zelanda
Aumento del 2% contributo agli studi (Ministry of Social
Development, 2010)
Contributo addizionale ai governi locali per la previsione di
interventi mirati
Incremento del contributo minimo per
Polonia
l’assistenza sociale
Pagamento dei debiti senza interessi per i disoccupati, fino
a due anni
Sostegno ai disoccupati che scelgono di entrare in
Portogallo
programmi di training
Posposizione del pagamento dei debiti per chi perde il lavoro
Spagna
Sostegno ai contratti di affitto
Sussidio per i disoccupati di lungo termine che hanno esaurito
il sussidio di disoccupazione standard (OECD, 2009c)
Istituzione di un fondo per ripagare i debiti di coloro che
Ungheria
perdono il lavoro
Belgio
257
Assistenza sociale
UK
Trasferimenti in-cash/in-kind
Riduzione nei tempi di attesa per ricevere supporto per il
pagamento dei debiti per disoccupati
Estensione del “State Children’s
nei sussidi sanitari per alcuni gruppi di lavoratori
Health Insurance Program” che prevede Incremento
e L’ILO (2009b) stima che il governo nazionale stia
copertura sanitaria per i bambini delle
famiglie a basso reddito (OECD, 2010e) spendendo il 14% del proprio budget in aiuti alla salute
US
Fondi addizionali per il programma di
miglioramento delle performance scolastiche
“No Child Left Behind” (OECD, 2010e)
Fonte: adattata da OECD (2009b)
Riguardo ai trasferimenti, la maggior parte dei paesi ha previsto dei pagamenti straordinari o delle indennità per chi perde
il posto di lavoro, a volte condizionati alla partecipazione a programmi di training (Polonia) o ad essere assistiti nella ricerca
di lavoro (Belgio). In alcuni casi, invece, l’aiuto è stato esteso
ad altre categorie considerate più vulnerabili al ciclo economico: per esempio, l’Australia ha stanziato 21 miliardi di dollari
per le famiglie, i redditi medio-bassi, i pensionati, i veterani, gli
agricoltori colpiti dalla siccità e gli studenti, nonché concesso la
rinegoziazione dei mutui.
La maggior parte dei paesi è intervenuta diminuendo le tasse
sui redditi personali, anche se alcuni paesi hanno abbassato le
tasse delle piccole e medie imprese (PMI) (Finlandia) o quelle dei
liberi professionisti (Francia). Molti paesi hanno implementato
delle misure fiscali sostanzialmente congiunturali: per esempio,
l’Austria ha ridotto le tasse e la contribuzione, incidendo così
anche sul costo del lavoro, per i lavoratori a basso reddito, nonché ridotto alcune tasse sul consumo, intervenendo sull’IVA per
specifiche categorie di beni. Altri paesi hanno introdotto delle
agevolazioni per le famiglie numerose, come la Svizzera e gli Stati
Uniti, mentre altri hanno scelto interventi più strutturali, volti
ad una generale riduzione della pressione fiscale, come nel caso
della Danimarca. Da sottolineare il caso dell’Italia, il cui taglio
delle tasse nel periodo 2008-2010 è stato pari allo 0,1% del PIL
(vedi Graf. 10.10), in cui si prevedono agevolazioni fiscali condizionate all’aumento retributivo legato alla produttività (Tab.
10.14).
258
Tabella 10.14Misure fiscali
Australia
Previsione di detrazioni per redditi medio-bassi.
Generale riduzione delle tasse individuali (e.g. cancellazione dell’IVA sui medicinali e delle tasse
scolastiche) e sgravi fiscali per le famiglie con figli, gli imprenditori e i lavoratori autonomi
Austria
Revisione dei benefici per specifici gruppi (anziani, disabili, persone che ritornano a lavoro dopo
almeno sei mesi di disoccupazione)
Riduzione del contributo per l’assicurazione di disoccupazione per i lavoratori a basso reddito
Belgio
Riduzione delle tasse per i lavoratori a basso reddito e introduzione del credito d’imposta.
Introduzione del credito d’imposta per i lavoratori a basso reddito (Working Incombe Tax Benefit)
Aumento dello primo (esentasse), del secondo e del terzo scaglione di reddito
Canada
“Home Renovation Tax programme”: temporanee agevolazioni fiscali per ristrutturazione delle
abitazioni (Canadian Government)
Riduzione delle tasse per tutti i livelli di reddito e ulteriore taglio delle tasse sul lavoro approvato nel
2009 (OECD Observer, 2009; OECD, 2010e)
Danimarca
Rimborso delle tasse temporaneo per coloro che hanno scelto di continuare a lavorare oltre i 60
anni (OECD, 2010e)
Taglio dei contributi di assistenza sociale a favore delle piccole e medie imprese.
Finlandia
Taglio delle tasse sui redditi e della contribuzione sociale
Riduzione delle tasse sui redditi bassi
Francia
Previsione di detrazioni fiscali per tutti i redditi
Sospensione della “taxe professionnelle”
Aumento delle soglie di reddito imponibile
Germania
Riduzione dello scaglione d’imposta più basso
Aumento dello scaglione esentasse e generale riduzione delle tasse sui redditi (OECD, 2010e)
Grecia
Una-tantum sui redditi più alti
Esclusione di alcune famiglie dal pagamento delle tasse sul reddito (anche se la contribuzione per
Irlanda
l’assistenza sociale è aumentata) (OECD, 2010e)
Estensione della deducibilità dell’IRAP
Italia
Riduzione delle tasse sugli incrementi retributivi legati agli incrementi di produttività
Nuova Zelanda Generale riduzione delle tasse dal 2010 (Ministry of Social Development, 2010)
Riduzione della tassazione media per i lavoratori a basso reddito (OECD, 2010e)
Repubblica
Introduzione di un credito d’imposta sui figli e di un’indennità per coloro che cercano lavoro (OECD,
Ceca
2010e)
Riduzione dello scaglione
Repubblica
Slovacca
Introduzione del credito d’imposta sul lavoro
Riduzione dell’aggravio fiscale
Spagna
Flessibilità/posposizione del pagamento delle tasse per i lavoratori in difficoltà e le piccole imprese
Generale riduzione delle tasse e introduzione del credito d’imposta
Svezia
Credito d’imposta sulle riparazioni
Introduzione di un terzo scaglione di reddito
Svizzera
Sgravi fiscali a favore delle famiglie con figli (SECO, 2010)
Ungheria
Generale riduzione delle tasse
UK
Aumento del credito d’imposta sul lavoro
Introduzione del credito d’imposta per i redditi medio-bassi
US
Aumento del credito d’imposta per i lavoratori con almeno tre figli
Fonte: adattata da OECD (2009b)
Riassumendo, si può dire che le misure di sostegno al reddito si sono concentrare sull’estensione temporale dei benefici di
disoccupazione e sulla diminuzione della pressione fiscale sui
redditi bassi. Salvo alcune eccezioni, nella maggior parte dei
259
casi le categorie più deboli, lavoratori atipici e giovani, restano
senza alcuna protezione, perché gli interventi sono rivolti al rafforzamento degli ammortizzatori sociali esistenti piuttosto che
alla loro estensione ad altre categorie, nel timore che permangano nel tempo. Tuttavia, il caso del Giappone dimostra che è
possibile cogliere l’occasione della crisi per rendere più equa
la distribuzione dei benefici tra lavoratori regolari e lavoratori
atipici.
10.2.3 Misure attive
Le misure attive comprendono il sostegno alla domanda di lavoro e le misure di attivazione, che si contraddistinguono per
una diversa gradualità di intervento da parte dello stato. Infatti, nel primo caso lo stato interviene per creare posti di lavoro o
incentivarne la creazione nel settore privato, mentre nel secondo l’intervento è volto alla riqualificazione del lavoratore oppure a fornire servizi di assistenza ed informazione per favorire
l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro.
La tabella 10.15 mostra le misure di sostegno alla domanda di lavoro che sono state implementate nei paesi OECD. La
creazione di lavori pubblici e di lavori socialmente utili (LSU)
è un tipico strumento Keynesiano, ampiamente utilizzato durante gli anni del New Deal Rooseveltiano e durante la ricostruzione post-bellica. Secondo l’OECD (2009g), alcuni studi
mostrerebbero la scarsa rilevanza di questa misura in quanto
tenderebbe a risolvere il problema della disoccupazione solo
temporaneamente e a ridurre gli incentivi del lavoratore a cercare una nuova occupazione. Inoltre, inciderebbe fortemente
sul bilancio dello stato. Tuttavia, non va dimenticato che i paesi
sviluppati si trovano attualmente in una fase di potenziale riconversione degli impianti industriali a tecnologie a maggiore
efficienza energetica (WDR, 2010) o di ammodernamento dei
propri edifici pubblici e delle proprie infrastrutture, che in molti
casi hanno una vita secolare e sono insufficienti a rispondere
alle esigenze di una società post-industriale. La crisi potrebbe
rilevarsi perciò un’occasione per rilanciare l’economia attraverso questi investimenti (OECD, 2009d).
Pochi paesi hanno, tuttavia, attuato questo tipo di misure (Tab.
10.15). Tra di essi l’Australia, che ha investito cifre considerevoli nell’ammodernamento degli edifici scolastici e delle strade
urbane, nonché nella diffusione della banda larga, nonché la
260
Svizzera, che ha investito nell’ammodernamento degli edifici
pubblici, nell’efficienza energetica e nella protezione ambientale. Investimenti in infrastrutture sono stati fatti anche dalla
Francia, dal Regno Unito e dalla Svezia, mentre gli altri paesi
si sono perlopiù limitati all’assunzione temporanea di LSU a
livello locale.
Un altro modo per incentivare la creazione di posti di lavoro, è fornire incentivi alle imprese private affinché aprano nuove
posizioni, attraverso sussidi o riduzione del costo del lavoro.
Questo tipo di misure comporta tutti i rischi legati all’erogazione di sussidi, per esempio può minare la competitività e disincentivare gli investimenti, ma nello stesso tempo può essere
un efficace mezzo di mantenimento del capitale umano, soprattutto se temporaneo e rivolto all’assunzione di giovani laureati,
come nel caso del Belgio o del Canada. Il governo neozelandese, per esempio, attraverso il programma “Job Ops” -che prevede un sussidio di 5000 dollari alle imprese per ogni disoccupato
non qualificato, di età compresa tra i 16 e i 24 anni, assunto per
almeno 6 mesi- nel 2009 è riuscito a creare 4000 posti di lavoro;
per il 2010 sono stati stanziati ulteriori fondi per 6000 posti di
lavoro (Ministry of Social Development, 2010).
La maggior parte dei paesi ha scelto di ridurre il costo del
lavoro, diminuendo, temporaneamente o permanentemente, la
contribuzione sociale: per esempio, il Canada ha congelato il
pagamento dei contributi per gli anni fiscali 2009 e 2010, mentre la Polonia ha ridotto, in maniera permanente, i contributi
dei lavoratori anziani e dei nuovi assunti over-50. Un caso a
sé è quello dell’Italia, che, per incentivare nuove assunzioni, è
intervenuta indirettamente sul costo del lavoro, reintroducendo tipologie contrattuali meno costose e più flessibili, come i
contratti a chiamata o a intermittenza, che erano state abolite
precedentemente. Ha inoltre semplificato il ricorso ai contratti
a tempo determinato e ne ha esteso la durata (CIACE, 2010).
261
Tabella 10.15Sostegno alla domanda di lavoro
Interventi/investimenti pubblici Incentivi alle imprese/riduzione Riduzione ore lavorate
costo del lavoro
Australia
Piano di investimenti
nell’ammoder-namento di edifici
scolastici, ristrutturazione di
edifici pubblici e nella costruzione
di infrastrutture a livello locale
(Australian Government, 2009)
4.6 miliardi di dollari investiti
nel miglioramento delle strade
urbane, circa 6 miliardi di dollari
per la costruzione di ospedali,
università e TAFEs*
43 miliardi di dollari per la
diffusione della banda larga
Austria
Belgio
Canada
Programmi di lavoro sussidiati
rivolti a giovani ed Aborigeni (e.g.
“Summer Job Programme”: circa
3.500 posti di lavoro creati)
16.000 progetti pubblici, di cui
12.000 completati che hanno
contribuito fino ad ora alla
creazione di 135000 posti di
lavoro (Canadian Government)
20 progetti del “Knowledge
Infrastructure Programme”
per favorire l’innovazione e lo
sviluppo di tecnologie sostenibili
“Grand social compact”: (accordi
tra le parti sociali; al marzo 2009
ne erano già stati firmati 422)
Corea
Temporanea espansione dei
lavori pubblici e revisione delle
regole per la creazione di LSU
3% della forza lavoro maschile e
Sussidi alle imprese che
9% della forza lavoro femminile
assumono tirocinanti licenziati tra lavorano part-time dalla metà
il 2009 e il 2010
del 2009. In totale il monte ore
lavorative è diminuito del 2,6%
Temporanea indennità del 30%
(50% per le piccole imprese)
sugli investimenti (Australian
Government, 2009)
Circa 70.000 lavoratori (un quarto
della forza lavoro) beneficiano
di sussidi pubblici volti a
compensare le perdite di reddito
Rimborso della contribuzione
dovute alla riduzione delle ore
sociale per le ore non lavorate
lavorate (fino al 90% del salario)
(dal 7° mese di riduzione)
Combinazione tra riduzione delle
ore lavorate e partecipazione ai
programmi di training
Permanente estensione della
Sussidio annuale alle imprese
delle ore per alcuni
che assumono lavoratori con più riduzione
amministrativi con contratti a
di 50 anni (federale)
tempo determinato (federale)
Sussidi addizionali per chi assume Aumento della compensazione per
giovani lavoratori (federale)
lavoratori a tempo ridotto (federale)
Incremento di tutti i sussidi alla
retribuzione (anche redditi medio-alti)
Riduzione della contribuzione
sociale in caso di riduzione delle
ore lavorate per 6 mesi
Inventivi alle PMI che assumono Work-sharing (da 38 a 52 ore)
laureati
Congelamento dei contributi
assicurativi per il 2009 e il 2010
Aumento temporaneo dei sussidi
per lavori a tempo ridotto
Agevolazioni fiscali per le piccole
e medie imprese coinvolte nel
job-sharing
262
Interventi/investimenti pubblici Incentivi alle imprese/riduzione Riduzione ore lavorate
costo del lavoro
investimenti in
Danimarca Aumento
infrastrutture
Finlandia
Francia
Riduzione ed eventuale
abolizione del contributo
d’impresa al piano pensionistico
Aumento degli investimenti pubblici
nelle infrastrutture, nella ricerca,
nella difesa e nella protezione del Bonus per le imprese che
patrimonio dello Stato, per un totale assumono tirocinanti
di 4 miliardi di euro (Présidence de
la République Francaise, 2008)
Riduzione della contribuzione
per le piccole imprese
Espansione dei lavori sussidiati, sociale
(meno di 10 addetti) che assumono
specialmente per anziani e
lavoratori non-qualificati. La
giovani non-qualificati
riduzione è massima in caso di
salario minimo
Soppressione della contribuzione
sociale per le imprese che
assumono tirocinanti
Strategie basate su LSU
(Bürgerarbeit) e su voucher
Riduzione del contributo di
professionali (Federal Ministry of disoccupazione
Economics and Technology, 2010)
Germania
Grecia
Irlanda
Maggiore flessibilità nel worksharing
Estensione temporanea della
durata massima annuale di
lavoro a tempo ridotto (da 600
a 800 ore)
Riduzione delle ore lavorate
combinata con programmi di
training o lavori multipli per
mantenere un adeguato livello
di salario
1.4 milioni di lavoratori lavorano a
tempo ridotto, con una riduzione
delle ore medie lavorate pari a un
terzo, grazie ai sussidi per lavoro
a tempo ridotto (Kurzarbeitergeld),
volte combinati con programmi
di training. Il programma per
anziani (Altersteilzeit) sarà invece
gradualmente eliminato
Semplificazione delle procedure
per la qualificazione dei lavoratori
a tempo ridotto
Estensione temporanea della
durata massima di lavoro a tempo
ridotto (da 6 a 24 mesi nel 2009,
ma nel 2010 è stata limitata a 18
mesi) e parziale rimborso della
contribuzione per le ore non
lavorate (dal 7° mese o in caso di
training il rimborso è totale)
Sussidi alle imprese che
assumono lavoratori eleggibili per
i benefici di disoccupazione e per
i lavoratori stagionali del turismo
“FAS Wage Subsidy Scheme”:
Piano pilota di riduzione delle
Sostegno alla creazione di LSU a sussidio
alle imprese che
ore lavorate, combinato con
livello locale (FAS, 2009)
assumono disabili (FAS, 2009)
programmi di training
“Employers’ PRSI Exemption
Scheme”: per i primi due anni
l’impresa che assume un
disoccupato di lungo termine
è esente dal pagamento della
contribuzione (FAS, 2009)
Creazione di lavori pubblici per
giovani, disoccupati e lavoratori
stagionali (ma tagli dei LSU)
263
Interventi/investimenti pubblici Incentivi alle imprese/riduzione Riduzione ore lavorate
costo del lavoro
Estensione della causale per
ricorrere a contratti a termine, per
una durata massima di 36 mesi
(CIACE, 2009)
Italia
Stanziamento di 8 miliardi di euro
per il rafforzamento della cassa
integrazione e mobilità in deroga nel
biennio 2009-2010 (CIACE, 2009)
Ripristino dei contratti a chiamata
o intermittenza (CIACE, 2009)
Fondi temporanei per la
Sussidi alle imprese che
creazione di lavoro a livello locale assumono lavoratori anziani e
e nelle piccole imprese
regolarizzano giovani lavoratori
Giappone
Messico
Norvegia
Previsione di LSU per lavoratori
della contribuzione
licenziati senza una casa (Ministry of Riduzione
Health, Labour and Welfare, 2009) sociale
Incremento dei sussidi per
lavori a tempo ridotto e sussidi
addizionali per le imprese che
non licenziano riducendo le ore di
straordinario
Temporanea espansione
del programma di LSU per
disoccupati e sottoccupati
Espansione degli incentivi alle
donne per aprire un asilo
Estensione del numero massimo di Rimborso parziale della
giorni concesso per lavori a tempo contribuzione sociale per i nuovi
determinato da 88 a 132 giorni
assunti
Aumento della spesa in
infrastrutture
“New Opportunities” programme:
incentivi alle municipalità che
aprono nuove opportunità di
lavoro provenienti da paesi extraeuropei, combinate con progetti di
assistenza sociale (RNMLSI, 2008)
Aumento della spesa pubblica in Riduzione permanente della
infrastrutture
contribuzione sociale
Nuova
Zelanda
Olanda
“Job Ops” programme: sussidio
di 5.000 dollari alle imprese per
Aumento dei LSU negli ospedali ogni disoccupato non qualificato di
e incremento dei fondi per
età compresa tra i 16 e i 24 anni
assumere ulteriori dipendenti
assunto per 6 mesi. Nel 2009 sono
pubblici (Ministry of Social
stati creati 4.000 posti di lavoro, per
Development, 2010)
il 2010 sono stati stanziati fondi per
6.000 posti di lavoro (Ministry of
Social Development, 2010)
“Investing in Young People”
Act: proposta di legge secondo
cui le municipalità devono farsi
carico di avanzare una proposta
di lavoro o di training ai giovani
disoccupati fino a 27 anni
(Ministry of Social Affairs and
Employment, 2009)
Sussidio alle imprese che non
licenziano, fino al 50% del costo
di mantenimento. Il sussidio deve
essere utilizzato per programmi
di riqualificazione professionale
(Ministry of Social Affairs and
Employment, 2009)
264
Estensione del tempo
ridotto ai lavoratori con una
copertura dell’assicurazione di
disoccupazione inferiore a 6 mesi
Sussidi per le imprese che
partecipano a piani di riduzione
delle ore lavorative, soprattutto
nel settore dei beni durevoli
Supporto temporaneo alle
imprese che negoziano riduzioni
dell’orario di lavoro, senza
ricorrere al licenziamento.
L’iniziale piano di lavoro a tempo
ridotto approvato nel 2008 è
stato ritirato nel 2009. Tuttavia,
i lavoratori delle imprese che
continuano a lavorare ad orario
ridotto possono godere dei benefici
di disoccupazione per le ore non
lavorate, per una riduzione massima
del 50% (Ministry of Social Affairs
and Employment, 2009)
Interventi/investimenti pubblici Incentivi alle imprese/riduzione Riduzione ore lavorate
costo del lavoro
Possibilità di sospendere le
attività qualora necessario
Incentivi alle imprese che
assumono disoccupati
Riduzione permanente della
contribuzione sociale per i
lavoratori anziani e per i nuovi
assunti al di sopra dei 50 anni
Esenzione dalla contribuzione
sociale per i lavoratori che
rientrano dal parental leave.
Sussidi per le imprese coinvolte
nel piano di riduzione dell’orario
di lavoro
Incentivi temporanei ed esenzione
biennale dalla contribuzione
sociale per l’assunzione a tempo
indeterminato e full-time di
disoccupati di lungo termine e
giovani
Riduzione temporanea della
contribuzione per piccole e
micro imprese e lavoratori oltre
i 45 anni
Polonia
Portogallo
Repubblica
Ceca
Riduzione temporanea della
contribuzione per i lavoratori a
basso reddito
Repubblica
Slovacca
Sussidi per le imprese che
assumono disoccupati con
contratti di almeno 12 mesi
Semplificazione temporanea
delle procedure di assunzione
delle imprese sociali
Spagna
Svezia
Introduzione di un piano di
riduzione dell’orario di lavoro,
combinato con una maggiore
flessibilità permanente
Fondi per la creazione di LSU a
livello locale; si stima che abbia
contribuito alla creazione di
400.000 posizioni (anche se a
tempo determinato)
Sussidi alle imprese che
assumono lavoratori part-time
Riduzione biennale della
contribuzione per i nuovi assunti
disoccupati con figli con contratti
full-time a tempo indeterminato
Investimenti nell’ammodernamento Raddoppio della deduzione
di strade e autostrade
fiscale per le nuove assunzioni
(Regeringskansliet, 2010)
(Regeringskansliet, 2010)
Proroga dei pagamenti per la
contribuzione 2009, che è stata
ridotta permanentemente
265
Sussidi alle imprese che riducono
l’orario di lavoro proporzionali
alla partecipazione a programmi
di training
Rimborso alle imprese per le ore
non lavorate
Interventi/investimenti pubblici Incentivi alle imprese/riduzione Riduzione ore lavorate
costo del lavoro
Svizzera
Investimenti nell’ambito del
risanamento energetico,
dell’edilizia urbana, delle strade e
ferrovie (SECO, 2010)
Green economy: protezione
ambientale, risanamento
energetico e promozione delle
fonti rinnovabili (SECO, 2010)
Assunzioni a tempo determinato
di disoccupati di lunga durata
presso Cantoni, Comuni, relative
imprese e fornitori di prestazioni
(SECO, 2010)
Estensione temporanea della
durata dell’orario ridotto da 12
a 18 mesi
Allentamento dei vincoli che
limitano l’accesso ai programmi
di training durante lavori ad orario
ridotto
Riduzione permanente della
contribuzione per disabili e
Aumento della durata massima
lavoratori anziani. Rimborso per le di lavori ad orario ridotto da 3
imprese con più di 50 addetti che a 6 mesi
assumono il 3% di lavoratori disabili
Turchia
Riduzione permanente della
contribuzione per i primi 5 anni per
l’assunzione di donne disoccupate
e giovani fino a 29 anni
Creazione di LSU a livello locale Incentivi alle imprese che
per giovani e disoccupati nelle
assumono e formano disoccupati
aree ad alta disoccupazione
di lungo termine (più di 6 mesi)
“Future Job Funds”: fondo cui
Sussidi alle imprese che
possono attingere imprese e enti assumono apprendisti di 16-17
UK
locali per la creazione di posti di anni (Department for Work and
lavoro (Department for Work and Pension, 2009)
Pension, 2009)
Aumento della spesa in infrastrutture
(e.g. Strategic Road Network)
Sussidi temporanei alle imprese Piano di riduzione delle ore
che assumono lavoratori
lavorate, combinato con
licenziati da altre imprese
programmi di training
Piano di riduzione della contribuzione
Ungheria
Rimborso della contribuzione, dei
costi di training e fino al doppio
del salario minimo di ore non
lavorate (fino a 12 mesi)
Work Opportunity Tax Credit:
Stanziamento di 50 miliardi di
Espansione dell’eleggibilità per il
agevolazioni fiscali alle imprese
dollari per infrastrutture (EPI,
di compensazione ad
che assumono veterani disoccupati programma
2009)
o giovani problematici (DOL, 2010) orario ridotto (Washington State)
Local Jobs for America Act: 75
miliardi di dollari per il mantenimento
di lavoratori nelle comunità locali
US
(Biven e Edwards, 2010)
Aumento dei sussidi e della
durata del programma di
assunzione di disoccupati
oltre i 50 anni (che hanno
perso il lavoro per offshoring o
competizione delle importazioni)
* Techinal and Further Education provider
Fonte: adattata da OECD (2009b)
266
Infine, molti paesi hanno ridotto i tempi di lavoro o abolito
gli straordinari, incidendo negativamente sulla produttività oraria ma salvando posti di lavoro. L’OECD (2009g) stima che durante questa recessione i paesi sviluppati abbiano fatto un largo
uso di questo strumento, permettendo così di evitare numerosi
licenziamenti. La riduzione delle ore lavorate comporta, sul breve periodo, molti aspetti positivi perché, oltre a rappresentare
un’alternativa al licenziamento, permette all’impresa di riallocare gli input in maniera più efficiente e di non affrontare i costi del
licenziamento (per esempio, sul trattamento di fine rapporto) e
quelli meno tangibili legati alla conflittualità tra le parti sociali e
alla demotivazione della forza lavoro (Mosley, 1993). Nel lungo
periodo, questo strumento può, però, rivelarsi progressivamente
meno efficace, determinando distorsioni sul mercato del lavoro
ed effetti di spiazzamento (OECD, 2010d). Inoltre, può incidere
in maniera negativa sui livelli di reddito e, quindi, di benessere dei lavoratori e ciò spiega perché molti paesi hanno scelto di
estendere i sussidi o la copertura assicurativa di disoccupazione
alle categorie di lavoratori in cassa integrazione oppure di colmare il gap di reddito dovuto alla riduzione delle ore lavorate.
Per esempio, in Austria, in cui un quarto della forza lavoro
(70.000 persone) è occupata part-time, il governo si è impegnato
a coprire fino al 90% del salario totale. Anche la Germania ha
scelto di implementare questa misura (Kurzarbeitergeld), prevedendo sussidi per il milione e quattrocentomila lavoratori a tempo ridotto, nonché una diminuzione della contribuzione totale,
qualora la riduzione delle ore fosse combinata con programmi di
training (altrimenti a partire dal settimo mese). La combinazione
tra riduzione delle ore e training è un’alternativa scelta da diversi
paesi, tra cui l’Austria, la Repubblica Ceca, l’Irlanda e l’Ungheria:
si tratta sostanzialmente di una condizionalità legata all’aiuto, ma
rappresenta anche uno strumento efficace di riqualificazione professionale, che può generare effetti positivi anche sul lungo periodo. Canada e Danimarca hanno, invece, incentivato meccanismi di
work-sharing, secondo cui una posizione full-time è coperta da due
part-time e non è possibile la rotazione a zero ore.
L’Italia, che, tradizionalmente, ha utilizzato la riduzione
dell’orario di lavoro come strumento ordinario di aggiustamento
strutturale, nonché di mantenimento delle disuguaglianze a livello regionale e tra categorie di lavoratori diversamente tutelati
(Mosley, 1993), ha stanziato 8 miliardi di euro nel biennio 2009267
2010 per il rafforzamento della cassa integrazione e mobilità in
deroga, estendendo perciò la copertura anche ai lavoratori non
previsti dalla legislazione ordinaria. Il Dipartimento Politiche
dell’Organizzazione della CGIL stima che dal gennaio 2009 sono
state autorizzate più di 240 milioni di ore di cassa integrazione
in deroga, mentre il numero di lavoratori in mobilità in deroga
ammonta a 120000 persone (CGIL, 2010).
Piuttosto che intervenire direttamente sulla domanda di lavoro, lo stato può scegliere di favorire l’incontro tra domanda
ed offerta di lavoro, fornendo servizi amministrativi e finanziari per i disoccupati oppure programmi di training e attivazione.
Inoltre, i programmi di attivazione possono essere fondati su un
principio di “mutua obbligazione”, cioè l’attribuzione di benefici
può essere condizionata all’effettivo impegno di chi perde il lavoro alla ricerca di un nuovo impiego o alla sua riqualificazione
personale (OECD, 2009g). Se gli effetti di lungo periodo di questo tipo di misure possono essere estremamente positivi, perché
incidono sul capitale umano e sulla dimensione motivazionale e
degli incentivi dei lavoratori, dall’altro lato, con l’aumentare del
tasso di disoccupazione, gravano sempre di più sul budget dello
stato (OECD, 2010d).
Un’alternativa alla disoccupazione può essere di iniziare una
propria attività autonoma. Clark (2009) mostra che i lavoratori
autonomi sono mediamente più soddisfatti dei lavoratori dipendenti e che la maggior parte degli intervistati preferirebbe essere un libero professionista. Nonostante ciò, il lavoro autonomo
comporta un rischio d’impresa, che aumenta nelle fasi di ciclo
economico negativo, nonché maggiore insicurezza dal punto di
vista retributivo, soprattutto rispetto al numero di ore lavorate,
e della copertura assicurativa. Per affrontare questa incertezza è
necessario perciò che lo stato preveda sufficienti incentivi per lo
start-up d’impresa.
Pochi paesi, a dire il vero, hanno implementato questo tipo
di misure (Tab. 10.16). Tra di essi, la Finlandia il Portogallo ed
il Regno Unito hanno previsto fondi addizionali per le nuove attività autonome, mentre la Corea, la Danimarca, la Repubblica
Slovacca e la Spagna hanno attuato tagli sui costi amministrativi
o della contribuzione sociale. Infine, la Francia, la Polonia e l’Italia hanno introdotto dei nuovi meccanismi amministrativi di
assistenza allo start-up d’impresa, attraverso la (ri)attivazione di
sportelli unici o di comitati per l’imprenditoria femminile. Dal
268
punto di vista strutturale, questo tipo di innovazioni amministrative ha, probabilmente, un maggior potenziale, garantendo
una raccolta rapida delle informazioni ed un monitoraggio costante sullo stato dell’imprenditoria. D’altra parte, qualsiasi riforma volta ad incentivare lo start-up d’impresa rischia di essere
inutile durante questa crisi, che è basata proprio sulla mancanza
di liquidità e sulla difficoltà dei principali fornitori di credito,
cioè le banche.
Quasi tutti i paesi hanno invece attivato programmi di training,
più o meno rivolti a specifici gruppi. La maggior parte dei programmi si rivolge, ovviamente, ai lavoratori licenziati, spesso in
cambio di benefici o copertura assicurativa. Il Canada, per esempio, ha stanziato quasi 300 milioni di dollari per finanziare borse di studio o programmi di tirocinio attivati dalle province o dai
territori; il dipartimento per le risorse umane stima che almeno
16000 persone abbiano attualmente completato il percorso di formazione. L’Irlanda, invece, ha previsto la creazione di due fondi,
uno per finanziare programmi di training, l’altro, più flessibile, per
coprire tutti gli eventuali costi che il disoccupato deve affrontare
per partecipare al programma, come le spese di trasporto o per la
cura dei propri figli. L’Italia ha stretto degli accordi Stato-Regioni
per incentivare la riqualificazione professionale.
Altri programmi sono rivolti prevalentemente ai giovani. Interessante il caso del Regno Unito, dove la disoccupazione giovanile è tradizionalmente alta, seppure limitata nel tempo (Gregg
e Wadsworth, 2010). Si prevede un programma di training per
i disoccupati tra i 18 e i 24 anni, prima che raggiungano i sei
mesi di disoccupazione, e sono state attivate due iniziative rivolte ai cosiddetti NEET (not in education, employment or training
people) e ai giovani laureati disoccupati da almeno sei mesi: in
entrambi i casi, si offre loro un’occupazione o una possibilità di
riqualificazione professionale. La Danimarca ha approvato un
pacchetto contro la disoccupazione giovanile (Ungepakke) volto,
tra le altre cose, alla creazione di 5000 tirocini sotto il principio
di mutua obbligazione. Anche il Recovery Act americano include
diverse attività per i giovani, tra cui i lavori estivi, che rappresentano un potente mezzo di learning-by-doing e di esperienza
sul campo a basso costo, e un fondo per giovani problematici,
cui attingere per attività di training o lavoro. In Italia non sono
stati previsti programmi specifici per i giovani, anche se è stata
estesa la durata massima dell’apprendistato, che, nella maggior
269
parte dei casi, è una tipologia contrattuale rivolta ai giovani. Se,
da una parte, questa misura evita di perdere il lavoro laddove
l’assunzione risulti insostenibile per l’impresa, dall’altra, se non
se ne specifica la natura temporanea, rischia di estendere ulteriormente lo status di precarietà.
Infine, un’ultima misura di attivazione riguarda l’avviamento
o il rafforzamento dei PES (public employment service), ovvero
dei servizi di assistenza alla ricerca di lavoro, e l’aiuto o la previsione di un maggior coordinamento con i vari soggetti, pubblici
o privati, che si occupano di questa tipologia di servizi. Anche
in questo caso, molto spesso l’assistenza è una condizione vincolante all’attribuzione di benefici, come nel caso dell’Australia
(Tab. 10.16). Quasi tutti i paesi hanno rafforzato i propri PES:
per esempio, la Svezia vi ha investito 30 milioni di euro, mentre la Spagna ha assunto 1.500 consulenti e aperto circa 700 uffici regionali. Interessante, ancora una volta il caso del Regno
Unito, che ha rafforzato i servizi già esistenti, orientandoli prevalentemente verso specifici gruppi (disoccupati di lungo termine, over-50 e professionisti), ha aumentato la coordinazione tra
Jobcenters e agenzie private e vincolato i salari dei consulenti al
raggiungimento di risultati.
Tabella 10.16Misure di attivazione
Australia
Austria
Belgio
Incentivi allo start-up d’impresa Training/attivazione
“Producitivy Places programme”:
dall’aprile 2008 quasi 200.000
disoccupati hanno iniziato
programmi di training e 40000
li hanno completati (Australian
Government, 2009)
Aumento dei programmi di
orientamento professionale e
dei tirocini
PES, job-search & matching
Assistenza immediata per la
ricerca di lavoro a lavoratori
licenziati e giovani, come
condizione vincolante per
l’attribuzione dei benefici di
disoccupazione
Semplificazione delle modalità
di istituzione delle fondazioni
per l’assistenza alla ricerca
di lavoro. Tra di esse, si sta
pianificando l’istituzione di una
fondazione speciale per i giovani
disoccupati
Alle imprese con oltre di 20
Aumento dei lavoratori in
addetti è richiesto di assistere i
programmi di training (Flanders) lavoratori licenziati nella ricerca
di lavoro
Estensione dell’assistenza alla
ricerca di lavoro ai lavoratori a
tempo determinato (Wallonia)
Aumento del personale per PES
(Flanders)
Espansione dei programmi
regionali di training per
disoccupati
270
Canada
Corea
Danimarca
Finlandia
Incentivi allo start-up d’impresa Training/attivazione
“Apprenticeship Transitional
Grant”: stanziamenti annuali
di 40 milioni di dollari fino al
2013 per programmi di tirocini
(HRSDC 2010). Circa 16.000
persone hanno completato
il percorso (Canadian
Government)
“Strategic Training and
Transition Fund”: fondo di 250
milioni di dollari (rinnovabili
per il 2011) per le province e i
territori che attivano programmi
di training per i lavoratori colpiti
dalla crisi (HRSDC, 2010)
Riduzione del tasso d’interesse
per i genitori single a basso
Espansione dei programmi di
reddito che iniziano un’attività
attivazione e training
autonoma
“Youth Internship Programme”
per PMI
Riduzione da 6 a 3 mesi di
per partecipare a
Taglio ai costi amministrativi per disoccupazione,
programmi di attivazione (principio
l’apertura di nuove imprese
di mutua obbligazione) rivolti ai
disoccupati sotto i 30 anni
Il pacchetto contro la
disoccupazione giovanile del
governo (Ungepakke) prevede, tra
le altre cose, la creazione di 5.000
tirocini (Danish Government, 2010)
Aumento automatico dei fondi
per l’attivazione proporzionale
all’incremento dei disoccupati
dei programmi di training
Aumento dei fondi per lo start-up Aumento
i disoccupati, soprattutto nond’impresa per disoccupati e non per
qualificati e giovani
Creazione del “Nouvel
accompagnement pour
la création et la reprise
d’entreprise” (Nacre)
Francia
Nel novembre 2009 è stata
approvata una riforma
dell’orientamento e della
formazione professionale
500.000 giovani sotto i 26 anni
sono oggi coinvolti in attività
di apprendistato e tirocinio,
sostenute dal governo
Germania
271
PES, job-search & matching
Maggiore flessibilità nei requisiti
richiesti per coloro che elaborano
un proprio piano individuale
Rafforzamento dei PES e delle
agenzie interinali
Rafforzamento dei PES e
particolare attenzione per i
disoccupati di lungo termine
(Danish Government, 2010)
Incremento delle attività di jobsearch ed elaborazione rapida
del job-plan
Fondi addizionali per i PES
ed estensione delle attività di
consulenza ai lavoratori licenziati
Creazione del Pôle Emploi,
ufficio unico per rendere più
efficienti le operazioni di ricerca
del lavoro
“Contract de transition
professionelle” (CTP): offre
fino all’80% dell’ultimo salario
lordo percepito in cambio
dell’assistenza per la ricerca di
un nuovo lavoro
Rafforzamento dei PES e
previsione di ridurre il numero
di programmi al fine di renderli
più efficienti e mirati (Federal
Ministry of Economics and
Technology, 2010)
Incentivi allo start-up d’impresa Training/attivazione
Previsione di training di
lungo termine come parte del
programma di riallocazione
(Ministry of Health, Labour and
Welfare 2009)
Giappone
Grecia
Irlanda
Italia
Messico
Programmi di training per i
settori del turismo e dell’edilizia
PES, job-search & matching
Creazione di un programma di
emergenza per l’assistenza al
lavoro come parte del programma
di riallocazione (Ministry of Health,
Labour and Welfare 2009)
Espansione del programma
“Mothers’ Hello Work”: assistenza
alle madri disoccupate per la
ricerca di una nuova occupazione
(Ministry of Health, Labour and
Welfare 2009)
Creazione di tre centri di
assistenza per lavoratori atipici
(Ministry of Health, Labour and
Welfare 2009)
Rafforzamento dei PES al fine
“Start your own business” training di far fronte all’aumento di
programme: per lavoratori con
disoccupati e personalizzare i
esperienza licenziati (FAS, 2009) propri percorsi professionali e di
training (FAS, 2009)
“Technical Employment Support I giovanissimi in cerca di lavoro
Grant” (TESG): fondo per
assistenza immediata
programme di training di breve ricevono
nei PES (FAS, 2009)
termine (FAS, 2009)
“Personal Reemployment
Accounts” (PRAs): strumento
flessibile da usare per training
o coprire spese extra della riqualificazione (FAS, 2009)
Ricostituzione del comitato
Eliminazione del limite di durata
per l’imprenditoria femminile
massima dell’apprendistato
(CIACE, 2009)
(CIACE, 2009)
Accordo Stato-Regioni per
combinare la cassa integrazione
con programmi di riqualificazione
professionale (CIACE, 2009)
Assistenza ai disoccupati con
Aumento dei fondi disponibili
scarse possibilità di riallocazione per programmi di training offerti Aumento dei fondi per PES
per iniziare un’attività autonoma dai PES
Programma di internship per
Creazione di un portale internet
studenti
per la ricerca di lavoro
Creazione di un programma di
assistenza ai disabili
272
Incentivi allo start-up d’impresa Training/attivazione
Risorse disponibili per programmi i
training per disoccupati, massimo
3 mesi (Ministry of Social Affairs
and Employment, 2009)
PES, job-search & matching
Aumento delle risorse per i
PES e creazione di 30 centri
di mobilità (Ministry of Social
Affairs and Employment, 2009)
Creazione dei Leerwerkloketten
Disponibilità di 150 milioni di
(learning and working service
euro per programmi di training desks) per facilitare la transizione
agli occupati (Ministry of Social dalla formazione al mercato del
Affairs and Employment, 2009) lavoro (Ministry of Social Affairs
and Employment, 2009)
Accordo tra le parti sociali per
Rimborso del 50% alle
imprese che coprono il costo di avanzare un’offerta di tirocinio a
formazione di un lavoratore non giovani disoccupati da almeno
3 mesi (Ministry of Social Affairs
qualificato (Ministry of Social
Affairs and Employment, 2009) and Employment, 2009)
Disponibilità di 90 milioni di euro
dal Fondo Sociale Europeo
per la riallocazione (Ministry of
Social Affaire and Employment,
2009)
Garanzia di offerta di lavoro per i Rafforzamento di coordinamento
disoccupati da almeno 6 mesi di tra i PES, con particolare
età compresa tra i 20 e i 24 anni riferimento alle iniziative rivolte
(RNMLSI, 2008)
ai giovani (RNMLSI, 2008)
Estensione del programma
Rafforzamento delle attività di
rivolto agli adulti di
orientamento al lavoro per gli
apprendimento delle capacità
immigrati (RNMLSI, 2008)
essenziali (RNMLSI, 2008)
Estensione del programma di
riallocazione di vari beneficiari di
assistenza sociale e conferma
dei fondi per il finanziamento dei
progetti di attivazione (RNMLSI,
2008)
Olanda
Norvegia
Nuova
Zelanda
Polonia
Portogallo
Repubblica
Slovacca
Spagna
Incremento dei fondi per PES
Creazione di uno sportello unico
per lo start-up d’impresa
Credito sussidiato ai disoccupati Creazione di nuovi programmi di
che iniziano una nuova attività training nelle aree disagiate
Sostegno al reddito per i
disoccupati che partecipano a
programmi di training
Esenzione temporanea del
pagamento dell’assicurazione
sanitaria per le persone che
iniziano un’attività autonoma
Riduzione della contribuzione
per i giovani o i disabili che
iniziano una nuova attività
autonoma
273
Rafforzamento dei PES,
attraverso l’assunzione di 1500
consulenti, che hanno assistito
più di un milione di disoccupati
nei 706 uffici regionali spagnoli
(Ministerio de trabajo e
inmigracion, 2010)
Creazione del sito web
“redtrabaja” per facilitare l’accesso
alle offerte di lavoro (Ministerio de
trabajo e inmigracion, 2010)
Svezia
Incentivi allo start-up d’impresa Training/attivazione
Programmi di riqualificazione
professionale per lavoratori
esperti e training per disoccupati
(Regeringskansliet, 2010)
Svizzera
Turchia
Sostegno finanziario e
amministrativo per chi
inizia un’attività autonoma
(Department for Work and
Pension, 2009)
UK
US
Fonte: adattata da OECD (2009b)
Contributi post-tirocinio
per giovani disoccupati e
complementi salariali per prima
occupazione (SECO, 2010)
Incentivi per la ferma
nell’esercito (SECO, 2010)
Sussidi per il perfezionamento
durante il lavoro a tempo ridotto
e nel settore energetico (SECO,
2010)
Espansione dei programmi di
training per disoccupati, giovani
e donne
“September Garantee” e
“January Garantee”: garanzia di
offerta di training ai giovanissimi
e ai NEET* (Department for
Work and Pension, 2009)
“Young Person Guarantee”:
offerta di lavoro o training ai
disoccupati di età compresa
tra i 18 e 24 anni, prima
che raggiungano i 6 mesi di
disoccupazione (Department for
Work and Pension, 2009)
PES, job-search & matching
Aumento delle risorse disponibili
(circa 30 milioni di euro per il
2009) per i PES e per coaching &
matching (Regeringskansliet, 2010)
Maggiore coordinazione
tra PES e altre agenzie
(Regeringskansliet, 2010)
Aumento delle offerte di stage
(SECO, 2010)
Stanziamento di 5 miliardi
di sterline per politiche di
attivazione (Department for
Work and Pension, 2009)
Rafforzamento dei PES
(Jobcenters Plus) e
dell’assistenza ai disoccupati di
lungo termine, agli over-50 e ai
professionisti (Department for
Work and Pension, 2009)
Local Employment Partnerships:
accordi tra Jobcenters e
“Graduate Garantee”: sostegno imprese per training e job-trials
o offerta di internship ai laureati (Department for Work and
Pension, 2009)
in caso di disoccupazione
continuata per 6 mesi
Incentivi basati sui risultati alle
(Department for Work and
agenzie private di lavoro per
Pension, 2009)
riallocare i disoccupati di lungo
termine (Department for Work
and Pension, 2009)
Adult Employment and Training
Activities (DOL, 2010)
Youth Activities, including summer
jobs for youth (DOL, 2010)
Dislocated Worker Employment
and Training Activities (DOL, 2010)
Fondi addizionali per PES
Program of Competitive
Grants for Worker Training and
Placement in High Growth and
Emerging Industry Sectors
(DOL, 2010)
YouthBuild Activities (DOL,
2010)
274
Altri paesi hanno, invece, creato alcuni servizi specifici. Il
Giappone, coerentemente con l’obiettivo di diminuire il gap tra
lavoratori atipici e regolari, ha creato tre centri di assistenza specifica per la prima tipologia contrattuale, nonché altri servizi di
assistenza per il periodo di emergenza della crisi. Ha inoltre esteso il programma di assistenza rivolto alle madri lavoratrici. L’Olanda, oltre ad aver rafforzato i propri PES, ha creato i Leerwerkloketten (learning and working service desks), cioè degli sportelli
che facilitano la mobilità e la transizione da un posto di lavoro
ad un altro.
Infine, interessante evidenziare le iniziative di Messico e Spagna, che, sfruttando le potenzialità dell’ICT, hanno creato due
portali web per favorire la diffusione dell’informazione sulle posizioni aperte e diminuire drasticamente i costi di transazione legati all’attività di ricerca di lavoro.
Riassumendo, si può dire che lo stimolo della domanda di
lavoro è avvenuto prevalentemente attraverso incentivi fiscali alle
imprese e riduzione delle ore lavorate, mentre il ricorso ad investimenti pubblici è stato tutto sommato limitato, malgrado molti
paesi abbiano creato posizioni temporanee per i LSU. Se, da una
parte, l’intervento dello stato è limitato dagli alti debiti pubblici e, conseguentemente, dall’impossibilità di finanziare la spesa
attraverso ulteriori deficit di bilancio, dall’altra, in molti paesi,
si sta perdendo l’occasione di rammodernare molte infrastrutture ed edifici pubblici ormai desueti e di riconvertire gli impianti
a tecnologie con un impatto ambientale più limitato. Bisogna
anche considerare la scarsa sostenibilità di misure temporanee,
come la riduzione delle ore e del costo del lavoro, che implicano,
l’una, crescenti investimenti all’aumentare della disoccupazione
e, l’altra, perdite notevoli per lo stato sociale.
Per quanto riguarda, invece, le misure di attivazione, gli stati
si sono concentrati soprattutto sul finanziamento dei programmi di training e sul rafforzamento dei PES, destinando invece
scarsa attenzione allo start-up d’impresa. Come sottolineato in
precedenza, questa scelta appare sensata laddove difficilmente
un disoccupato, soprattutto se scarsamente qualificato, si caricherà del rischio d’impresa, soprattutto con un accesso al credito
attualmente molto ristretto. D’altra parte, i programmi di training hanno un impatto strutturale a livello individuale e sistemico molto positivo, soprattutto se rivolti a specifiche categorie
in difficoltà, come i giovani e i lavoratori non qualificati, perché
275
consentono di ampliare o mantenere attivo il proprio spazio di
combinazioni possibili (capabilities). Mentre lo sforzo di formazione e riallocazione dei giovani da parte dei paesi OECD è intenso, sembra che lo sia molto meno quello per i lavoratori non
qualificati o atipici (fa eccezione il caso del Giappone). Anche
il rafforzamento dei PES può avere un impatto positivo, come
anche una maggiore coordinazione con gli altri soggetti che operano sul territorio, anche se la fornitura di un bene pubblico così
fondamentale come quello dell’informazione sull’offerta e sulla
domanda di lavoro, che implica necessariamente una visione sistemica, dovrebbe restare pubblico.
10.3
Considerazioni conclusive e scenari possibili
L’obiettivo di questo lavoro è stato di illustrare i principali contributi sugli effetti della crisi finanziaria sul mercato del lavoro e
sulle misure di policy adottate dai governi dei paesi sviluppati per
contrastare tali effetti.
Inizialmente sono stati mostrati alcuni dati sull’impatto della
crisi sul mercato del lavoro, che hanno restituito un quadro della
drammaticità della situazione. In particolare, considerando gli
incrementi dei tassi di disoccupazione, si nota come la crisi abbia colpito più duramente l’Irlanda, gli Stati Uniti e la Spagna
ma che, in generale, in tutta l’area dei paesi sviluppati gli effetti
sono molto pesanti, con un tasso di disoccupazione medio vicino all’8%. Inoltre, la crisi non ha colpito uniformemente tutti
i gruppi sociali, incidendo in maniera pervasiva soprattutto sui
contratti atipici, sui lavoratori non qualificati, sui giovani e sulle
donne.
Al di là delle conseguenze di breve periodo, esiste un rischio
concreto che la recessione sia la causa di una serie di effetti di
lungo periodo che potrebbero influenzare gravemente le prospettive di crescita e sviluppo, determinando una persistente perdita
di benessere per le nuove generazioni e di capitale umano a livello individuale e sistemico, nonché una diminuzione degli investimenti in R&S. Si è sottolineato, inoltre, che la mancanza di
adeguati interventi per contrastare tali effetti, potrebbe portare
ad una riduzione dello spazio di opportunità possibili per l’individuo o, parafrasando Sen, delle sue capabilities.
276
La drammaticità della situazione e il timore di isteresi, che
trova la sua manifestazione principale in quel fenomeno che
molti autori denotano come “jobless recovery”, ci hanno spinto ad una riflessione più ampia sulle trasformazioni intervenute
sul mercato del lavoro negli ultimi decenni, che hanno profondamente inciso sul nesso tra salario e lavoro e determinato un
peggioramento delle condizioni di lavoro e del potere contrattuale dei lavoratori. Ciò si è tradotto in persistenti perdite di benessere, soprattutto delle classi medie. Da questa prospettiva, la
bolla speculativa e l’accesso dei consumatori a prodotti finanziari innovativi e rischiosi, che per molto tempo ha permesso di
sostenere la domanda aggregata, spiegano in parte questi effetti,
che, però, vanno inseriti anche in un contesto di ampi mutamenti
organizzativi dell’economia reale, all’interno dei quali si è scelto
di privatizzare i profitti e socializzare le perdite, usando il lavoro
come leva contro la caduta tendenziale del saggio di profitto.
Al fine di contrastare la crisi, tutti i paesi sono intervenuti attraverso misure di politica economica, seppure seguendo ognuno
traiettorie proprie e al di fuori di dinamiche sistemiche. Nel corso di questo lavoro, sono state individuate due grandi categorie
di politiche, passive ed attive, che si distinguono per una diversa
gradualità di intervento da parte dello stato e fanno riferimento
a framework teorici specifici e storicamente determinati. Anche
all’interno di queste categorie, il ruolo giocato dallo stato può
essere molto diverso e, comunque, le modalità di implementazione variano da paese a paese e a seconda della libertà di manovra
dei governi, che, in moltissimi casi, è limitata dagli elevati debiti
pubblici.
Per quanto riguarda le misure passive, che mirano a sostenere
il reddito e la domanda aggregata senza intervenire direttamente
sul mercato del lavoro, dalla rassegna delle politiche identificate
si possono trarre le seguenti considerazioni:
•• I governi sono intervenuti soprattutto attraverso misure volte
a diminuire in vari modi la pressione fiscale, in particolare per
le fasce di reddito più basse, e sugli ammortizzatori sociali,
estendendo il periodo di copertura e/o aumentando l’entità
dei benefici. Al contrario, si è ricorsi molto poco all’utilizzo
di strumenti più propriamente assistenziali.
•• Per quanto riguarda i trasferimenti, la maggior parte dei paesi ha scelto di condizionarli alla partecipazione a programmi di
training (Polonia) o all’assistenza nella ricerca di lavoro (Belgio).
277
•• Raramente gli interventi sono mirati a specifiche categorie di disoccupati, in particolare quelle che risentono di più
dell’attuale crisi, come peraltro previsto dalle linee guida
dell’OECD. Fa eccezione, per esempio, l’Australia, che, oltre
a prevedere fondi aggiuntivi per specifiche categorie, ha anche
concesso la rinegoziazione dei mutui, che, soprattutto per le
modalità che hanno determinato la recessione, può rappresentare una misura fortemente progressiva. Un altro paese
che sta intervendo attraverso misure mirate è sicuramente il
Giappone, che, nonostante l’elevato debito pubblico, ha deciso contributi ad hoc per i lavori atipici al fine di ri-equilibrare,
almeno parzialmente, le forti iniquità sul mercato del lavoro.
Le misure attive implicano un maggior coinvolgimento dello
stato sul mercato del lavoro ed hanno come obiettivo principale
la creazione di posti di lavoro e facilitare l’incontro tra domanda
e offerta. Dalla rassegna presentata nel paragrafo precedente si
possono trarre le seguenti considerazioni:
•• Pochi governi sono ricorsi alle tradizionali politiche di creazione
diretta di lavori pubblici, mentre si è preferito fornire incentivi
alle imprese per creare nuove posizioni e finanziare programmi
di riduzione delle ore lavorate. Inoltre, si sono abbondantemente
sovvenzionati programmi di attivazione, sia promuovendo la (ri)
qualificazione del personale, sia rafforzando i PES. Al contrario,
pochi paesi hanno scelto di promuovere l’imprenditorialità, concedendo fondi per lo start-up d’impresa.
•• Sono soprattutto i paesi più ricchi e moderni dell’area OECD
che hanno scelto di intervenire attraverso opere pubbliche: paesi
come l’Australia, il Canada, la Danimarca, la Svizzera, la Francia e la Germania stanno cogliendo l’opportunità della crisi per
rammodernare i propri edifici scolastici, investire nella banda
larga o in tecnologie più sostenibili. In questo modo, si creano
nuovi posti di lavoro e si gettano le basi per una traiettoria di
crescita e sviluppo lungimirante e, possibilmente, sostenibile.
•• Sia gli incentivi alle imprese che i programmi di riduzione
dell’orario di lavoro comportano aspetti molto positivi sul
breve periodo, perché consentono di salvare posti di lavoro e
capitale umano, nonché di evitare i costi di transazione dovuti al licenziamento. Tuttavia, nel medio-lungo termine e con
l’aumentare dei tassi di disoccupazione, si rivelano sempre
più onerosi per le casse dello stato ed implicano perdite di
reddito non sostenibili a lungo.
278
•• I programmi di attivazione rappresentano un modo per cogliere
la crisi come un’opportunità di (ri)qualificazione per i lavoratori
e quindi di ulteriore creazione di capitale umano e di crescita
delle capabilities. Un maggior accesso all’informazione, sfruttando anche l’ICT, facilita notevolmente il matching tra domanda e
offerta. Tuttavia, se non si interviene sulle cause strutturali della
disoccupazione questa tipologia di interventi potrebbero rivelarsi poco utili. Peraltro, per rivelarsi efficaci, dovrebbero fornire
servizi indirizzati a specifiche categorie di lavoratori, quelle maggiormente colpite dalla crisi: in questo senso, le esperienze dei
centri di assistenza per lavoratori atipici giapponesi e dei Jobcenters britannici risultano assai interessanti.
•• Come già sottolineato in precedenza, lo scarso ricorso agli
incentivi per lo start-up di impresa appare sensato in una situazione di insufficiente liquidità.
Come corollario di quanto detto finora, si possono aggiungere due considerazioni finali. Il fatto che paesi già avanzati stiano
spendendo di più per contrastare la crisi e si avviino su traiettorie di sviluppo che implicano un avanzamento ulteriore, rischia
di allargare ancora di più le differenze di sviluppo nell’aerea dei
paesi sviluppati e di allontanare definitivamente qualsiasi ipotesi
di catching-up. In questo senso, bisognerebbe riflettere sull’opportunità di interventi di politica economica volti esclusivamente a contenere gli squilibri macroeconomici e la spesa pubblica
(Bivens, 2010).
Un altro aspetto che vale la pena considerare riguarda le condizioni di lavoro. Il Giappone, richiamato dall’OECD per l’ampio divario tra le condizioni di lavoro dei contratti standard e di
quelli atipici, sta approfittando della crisi per inserire le proprie
risposte di politica economica in un quadro di generale ripensamento delle politiche per il lavoro, che sia in grado di ristabilire
un’equità minima sul mercato del lavoro. D’altra parte, un paese
come l’Italia, in cui la quasi totalità della contrazione occupazionale della crisi è attribuibile alla perdita di posti di lavoro atipici,
ha colto l’occasione per ristabilire tipologie contrattuali estremamente flessibili e che non comportano alcuna garanzia per il lavoratore. La crisi può rappresentare un’opportunità per riflettere
attentamente sulle generali condizioni di precarietà e di malessere di molti lavoratori, se non si coglie si rischia di peggiorarle
ulteriormente e nessuna misura passiva di sostegno al reddito
potrà mai restituire l’insieme di capabilities perdute (Tab. 10.17).
279
Tabella 10.17Studi recenti sull’impatto della crisi sul mercato del lavoro e sulle misure di
policy adottate
Articolo
Bivens J. (2009), “How we Know the
Recovery Package is helping”, EPI
Issue Brief Paper #265
Bivens J. (2010), “Budgeting for
recovery: The need to increase
the federal deficit to revive a weak
economy”, EPI Briefing Paper #253
Bivens J., Irons J., Pollack E. (2009),
“Transportation investments and the
labor market: how many jobs could
be generated and what type?”, EPI
Issue Brief #252
Eisenbrey R. (2009), “The plan to end
the jobs crisis: the economy requires
a comprehensive response for a full
recovery”, EPI Policy Memorandum
#152
Bivens J., Edwards K. A. (2010),
“Cheaper than you think: Why Smart
Efforts to Spur Jobs Cost Less Than
Advertised”, EPI Policy Memorandum
#165
EPI (2009), American Jobs Plan: A
five-point plan to stem the U.S. jobs
crises
Guichard S., Rusticelli E. (2010),
“Assessing the impact of the financial
crisis on structural unemployment
in OECD countries”, Economics
Department Working Paper No. 767
Abstract
Breve studio sull’impatto dell’American
Recovery and Reinvestment Act
(ARRA) sulla ripresa
L’articolo sostiene la necessità di
una strategia di deficit spending per
finanziare la ripresa e studia la relazione
tra deficit federale, tasso d’interesse,
inflazione, debito internazionale ed
equità inter-generazionale.
Breve studio sull’impatto degli
investimenti pubblici in infrastrutture
previsti da ARRA sul mercato del
lavoro, in termini di ammontare e
tipologia di posizione. Si stima che
per ogni 100 miliardi spesi in nuove
infrastrutture, sarà possibile creare un
milione di posti di lavoro
Proposte di policy dell’EPI per
promuovere la ripresa sul mercato
del lavoro. In particolare si sottolinea
la necessità di rafforzare gli
ammortizzatori sociali, ridurre la
pressione fiscale sugli stati, creare
LSU, approvare un nuovo credito
d’imposta sul lavoro e, infine,
investire in infrastrutture.
L’articolo sostiene l’opportunità
di tenere sotto controllo il deficit
federale attraverso la creazione di
posti di lavoro piuttosto che limitando
la spesa pubblica
Proposta per un programma di ripresa e
risposta alla crisi sul mercato del lavoro
americano in cinque punti. In particolare,
si incoraggia il rafforzamento degli
ammortizzatori sociali, la diminuzione
della pressione fiscale, nuovi investimenti
per l’edilizia scolastica e i trasporti,
creazione di LSU e la previsione di un
credito d’imposta sul lavoro.
L’articolo considera le condizioni
attraverso cui lo shock esogeno della
crisi e il rischio di isteresi possano
incidere sulla disoccupazione strutturale.
Gli autori stimano che nell’area OECD
la disoccupazione strutturale possa
aumentare fino al 4%, anche se con
ampie differenze tra paesi.
Holland D., Kirby S., e Whitworth R.
(2009), Labour markets in recession: Comparazione dell’impatto della crisi
An international comparison, National sui mercati del lavoro dell’area OECD
Institute Economic Review, 209, 35
280
Dati
Trimestrali su spesa pubblica, PIL e
imposizione fiscale
Annuali su spesa pubblica e deficit di
bilancio più previsioni per i prossimi
dieci anni
Stime comparate sull’impatto sul
mercato del lavoro di diverse tipologie
di spesa pubblica
Stime sull’impatto della creazione di
nuovi posti sui conti pubblici
Annuali sulla distribuzione del reddito,
l’imposizione fiscale e spesa ed
impatto di ARRA.
Stime sulla disoccupazione di lungo
termine
Annuali su disoccupazione,
occupazione, partecipazione e salari
reali nonché stime sul diverso impatto
della recessione sull’occupazione e
sull’elasticità di risposta dei vari mercanti
agli interventi di politica economica e ad
ulteriori diminuzioni di salario
Articolo
Abstract
Holland D., Kirby S., Whitworth
R. (2010), A comparison of labour
market responses to the global
downturn, National Institute Economic
Review, 211:F38
Riprendendo il lavoro del 2009, si
compara nuovamente l’impatto della
crisi sui mercati del lavoro dell’area
OECD ed eventuali evoluzioni
rispetto al 2009
ILO (2009a), Recovering from the
crisis: A Global Jobs Pact adopted by
the International Labour Conference
at its Ninety-eighth Session, Ginevra
ILO (2009b), “Tackling the Global
Jobs Crisis: Recovery through Decent
Work Policy”, Report of the Secretary
General, Ginevra
L’Organizzazione Internazionale
per il Lavoro propone il Global Jobs
Pact come base per un accordo
internazionale condiviso volto a
ridurre l’intervallo di tempo tra la
ripresa economica e la ripresa sul
mercato del lavoro e a realizzare
un generale miglioramento delle
condizioni di lavoro a livello globale
Rapporto del Direttore Generale
dell’ILO sull’attuale crisi e sulle
misure di policy da attuare, a livello
nazionale e globale
Dati
Annuali su disoccupazione,
occupazione, partecipazione e salari
reali nonché stime sul diverso impatto
della recessione sull’occupazione
e sull’elasticità di risposta dei vari
mercanti agli interventi di politica
economica e ad ulteriori diminuzioni
di salario. Infine si mostra come le
precedenti previsioni relative alla
diminuzione dell’occupazione fossero
ottimistiche rispetto ai mutamenti reali
Vari sui principali indicatori del
Analisi dell’attuale stato dei mercati mercato del lavoro ma anche sulle
del lavoro nazionali ed internazionali condizioni socio-economiche dei
lavoratori
Mishel L. (2009a), “Generating jobs Breve studio sulle policy previste da
for a robust recovery”, EPI Policy
ARRA e sul suo impatto e proposte di
Memorandum #151
policy ancora da adottare
L’articolo affronta la questione
Mishel L., Shierholz H., Green A.
della perdita di reddito legata alla
(2009), “The recession’s hidden
Annuali sui tassi nominali di crescita
delle ore lavorate e delle
costs: workers lucky enough to keep riduzione
del salario per varie categorie di
sue
conseguenze,
che
è
probabile
their jobs still feel the pain in their
lavoratori
determini
ulteriori
perdite
di
paycheck”, EPI Briefing Paper, # 240 benessere per la classe media
OECD (2009b), “Addressing the
labour market challenges of the
Risultati del questionario proposto da
economic downturn: A summary of
OECD e Commissione Europea ai
sulle misure di politica
country responses to the OECD-EC paesi membri sulle politiche sociali e Tabelle
adottate classificate per
questionnaire”, background paper
del lavoro adottate contro la crisi. In economica
prepared for the meeting of the OECD totale contiene i risultati di 29 paesi tipologia e paese
Employment, Labour and Social
Affaires Committee, 28-29 Settembre
ILO (2010), Global Employment
Trends, Ginevra
Il rapporto riporta i risultati di
una serie di workshop ed analisi
condotte dalla Direzione per la
Scienza, la Tecnologia e l’Industria
(DSTI) dell’OECD sull’impatto della
recessione sui fattori di crescita di
lungo periodo, in particolare quelli
legati all’innovazione
Il paper si concentra sui recenti
del mercato del lavoro,
OECD (2010d), “Labour markets and sviluppi
mettendo in evidenza le incertezze
the crisis”, Economics Department
della ripresa e discutendo le varie
Working Paper, n. 756, ECO/
opzioni di policy per evitare ulteriori
WKP(2010)12, Unclassified
mutamenti strutturali e facilitare una
ripresa rapida e robusta
OECD (2009d), Policy Responses
to the Economic Crisis: Investing in
Innovation for Long-Term Growth,
Paris
281
Trend dell’impatto della crisi sugli
investimenti in nuovo capitale e
sull’imprenditoria. Inoltre, si mostrano
vari dati e casi studio sulle misure
di policy adottate per stimolare la
crescita nel medio-lungo periodo
Stime su vari indicatori -produttività
del lavoro, ore lavorate, tassi di
disoccupazione- che mettono a
confronto l’impatto dell’attuale recessione
con quello di altre recessioni. Tabelle con
le principali misure di policy adottate dai
paesi OECD
Articolo
Abstract
Breve studio sull’impatto della crisi
sul benessere dei lavoratori e sulle
OECD (2009a), “Helping workers
di politica economica che
weather the economic storm”, OECD misure
i paesi dovrebbero adottare per
Observer Policy Brief, Settembre
contrastare tali effetti e gettare le basi
per una ripresa stabile e duratura
Turner A. (2010), “Jobs crisis and the Breve nota sull’impatto della crisi
Great recession”, EPI Facts Sheet
e le misure previste da ARRA per
Unclassified
contrastarla
Fonte: elaborazione dell’autrice
282
Dati
Trend comparativi sull’impatto della
crisi e sulla spesa pubblica per
tipologia di misura adottata
Parte III
Il modello di crescita occupazionale in Toscana
11.
Chi fa crescere l’occupazione? Il caso toscano e
l’Europa
11.1
Premessa
In linea con quanto avvenuto a livello nazionale, la Toscana
si è caratterizzata nell’ultimo quindicennio per un modello di
crescita estensiva, determinata cioè da un forte incremento
dell’occupazione a fronte di una lenta dinamica della produttività, che ha visto come principali protagonisti tre specifiche
categorie di lavoratori, donne, immigrati e atipici. A partire da
queste osservazioni, il presente capitolo intende evidenziare le
specificità del modello di crescita occupazionale in Toscana in
un’ottica di analisi comparata rispetto a quanto accaduto nelle ripartizioni geografiche dell’Europa meridionale, centrale e
settentrionale.
Nei due capitoli successivi si cercherà di proseguire l’analisi,
puntando l’attenzione sulle implicazioni in termini di mobilità
complessiva del lavoro determinate dall’ingresso di questi nuovi
soggetti nel mercato del lavoro e sulle specificità che ne caratterizzano le carriere rispetto alla forza lavoro tradizionale, in termini di continuità contrattuale e occupazionale.
11.2
La dinamica dell’occupazione
Fra il 1997 e il 2008, la popolazione toscana occupata, come abbiamo visto nelle precedenti versioni di questo Rapporto, è aumentata. Anche il tasso di occupazione è stato decisamente dinamico, rispondendo positivamente allo stimolo delle politiche
di attivazione e di convergenza fra paesi membri lanciate dall’Unione Europea. Le politiche europee del lavoro possono essere
suddivise in implicite ed esplicite. Fra le prime hanno avuto un
ruolo cruciale le riforme delle pensioni, le politiche per la conci285
liazione fra vita e lavoro, la pluralizzazione dei contratti di lavoro. Fra le seconde possiamo includere la costruzione giuridica,
perseguita attraverso l’allargamento dell’Unione, di un mercato
del lavoro europeo. Essa ha favorito l’immigrazione dai paesi
membri dell’Europa a 27 membri verso quelli dell’Europa dei 15
e la diminuzione del controllo sulla circolazione degli stranieri
nei confini europei. Più in generale, le azioni antidiscriminatorie
promosse dal trattato di Amsterdam hanno fatto da sponda alle
politiche nazionali e regionali per la cittadinanza delle donne e
dei migranti.
Per evidenziare la dinamica dell’occupazione, nel quadro europeo, abbiamo confrontato la Toscana con le macroaree territoriali dell’Europa dei 15, ottenute aggregando i microdati dell’European Labour Survey di EUROSTAT: il Nord, il Centro e il Sud
d’Europa. Si tratta di aggregazioni meramente geografiche: della
macroarea del Nord fanno parte i paesi scandinavi, l’Irlanda e la
Gran Bretagna, della macroarea del Sud Europa Italia, Grecia,
Spagna e Portogallo, della macroarea del Centro tutti gli altri
paesi dell’Europa a 15 membri.
È però evidente che queste linee di divisione territoriale coincidono in senso lato con quelle che distinguono i tre regimi di
Welfare europei nelle classificazioni di Ferrera ed Esping Andersen: un modello settentrionale caratterizzato da meccanismi universalistici (la variante “socialdemocratica” dei paesi scandinavi)
o di universalismo selettivo (la variante “liberale” dell’Inghilterra e dell’Irlanda), un modello dell’Europa centrale conservatorecorporativo; un modello mediterraneo conservatore-familista
(Esping Andersen, 2000; Ferrera, 1993).
Abbiamo inoltre considerato, per una maggiore chiarezza
sugli andamenti complessivi, il dato medio dell’Europa a 15
membri.
L’analisi dei tassi di occupazione (Graf. 11.1), mostra il particolare dinamismo del meridione europeo, partito da posizioni
svantaggiate. Il dato toscano, superiore anche all’inizio a quello dell’Europa centrale supera, a partire dal triennio 2002-2005,
anche il dato medio europeo; quello dei paesi del Sud, aggregati
insieme, supera a sua volta il dato medio dell’Europa centrale.
L’Europa del nord, che ha una posizione iniziale più alta, presenta un dato meno dinamico, anche se continua a crescere, rendendo per ora tendenziale il processo di convergenza con le altre
macroaree.
286
Grafico 11.1 Tassi di occupazione. Serie storica. Dati medi triennali 1997-2008. Toscana e
macroaree europee
75
65
60
61
59
59
57
55 56
53
50
1997-1999
72
71
71
70 69
63
60
60
57
2000-2002
Toscana
65
64
62
60
63
59
2003-2005
EU nord
EU centro
2006-2008
EU sud
EU 15
Fonte: elaborazioni IRPET su microdati EUROSTAT, ELS
Quali sono state, in questo quadro, le componenti più dinamiche
del mercato del lavoro? Per rispondere a questa domanda abbiamo
ristretto il periodo di osservazione agli anni Duemila, dato che per il
periodo precedente alcune variabili, fra cui la distinzione fra contratti
a termine e contratti a tempo indeterminato, non erano disponibili.
L’analisi della variazione della popolazione occupata, in questo periodo, documenta il processo di convergenza che abbiamo osservato. Il dinamismo dell’Unione europea è determinato
dalla variazione degli occupati nei paesi mediterranei. In questo
quadro, l’occupazione è in Toscana più dinamica di quella delle
macroaree centrale e settentrionale (Graf. 11.2).
Grafico 11.2 Variazione % della popolazione occupata in Toscana e nelle macroaree
dell’Europa dei 15. Triennio 2006-2008 su triennio 2000-2002
15
10
5
0
5
Nord EU
9
9
TOSCANA
EU15
7
Centro EU
14
Sud EU
Fonte: elaborazioni IRPET su microdati EUROSTAT, ELS
Specifichiamo meglio, dunque, il nostro interrogativo. Quali
attori sociali hanno contribuito di più alla crescita dell’occupazione? I protagonisti della crescita toscana sono gli stessi che si
287
sono attivati nel resto d’Europa? Donne e uomini, immigrati e
lavoratori autoctoni, giovani e anziani, lavoratori temporanei e
a tempo indeterminato, occupati con livelli di istruzione diversi:
queste figure sono evidentemente, in molti casi, sovrapposte, ma
è utile capire quali di esse hanno contribuito di più al dinamismo
dell’occupazione, confrontando il percorso toscano con quello
delle grandi macroaree europee.
11.3
Donne e uomini
Alla crescita dell’occupazione hanno contribuito, in Toscana, sia
la componente femminile che quella maschile, con un dinamismo
legato in gran parte alla crescita della popolazione. La sex ratio
ha favorito le donne, segnando un percorso di convergenza con
la distribuzione di genere degli occupati delle macroaree europee.
Infatti i paesi del Nord Europa, che già all’inizio del periodo si caratterizzavano per un peso delle donne quasi equilibrato
(46% del totale degli occupati), hanno registrato una variazione
più debole delle occupate (+5,5%); la Toscana, dove il peso delle
occupate era relativamente basso (41%), ha registrato una variazione più significativa del numero di occupate (+13,5%), raggiungendo un peso del 43% (Graf. 11.3).
Grafico 11.3 % di donne occupate sul totale, 2000-2002 e 2006-2008, e variazione % degli occupati
per genere in Toscana e nelle macroaree dell’Europa dei 15. Triennio 2006-2008 su
triennio 2000-2002
50
40
38
41
43
41
44
43
46
44
46
46
30
20
10
0
22
13
14
9
Sud EU
6
5
Toscana
2000-2002
2006-2008
EU15
11
4
Centro EU
Variazione % F intero periodo
Variazione % M intero periodo
Fonte: elaborazioni IRPET su microdati EUROSTAT, ELS
288
5
4
Nord EU
La crescita dell’occupazione è stata molto più dinamica, fino
al 2006-2008, nell’insieme dei paesi mediterranei, che partivano da livelli inferiori, sia al femminile (+22%) che al maschile
(+9%). Il peso delle donne sugli occupati è passato dal 38 al 41%.
11.4
Italiani e immigrati
È impossibile sviluppare, per quanto riguarda la distinzione fra
occupati nazionali e non nazionali, un’analisi altrettanto estesa
nel tempo. EUROSTAT registra la distinzione fra queste figure,
infatti, solo a partire dal 2007. I dati dell’ultimo biennio sono comunque significativi per mostrare la recente dinamica di crescita
dell’occupazione straniera.
In tutta Europa l’occupazione straniera cresce, infatti, mentre
quella nazionale è statica, in lieve crescita o in lieve diminuzione.
I paesi mediterranei hanno la percentuale di lavoratori immigrati
più alta, presumibilmente a causa dei bassi tassi di attività degli
autoctoni, siano essi anziani, giovani, o donne, e di una crescita
più recente e rapida del fenomeno migratorio, regolata da politiche di cittadinanza restrittive. La quota degli occupati non
nazionali varia in Europa, nel 2007, dal 6% del Centro Europa
al 9% dei paesi mediterranei. Una logica che non si sovrappone,
dunque, alla linee geografiche dell’asse Nord-Sud, ma che chiama in causa motivi geopolitici più complessi, che qui non intendiamo analizzare.
Un processo di convergenza, cioè una dinamica di crescita
dei lavoratori stranieri occupati più elevata nelle aree dove il
fenomeno è inizialmente più debole, è comunque presente nel
biennio qui considerato. Sono in questo caso i paesi del Nord
dell’Europa, quelli che, con livelli iniziali più bassi, hanno variazioni più elevate del numero degli stranieri occupati. Minore
è tuttavia la variazione del Centro Europa, dove gli stranieri
pesavano meno che altrove anche all’inizio del periodo considerato. La Toscana emerge in questo quadro, come l’aggregato
dei paesi mediterranei, per una incidenza degli occupati non
nazionali già elevata, nel 2007, rispetto alla media dell’Europa
dei 15. La crescita del fenomeno nell’anno successivo, del 15%,
è più limitata che nel Nord e nel Centro Europa, ma non irrilevante (Graf. 11.4).
289
Grafico 11.4 % di occupati non nazionali sul totale (2007 e 2008) e variazione % degli occupati
non nazionali e nazionali in Toscana e nelle macroaree dell’Europa dei 15
24
20
20
16
12
8
7
6
15
15
17
7
8
8
7
8
9
9
10
9
4
0
-4
0
Centro EU
-0
-1
Nord EU
2007
2008
EU16
1
Toscana
-1
Sud EU
Variaz. % nazionali 2008 su 2007
Variaz. % non nazionali 2008 su 2007
Fonte: elaborazioni IRPET su microdati EUROSTAT, ELS
11.5
Lavoratori giovani e maturi
Nella distribuzione per età degli occupati vi sono, in Europa,
differenze di una certa consistenza. Dove i tassi di attività sono
più alti, il protagonismo della classe di età centrale è minore, e
la curva per età dell’occupazione è più tonda, meno sfavorevole
ai giovani e agli occupati più maturi. È il caso dei paesi del Nord
Europa, dove la curva dell’occupazione ha una forma a campana
non solo al maschile, ma anche al femminile. Nei paesi del Sud
e del Centro Europa la curva riflette la persistenza del modello
tradizionale del male breadwinner, che pone al centro del lavoro
per il mercato i maschi capofamiglia (Graf. 11.5).
In questo quadro la Toscana, come mostra il grafico 11.6,
condivide, nel biennio 2002-2002, il modello meridionale, per
quanto riguarda il peso degli adulti. Ma è evidente la specificità di una presenza dei giovani particolarmente limitata. A una
lenta integrazione delle donne adulte nel modello breadwinner
non corrisponde l’inclusione dei giovani, intrappolati in processi
di transizione alla vita adulta (fine degli studi, accesso al lavoro,
formazione di nuove famiglie), particolarmente lenti.
290
Grafico 11.5 % di occupati giovani, % di occupati maturi (media 2000-2002) e variazione % di
occupati in queste classi di età in Toscana e nelle macroaree dell’Europa dei 15.
Triennio 2006-2008 su triennio 2000-2002
Fino a 30 anni
60
36
40
38
38
39
Nord EU
Centro EU
Sud EU
38
20
0
-20
TOSCANA
EU15
2000-2002
50-64 anni
30
24
20
18
12
6
0
Centro EU
Var. % su assoluti
20
21
21
Sud EU
TOSCANA
EU15
24
Nord EU
Fonte: elaborazioni IRPET su microdati EUROSTAT, ELS
Grafico 11.6 Distribuzione % degli occupati per età. Toscana e macroareee europee. 20002002 e 2006-2008
47
48
38
28
18
35
31
23
41
38
36
35
25
23
42
35
23
43
22
fino a 35-49 50-64 fino a 35-49 50-64 fino a 35-49 50-64 fino a 35-49 50-64 fino a 35-49 50-64
34
34
34
34
34
Toscana
EU15
Nord EU
Centro EU
Sud EU
2000-2002
2006-2008
Il successivo cambiamento non si svolge, in questo caso, lungo una linea di convergenza. I giovani occupati diminuiscono
infatti ulteriormente, e in misura significativa (-7%), proprio in
Toscana, dove erano già poco presenti. Il confronto con i paesi
del Sud Europa, dove gli occupati giovani aumentano, anche in
valore assoluto, è eloquente. Gli occupati in età matura aumentano in Toscana del 18%, con una crescita significativa, ma inferiore a quelle del Centro e del Sud d’Europa.
291
La forma della curva per età toscana, nel 2006-2008, appare
dunque anche più atipica, nel quadro europeo, di quella dell’inizio del secolo. Gli occupati hanno una forte concentrazione
nell’età centrale, mentre i giovani sono sempre meno presenti.
11.6
Occupati e livelli di istruzione
L’ulteriore rallentamento dell’ingresso dei giovani nel mondo
del lavoro riflette, oltre alla persistenza di un modello di protezione sociale familista, gli effetti di una forte accelerazione
del processo di scolarizzazione, che ha accresciuto il numero
dei giovani diplomati e laureati, complicandone, al tempo stesso, i percorsi di accesso al mercato del lavoro (Antoni, 2010;
Ricci, 2010). L’aumento dei laureati si è sviluppato soprattutto
dopo la maturazione degli effetti della riforma dei cicli di studi universitari e l’introduzione del nuovo ordinamento 3+2. Il
fenomeno ha avuto in Toscana modalità in parte atipiche. Le
caratteristiche della domanda di lavoro, appiattita sui livelli intermedi, ha rallentato, al maschile, la spinta verso l’istruzione
superiore, mentre le donne hanno avuto una crescita più rapida concentrandosi, più che negli altri paesi europei, nel campo
delle scienze umane e sociali, viste come chiave di accesso agli
impieghi pubblici (IRPET, 2010).
In ogni caso la Toscana si è inserita, sotto il profilo del livello
di istruzione degli occupati, in un processo di tendenziale convergenza, sviluppatosi in modo trasversale all’Europa (Graf. 11.7).
Esito di questo processo è stato l’avvicinamento fra paesi per
quanto riguarda la presenza di diplomati, indebolito solo dalla
persistente spinta alla scolarizzazione secondaria dei paesi del
Nord Europa che, già al vertice della graduatoria, risaltano nel
biennio più recente per una incidenza molto forte dei diplomati
(53%). A questa caratteristica corrisponde per converso un peso
contenuto dei bassi livelli di istruzione (13%) che risalta nel confronto con il dato del Sud Europa (42%) e della Toscana (40%).
Molto significativa è stata, inoltre, la crescita degli occupati
laureati, in Toscana (+63%), a partire da un livello particolarmente basso anche in confronto all’Europa mediterranea (Graf.
11.7). Possiamo dunque parlare, in questo caso, di un fenomeno
di convergenza, anche se il profilo educativo dei toscani resta, nel
quadro europeo, appiattito su livelli più bassi (Graf. 11.8).
292
Grafico 11.7 % di occupati diplomati, % di occupati laureati (media 2000-2002) e variazione %
degli occupati con questi livelli di istruzione in Toscana e nelle macroaree
dell’Europa dei 15. Triennio 2006-2008 su triennio 2000-2002
Diplomati
60
40
31
20
29
0
Sud EU
40
42
46
52
17
14
7
9
TOSCANA
EU15
Centro EU
Nord EU
2000-2002
Variazione % sugli assoluti
Laureati
80
63
60
40
45
24
19
11
20
0
TOSCANA
28
26
30
24
Sud EU
EU15
23
Centro EU
Nord EU
Grafico 11.8 Distribuzione % degli occupati per livello di istruzione. Toscana e macroareee
europee. 2000-2002 e 2006-2008
60
50
40
30
20
10
0
40
16
basso medio
Toscana
54
44
43
28
46
33
28
13
alto basso medio alto
EU15
basso medio alto
42
35
24
basso medio alto basso medio alto
Nord EU
2000-2002
30
24
Centro EU
Sud EU
2006-2008
11.7
Occupati temporanei e a tempo indeterminato
Per quanto riguarda gli occupati temporanei si è sviluppato in
Europa, negli ultimi anni, un processo di ulteriore divergenza:
alla variazione positiva dei paesi del Meridione, già al vertice della graduatoria nel triennio 2000-2002, si affianca infatti quella
negativa dei paesi del Nord Europa, che erano già caratterizzati
da una bassa presenza. In questo quadro la Toscana, contrasse293
gnata anch’essa da un’incidenza inizialmente limitata, ha avuto
una notevolissima crescita di questo tipo di contratto (+72%).
La regione tende dunque ad allinearsi ai livelli di incidenza del
lavoro atipico caratteristici dei paesi del Sud Europa, piuttosto
che al modello liberale tipico della Gran Bretagna e dell’Irlanda.
Grafico 11.9 % di occupati a tempo determinato e variazione % degli occupati a tempo
determinato. Toscana e macroaree dell’Europa dei 15. Triennio 2006-2008 su triennio
2000-2002
80
72
60
40
20
0
-20
8
7
8
13
-9
Nord EU
TOSCANA
2000-2002
13
14
14
14
9
14
Centro EU
EU16
2006-2008
20
27
21
Sud EU
Variaz. %
11.8
Considerazioni conclusive
La Toscana ha avuto una crescita dell’occupazione comparativamente elevata, nel quadro europeo, fra il 2000 e il 2008 (+9%): la
variazione positiva è stata intermedia fra quella del Sud Europa
(+14%) e quella del Nord Europa (+5%). Quali sono stati, in
questo quadro, i principali attori della crescita? Un forte dinamismo ha caratterizzato la regione per quanto riguarda gli occupati
laureati e gli immigrati. L’occupazione femminile ha seguito un
trend di crescita, ma con un minore dinamismo.
Questi fenomeni si inquadrano in un processo di convergenza
transeuropeo, che indebolisce ma non annulla le differenze ereditate dal passato. Sia nell’ambito delle differenze di genere che in
quello dei dislivelli di istruzione la Toscana conserva, nonostante le variazioni positive, una distribuzione abbastanza tradizionale. Ma un forte elemento di innovazione e trasformazione del
tessuto dell’occupazione è venuto, invece da una incidenza degli
stranieri sugli occupati particolarmente elevata, nonostante un
dinamismo non particolarmente accentuato fra il 2006 e il 2007.
294
In un quadro di divergenza, di differenziazione e tipizzazione
dei modelli lungo le linee della geografia e dei modelli nazionali
di protezione sociale, si collocano invece altri aspetti della crescita dell’occupazione toscana. Anzitutto l’ulteriore declino del numero dei giovani occupati, legato alla persistenza di una modalità di protezione sociale di tipo familista. Questa modalità consente ai giovani italiani di limitare i processi di mobilità sociale
discendente, e di tentare una mobilità ascendente, col sostegno
delle famiglie. Lasciando agli stranieri i lavori meno qualificati, i
giovani attuano strategie di ingresso nei pochi lavori qualificati,
pagando tuttavia il costo di un forte rallentamento del percorso
formativo e dell’ingresso nella vita attiva. La classe di età intermedia, per converso, acquista in Toscana un nuovo protagonismo nel mercato del lavoro, accentuando il modello breadwinner,
che tuttavia si estende a nuove figure: donne e persone dotate di
livelli di istruzione più alti che in passato. Si tratta in ogni caso di
figure innovative, di una risorsa da non sottovalutare per l’evoluzione del modello toscano.
Della rallentata attivazione dei toscani fa parte anche l’intensa crescita del numero degli occupati atipici. Lavoro atipico e
lento ingresso dei giovani nel lavoro si presentano, dunque, come
due facce della stessa medaglia, due tratti importanti del modello toscano. La prima caratteristica, la diffusione dei contratti
temporanei, non si è finora sviluppata fino ai livello raggiunti
nell’Europa meridionale, ma è in forte crescita. La seconda, l’ingresso tardivo dei giovani, è distante, invece, da quel modello,
poiché nei paesi del Sud la presenza dei giovani nell’occupazione,
più elevata anche all’inizio del periodo considerato, è cresciuta
nel corso del tempo.
Il frantumarsi del modello familista, nella sua versione aggiornata, che rafforza la dipendenza dei figli e affievolisce quella
delle donne, è spesso evocato come una necessaria premessa di
un ulteriore passo verso una modernizzazione del mercato del
lavoro. Il rischio, alla luce di questi scenari, è tuttavia che la Toscana meridionalizzi ulteriormente il suo equilibrio, andando
nella direzione di un ingresso nel mercato del lavoro dei giovani
anticipato ma precario.
295
12.
La mobilità del lavoro
12.1
Premessa
A seguito dei cambiamenti demografici e delle sollecitazioni economiche imposte dalla globalizzazione, negli ultimi due decenni i mercati del lavoro di gran parte dei Paesi industrializzati hanno subito
profonde riforme, individuando nella flessibilità il comune denominatore per il raggiungimento di migliori standard occupazionali.
Il punto di partenza di questo approccio è riconducibile all’affermazione dell’idea che i migliori risultati in termini di occupazione raggiunti dagli USA rispetto all’Europa fossero spiegati
essenzialmente dalla maggiore fluidità del mercato statunitense
e che, quindi, la deregolamentazione del lavoro fosse la via maestra da percorrere anche in Europa. In realtà, questa posizione
ha sempre trovato importanti oppositori, sia in ambito accademico che istituzionale, e gli effetti della recente crisi globale ne
hanno fatto emergere più chiaramente i limiti, avvantaggiando
un approccio più meditato, come quello della flexsecurity emerso
a livello europeo. Appare condivisibile, infatti, l’idea che i problemi dell’occupazione non siano attribuibili esclusivamente alle
rigidità del mercato del lavoro, né che la protezione offerta ai lavoratori dalle istituzioni pubbliche possa essere ridotta alla mera
risoluzione delle sue frizioni (Contini e Trivellato, 2005).
Nessuna teoria, tuttavia, è riuscita ad affermare uno schema
definitivo di valutazione della flessibilità dei mercati, né gli studi
comparati sono riusciti a stabilire una misura consolidata dello stato di flessibilità ‘ideale’ del fattore lavoro: mobilità, occupazione, produttività, salari, distribuzione del reddito e crescita
economica restano tessere di un puzzle non ancora composto.
Nonostante le incertezze, l’impegno dedicato alla valutazione
del grado di flessibilità dei mercati del lavoro nazionali ha prodotto
alcuni risultati interessanti, tra cui l’ideazione, da parte dell’OECD,
di un indice sintetico dei regimi di protezione dell’impiego. L’indice,
297
chiamato EPL (Employment Protection Legislation), si basa su un
ricco database legislativo che consente di analizzare le procedure e
i costi a cui sono sottoposte le imprese nell’assunzione di personale
con contratti a tempo determinato e nel licenziamento dei propri
dipendenti con contratti standard. Attraverso l’ELP, dunque, è possibile effettuare confronti internazionali tra le normative in vigore
nei paesi appartenenti all’area OECD e misurare l’evoluzione di
quest’ultime nel tempo. Nel 2000, i primi risultati dell’indice hanno
posizionato l’Italia tra i Paesi più rigidi dell’area (su 6 punti complessivi l’Italia ne aveva accumulati 2,9), ma l’ultimo aggiornamento ha riconosciuto gli sforzi compiuti in materia di flessibilità (nel
2008 l’ELP era passato al 2,4), segnalando il nostro Paese tra quelli
che hanno migliorato maggiormente il risultato precedente grazie
alla deregolamentazione dell’impiego temporaneo, che passa dai
5,4 punti del 1990 ai 2,0 del 2008 (i contratti standard mantengono
invariato il proprio punteggio di 1,8 punti) (CNEL, 2010). Come
dimostrano le numerose critiche rivolte all’indice, l’EPL non è una
misura esente da limiti perché si basa sulla mera valutazione normativa della rigidità attraverso procedure standardizzate, che possono
includere delle approssimazioni e che, in ogni caso, non comprendono valutazioni di contesto come la distribuzione della flessibilità, la
capacità di enforcement e le ricadute prodotte dalle riforme.
L’analisi del mercato del lavoro e della flessibilità continua,
quindi, ad essere condotta prevalentemente su basi empiriche,
cercando di tenere in debita considerazione i mutamenti economici, la dinamica demografica e le molteplici sfumature delle politiche del lavoro e delle loro implicazioni sulla società.
Anche a seguito delle valutazioni ottenute in ambito internazionale, in Italia a partire dagli anni ’80 si è sviluppato un vivace dibattito sulla flessibilità del lavoro, che ha accompagnato le riforme
dell’ultimo ventennio e che si impone tutt’oggi tra le principali voci
dell’agenda politica. Nel corso degli anni ‘90, accanto ad una sostanziale stabilità della regolazione del lavoro standard, si è affermata con crescente vigore una fase di riorganizzazione delle condizioni
di accesso al mercato nell’intento di abbassare il costo del lavoro
attraverso l’istituzione di nuove forme di impiego (tempo determinato, part-time, lavoro interinale, contratti di collaborazione, ecc.).
Dal punto di vista normativo, la legge n. 196 del 24 giugno 1997
(il cd. pacchetto Treu) costituisce la prima formalizzazione organica
delle nuove forme contrattuali, seguita dalla legge n. 30 del 14 febbraio 2007 (la cd. Legge Biagi), che ha ampliato ulteriormente la
298
gamma dei lavori non-standard. Il tratto comune alle due riforme
è rappresentato dalla marginalità, poiché entrambe le leggi si indirizzano ai lavoratori in ingresso sul mercato del lavoro, prevalentemente giovani e donne, che vedono ampliarsi le modalità di accesso
all’impiego nel segno di una flessibilità sempre più spinta. Per gli insiders, invece, le condizioni di permanenza sul mercato non sono state
rinegoziate. L’obiettivo dichiarato delle riforme è quello di favorire
l’inserimento delle categorie di forza lavoro più ‘fragili’ attraverso la
riduzione del loro costo da parte delle imprese. Con l’introduzione
di regole del gioco differenti in funzione dello status di partenza,
tuttavia, si corre il rischio di alimentare la segmentazione all’interno
del mercato e, nel caso specifico, tra generazioni di lavoratori. Un
ulteriore aspetto problematico delle leggi citate è la mancanza di un
adeguamento degli ammortizzatori sociali alle nuove categorie contrattuali che, data l’impostazione assicurativa del nostro sistema di
protezione, risultano scarsamente protette dalle misure di sostegno
al reddito e all’occupazione (CNEL, 2010). Infine, va osservato che
entrambe le norme escludono dalla propria disciplina le retribuzioni, un aspetto non sottoposto a riforma sebbene sia indirettamente
influenzato dalle caratteristiche dei nuovi contratti. Dalle statistiche
nazionali emerge, infatti, che il reddito medio pro capite si è ridotto
significativamente negli ultimi anni per effetto della minore redditività dei nuovi contratti, della discontinuità lavorativa e, non ultima,
dell’accresciuta propensione ad accettare impieghi meno remunerativi in un contesto di grave crisi occupazionale.
Complessivamente, quindi, l’Italia non sembra aver ancora
recepito nella propria normativa il principio della flexsecurity
proposto dalle istituzioni europee, limitando all’incremento della mobilità il proprio concetto di flessibilità. Quanto agli effetti,
la crescita dell’occupazione registrata nella seconda metà degli
anni ‘90 sembra aver beneficiato dell’ampliamento della gamma
di contatti atipici, pur avendo subito una pesante battuta d’arresto in coincidenza della recente crisi globale. Va osservato,
inoltre, che, mentre per i candidati al lavoro sono aumentate le
modalità di assunzione, si è accentuata la dicotomia tra insiders e
outsiders, lavoratori tipici e atipici, e tra i più giovani si rileva un
crescente scoraggiamento, un segnale preoccupante e che impone una riflessione più matura sul ruolo del lavoro in Italia.
Per valutare la dimensione della mobilità e delle riforme in Italia
e, più dettagliatamente, in Toscana sono stati analizzati innanzitutto
alcuni degli indicatori sintetici di mobilità più tradizionali per poi
299
approfondire nel capitolo successivo lo studio attraverso l’esame
delle carriere lavorative, distinguendo le categorie di lavoratori che
sembrano essere stati investiti maggiormente dalle riforme: gli outsiders e le categorie ‘fragili’ ovvero i giovani, le donne ed i migranti.
12.2
I dati
In Italia, gli studi empirici sull’occupazione sono stati spesso penalizzati dalla scarsità di dati accessibili e puntuali sulle carriere
dei lavoratori. Negli ultimi anni, tuttavia, il sistema informativo
è significativamente migliorato e si sono affermate due principali fonti statistiche sull’argomento: la Rilevazione Continua sulle
Forze di lavoro (RCFL) dell’ISTAT e l’archivio WHIP (Work
Histories Italian Panel) del Laboratorio Riccardo Revelli.
La RCFL costituisce il principale strumento di analisi e di
monitoraggio dell’occupazione49, ma si rivela poco adatto allo
studio della mobilità, in particolare per lo studio delle carriere
lavorative, in quanto le serie panel dei dati non sono liberamente
accessibili50.
Al fine di disporre di serie storiche sufficientemente lunghe
e dettagliate circa le transizioni dei lavoratori, il presente lavoro
usa la banca dati WHIP fornita dal Laboratorio Revelli in collaborazione con l’INPS. L’utilizzo di questo archivio rappresenta
uno degli aspetti più innovativi di questo studio e consente di effettuare un’analisi dettagliata della mobilità in Italia e, più in particolare, in Toscana. Oltre all’impostazione panel, tra i vantaggi
di WHIP si ricorda l’origine amministrativa delle informazioni,
la natura di Linked Employer-Employee Database, che consente
di risalire anche ai dati dell’impresa in cui è occupato ciascun lavoratore, e la disponibilità delle fondamentali informazioni individuali e contrattuali (retribuzione, tipo di contratto e qualifica).
Tra i vantaggi che rendono la RCFL lo strumento più utilizzato per le analisi del mercato del
lavoro si ricorda: la buona rappresentatività del campione fino al livello di disaggregazione regionale e
provinciale, l’aggiornamento puntuale e frequente dei dati e la disponibilità di informazioni dettagliate
sulle caratteristiche individuali e familiari degli individui. Tra i principali limiti, invece, va notato che
l’intervallo temporale minimo di riferimento è il trimestre, la durata massima di ogni ciclo panel
corrisponde a due anni (dopodiché cambiano gli individui intervistati) ed infine, essendo la RCFL
un’indagine condotta tramite interviste, le informazioni contenute riflettono lo status dichiarato dagli
individui sebbene l’informazione sullo stato occupazionale sia sottoposto ad un sistema di domande
incrociate che limita molto la probabilità di errore.
50
In particolare, il riferimento è al Metodo dell’abbinamento a tre occasioni utilizzato. Per i dettagli
si veda Baretta e Trivellato (2004).
49
300
Inoltre, a partire dal 1998 la banca dati consente di distinguere
la tipologia di contratto di lavoro subordinato (stagionale, tempo determinato, formazione lavoro, interinale, apprendistato)
e contiene i dati sulla mobilità dei lavoratori parasubordinati
(co.co.co., contratti a progetto e attività professionali). Il limite
principale di WHIP è rappresentato dalla lentezza dell’aggiornamento dei dati, che attualmente consentono di coprire il periodo
1985-2004, e dall’esclusione dei lavoratori del settore pubblico
e degli iscritti a casse previdenziali autonome. Nonostante ciò,
la mole di informazioni contenute in WHIP, tutte di tipo panel,
rende questo archivio uno strumento prezioso per l’analisi della
mobilità e degli effetti di medio periodo prodotti dalle recenti
riforme della normativa sul lavoro.
Box 12.1
l’archivio WHIP
WHIP (acronimo di Work Histories Italian Panel) è una banca dati di storie lavorative
individuali, costruita a partire dagli archivi gestionali dell’Inps e curata dal Laboratorio
Revelli. La popolazione di riferimento è costituita da tutte le persone -italiani e stranieriche hanno svolto parte o tutta la loro carriera lavorativa in Italia. Da questa popolazione
è stato estratto un ampio campione rappresentativo: nel file completo, di cui disponiamo,
il coefficiente di campionamento è di circa 1:90 per una popolazione dinamica di circa
370.000 persone (queste cifre sono dimezzate nella versione standard e scaricabile dal sito
del Laboratorio Revelli). Per ognuna di queste persone vengono osservati i principali episodi
che caratterizzano la loro carriera lavorativa, tra cui i rapporti di lavoro dipendente, i periodi
di lavoro parasubordinato, le attività di lavoro autonomo come artigiano, commerciante
e alcune attività da professionista, il pensionamento, nonché periodi nei quali l’individuo
ha beneficiato di prestazioni sociali, quali gli assegni di disoccupazione o la indennità di
mobilità. Gli episodi lavorativi da dipendente pubblico e quelli dei liberi professionisti dotati di
cassa previdenziale autonoma, invece, non sono registrati in WHIP.
La sezione WHIP che riguarda il lavoro dipendente è un Linked Employer-Employee
Database: grazie ad un abbinamento con l’Osservatorio delle Imprese dell’Inps, oltre ai dati
sul rapporto di lavoro, sono presenti anche i dati relativi all’impresa presso la quale la persona
è impiegata. Nel 2010 è stata resa disponibile una versione aggiornata dell’archivio WHIP
(versione 3.2), in cui è stata rivista la sezione anagrafica, sono state modificate le scelte di
pubblicazione degli individui e degli episodi di lavoro, sono stati aggiornati e armonizzati
gli archivi sui rapporti di lavoro e sono stati corretti alcuni errori di procedura. Al momento,
quindi, la banca dati WHIP copre il periodo 1985-2004 (non tutti gli archivi, tuttavia, hanno
la stessa copertura temporale). Un dettagliato resoconto dei contenuti di WHIP è disponile
al link: http://www.laboratoriorevelli.it/whip/whip_datahouse.php?lingua=ita&pagina=home.
301
12.3
Gli indicatori di mobilità
Per descrivere in maniera sintetica i tratti principali della mobilità del lavoro in Italia e, più in particolare, in Toscana, si è
scelto di procedere attraverso l’utilizzo dei tradizionali indicatori
di mobilità e specificatamente il tasso di associazione e di separazione, il tasso di rotazione (GWT, Gross Worker Turnover) e il
tasso di riallocazione (TWR, Total Worker Reallocation).
L’inizio o la fine di un rapporto di lavoro costituiscono gli
“eventi elementari” della mobilità e vengono misurati rispettivamente con il tasso di associazione e il tasso di separazione. Queste misure compongono a loro volta l’indice di rotazione (GWT),
che rappresenta l’indicatore sintetico più usato in letteratura
come misura aggregata di mobilità dei mercati. Solitamente l’arco temporale di riferimento è l’anno solare e il denominatore degli indici corrisponde ad una misura dei lavoratori presenti sul
mercato, ovvero lo stock degli occupati oppure il totale dei lavoratori che hanno avuto almeno un rapporto di lavoro nell’anno
(pur non essendo presenti all’inizio -o alla fine- del periodo).
Il tasso di associazione è calcolato secondo la seguente formula:
a = associazioni
occupazione
Il tasso di separazione coglie l’altra faccia della mobilità del lavoro:
separazioni
s=
occupazione
Il GWT rappresenta la misura aggregata delle transizioni ed è
composto dalla somma dei due indici presentanti, quindi:
associazioni + separazioni
gwt =
occupazione
A livello interpretativo va precisato che queste misure di mobilità fanno riferimento ai rapporti di lavoro e non agli individui,
che possono aver avuto più rapporti di lavoro nel periodo considerato e quindi contribuire agli indicatori con più movimenti.
è importante scomporre il tasso di rotazione nei due movimenti
che lo compongono, in modo da capire la direzione delle transizioni e valutare la direzione della mobilità. Inoltre, va tenuto presente che tutti e tre gli indicatori sono strettamente legati al ci302
clo economico: le associazioni hanno un andamento pro-ciclico,
mentre le separazioni hanno un andamento meno chiaro in linea
di principio perché dipendono da due dinamiche contrapposte,
ovvero le dimissioni volontarie (pro-cicliche e legate ai passaggi job-to-job) e i licenziamenti (anti-ciclici). In generale, il saldo
di questi movimenti determina una relativa stabilità del tasso di
separazione rispetto al ciclo economico. Quanto al GWT, sommando gli effetti dei precedenti indici, segue un andamento moderatamente pro-ciclico perché ‘trainato’ della relazione positiva
tra associazioni e crescita: in teoria i passaggi da un lavoro all’altro nelle fasi espansive dovrebbero determinare una correlazione
positiva tra mobilità aggregata e andamento dell’economia.
Per passare dallo studio dei rapporti di lavoro al numero di
individui coinvolti nelle transizioni è necessario introdurre un
ulteriore indicatore, il tasso di riallocazione (TWR). Il TWR
è definito come rapporto tra numero di persone coinvolte nelle transizioni (le c.d. “teste mobili”) e la somma dei lavoratori
presenti sul mercato nel periodo studiato. La formula per il calcolo del tasso di riallocazione è:
twr = individui “mobili”
occupazione
Questo indicatore segnala il numero di soggetti che sperimentano carriere instabili rispetto ai lavoratori presenti sul mercato nel periodo di riferimento. Ovviamente, al pari del tasso di
associazione e di separazione, anche questo indicatore può essere scomposto in funzione della direzione dei movimenti degli
individui, siano essi in entrata o in uscita dal mercato. Inoltre,
il TWR può essere confrontato con il GWT per avere un’indicazione del coinvolgimento delle forze di lavoro nella definizione
della mobilità complessiva. Tuttavia, per approfondire le caratteristiche ed i costi della mobilità dei lavoratori è necessario indagare sulle singole carriere occupazionali, un’operazione resa
possibile dalle caratteristiche dell’archivio WHIP.
Va infine precisato che nel presente studio il denominatore
degli indicatori è rappresentato dalla popolazione “a rischio” di
mobilità, ovvero dalla somma degli individui sul mercato all’inizio dell’anno e dei lavoratori che vi sono transitati per almeno
una volta nel periodo51.
51
Diversamente da altri studi, in questo caso non sono stati introdotti criteri di ponderazione per la
durata della presenza sul mercato. In sostanza, ogni individuo che ha lavorato nell’anno di riferimento
partecipa alla formazione del denominatore a prescindere dalla durata del proprio rapporto di lavoro.
303
12.4
I risultati
Come anticipato, lo studio di lungo periodo della mobilità dei
lavoratori si è svolto principalmente secondo due linee di analisi, che ricalcano i tradizionali indicatori sintetici: il tasso di
rotazione (GWT), che indica il volume delle transizioni operate
dai lavoratori, e il tasso di riallocazione (TWR), che consente di
monitorare la dinamica della numerosità dei lavoratori che sperimentano una carriera flessibile.
Il grafico 12.1 riporta la dinamica dell’occupazione e del
prodotto dell’ultimo decennio assieme ai principali indicatori di mobilità registrati in Italia (linea uniforme) e in Toscana
(linea tratteggiata). Il decennio studiato denota un contesto di
debole crescita economica e occupazionale, che tende a contrarsi
nei primi anni studiati per tornare a crescere a partire dal 1997.
Complessivamente, nel corso del decennio il PIL è cresciuto di
oltre 18 punti percentuali e il tasso di occupazione ha registrato
un aumento di 8 punti percentuali, accumulati tutti nell’ultimo
quinquennio. L’introduzione del pacchetto Treu, nel 1997, comporta un evidente salto nei livelli di mobilità, con un aumento
del tasso di rotazione di oltre 50 punti percentuali tra il 1997 e il
2000, che tuttavia si stabilizza negli anni successivi. Il legame positivo tra crescita e mobilità è dunque evidente e conferma l’andamento pro-ciclico dell’indicatore di turnover. Quanto all’indicatore di riallocazione (TWR), si osserva un andamento più
lineare, ma segnato dalla stessa dinamica del GWT. In Toscana,
diversamente da quanto osservato a livello nazionale, entrambi
gli indici di mobilità mostrano una ripresa della crescita dopo il
2001, a dimostrazione dell’elevata mobilità del lavoro che contraddistingue i sistemi distrettuali della piccola impresa.
In sostanza, dall’analisi temporale degli indicatori emerge
chiaramente l’esistenza di due distinte fasi: la prima denota una
situazione di mobilità stabile e assenza di crescita occupazionale
e la seconda traccia un quadro di debole ripresa dell’occupazione
ed elevata mobilità. Il 1998-1999 rappresenta il momento di svolta tra i due periodi, premiando gli sforzi compiuti dai Governi
nell’apertura di nuovi spazi di flessibilità all’interno del mercato.
L’immediata stabilizzazione della mobilità a livello nazionale,
tuttavia, induce a riflettere più attentamente sull’ipotesi di ‘saturazione’ della domanda di flessibilità da parte delle imprese in
304
un contesto di stagnazione come quello che ha caratterizzato il
nostro paese a partire dalla fine degli anni ‘90.
Grafico 12.1 PIL (a prezzi costanti 2000), Tasso di occupazione, tasso di rotazione, tasso di
riallocazione. Italia e Toscana. 1993-2003. Numeri indice a base fissa (anno base 1996=100)
180
160
140
120
100
80
1993
1994
1995
PIL
PIL Toscana
1996
1997
1998
Occupaz.
Occupaz Toscana
1999
2000
GWT
GWT Toscana
2001
2002
2003
TWR
TWR Toscana
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP e ISTAT, Conti economici e Forze di lavoro
L’analisi dei livelli di mobilità in Italia e in Toscana sconfessa
la convinzione che prima delle riforme il mercato italiano
fosse eccessivamente rigido, sia sul versante dei movimenti che
su quello degli individui coinvolti nelle transizioni52. L’indice
di rotazione, infatti, nel 1997 risultava superiore al 60%, un
valore che colloca l’Italia su livelli di elevata mobilità anche
a livello europeo. Successivamente, con l’introduzione delle
forme contrattuali flessibili del pacchetto Treu, la mobilità del
lavoro ha sperimentato un’impennata evidente, che ha portato
il tasso di rotazione poco al di sotto del 90% (nel 2003 il GWT
era pari all’88%). Inoltre, il fatto che il tasso di riallocazione
corrisponda al 43% indica l’esistenza di una fascia piuttosto
ampia di popolazione molto mobile. Quanto alla Toscana, va
osservato che negli anni successivi alla riforma ha registrato dei
livelli di mobilità superiori alla media nazionale, come dimostra
lo scostamento del tasso di riallocazione e, soprattutto, quello di
rotazione (Graf. 12.2).
Si osservi che i risultati ottenuti in questo lavoro differiscono leggermente da quelli riportati in
precedenti studi sulla mobilità che usano l’archivio WHIP. Tali differenze sono legate principalmente alle differenze nella scelta delle procedure di impostazione del database e dal fatto che in
questo caso è stata utilizzata una versione aggiornata della banca dati, che riporta alcuni miglioramenti rispetto all’edizione precedente (nel nostro caso si tratta della versione 3.2 dell’archivio).
Più in particolare, le stime della mobilità riportate risultano mediamente superiori di circa cinque
punti percentuali a quelle degli altri studi, sebbene la dinamica rimanga sostanzialmente coerente.
52
305
Grafico 12.2 Tasso di rotazione e tasso di riallocazione. Italia e Toscana. 1993-2003. Valori %
100%
80%
Italia GWT
Toscana GWT
Italia TWR
Toscana TWR
60%
40%
20%
0%
1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
La mobilità dei lavoratori è influenzata anche dalla struttura economica locale, che rende alcuni mercati più flessibili
di altri. L’Italia, infatti, presenta notoriamente una marcata
tipizzazione territoriale dei sistemi produttivi, con la grande
industria localizzata prevalentemente nelle regioni nord occidentali, i sistemi distrettuali della piccola impresa tipici delle
regioni orientali e centrali, mentre le regioni meridionali ed
insulari si contraddistinguono per una quota rilevante di dipendenti pubblici a cui si associa una scarsa presenza della
grande impresa e tassi di occupazione inferiori al resto del paese. Le relazioni tra mobilità e struttura produttiva sono note
in letteratura e dimostrano l’esistenza di un nesso negativo
tra la dimensione d’impresa e gli indicatori di mobilità dovuto alla maggiore natalità e mortalità delle aziende di piccole
dimensioni.
Il grafico 12.3 riporta la composizione dei lavoratori inclusi nella banca dati WHIP in base alle dimensioni d’impresa e
all’area geografica in cui essa opera. Il grafico 12.4 mostra le
serie storiche del tasso di rotazione, confermando quanto detto finora circa le caratteristiche territoriali delle imprese e la
mobilità dei lavoratori. La grande industria risulta il gruppo
dimensionale che ha beneficiato maggiormente della flessibilità introdotta dal pacchetto Treu, mentre si osserva che al
ridursi della dimensione d’impresa gli effetti della riforma si
stemperano e si accentuano le oscillazioni legate al ciclo economico.
306
Grafico 12.3 Tasso di rotazione e distribuzione dei lavoratori dipendenti per dimensione
d’impresa (numero di addetti). Aree Italia e Toscana. 2001. Valori %
100%
>=1.000
80%
200-999
60%
20-199
40%
10-19
20%
0-9
0%
Nord ovest
Nord est
Centro
Sud e isole
TOSCANA
GWT
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Grafico 12.4 Tasso di rotazione dei lavoratori dipendenti per dimensione d’impresa (numero
di addetti). Italia. 1986-2001. Valori %
100%
0-9
80%
10-19
60%
20-199
40%
200-999
20%
>=1000
0%
1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Guardando all’indicatore dell’intensità dei movimenti dei lavoratori (Tab. 12.5), viene innanzitutto confermato il record di
mobilità delle regioni meridionali fino al 199853, quando, con
l’introduzione delle nuove forme di flessibilità, l’indicatore si
massimizza nelle regioni nord orientali e il sud si posiziona su
valori più vicini a quelli del nord ovest, area caratterizzata da
una minore mobilità. Le regioni dell’Italia centrale si collocano
in una posizione intermedia, registrando un tasso di rotazione
Le regioni meridionali, infatti, si contraddistinguono da sempre per una elevata mobilità del
lavoro spiegata dalla prevalenza della piccola impresa, ma anche dalla maggior diffusione di
lavori precari e dell’economia sommersa. In effetti, dalle analisi delle carriere lavorative è emerso
che al sud prevale un modello di ‘cattiva’ mobilità con poche transizioni job-to-job e molte
transizioni da e verso l’occupazione intervallate da lunghi tempi di in occupazione (Contini,
Trivellato, 2005 pp. 171 ss.).
53
307
costantemente superiore alle regioni nord occidentali ma inferiore al nord est. In questo quadro la Toscana rappresenta piuttosto
fedelmente la dinamica del GWT dell’Italia centrale, con un indice medio di turnover pari al 66% nel periodo considerato e del
93% nell’ultimo anno disponibile.
Tabella 12.5 Tasso di rotazione. Macroaree e Toscana. 1986-2003. Valori %
1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
Nord ovest 43,9 46,4 49,4 50,8 52,1
Nord est 60,1 63,5 65,9 66,6 65,6
Centro
55,4 55,9 57,3 55,2 57,3
Sud e isole 74,6 77,4 75,9 73,8 74,2
Toscana 56,1 57,7 57,4 56,0 58,2
Italia
56,5 58,9 60,5 60,3 61,1
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
48,1
62,6
55,0
73,3
56,8
58,3
46,2
62,1
55,9
71,6
56,6
57,4
40,2
56,4
50,9
67,6
52,9
52,1
44,0
61,5
51,8
67,9
54,7
54,9
47,4
67,2
55,2
69,4
58,4
58,5
49,1
65,2
57,0
72,4
59,9
59,5
50,1
64,7
59,6
74,7
60,5
60,7
52,9
66,0
60,0
69,7
60,9
61,0
81,4
90,2
88,4
84,9
89,0
85,7
83,5
94,8
89,2
83,5
88,8
87,5
82,3
93,0
86,4
83,1
87,5
86,0
81,9
94,0
87,8
83,9
91,0
86,5
83,5
93,5
91,4
85,6
92,6
88,0
Passando all’indicatore del numero di lavoratori coinvolti in
carriere ‘mobili’ (Tab. 12.6), si osserva innanzitutto una maggiore stabilità del pattern di mobilità, che cresce durante tutto il periodo e indica che la riforma del mercato del lavoro ha inciso più
sulla frequenza dei movimenti che sulla numerosità dei lavoratori
sottoposti alle transizioni. In ogni caso, a livello nazionale tra il
1997 e il 2003 si rileva un incremento di 11 punti percentuali del
tasso di riallocazione, che passa dal 34% al 43%.
Dal punto di vista territoriale, si rileva che nelle regioni
meridionali il tasso di riallocazione corre costantemente al di
sopra della media delle altre aree e che, sebbene negli ultimi
anni il differenziale di mobilità si sia ridotto, in queste regioni la percentuale di lavoratori che sperimentano almeno un
movimento nell’anno resta nettamente superiore alla media.
Le regioni centrali registrano una quota di lavoratori mobili in forte crescita, che alla fine del periodo portano l’indice
di riallocazione di questa area poco al di sotto di quello del
meridione e delle isole. Anche al nord est si rileva una crescita considerevole del TWR, che all’inizio del periodo risulta
secondo solo alle regioni del sud mentre a partire dal 1999
viene superato dalle regioni del centro Italia. Nell’area nord
occidentale del paese il numero di lavoratori coinvolti nelle
transizioni cresce ad un ritmo sostenuto, pur confermandosi
l’area con la minore incidenza di carriere mobili sul totale. In
Toscana l’indicatore di riallocazione risulta tra i più elevati
del paese e rileva una crescita di 11 punti percentuali nel pe308
riodo analizzato, di cui 9 maturati nell’ultimo quinquennio,
posizionando la regione al di sopra della mobilità media nazionale e delle restanti regioni dell’Italia centrale.
Tabella 12.6 Tasso di riallocazione. Macroaree e Toscana. 1986-2003. Valori %
1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
Nord ovest 27,5 28,5 29,6 30,1 30,6
Nord est
34,8 36,0 36,5 36,6 36,2
Centro
33,4 33,7 34,8 33,6 34,3
Sud e isole 44,6 45,4 44,7 44,0 44,0
Toscana 33,7 34,3 34,4 33,3 34,4
Italia
34,0 34,9 35,5 35,3 35,5
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
29,0
34,7
33,1
43,4
33,4
34,3
28,6
34,7
34,0
43,3
34,0
34,3
25,9
32,8
32,0
42,5
32,4
32,3
27,9
34,9
32,5
42,6
33,7
33,6
28,5
36,3
33,0
42,6
33,5
34,3
30,1
36,1
34,3
44,1
35,4
35,3
30,3
35,9
35,3
44,8
35,5
35,6
32,2
36,8
35,9
43,5
36,2
36,4
37,8
41,7
43,0
47,6
43,3
41,8
38,7
42,9
43,6
47,2
42,1
42,5
38,7
42,7
43,2
47,4
43,0
42,4
39,4
43,2
44,4
46,8
44,5
42,9
39,1
42,9
44,2
46,6
44,8
42,7
Scendendo al dettaglio della Toscana, è importante analizzare gli indicatori di mobilità a popolazione effettiva
e a popolazione costante, in modo da verificare quale parte dell’aumento di mobilità sia da imputare ad un effetto di
composizione demografica. In particolare si è ipotizzato che
la composizione della popolazione per classe di età non sia
mutata rispetto a quella rilevata nel 1986, primo anno per cui
si dispone dei dati sulle carriere lavorative. Dal grafico 12.7
emerge che negli anni antecedenti alla riforma del mercato del
lavoro entrambi gli indicatori a popolazione costante risultavano inferiori al valore effettivo, mentre successivamente tale
relazione si inverte ed i tassi calcolati a popolazione costante
divengono leggermente superiori a quelli effettivi. Questo effetto è da ricondurre in parte alla demografia delle forze di
lavoro, che mostra importanti segnali d’invecchiamento, e alle
caratteristiche della riforma stessa, che agendo sulle condizioni di accesso al mercato ha inciso principalmente sui giovani
al primo ingresso nel mondo del lavoro. Mentre la generazione dei baby-boomers, molto pesante sul totale della popolazione, ha stabilizzato la propria presenza sul mercato, le
generazioni dei più giovani sperimentano carriere mobili ma
incidono sempre meno sulle forze di lavoro54. Il risultato è che,
se i giovani toscani avessero mantenuto le stesse proporzioni
registrate nel 1986, oggi il tasso di rotazione sarebbe superiore
di circa due punti percentuali.
In Toscana nel 1986 la quota di popolazione di età compresa tra i 15 ed i 29 anni rappresentava il
30,2% della popolazione attiva mentre nel 2003 tale percentuale era scesa al 22,9%.
54
309
Grafico 12.7 Tasso di rotazione e tasso di riallocazione a popolazione effettiva e a
popolazione costante (anno base 1986). Toscana. 1986-2003. Valori %
100%
GWT effettivo
80%
GWT costante
60%
TWR effettivo
40%
TWR costante
20%
0%
1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
Fonte: elaborazioni IRPET su dati ISTAT e WHIP
Dal rapporto tra TWR e GWT emerge che la crescita dei
movimenti indotta dalle norme sulla flessibilità è superiore
all’aumento delle persone coinvolte nelle transizioni, che nei
dati finora presentati coinvolgono sia i lavoratori tipici che gli
atipici55, tra cui, dal 1998, i parasubordinati (co.co.co, contratti
a progetto e prestazioni professionali). L’archivio WHIP, tuttavia, consente di distinguere le tipologie di contratto e quindi di
verificare la mobilità di ciascuna categoria di lavoratori.
Guardando alla composizione per tipologie contrattuali delle forze di lavoro toscane (Graf. 12.8), si rileva una graduale riduzione dei lavoratori a tempo indeterminato, che passano dal
74% nel 1998 al 63% nell’ultimo anno studiato. La perdita di
posizioni stabili risulta compensata dalla crescita delle altre tipologie contrattuali, tutte a termine, ed in particolare dall’ampliamento dell’area dei contratti a tempo determinato, che
aumentano la propria incidenza di 8 punti percentuali. Cresce
anche il ruolo dei nuovi contratti introdotti dalla riforma Treu,
come dimostra l’incremento delle prestazioni professionali e
stagionali (+4 punti percentuali) e dei lavoratori con contratto interinale (+2 punti percentuali). L’area delle collaborazioni
in senso stretto (co.co.co. e contratti a progetto), invece, rileva
un’incidenza altalenante nel tempo, che all’inizio del periodo
Sono stati considerati “tipici” i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, anche parttime, con contratto di formazione lavoro e gli apprendisti. Questa categoria di occupati, quindi,
include anche una parte dei giovani con contratti a termine, mentre tra i contratti “atipici” sono
conteggiati tutti gli altri rapporti di lavoro temporaneo, ovvero i contratti a tempo determinato,
gli interinali, gli stagionali, le collaborazioni in senso stretto (collaborazioni coordinate e
continuative o a progetto) e le attività professionali afferenti alle gestioni separate dell’INPS
(amministratori, partecipanti a collegi e commissioni, ecc.).
55
310
corrisponde all’8% dei lavoratori totali, scende sotto il 5% negli
anni seguenti e torna sui livelli di partenza nell’ultimo biennio.
I contratti di apprendistato e di formazione lavoro, preesistenti
alla riforma, riducono sensibilmente la propria incidenza, passando dal 9% dei rapporti in vigore nel 1998 all’8% di quelli
presenti nel 2004. Questi dati sembrano dunque attestare il successo delle nuove forme contrattuali, che hanno ridotto significativamente l’area del lavoro a tempo indeterminato spostando
l’attenzione sul tempo determinato e sulle nuove figure professionali.
Grafico 12.8 Composizione dei lavoratori per tipologia contrattuale. Toscana. 1998-2003
100%
Altro (stagionale e
altri collaboratori)
80%
Interinale
60%
Collaborazione in
senso stretto
40%
Tempo determinato
20%
Apprendistato e
formazione lavoro
0%
Indeterminato
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
I dati sulla mobilità per classe di età (Tabb. 12.9 e 12.10) registrano un’elevata mobilità tra i giovani, che riportano, per il
2003, un tasso di riallocazione del 60% e un tasso di rotazione
del 120%. L’analisi delle serie storiche conferma l’aumento della mobilità delle generazioni in ingresso sul mercato del lavoro
in seguito alla riforma del 1997, anche se ciò non comporta un
incremento del differenziale di mobilità tra generazioni. Più in
particolare, la stabilità delle relazioni di mobilità tra classi di età
esclude un effetto specifico del pacchetto Treu sulla categoria dei
giovani poiché, sia sul versante dei movimenti che su quello degli individui esposti alle transizioni, i differenziali di mobilità tra
generazioni registrano un andamento decrescente durante l’intero periodo studiato, senza variazioni degne di nota negli anni
post-riforma. Guardando allo scarto degli indici di mobilità dei
giovani rispetto alla media, si osserva che nel 2003 lo scarto tra
311
generazioni si mantiene vicino ai valori del 1986 e si riduce sensibilmente rispetto a quelli del 1997, anno di approvazione della
riforma.
Tabella 12.9 Tasso di riallocazione per classi di età. Toscana. 1986-2003. Valori %
1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
15-29
48,9 50,4 50,9 47,8 48,2 47,4
30-49
22,5 22,5 21,9 23,2 23,7 22,9
50+
29,4 28,4 27,0 25,1 28,7 26,8
Totale 34,0 34,5 34,6 33,6 34,6 33,5
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
47,3
24,0
30,0
34,2
44,8
23,6
30,4
32,6
46,3
23,9
36,3
33,8
48,3
24,3
28,9
33,7
49,1
26,2
37,6
35,7
51,6
26,9
30,6
35,8
54,1
32,9
41,2
40,9
59,0
34,9
42,4
43,7
57,9
34,2
39,5
42,5
59,0
35,2
40,8
43,3
59,7
37,4
42,8
44,8
60,3
37,3
44,1
45,0
Tabella 12.10Tasso di rotazione per classi di età. Toscana. 1986-2003. Valori %
1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
15-29
83,4 87,0 86,0 82,9 83,2 83,9
30-49
38,3 39,2 38,2 39,5 41,2 38,9
50+
41,2 38,8 38,4 34,8 40,7 37,4
Totale 56,5 58,3 57,9 56,6 58,5 57,2
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
82,5
39,7
40,5
57,0
74,9
39,8
40,3
53,3
79,8
38,6
47,3
54,9
87,7
42,3
40,9
58,8
86,8
45,0
49,3
60,4
89,0
47,2
42,8
61,0
98,0
65,0
81,8
77,9
113,5
75,0
92,9
89,8
115,8
75,6
83,8
89,5
118,3
73,8
77,7
88,0
116,1
79,1
89,5
91,6
119,5
79,8
90,4
93,0
Passando all’analisi della mobilità per tipologia contrattuale
(Tab. 12.11), i dati evidenziano chiaramente l’ampiezza dei differenziali tra di mobilità tra i ‘vecchi’ ed i nuovi contratti, dando una
misura della flessibilità introdotta con le recenti riforme. Sul versante della numerosità dei movimenti, i lavoratori atipici riportano un
turnover superiore al 220%, che significa che in ciascuno degli anni
studiati questi lavoratori hanno sperimentato mediamente più di
due movimenti e quindi due contratti di lavoro per anno. Inoltre, le
transizioni degli atipici risultano oltre tre volte superiori a quelle dei
lavoratori tipici, il cui turnover è elevato ma resta inferiore al 50%.
Tabella 12.11Tasso di rotazione e tasso di riallocazione per tipologia di lavoratori. Toscana.
1998-2003. Valori %
1998
GWT tipici
49,9
GWT atipici
231,3
TWR tipici
31,4
TWR atipici
92,5
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
1999
2000
2001
2002
2003
52,1
258,9
31,7
96,8
50,9
253,8
30,2
94,2
51,2
234,0
30,6
93,1
48,1
236,5
29,7
94,8
48,8
221,5
29,0
91,2
Passando all’indicatore di riallocazione, si osserva anche in
questo caso una differenza sostanziale tra il numero di lavoratori
‘mobili’ con contratto di lavoro atipico, che rappresentano oltre
312
il 90% della categoria, e i lavoratori tipici, il cui turnover è circa
un terzo di quello rilevato per gli atipici. In sostanza, nove occupati atipici su dieci sperimentano un’associazione o una separazione nel corso dell’anno mentre l’eventualità di tale movimento
coinvolge meno di un terzo degli occupati standard.
Il grafico 12.12 consente di evidenziare più chiaramente la dinamica del tasso di rotazione e di quello di riallocazione rispetto alle
due categorie di lavoratori. Come si osserva, tra il 1998 e il 1999 gli
indici di mobilità dei lavoratori atipici crescono in misura nettamente superiore a quelli dei lavoratori con contratti di tipo standard,
soprattutto sul versante del turnover. Nel biennio successivo, tuttavia, gli indicatori di mobilità degli atipici subiscono una forte contrazione, che riporta entrambi gli indici sui valori registrati nel 1998.
In questo biennio anche la mobilità dei dipendenti con contratto
di lavoro ‘tipico’ si contrae facendo registrare nel 2002 dei risultati
inferiori a quelli dell’inizio del periodo, con particolare riferimento
alla quota di lavoratori ‘mobili’ che scende di 5 punti percentuali.
Nel 2003, dopo un biennio di relativa stabilità, anche la mobilità
dei lavoratori atipici crolla raggiungendo i livelli minimi del periodo.
Sul versante dei lavoratori tipici, invece, si rileva un andamento contrastante dei due indicatori: l’indice di turnover mostra una leggera
ripresa mentre la percentuale di lavoratori ‘mobili’ conferma una
andamento decrescente. Questa circostanza segnala che, tra i lavoratori tipici si sta riducendo il numero di soggetti coinvolti in almeno
una transizione nell’anno, ma per coloro che non sono inseriti in
una posizione stabile aumenta la frequenza dei passaggi.
Grafico 12.12Tasso di rotazione e tasso di riallocazione per tipologia di lavoratori. Toscana.
1998-2003. Numeri indice a base fissa (anno base 1998=100)
115
GWT tipici
110
GWT atipici
105
TWR tipici
100
TWR atipici
95
90
1998
1999
2000
2001
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
313
2002
2003
Dopo aver osservato le differenze di mobilità tra i lavoratori
giovani e meno giovani, tipici e atipici, vale la pena di analizzare anche la direzione della mobilità, distinguendo i movimenti
verso il lavoro da quelli che portano all’inoccupazione, o meglio, all’estinzione dei contratti in essere (associazioni e separazioni). In sostanza, si tratta di scomporre il tasso di rotazione
tra movimenti da e verso il lavoro e verificare quale delle due
componenti ha pesato di più nella definizione della mobilità56.
In questo caso, inoltre, è fondamentale distinguere l’età dei lavoratori, in modo da individuare le probabili uscite verso la
pensione dei lavoratori più maturi da quelle dei più giovani verso l’inoccupazione.
A livello nazionale, dall’archivio WHIP rileva che nel 2003 il
tasso di associazione corrisponde al 45% e il tasso di separazione è pari al 43%, quindi il totale dei movimenti verso il lavoro è
risultato leggermente superiore a quello delle separazioni. Per
effetto della maggiore mobilità, in Toscana nel 2003 si registrano dei tassi superiori a quelli rilevati dalla media nazionale, ma
il differenziale tra assunzioni e separazioni risulta pari a 2 punti
percentuali a favore delle assunzioni, in linea con la media italiana. La maggiore mobilità della Toscana rispetto alla media,
quindi, è da imputare a una maggiore intensità di transizioni in
entrambe le direzioni. Le tabelle 12.13 e 12.14 descrivono più
dettagliatamente la situazione della Toscana, evidenziando il
ruolo propulsivo dei più giovani nel trainare la mobilità complessiva.
Come atteso, sul versante delle associazioni la mobilità dei
giovani risulta abbondantemente superiore di quella delle altre
classi di età anche se, con l’introduzione dei contratti flessibili,
il differenziale del tasso di associazione per età si riduce significativamente. Tra il 1997 e il 1998, infatti, il tasso di associazione dei più giovani sale di 4 punti percentuali, mentre quello
dei lavoratori nella fascia centrale cresce di 10 punti e quello
dell’ultima fascia aumenta di oltre 20 punti percentuali. L’introduzione dei contratti flessibili, quindi, ha comportato un aumento del tasso di associazione soprattutto nelle classi di età
meno giovani ed in particolare tra gli ultra 50enni, che alla fine
della propria carriera possono beneficiare della nuova gamma
di contratti flessibili.
Questa scomposizione potrebbe anche essere fatta sull’indicatore di riallocazione, permettendo
così di individuare la quota di assunti e di separati nell’anno di riferimento.
56
314
Tabella 12.13Tasso di associazione per classe di età. Toscana. 1986-2003. Valori %
1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
15-29
45,2 46,6 47,4 45,4 44,9 44,2
30-49
18,2 18,3 18,9 19,7 20,4 19,2
50+
14,3 13,7 14,1 11,6 15,1 11,7
Totale 28,3 29,0 30,0 29,0 29,7 28,4
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
43,1
19,1
12,6
27,8
38,1
18,5
12,6
25,2
43,0
19,7
14,3
27,5
48,2
21,5
15,8
30,6
46,0
22,6
15,2
30,0
48,7
23,2
16,2
31,1
52,6
33,4
37,1
40,1
62,3
39,0
43,3
47,1
63,7
39,8
39,1
47,3
64,1
38,3
36,1
46,0
63,9
42,5
43,1
49,0
63,9
40,3
42,8
47,6
Come anticipato, l’andamento del tasso di separazione per
classe di età consente di distinguere le possibili uscite dei lavoratori verso la pensione dai movimenti interni al mercato del lavoro. Si osservi, inoltre, che la dinamica del tasso di separazione
degli ultra 50enni è influenzata dalle ondate di pensionamenti legate alle riforme pensionistiche, oltre che alla progressiva uscita
delle coorti di lavoratori figli del baby-boom degli anni ‘50. Quanto agli effetti della riforma del mercato del lavoro, si osserva che a
partire dal 1997 e fino al 1999 i tassi di separazione dei lavoratori
segnano un aumento considerevole in tutte le fasce di età e che
l’incremento più consistente riguarda, oltre agli over 50, la fascia
di età centrale (+23 punti percentuali rispetto al dato del 1997).
Anche per i giovani si registra un aumento di oltre 10 punti percentuali del tasso di separazione, che continua a crescere anche
negli ultimi anni studiati, fino a raggiungere il 56% nel 2003.
Tabella 12.14Tasso di separazione per classe di età. Toscana. 1986-2003. Valori %
1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
15-29
38,2 40,4 38,6 37,5 38,3 39,7
30-49
20,0 20,9 19,3 19,9 20,8 19,6
50+
26,9 25,2 24,2 23,1 25,6 25,8
Totale 28,2 29,3 28,0 27,6 28,7 28,8
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
39,5
20,6
27,9
29,2
36,8
21,3
27,8
28,1
36,8
18,9
33,0
27,4
39,5
20,8
25,1
28,2
40,8
22,4
34,1
30,4
40,3
24,0
26,7
29,9
45,4
31,7
44,7
37,8
51,2
36,0
49,6
42,7
52,2
35,8
44,7
42,2
54,1
35,5
41,6
42,1
52,2
36,6
46,5
42,6
55,6
39,5
47,7
45,4
Nella disaggregazione degli indicatori di mobilità vale la pena
di analizzare anche la dimensione di genere per verificare la distribuzione degli effetti prodotti dalla maggiore mobilità degli
ultimi anni. Come si osserva nel grafico 12.15, le donne rilevano
tassi di mobilità superiori a quelli dei colleghi maschi durante
tutto l’arco temporale di riferimento, sia sul fronte della frequenza delle transizioni contrattuali che rispetto alla probabilità di
appartenere alla categoria dei lavoratori mobili. Successivamente alla riforma, tuttavia, i differenziali di mobilità per genere si
attenuano, soprattutto rispetto all’indice di riallocazione, che nel
315
2003 registra un valore superiore a quello degli uomini di soli
due punti percentuali. Va osservato, inoltre, che la riduzione dei
divari di genere della mobilità mostrano una tendenza al riallineamento già a partire dagli anni ‘90 in contemporanea al progressivo incremento della partecipazione delle donne al mercato del
lavoro, una circostanza che porta ad escludere un ruolo decisivo
della nuova disciplina contrattuale nel contenimento degli storici
squilibri di genere in ambito occupazionale.
Grafico 12.15 Tasso di rotazione e tasso di riallocazione per genere. Toscana. 1986-2003. Valori %
100%
GWT femmine
80%
GWT maschi
60%
TWR femmine
40%
TWR maschi
20%
0%
1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Un ultimo aspetto che merita di essere analizzato è quello
relativo alla cittadinanza dei lavoratori. Nell’ultimo ventennio,
infatti, nonostante la repentina evoluzione del fenomeno dell’immigrazione, gli indicatori di mobilità dei lavoratori stranieri in
Toscana mostrano dei risultati costantemente superiori a quelli degli italiani ed elevati in termini assoluti (Graf. 12.16). Più
in particolare, il tasso di rotazione dei cittadini stranieri mostra
valori superiori al 100% durante l’intero periodo studiato e nel
2003 il GWT raggiunge quota 121%, mentre nello stesso anno
l’indicatore corrisponde all’88% per il gruppo dei lavoratori italiani. Anche il tasso di riallocazione conferma la forte mobilità
dei lavoratori immigrati, che nel 2003 hanno sperimentano almeno un movimento nell’anno nel 63% dei casi (per gli italiani il
TWR del 2003 corrisponde al 42%). Quanto all’andamento dei
due indicatori nel tempo, si rileva una maggiore instabilità delle
curve associate agli stranieri, caratterizzate da continue oscillazioni, che tuttavia mostrano una scarsa sensibilità alla riforma
del lavoro del 1997. Più evidenti, invece, appaiono le variazioni di
316
mobilità in corrispondenza delle regolarizzazioni dei lavoratori
immigrati varate dai Governi nell’ultimo decennio. Tra il 1986 e
il 2003, infatti, in Italia si sono succedute cinque sanatorie, che
hanno sancito l’accesso alla regolarità per quasi un milione e
mezzo di cittadini stranieri57.
Grafico 12.16 Tasso di rotazione e tasso di riallocazione per cittadinanza. Toscana. 1986-2003.
Valori %
150%
GWT
italiani
125%
100%
GWT
stranieri
75%
TWR
italiani
50%
TWR
stranieri
25%
0%
1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
La scarsa reattività della mobilità dei lavoratori stranieri alla
riforma del mercato, comunque, può essere spiegata dall’elevata
flessibilità sperimentata da questo gruppo di lavoratori durante
l’intero periodo studiato, che restituisce l’immagine di una componente strutturalmente molto mobile. Guardando alla dinamica di crescita dei lavoratori atipici, infatti, tra gli immigrati si
registra una crescita più che proporzionale di questa categoria di
occupati rispetto al gruppo dei lavoratori con contratti standard
(Tab. 12.17). Nonostante la crescita esponenziale dei lavoratori
atipici stranieri, tuttavia, negli ultimi anni si osserva un rallentamento della loro incidenza sul totale, mentre tra gli italiani la
crescita degli stessi è costante. Come mostrato nel grafico 12.18,
infatti, tra il 2002 ed il 2003 la percentuale di atipici tra i lavo Più in particolare, la prima regolarizzazione del periodo è avvenuta nel 1986, quando si sono
aperte le porte della legalità a circa 105.000 lavoratori stranieri. Nel 1990, in concomitanza con
la prima legge che ha affrontato in maniera diretta la materia dell’immigrazione (L. 39/1990
detta Legge Martelli), sono stati regolarizzati oltre 215mila lavoratori e, successivamente, con
il Decreto Dini del 1995 sono state sanate più di 250mila posizioni di lavoro. Le ultime due
sanatorie corrispondono rispettivamente all’entrata in vigore della L. 40/1998 detta Legge
Turco Napolitano, con la quale è stata prevista la regolarizzazione di altri 250mila immigrati,
e della L. 189/2002 conosciuta come Legge Bossi Fini, che ha sanato la posizione legale di quasi
635mila lavoratori immigrati. A questi provvedimenti si aggiunge la sanatoria delle collaboratrici
domestiche varata nel 2009 e per la quale sono giunte circa 295.000 domande.
57
317
ratori stranieri è scesa al di sotto della soglia degli italiani, per
tornare sullo stesso livello nel 2004, quando in Toscana un lavoratore su quattro era occupato con un contratto non standard a
prescindere dalla propria nazionalità.
Tabella 12.17Lavoratori stranieri per tipologia di contratto. Toscana. 1998-2003. Numeri indice a
base fissa (anno base 1998=100)
1998
Lavoratori atipici
100
Lavoratori tipici
100
Totale
100
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
1999
2000
2001
2002
2003
2004
127
120
121
174
138
145
215
165
175
261
217
226
326
244
260
352
246
266
Grafico 12.18Incidenza dei lavoratori atipici per cittadinanza. Toscana. 1998-2003. Valori %
30%
24%
18%
12%
6%
0%
1998
Italiani
1999
2000
2001
2002
2003
Stranieri
2004
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Dai dati disponibili nell’archivio WHIP emerge, quindi, che
la componente straniera dei lavoratori toscani costituisce un
elemento di forte mobilità, anche se, contemporaneamente al
processo di stabilizzazione dell’immigrazione, alcune differenze
iniziano a stemperarsi. Gli elevati tassi di mobilità confermano,
comunque, una diffusa instabilità delle carriere dei migranti che,
se non accompagnate da una maggiore frequenza di transizioni
job-to-job, potrebbero determinare serie difficoltà nel mantenimento dello status di regolarità in Italia.
Al fine di analizzare più dettagliatamente l’influenza delle riforme sul mercato del lavoro toscano e le tendenze occupazionali
degli ultimi anni, nel prossimo capitolo saranno analizzate le carriere lavorative degli occupati in Toscana, dedicando un’attenzione particolare alle categorie che sperimentano maggiori difficoltà
a collocarsi sul mercato, ovvero i giovani, le donne e gli immigrati.
318
13.
La dinamica delle carriere tra persistenza e
discontinuità
13.1
Premessa
Come evidenziato nei capitoli precedenti donne, giovani (soprattutto atipici) e immigrati rappresentano i soggetti protagonisti
della crescita occupazionale dell’ultimo quindicennio. L’obiettivo di questo capitolo è quello di studiare le carriere di questi soggetti esordienti nel mercato del lavoro attraverso i dati del Work
Histories Italian Panel (WHIP)58. L’ipotesi è che l’accresciuta
mobilità riscontrata nel mercato del lavoro a partire dalla fine
degli anni ‘90 si sia concentrata prevalentemente su queste tre
categorie di lavoratori, le cui carriere occupazionali mostreremo
essere caratterizzate da una maggiore discontinuità contrattuale
(misurata attraverso la durata dei contratti) e occupazionale (misurata attraverso la frequenza dei passaggi all’inoccupazione, la
durata e il numero degli episodi di inoccupazione).
Poiché la documentazione dettagliata di tutte le storie lavorative è circoscritta al settore privato extragricolo (non sono incluse le esperienze di lavoro come dipendente pubblico, né come libero professionista) e alla disoccupazione indennizzata, è opportuno precisare che la condizione di non occupazione potrebbe
essere imputabile a condizioni estremamente differenziate, ossia
di definitiva uscita dal mercato del lavoro in qualità di inattivo,
oppure a situazioni di disoccupazione non indennizzata oppure
a episodi di occupazione non osservabile tramite WHIP (il passaggio alla Pubblica Amministrazione, al settore agricolo, alla
libera professione ad esempio).
Per ovviare ai possibili effetti distorsivi collegati a tali specificità dell’archivio, sono state eliminate dall’analisi le storie lavorative
nelle quali i periodi di non lavoro erano pari a 30 mesi sui complessivi 72 mesi di osservazione (ossia due anni e mezzo su sei).
58
In questo capitolo si riportano i risultati delle elaborazioni statistiche realizzate sui dati contenuti
nella versione 3.2 di WHIP presentata il 4 maggio scorso. Per le novità dell’attuale versione rispetto al
precedente rilascio (Whip v. 2.3) si rimanda a Leombruni, Quaranta e Villosio (2010).
319
13.2
Tipici e atipici a confronto
L’analisi è condotta su due gruppi definiti di lavoratori in Toscana: i giovani (15-35 anni) entranti nel mercato del lavoro nel
199959, ossia che non sono stati mai osservati negli anni precedenti disponibili nell’archivio (dal 1985 al 1998), e gli adulti (3650 anni) che nel 1999 hanno iniziato un contratto di lavoro (indipendentemente dal fatto di essere o meno esordienti).
Se osserviamo le tipologie contrattuali, solo nel 29% dei casi
il primo contratto per gli esordienti è risultato essere quello a
tempo indeterminato, mentre prevalgono gli ingressi con rapporti di lavoro a termine, che già nel 1999 rappresentavano quasi
il 60%. In larga maggioranza si tratta di ingressi con contratti
di apprendistato (24%), a tempo determinato (16%), seguono i
contratti di formazione-lavoro60 (8%), le collaborazioni (7%), il
lavoro stagionale e quello interinale con valori di poco inferiori
al 3%. L’ingresso nel mercato del lavoro con un lavoro autonomo
in qualità di artigiano o commerciante riguarda circa il 10% dei
giovani.
Ovviamente al crescere dell’età aumenta la probabilità di aver
accesso ad un lavoro in forma stabile, tant’è che tra gli adulti la
quota di contratti tipici avviati nel 1999 sale al 44%, mentre si
riduce quella dei contratti a termine (29%). Non molto dissimile
è l’incidenza degli autonomi (poco più del 10%), mentre è decisamente più rilevante la quota di quanti hanno un contratto
come altri contribuenti alla gestione separata, che probabilmente è indicativa di soggetti che in realtà svolgono altre professioni non rilevabili da WHIP (in particolare la libera professione)
(Tab. 13.1).
In termini di durate contrattuali, non emergono differenze
particolarmente apprezzabili tra gli entranti giovani e gli adulti
presenti: per quanto riguarda i primi poco più della metà dei
contratti avviati nel 1999 si esaurisce entro dodici mesi e quasi
i 2/3 entro i primi due anni. La variabile che invece sembra fare
è stato scelto come anno di inizio il 1999 per poter osservare i possibili riflessi sulla mobilità del lavoro
e sulle traiettorie occupazionali dei lavoratori all’indomani dell’introduzione del cosiddetto Pacchetto
Treu del 1997, con il quale ha inizio il processo di deregolamentazione del mercato del lavoro in Italia.
60
A partire dalla Legge 30/2003 (e successive modifiche), il contratto di formazione lavoro è stato
sostituito dal contratto di inserimento che si rivolge oltre che ai giovani anche a una serie di categorie
deboli (giovani, donne, non occupati over 50) da inserire o reinserire nel mercato del lavoro. Il contratto
di formazione lavoro rimane tuttavia una fattispecie contrattuale applicabile solo nell’ambito della
Pubblica amministrazione.
59
320
la differenza è la tipologia contrattuale, come è evidente nel
grafico 13.2, per cui a curve più elevate corrispondono durate
contrattuali inferiori. Con l’esclusione del lavoro autonomo,
che sembra rappresentare la tipologia lavorativa più stabile,
per cui dopo tre anni ancora quasi l’80% è occupato in quella
posizione, negli altri casi si registrano durate piuttosto brevi, sia
tra i contratti atipici ma anche tra quelli tipici. Si va dalle durate
minime per le collaborazioni, il lavoro stagionale e l’interinale,
che si esauriscono per circa il 90% nel primo anno, seguono i
contratti a tempo determinato (70%) e decisamente distaccati
l’apprendistato (50%) e la formazione-lavoro (26%). Per i
contratti a tempo indeterminato la quota si riduce al 48%.
Tabella 13.1 LAVORATORI ENTRANTI E PRESENTI PER TIPOLOGIA CONTRATTUALE. TOSCANA. Valori %
Entranti 15-35 anni
Presenti 36-50 anni
Tipico
Indeterminato
Indeterminato part time
29,4
22,5
6,9
44,3
35,9
8,5
Atipico
Tempo determinato
Apprendistato
Formazione-lavoro
Interinale
Stagionale
Collaborazione
59,8
15,8
24,2
7,9
2,5
2,6
6,9
28,8
15,5
0,1
0,4
3,6
9,2
9,7
1,1
100,0
10,4
16,5
100,0
Autonomi (artigiani e commercianti)
Altri contribuenti alla gestione separata
TOTALE
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
L’analisi delle durate contrattuali tra i lavoratori adulti non è
molto dissimile, con livelli senza dubbio superiori, ma non particolarmente distanti da quelli rilevati per i più giovani: complessivamente il 45% dei contratti attivati nel 1999 da parte di lavoratori adulti si esaurisce entro l’anno (contro il 51,4% dei giovani), il 55% entro i primi due anni (contro il 64% dei giovani).
Le durate più brevi contraddistinguono anche in questo caso le
collaborazioni (il 91% finisce entro un anno), il lavoro stagionale
(89%), l’interinale (89%), mentre quelle più lunghe si riscontrano
nei contratti tipici (32%). Di nuovo si conferma la maggiore stabilità per il lavoro autonomo (Graf. 13.2).
321
Grafico 13.2 DURATE DEI CONTRATTI ATTIVATI NEL 1999 PER TIPOLOGIA. TOSCANA. % cumulate
Entranti 15-35 anni
100
80
60
40
20
0
1-2 mesi
3-4 mesi
5-6 mesi
7-12 mesi
Collaborazione
Apprendistato
Indeterminato
Presenti 36-50 anni
13-18 mesi
19-24 mesi
25-36 mesi
Contratti a termine (det+stag+inter)
Formazione-lavoro
100
80
60
40
20
0
1-2 mesi
3-4 mesi
5-6 mesi
7-12 mesi
13-18 mesi
19-24 mesi
25-36 mesi
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
In generale si può affermare che all’aumentare dell’età aumentano anche le durate contrattuali indipendentemente dalla
tipologia del rapporto di lavoro; i contratti atipici hanno durate
decisamente inferiori rispetto a quelli tipici, soprattutto nel caso
dei più giovani61; anche i contratti tipici, che solitamente associamo a elevati livelli di stabilità, in realtà sono soggetti a frequenti
interruzioni.
Come si nota in Berton et al. (2009), la discontinuità contrattuale associata alla breve durata dei contratti, soprattutto di
quelli atipici, non necessariamente implica maggiori probabilità
di accesso alla disoccupazione o all’inattività, se i passaggi da
un contratto all’altro, soprattutto in modalità job-to-job, sono
sufficientemente frequenti da compensare la minore durata dei
contratti.
In parte una breve durata dei contratti e quindi una maggiore discontinuità contrattuale può essere
connaturata alla fase iniziale di ingresso nel mercato del lavoro, quando soprattutto i contratti flessibili
sono utilizzati come finalità formative oppure come opportunità di esplorazione del mercato del lavoro.
61
322
In realtà solo una quota contenuta di lavoratori sembra aver
effettuato transizioni job-to-job alla fine del contratto, senza
affrontare quindi un periodo di inoccupazione: 11,4% tra gli
esordienti giovani, 13,5% tra gli adulti già presenti, con l’unica
eccezione rappresentata dai collaboratori che mostrano valori
superiori al 40%. L’altro dato da segnalare è che nel caso dei lavoratori adulti la frequenza delle transizioni job-to-job è più elevata rispetto ai giovani, sia nelle principali tipologie contrattuali
a termine (con l’esclusione del lavoro stagionale), sia nei lavori a
tempo indeterminato (Tab. 13.3).
Tabella 13.3 QUOTA DI LAVORATORI CHE HANNO EFFETTUATO UN PASSAGGIO JOB TO JOB. TOSCANA. %
su quanti sono stati disoccupati almeno una volta
Entranti 15-35 anni
Presenti 36-50 anni
7,9
7,2
12,2
6,8
11,3
8,4
41,1
11,4
9,2
7,9
2,8
0,0
45,2
13,5
Indeterminato
Tempo determinato
Stagionale
Interinale
Apprendistato
Formazione-lavoro
Collaborazione
TOTALE
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Per poter affermare che le carriere atipiche siano caratterizzate, oltre che da episodi lavorativi con durate contrattuali inferiori
rispetto ai lavoratori tipici, anche da una maggiore discontinuità
occupazionale, è necessario prendere in esame anche la frequenza degli episodi di inoccupazione nella finestra temporale di osservazione e la durata degli stessi.
Osservando le percentuali cumulate nel grafico 13.4 (e ricordando che a curve più elevate corrisponde un numero inferiore di
episodi di in occupazione), si nota innanzitutto come tra i giovani le carriere caratterizzate da un maggior numero di interruzioni
lavorative siano più frequenti rispetto agli adulti già presenti nel
mercato del lavoro: tra i primi infatti circa i 2/3 ha avuto 1 o
2 episodi di inoccupazione a fronte del 59% per gli adulti. In
secondo luogo le differenze contrattuali risultano significative,
con un dato particolarmente negativo, sia tra i giovani che tra gli
adulti, per le collaborazioni.
323
Grafico 13.4 NUMERO DI EPISODI DI IN OCCUPAZIONE. TOSCANA. % cumulate
Entranti 15-35 anni
% cumulate
100
80
60
40
20
1
2
3
Episodi inoccupazione
4
Collaboraz. in senso stretto
Apprendistato
Indeterminato
Presenti 36-50 anni
5
Tempo determinato
Formazione e lavoro
% cumulate
100
70
40
10
1
2
3
Episodi inoccupazione
4
5
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Una seconda indicazione ci viene fornita dalle durate degli episodi di inoccupazione. Nel caso dei giovani in ingresso al lavoro,
solo il 45% degli episodi di inoccupazione termina entro i primi 12
mesi e poco più di 2/3 entro i primi due anni: Non si discostano in
maniera significativa dalla media le durate per i lavoratori tipici,
i titolari di un contratto di formazione-lavoro e di apprendistato;
viceversa si registrano tempi di rientro più elevati nel caso degli
altri contratti a termine, segnalando dunque anche una maggiore
frequenza di situazioni di inoccupazione di lunga durata. Ancora
più marcate risultano le differenze nella componente adulta della
forza lavoro: complessivamente poco più del 35% dei periodi di
inoccupazione si esaurisce nel primo anno, l’82% entro i primi due
anni. Nel caso dei lavoratori a termine le percentuali risultano più
contenute soprattutto in riferimento a periodi superiori ai 12 mesi:
nel secondo anno rientra al lavoro solo il 44% degli interinali, il
63% degli stagionali, il 73% dei collaboratori, il 74% dei lavoratori
a tempo determinato a fronte dell’89% dei lavoratori stabili full
time e dell’83% dei part timers (Tab. 13.5).
324
Tabella 13.5 DURATE DEI PERIODI DI IN OCCUPAZIONE. TOSCANA. % cumulate
Entranti
Fino a 6 mesi Fino a 12 mesi Fino a 24 mesi
Tipici
Indeterminato
24,8
Indeterminato part time
17,1
Atipici
Tempo determinato
12,9
Stagionale
10,2
Interinale
13,0
Apprendistato
17,5
Formazione-lavoro
28,6
Collaborazione
14,7
Altri contribuenti alla
0,0
gestione separata
Autonomo
37,8
TOTALE
20,5
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Presenti
Fino a 6 mesi Fino a 12 mesi Fino a 24 mesi
47,5
44,2
67,8
69,8
21,8
22,7
37,9
36,6
88,9
83,1
32,7
28,6
41,3
44,6
66,7
29,5
63,6
49,0
67,4
69,2
79,6
55,0
18,7
9,6
22,2
13,4
37,0
24,7
33,3
23,5
74,1
63,0
44,4
73,3
14,3
47,6
12,8
25,0
74,4
61,1
44,8
69,4
67,1
36,5
20,2
54,5
35,5
92,4
81,5
In conclusione, emerge come la minore durata contrattuale in
capo ai lavoratori a termine significa anche una maggiore discontinuità occupazionale, che si traduce in una maggiore durata media
degli episodi di inoccupazione, ma soprattutto in un numero di
mesi trascorsi in stato di inoccupazione superiore rispetto a quanto rilevato per i lavoratori tipici. Tali evidenze risultano ancora più
accentuate nella componente adulta della forza lavoro (Tab. 13.6).
Tabella 13.6 DURATE MEDIE DEI CONTRATTI E MESI TRASCORSI IN INOCCUPAZIONE/OCCUPAZIONE. TOSCANA
Tipici
Indeterminato
24,2
Indeterminato part time
27,8
Atipici
Tempo determinato
14,6
Stagionale
5,5
Interinale
7,3
Apprendistato
22,8
Formazione-lavoro
37,4
Collaborazione
4,4
Altri contrib. alla
2,6
gestione separata
Autonomo
54,5
TOTALE
24
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Mesi trascorsi
come
inoccupato
Mesi trascorsi
come
occupato
N. medio
episodi
inoccupazione
Durata media
dei contratti
(mesi)
Mesi trascorsi
come
inoccupato
Presenti
Mesi trascorsi
come
occupato
N. medio
episodi
inoccupazione
Durata media
dei contratti
(mesi)
Entranti
2,2
2,2
56,9
57,3
15,1
14,7
35,6
32,4
2,1
2,2
64,2
61,1
7,8
10,9
2,4
2,5
2,4
2,3
1,9
2,6
53
49
54,1
55,6
60,9
53,9
19
23
17,9
16,4
11,1
18,1
17,6
8,6
6,3
2,4
3
2,5
56,6
52,1
47,7
15,4
19,9
24,3
5,2
3,2
58
14
4,3
55,5
16,5
6,8
4,6
58,3
13,7
1,1
2,2
63,9
56,5
8,1
15,5
56,8
26,1
1,2
2,4
65,9
60,9
6,1
11,1
325
Diventa dunque essenziale, soprattutto all’aumentare
dell’età, la transizione al lavoro stabile entro breve termine.
Infatti, se il mercato del lavoro locale non costituisce una
garanzia affidabile contro i rischi connessi all’instabilità del
lavoro, altrettanto fragili risultano essere i meccanismi pubblici
di protezione sociale, poiché il nostro sistema di welfare non
prevede efficaci strumenti di sostegno al reddito in caso di
disoccupazione per coloro che hanno contratti a termine e
spesso la brevità dei contratti rende impossibile godere delle
(poche) tutele previste dalla legge.
13.3
Quali differenze di genere?
Tra i lavoratori presenti con un nuovo contratto avviato nel
1999 poco più del 40% è rappresentato da donne, concentrate
in larga maggioranza nei servizi (oltre il 70% a fronte del 41%
per i maschi), con una netta prevalenza di rapporti di lavoro
a termine (il 53% contro il 42% degli uomini) e una maggiore incidenza dei contratti stabili part time (11% contro il 3%)
(Tab. 13.7).
Tabella 13.7 LAVORATORI 15-50 ANNI PRESENTI PER GENERE E TIPOLOGIA CONTRATTUALE. TOSCANA. Valori %
Tipici
Indeterminato
Indeterminato par time
Atipici
Tempo determinato
Stagionale
Interinale
Apprendistato
Formazione-lavoro
Collaborazione
Altri contribuenti alla gestione separata
Autonomo (artigiani e commercianti)
TOTALE
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Femmine
Maschi
23,5
11,3
36,1
3,3
20,2
5,1
1,1
11,5
4,3
10,6
5,2
7,1
100,0
13,0
2,9
1,4
12,1
5,6
7,1
9,4
9,1
100,0
Ciononostante non emergono differenze di genere così evidenti nelle durate contrattuali: per le donne il 54% si conclude
entro i primi dodici mesi contro il 52% degli uomini; per entrambi circa i 2/3 si esauriscono entro due anni (Graf. 13.8). Allo stes326
so modo risultano sostanzialmente allineate le frequenze di passaggi job-to-job (poco più del 15% in entrambi i casi).
Grafico 13.8 DURATE DEI CONTRATTI ATTIVATI NEL 1999 PER GENERE. TOSCANA. % cumulate
75
% cumulate
65
55
45
35
Femmine
25
15
0-2
mesi
3-4
mesi
5-6
mesi
7-8
mesi
9-10
mesi
11-12
mesi
13-14
mesi
15-16
mesi
17-18
mesi
19-20
mesi
Maschi
21-22
mesi
23-24
mesi
25-36
mesi
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Se dal punto di vista della discontinuità contrattuale le donne
non sembrano essere particolarmente svantaggiate rispetto agli
uomini, in termini di esiti occupazionali, tuttavia, si rileva una
più elevata frequenza di passaggi all’inoccupazione, rispettivamente 7,8% contro 5,6% per gli uomini, e al contempo minori
risultano essere i passaggi da rapporti di lavoro a termine verso
la stabilizzazione lavorativa sia come occupati dipendenti (rispettivamente 48% e 52%) sia come autonomi (rispettivamente 8% e
15%) (Tab. 13.9).
Tabella 13.9 DONNE E UOMINI CHE HANNO LAVORATO ALMENO 30 MESI PER GENERE E ESITO
OCCUPAZIONALE 4 ANNI DOPO. TOSCANA
Inoccupato
Da atipico a tipico
Da atipico a autonomo
Da tipico a atipico
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Maschi
Femmine
5,6
51,8
14,6
12,0
7,8
47,6
7,7
17,7
La maggiore probabilità delle donne di passare all’inoccupazione non si traduce in un numero più elevato di interruzione dei
rapporti di lavoro (Tab. 13.10), tuttavia tali episodi sono caratterizzati nel caso delle donne da durate complessivamente più elevate
(a curve più elevate infatti corrispondono durate inferiori) (Graf.
13.11): poco meno del 60% termina entro i primi dodici mesi e il
78% entro i primi due anni contro il 54% e l’82% per le donne.
327
Tabella 13.10NUMERO DI EPISODI DI INOCCUPAZIONE PER GENERE. TOSCANA
0
1
2
3e+
Numero medio
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Femmine
Maschi
34,1
25,7
16,8
23,5
1,6
35,1
25,3
15,2
24,3
1,6
Grafico 13.11DURATE DEI PERIODI DI INOCCUPAZIONE PER GENERE. TOSCANA. % cumulate
% cumulate
100
80
60
40
20
<2
mesi
Femmine
3-4
mesi
5-6
mesi
7-8
mesi
9-10
mesi
11-12
mesi
13-14
mesi
15-16
mesi
17-18
mesi
19-20
mesi
Maschi
21-22
mesi
23-24 25-36
mesi mesi
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Complessivamente le carriere al femminile non sembrano
distinguersi per una maggiore discontinuità contrattuale, tuttavia risultano essere caratterizzate da più elevate probabilità di
passaggi all’inoccupazione e soprattutto dalla presenza di interruzioni lavorative di durata senza dubbio superiore rispetto a
quanto rilevato per la componente maschile.
13.4
Quanto pesa la cittadinanza?
La terza componente della forza lavoro che ha influito maggiormente sulle dinamiche del mercato del lavoro nell’ultimo ventennio è senza dubbio rappresentata dai lavoratori stranieri. Come
evidenziato nel capitolo precedente, gli indicatori di mobilità
mostrano livelli superiori per gli stranieri rispetto alla componente italiana, che evidentemente risulta essere più radicata sul
territorio e più selettiva rispetto al tipo di lavoro da svolgere.
L’analisi verrà svolta osservando le carriere dei lavoratori
stranieri presenti in età 15-50 anni, che nel 1999 hanno attivato
328
un contratto osservabile nell’archivio WHIP. Si tratta di circa
il 12% della popolazione complessivamente osservata, con una
struttura per età più giovane e una netta prevalenza di rapporti
di lavoro stabili full time (rispettivamente 43% e 29%). Il dato
è presumibilmente imputabile alla concentrazione settoriale e
professionale dei lavoratori immigrati, largamente impiegati in
attività strutturali per il ciclo produttivo e per le quali risultava
difficoltoso trovare la disponibilità da parte della componente
autoctona della forza lavoro (Tab. 13.12).
Tabella 13.12LAVORATORI ITALIANI E STRANIERI 15-50 ANNI PRESENTI PER TIPOLOGIA CONTRATTUALE.
TOSCANA
Tipici
Indeterminato
Indeterminato part time
Atipici
Tempo determinato
Stagionale
Interinale
Apprendistato
Formazione-lavoro
Collaborazione
Altri contribuenti alla gestione separata
Autonomo (artigiani e commercianti)
TOTALE
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Italiani
Stranieri
29,2
6,4
42,8
8,4
16,1
3,7
1,1
12,4
5,0
9,1
8,2
8,6
100,0
15,2
4,8
2,3
7,8
5,4
4,3
3,3
5,8
100,0
Ciononostante la storia lavorativa è contrassegnata da durate
contrattuali inferiori rispetto agli italiani, come mostra la curva
più elevata: il 58% si conclude entro il primo anno contro il 52%
degli italiani; il 70% entro i primi due anni contro il 63% degli
italiani (Graf. 13.13). Inferiori risultano essere anche i passaggi
job-to job, che hanno interessato poco più del 10% degli stranieri
contro il 16,4% per gli italiani.
Come già evidenziato nei paragrafi precedenti non necessariamente minori durate contrattuali implicano carriere lavorative
più discontinue, se queste sono associate ad un minor numero di
episodi di inoccupazione e con durata contenuta. A tal riguardo,
se guardiamo gli esiti occupazionali a distanza di 4 anni dall’avvio del contratto nel 1999, si rileva una probabilità quasi doppia
per gli stranieri di transitare verso una situazione di inoccupazione: (5,9% contro il 10,6% degli italiani), con livelli superiori per
tutte le tipologie contrattuali di partenza (Tab. 13.14).
329
Grafico 13.13DURATE DEI CONTRATTI ATTIVATI NEL 1999. TOSCANA. % cumulate
90
70
50
30
10
<2
mesi
Italiani
3-4
mesi
5-6
mesi
7-8
mesi
9-10
mesi
11-12
mesi
13-14
mesi
15-16
mesi
17-18
mesi
19-20
mesi
Stranieri
21-22
mesi
23-24
mesi
25-36
mesi
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Tabella 13.14ITALIANI E STRANIERI CHE HANNO LAVORATO ALMENO 30 MESI PER ESITO OCCUPAZIONALE
4 ANNI DOPO. TOSCANA
Inoccupato
Stranieri
Tipici
Atipici
Autonomi+altri contribueni
TOTALE
Italiani
Tipici
Atipici
Autonomi+altri contribueni
TOTALE
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Occupato a Occupato a tempo Autonomo+altri
termine
indeterminato
contribuenti
Totale
11,8
10,1
6,3
10,6
11,1
26,7
8,8
17,1
58,1
50,3
12,5
50,9
18,9
12,9
72,5
21,4
100,0
100,0
100,0
100,0
5,9
6,5
4,3
5,9
14,8
32,6
9,1
22,3
69,1
49,7
14,0
50,6
10,1
11,1
72,6
21,1
100,0
100,0
100,0
100,0
Una maggiore frequenza di passaggi verso l’inoccupazione
si traduce anche in un numero più elevato di episodi di inoccupazione con durate decisamente più elevate (curve più elevate infatti indicano durate inferiori): nel caso dei lavoratori
italiani, circa i 2/3 termina entro i primi 12 mesi e oltre l’80%
entro i primi due anni; per gli stranieri rispettivamente il 54%
e il 75% (Graf. 13.15).
In conclusione, emerge come la minore durata contrattuale
in capo ai lavoratori stranieri significa anche una maggiore discontinuità occupazionale, che si traduce in un numero maggiore di episodi di inoccupazione, con durata media superiore,
e un numero di mesi trascorsi in stato di inoccupazione superiore rispetto a quanto rilevato per i lavoratori italiani (Tab.
13.16).
330
Grafico 13.15DURATE DEI PERIODI DI INOCCUPAZIONE ITALIANI E STRANIERI. TOSCANA. % cumulate
90
70
50
30
10
0-2
mesi
Italiani
3-4
mesi
5-6
mesi
7-8
mesi
9-10
mesi
11-12
mesi
13-14
mesi
15-16
mesi
17-18
mesi
19-20
mesi
Stranieri
21-22
mesi
23-24
mesi
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
Tabella 13.16ITALIANI E STRANIERI A CONFRONTO: DURATE MEDIE DEI CONTRATTI, DEI PERIODI DI
INOCCUPAZIONE E MESI TRASCORSI IN INOCCUPAZIONE
Durata media dei contratti
Numero medio episodi inoccupazione
Mesi trascorsi come inoccupato
Mesi trascorsi come occupato
Fonte: elaborazioni IRPET su dati WHIP
331
Italiani
Stranieri
24,9
1,6
11,7
60,3
21,0
1,9
15,0
57,0
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Finito di stampare nel mese di Luglio 2011
da Grafiche Martinelli s.r.l. - Bagno a Ripoli (FI)
per conto di IRPET - Firenze
Il mercato del lavoro
Regione Toscana - Rapporto 2010
Il mercato del lavoro - Regione Toscana - Rapporto 2010
Lavoro - Studi / 86
Collana Lavoro - Studi e Ricerche / 86
IRPET
ISBN 978-88-6517-027-4
Istituto
Regionale
Programmazione
Economica
Toscana
IRPET
Istituto
Regionale
Programmazione
Economica
Toscana