leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

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http://www.10righedailibri.it
Narrativa 43
ISBN: 978-88-7615-561-1
I edizione: giugno 2011
© 2011 Alberto Castelvecchi Editore srl
Via Isonzo, 34
00198 Roma
Tel. 06.8412007 - fax 06.85865742
www.castelvecchieditore.com
[email protected]
Cover: Studio Sandokan
Nello Gatta
Il campo
dell’onore
Ai miei genitori e al mio padrino,
che m’hanno consentito d’inseguire i sogni.
Alla mia famiglia, che mi lascia vivere
coi piedi ben piantati sulle nuvole.
A Ermanno ed Enrico,
magistri elegantissimi d’edonismo letterario.
Prologo
Sono Tiberio Claudio Massimo, figlio di Quinto, veterano.
Ho militato sotto gli Augusti Domiziano, Nerva e Traiano.
Durante l’anno che sta finendo, il primo dell’impero di
Adriano Augusto, ho ottenuto congedo onorevole da Terenzio Scauriano, Legato proconsolare della provincia di Mesopotamia. Alle Idi di Ottobre sono partito da Nisibis per far
ritorno alla mia città. Dopo due mesi di viaggio giungo stamane in vista di Filippi. È una limpida mattina di primo inverno, soffia brezza dal mare. Nell’aria profumo d’incenso,
eco di musica e canti. Dev’essere un giorno di festa, ma non
ricordo quale. Strattono i due muli e aumento l’andatura del
cavallo. Fuori delle mura, una piccola folla. Mi scorgono,
nasce una certa agitazione, un gruppo d’uomini montati
prende a galoppare verso di me. Rallento, la destra va sul
pomo del gladio, osservo. Sono cinque. Mantelli colorati,
lance scintillanti, elmetto dorato. Non legionari né truppe
ausiliarie, ma uomini della Guardia cittadina. Mi fermo ad
attenderli. Nel giro di pochi battiti di cuore, arrivano. Un cavaliere stende il braccio destro nel saluto militare: «Ave, domine. Sei tu il Tribuno Tiberio Claudio Massimo?».
Gratto con noncuranza la guancia, gli lancio un’occhiataccia: «Chi vuole saperlo?».
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Il cavaliere: «Perdona Tribuno, non intendevo mancarti
di rispetto. Sono Tito Flavio Eudemone, Prefetto della
Guardia di Filippi, domine».
Lo squadro in silenzio. Dentro di me sorrido, il suo nome
significa «Buona Sorte» ed è un incontro benaugurante.
Ringrazio Mithra per il presagio, rispondo con tono infastidito: «È una fortuna conoscerti, Prefetto Eudemone. Che
vuoi da me?».
«Siamo qui per scortarti in città, domine».
«Me?».
«Per ordine del Consiglio cittadino, domine».
«Perché mai gli illustrissimi magistrati di Filippi dovrebbero occuparsi di un veterano che torna a casa?».
Eudemone mi guarda meravigliato: «Vuoi prenderti gioco di me, domine? Tu, il soldato più decorato dell’Impero,
colui che ha ucciso il re Decebalo e ne ha recata la testa al
divino Traiano, coprendosi di gloria nella guerra partica,
fai questa domanda? Tu sei un grande eroe, domine, e il nostro concittadino più eminente. Il Consiglio ha organizzato
festeggiamenti in tuo onore, la città intera ti attende con
entusiasmo».
Rimango in silenzio.
«Sei pronto per una sfilata trionfale, domine?».
Sbuffo: «Le cerimonie mi hanno sempre annoiato, ci
sarà vino?».
Il prefetto sorride: «Da ubriacare una legione intera, domine, e buono quanto il nettare del divino Dioniso».
Annuisco con un mezzo grugnito, aggiungo: «Donne?».
Il Prefetto ride: «Quante ne vorrai, belle come la divina
Elena, per fascino e grazia pari ad Afrodite stessa, domine».
Gli rivolgo il più amabile dei sorrisi: «Allora, mio buon
Eudemone, non facciamo attendere oltre gli eccellentissimi membri del Consiglio e i cari concittadini».
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Avanziamo al piccolo trotto. Il Prefetto mi intrattiene con
chiacchiere garbate, spiritose, ben tornite. Nemmeno lo
ascolto, e torno col pensiero al giorno in cui tutto cominciò.
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Probatio
Quando mio padre morì, avevo tredici anni e già sognavo
di diventare un soldato come lui. La V Macedonica, dove
prestava servizio, era di stanza a Oescus, in Mesia Inferiore, centotrenta miglia dalla foce dell’Istro o Danubio, come
lo chiamano quelli che parlano latino. Abitavamo nel villaggio per i familiari a ridosso del forte legionario, dove i civili non sono ammessi. Ma nella ricorrenza delle grandi vittorie e dei genetliaci imperiali, si tengono festeggiamenti
pubblici. Guardavo i soldati sfilare nella piazza d’armi, ranghi ordinati e silenziosi, movimenti precisi. Il terreno rimbombava al passo dei cinquemila uomini, comandi rauchi
e clangori metallici riempivano l’aria. Cercavo con gli occhi
mio padre. Terminato lo schieramento, sui legionari immobili come un lago di metallo scintillavano le insegne e il vessillo color porpora. Allora, sorretta dall’aquilifero con indosso una pelle di leone, scortata dal Legato di legione, dal
Tribuno laticlavio, dal Centurione Primipilo e dal Prefetto
del campo in alta uniforme, sfilava l’aquila d’oro. Al suo
passare, ogni coorte lanciava il grido di guerra e scattava
sull’attenti. Ogni volta la terra tremava, come colpita dal
tridente di Poseidone. Per i soldati è una divinità quell’aqui9
la, incarna l’anima dell’Impero. Fin da bambino ho sentito
forte il suo richiamo. Mi sono arruolato nell’anno decimo
dell’impero di Domiziano Augusto, ottocentoquarantaquattresimo dalla fondazione dell’Urbe, sotto il consolato
di Marco Ulpio Traiano e Manlio Acilio Glabrione. Erano le
Idi di Febbraio, giorno in cui, per ricordare il miracoloso
allattamento di Romolo e Remo da parte della lupa, si celebrano i Lupercalia.
*
Tessalonica, capitale della provincia di Macedonia. Di
primo mattino mi presentai al palazzo del Legato imperiale
che aveva indetto la leva, per sottopormi all’insieme di visite ed esami detto probatio. Arrivai col mio amico d’infanzia
Aulo Plozio Terenziano, forte come un Eracle e dotato
quanto un satiro, detto Plozio la Nerchia. Coetanei, diciannove anni, e inseparabili come i nostri padri. Davanti alle
grandi porte chiuse, eravamo una cinquantina. L’aria era
fredda, ci muovevamo per scaldarci un po’. Infine si aprirono i portoni, entrammo felici e garruli nel cortile interno.
Alcuni legionari, a forza di urlacci e colpi col legno del giavellotto, ci inquadrarono in file da dieci, ringhiando di stare zitti e fermi. Entrò un Centurione, un grido comandò
l’attenti. Io e Plozio eravamo in terza fila, dritti e immobili
come statue. Il Centurione camminava lento davanti ai ranghi. Era anziano, pieno di cicatrici e decorazioni, nel pugno
destro la vitis, nodoso bastone simbolo della sua autorità.
Si fermò, ci squadrò e urlò: «Sono il Primipilare Lucio Alfeno Avitano. Per incarico dell’eccellentissimo Legato Quinto
Pompeo Paventino, sovrintendo alle operazioni di selezione e reclutamento. Da questo momento, siete sotto il mio
comando e soggetti alla disciplina militare. Rivolgendovi a
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un superiore, chiuderete sempre la frase con l’appellativo
domine. Non dovete muovervi né parlare, solo obbedire
agli ordini. Domande?».
Uno in prima fila: «Io…».
Avitano ruggì: «Chi ha parlato? Chi è quel cunnus che ha
parlato?».
Silenzio.
Il Centurione lo individuò, a passi rapidi gli fu davanti:
«Sei stato tu?».
Il giovane esitava. Poi, con voce tremante, azzardò: «Io…
una domanda…».
Avitano lo colpì velocissimo con la vitis nello stomaco, il
ragazzo si piegò. Secondo colpo tra collo e spalle, il giovane
stramazzò rumorosamente sul selciato.
Il Centurione, rivolto ai ranghi: «Altre domande?».
Silenzio assoluto.
Sogghignò. «Benvenuti sotto il mio comando. Anche tra
voi greci chiacchieroni e culattoni scoverò, se esistono, uomini degni di servire in armi l’Impero. Domiziano Augusto
vuole soldati, e io glieli porterò. Obbedite agli ordini, o glieli porterò ammaccati».
Ci venne dato il primo ordine, in fila per due e correre nel
piazzale. Un giro a lenta andatura, due veloci, uno lento,
uno veloce, poi a terra, flessioni sulle braccia, rialzarsi di
scatto e correre a perdifiato. Infine un giro lento, fermarsi,
schierarsi nuovamente. Avitano passava tra i ranghi, osservava attentamente, colpì alcuni sulla spalla con la vitis, li
chiamò fuori: «Ci sono sostituti tra voi?».
Tutti, tranne due, annuirono. Nessuno parlò.
Il Centurione, sprezzante: «Un solo circuito e siete già
sfiatati, inutili come vesciche forate! I vostri patroni devono
offrire ben di meglio all’Impero, se vogliono rimanere a godersi le loro ville. Lasciate il nome vostro e di chi sostituite
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allo scrivano coi suoi dannati rotoli di papiro, e levatevi dai
piedi». Rivolto agli altri due: «Mi sembrate scarsi di esercizio, ricominciate a correre finché non mi ricorderò della vostra esistenza e vi ordinerò di fermarvi». Osservò i superstiti
di questa prima selezione: «Ci sono volontari tra voi?».
Io e Plozio alzammo il braccio destro.
Avitano: «Voi due, venite fuori».
Uscimmo dai ranghi, ci fermammo sull’attenti a un passo da lui.
Il Centurione: «I vostri nomi».
«Tiberio Claudio Massimo, domine».
«Aulo Plozio Terenziano, domine».
Avitano: «Siete cittadini romani o peregrini?».
Risposi: «Cittadini, domine».
Il Centurione: «Avete un documento che lo confermi?».
Feci un passo avanti, gli porsi il papiro scritto dal Comandante dei veterani della V, passo indietro.
Il Centurione lo srotolò e lesse: «Domine, sono Tito Claudio
Felice, triarius ordo della V Macedonica. I latori della presente, Tiberio Claudio Massimo e Aulo Plozio Terenziano, posseggono la cittadinanza romana. Essi sono figli di Quinto
Claudio Massimo e Marco Plozio Terenziano, Optiones in
questa legione, miei commilitoni caduti sul campo dell’onore
ad Adamclissis contro i Daci. Furono uomini coraggiosi, soldati leali, comandanti scrupolosi. I figli, degni eredi delle virtù
paterne, sapranno meritare la tua benevolenza. Il tuo interessamento sarà per me, domine, motivo di gioia e gratitudine».
Accertata la verità sulle nostre origini, il centurione arrotolò il papiro, lo strinse con forza e me lo porse: «Anche mio
fratello è morto lì. I Daci gli hanno tagliato la testa», commentò.
Feci un passo avanti, afferrai il rotolo: «Così a mio padre,
domine».
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Mi osservava mentre tornavo sull’attenti: «Perché ti vuoi
arruolare, Tiberio Claudio Massimo?».
«Per tagliare la testa al re dei Daci, domine».
Avitano scoppiò a ridere: «Per il momento coi Daci siamo
in pace, ma non durerà a lungo».
*
La probatio si rivelò lunga e complessa quanto un discorso di Cicerone. Dapprima ci divisero in decurie, ognuna sotto il comando di un legionario. Condotti in una grande stanza, ricevemmo l’ordine di spogliarci. Restammo coi soli calzari ai piedi, e il fagotto degli abiti in mano. Il legionario,
sghignazzò con voce rauca: «Avete freddo, bambocci? Questo è nulla a paragone della Germania. Vi si ghiaccerà la
mentula e vi consumerete i denti a forza di batterli. Il vento
taglierà naso, orecchie e dita delle mani. Marciando nella
neve, marciranno quelle dei piedi. E questo per sei mesi
l’anno. Quelli di voi che supereranno l’inverno, finiranno
sbudellati dai barbari durante l’estate. Per questo c’è sempre
bisogno di reclute in Germania».
*
Finalmente arrivò il medico, cominciò la visita. Controllò
che fossimo di sesso maschile, la completezza degli arti, la
robustezza di muscoli e articolazioni, bofonchiando qualche
astrusa frase in un latino zeppo di termini greci. Accanto a
lui, uno scrivano annotava. Mentre passavo sotto l’antropometro, che controllava l’altezza, il medico ebbe un violento
accesso di tosse. Mormorai un verso di Menandro: «Non v’è,
della salute, nessuna cosa più importante nella vita».
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Il medico si voltò di scatto sibilando: «Ma guarda, abbiamo un fanciullo istruito. E sei dotto solo di lettere greche, o
prodigioso giovane, oppure il tuo sapere con rapida ala s’estende anche a quelle latine?».
Lo guardai, un po’ intimidito: «Ho studiato entrambe,
domine».
Il medico ebbe un gesto di stizza: «Non chiamarmi così,
non sono un tuo superiore. Sono un libero cittadino di questo Impero, e prima ancora un essere umano, proprio come
te. A differenza di te, non nutro la brama di uccidere i miei
simili, ma il desiderio di curarli. Adesso vatti a rivestire, prima che ceda all’impulso di rifilarti una pedata nel sedere».
Scattai sull’attenti: «Domine!», e sparii prima che avesse
il tempo d’infuriarsi di più.
I medici militari hanno spesso un brutto carattere. Anche quello della V Macedonica, Marco Rubrio Zosimo, aveva accessi d’ira così violenti che le sue grida si udivano persino fuori dell’accampamento. Lo chiamavano Zosimo il
Tonante. Mi rivestii, attesi gli altri, le visite continuarono
fino a metà mattinata. Arrivò un soldato, ordinò di seguirlo. Giungemmo davanti a una stanza.
Il Primipilare Avitano, seduto su uno sgabello, stava leggendo un papiro. Accanto a lui sedeva un altro militare, capelli completamente bianchi, naso aquilino, fisico massiccio. Un po’ discosto, lo scrivano con le borse piene di rotoli,
le tavolette incerate, lo stilo. Il Centurione esclamò divertito: «Ecco l’inclito Tiberio Claudio Massimo, aspirante uccisore di re. Vieni avanti, ragazzo».
Avanzai fino a tre passi da loro e mi fermai sull’attenti.
Avitano, compiaciuto, mormorò al collega: «È già addestrato, figlio di un militare». Poi tornò a guardarmi: «Questo è il Centurione Annio Valerio Marziale. Di chi era Optio
tuo padre?».
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«Del Primipilo Sesto Etrio Feroce, domine».
Avitano rise: «Per Ercole, l’ho conosciuto in Britannia, a
Eboracum. Comandava la seconda coorte della IX Hispana, lo chiamavano Ferocissimo. Dai Caledoni aveva preso il
vizio di tagliare le teste ai nemici e appenderle a mo’ di avvertimento. L’aveva perso quel vizio alla V Macedonica?».
«No, domine».
Avitano ebbe un ghigno amaro: «Però ha finito col perdere la sua, di testa, ad Adamclissis. Tutto quel sangue aspetta
ancora vendetta, spero di campare abbastanza per vederla.
E tu, cos’hai fatto dopo la morte di tuo padre?».
«Siamo andati a vivere a Filippi, in casa dei nonni, domine».
«Secondo il medico sei un giovane erudito, hai studiato?».
«Con difficoltà, domine».
«Perché? Sei asino di natura?».
«Non mi sono mai lasciato bastonare da un greco,
domine».
«Quindi picchiavi i tuoi maestri?».
«Solo se volevano colpirmi, domine».
«Scommetto che preferivi correre al ginnasio ad allenarti
invece di compitare versi e inventare discorsi strampalati».
«È così, domine».
«Ti sei distinto in qualche gara? Giavellotto, lotta, pancrazio?».
«Corsa e pygmachia, domine».
«La corsa ti servirà sotto le armi, non sai quanto. È un
bene che tu sia già allenato. Coi pugni sei bravo?».
«Me la cavo, domine».
«Hai partecipato a gare, giochi?».
«Ho vinto quelli cittadini dello scorso anno, domine».
«Bene, ora passiamo alla parte ufficiale della conversazione. Lo scrivano prenda nota. Nome e condizione, ragazzo».
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«Tiberio Claudio Massimo, figlio di Quinto, cittadino romano, domine».
«Il consiglio di revisione, visti il referto medico e i documenti da te prodotti, ti riconosce adatto al servizio. Da questo
momento, sei iscritto nelle liste militari. Ricevi ora la piastrina di metallo che appenderai al collo. Su di essa è incisa l’aquila, e segna la tua appartenenza all’esercito imperiale. Per
ora, con la qualifica di recluta. Al termine dei quattro mesi
d’addestramento, giurerai fedeltà all’Imperatore. Allora diverrai miles, e da quel giorno partirà il conteggio dei tuoi anni
di servizio. Puoi andare, recluta Tiberio Claudio Massimo».
*
Il sole era alto, lo stomaco brontolava, del rancio neanche
l’ombra. In cerca di qualcosa da mangiare, andavo bighellonando nel palazzo, solcando un gran via vai di gente indaffarata, uomini importanti coperti di toga e di sussiego,
schiavi che portavano sacchi o trascinavano animali, mercanti riccamente abbigliati discutevano del prezzo del grano e dell’olio, e poi cittadini, soldati, servitori… d’improvviso incrociai due occhi di cerbiatta insieme al sorriso invitante di un’ancella. Il tempo si fermò, non le mie gambe. Urtai con la spalla una massa molliccia e profumata, udii un
abbaietto stridulo, spiccai un salto indietro. Una vocina profumata di cinnamo mi riprese: «Guarda dove vai, beota, hai
spaventato la mia piccola Chloris».
Un omuncolo corpulento, con la tunica intessuta d’oro e il
mantello foderato di pelliccia, teneva in braccio un cagnolino grande quanto un piccolo gatto, di quelli tanto amati dalle dame dell’aristocrazia senatoria. Infuriato, puntava minaccioso la destra – risuonante di bracciali e scintillante di
anelli – contro il mio volto: «Ti frusterò per questo».
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Mi scappò una risata: «Ho più paura di quel topo spelacchiato che di te, grassone».
L’omuncolo rimase impietrito, la faccia si gonfiò arrossandosi, infine emise un fiume odoroso di parole: «Come
osi, barbaro impudente. Ti stai rivolgendo a Attio Pompeo
Narcisso, gran cerimoniere e tricliniarca dell’eccellentissimo Legato Quinto Pompeo Paventino».
Rialzò il capo di scatto, con la mano si aggiustò la lunga
frangia, aggiunse: «Non tremi, ora che sai chi sono?».
Una voce beffarda, alle mie spalle, rispose al posto mio:
«Se vuoi sapere chi è, sposta quei capelli comprati e sulla
fronte troverai un marchio da schiavo».
Mi voltai, un giovane dai ricci scuri e gli occhi nerissimi,
naso regolare, se ne stava appoggiato alla parete con lo
sguardo divertito. Il faccione tondo del liberto Attio Pompeo Narcisso, da rosso come il sole calante, si fece pallido
come la luna piena: «Tu… tu… Cane Nero. Il Governatore
ne sarà informato».
Il giovane, sprezzante e minaccioso: «Provaci, rapirò
quel topo e lo darò in pasto ai gatti randagi».
Narcisso strinse al petto l’animale: «Ti proteggerò io da
questi uomini cattivi, Chloris, amore, tesoro», e in tutta
fretta si allontanò.
Il giovane sorrise: «Quanto meno contano i liberti, tanto
più c’è libertà. Il mio nome è Lucio Caninio Ater, il tuo?».
«Tiberio Claudio Massimo».
«Sei una recluta?».
«Ho appena superato la probatio».
Ater, perplesso: «Anch’io, ma chissà perché non me ne
sento così fiero come avessi già vinto una battaglia».
Lo guardai stupito, Ater ghignò: «Non ci badare, ho lingua tagliente, dente avvelenato, animo scuro. Ater, cioè
nero, aspro, maligno. E Caninio, per giunta. Come un cane,
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io mordo. Perciò tutti mi chiamano Cane Nero, appellativo
senz’altro meritato».
«Non temi che il liberto informi il Governatore?».
Ater sbuffò: «L’eccellentissimo Quinto Pompeo Paventino è l’attuale amante della moglie di mio fratello Tito. Pertanto sono legalmente intoccabile per via d’illegittima cognazione. Non è strano il mondo?».
Osservai il mantello frusto in cui si avvolgeva il mio interlocutore: «Strano davvero, ma visto che sei un intimo del
Governatore come mai vesti così… dimesso?».
«Quale prodigio d’eleganza quest’aggettivo, non sarai per
caso uno di quei retori-lingua-di-miele?».
Scossi il capo vigorosamente: «No, no, no, li detesto
quelli».
«Bene, anch’io li detesto e tu invece mi sei simpatico.
Dove stavi andando?».
«A cercare qualcosa da mettere sotto i denti, perché nulla
è più impudente del ventre odioso», e il mio stomaco brontolò rumorosamente.
Ater scoppiò a ridere: «Conosci Omero, ma lo sai anche
interpretare. Per Ercole, sei meglio di un lagnoso aedo. Troviamo le cucine, direi che è ora».
Rimediammo pane, ricotta, olive, vino non annacquato, e
andammo in cerca di un angolo tranquillo. Sotto un portico,
sedemmo a mangiare, bere e chiacchierare. Ater sembrava
conoscere molte persone importanti, per tutti aveva una parola cattiva, beffarda, velenosa. Intanto, dal Monte Pangeo
soffiava la brezza, e il suo mantello si gonfiava mostrando
più di un buco e diversi rattoppi. Accortosi che l’osservavo,
disse divertito: «Vesto come un mendicante e parlo come un
re. Chi dice la verità, il mio pallio o la mia linguaccia?».
«Non so. Odisseo ai proci sembrava un mendicante, ma
era il re».
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«Ecco che parli di nuovo come un retore. Anzi, peggio,
come un filosofo».
«Non c’è bisogno di scomodare Platone per distinguere
l’apparenza dalla realtà».
«Ben detto, hai studiato filosofia?».
Feci una smorfia: «Poca, troppi discorsi».
«I discorsi son roba per sofisti, un filosofo parla con le
azioni».
Sorrisi: «L’ho sentito dire, ma ho incontrato solo sofisti.
La mia filosofia sta negli antichi costumi e nell’esempio degli antichi uomini».
«Io sono stato un porco del gregge di Epicuro, ora però
mordo come Diogene».
«Sei un Cinico? Per questo vesti così?».
«In un certo senso. Mio padre era un ricco mercante, aveva il censo equestre, ma negli ultimi anni gli affari andarono
peggiorando. Morì improvvisamente l’anno passato, lasciando molti debiti e una cospicua eredità. Mio fratello
maggiore Tito, nella sua saggezza, decise che non era il caso
di disperderla onorando i debiti di nostro padre e dividendo
il restante con me. Ha studiato retorica, e declamò uno straziante monologo sul destino malvagio e l’umana barbarie
che costringono i figli a espiare le colpe dei padri, e la maledizione degli Atridi, e l’orrenda sorte di Edipo, e un lungo
coro tragico d’eroi. Mio fratello conosce il mondo, quindi,
recandosi dal Legato a perorare le sue ragioni, si è fatto accompagnare dall’avvenente moglie Giulia Telesilla. La mia
causa l’ha patrocinata un dotto giurisperito, durante il giorno. Quella di Tito la mia dolce cognatina, in udienze notturne. E così, dopo scrupoloso esame degli argomenti prodotti
dalle parti, l’eccellentissimo Quinto Pompeo Paventino ha
emesso sentenza favorevole a mio fratello. A me è rimasta
l’eredità materna, con cui ho pagato i debiti di mio padre».
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«Perché l’hai fatto».
«Ho studiato filosofia, non retorica come mio fratello.
Colpa di mio padre, che m’ha lasciato libero di seguire
maestri sciocchi e incapaci d’insegnare cose utili. Per me è
stata una fortuna, però è vero che le colpe dei padri ricadono sui figli. Dovendo scegliere, piuttosto che come Antigone, di fame, preferisco crepare sbudellato, come Polinice. E
mi sono arruolato».
In quel momento, echeggiò il lamento bronzeo di una
buccina. Ritornando verso il cortile principale, ci imbattemmo in Plozio che sgattaiolava fuori dalle cucine con una
salsiccia in mano e l’aria soddisfatta. Attraverso la porta semiaperta una mano femminile gli soffiò un bacio, brandello di profilo, occhi di cerbiatta. Ingelosito e indispettito, urlai: «Non sei mai sazio».
Senza scomporsi, il mio amico addentò la salsiccia:
«Posso mangiare un bue intero e fottere tutte le sacerdotesse del tempio di Afrodite la Meretrice a Corinto».
Masticando, aggiunse: «Mai sazio, mai», e si aggiustò il
cinctus sotto la tunica. Ad Ater questa risposta piacque tanto che lo prese subito in grande simpatia. Era un bene, perché ai suoi morsi Plozio avrebbe risposto coi pugni. Invece
furono grandi risate e pacche sulle spalle.
*
Arrivammo scomposti e rumorosi nel piazzale dove regnava un perfetto silenzio, le reclute immobili sull’attenti.
Con un ghigno che non presagiva nulla di buono, il Primipilare Avitano. Accanto, il Centurione Marziale. Entrati nei
ranghi, andammo sull’attenti, in attesa della tempesta. Primi brontolii, tuoni in lontananza. Avitano venne verso di
noi e con tono cordiale disse: «Ben arrivati, nobili giovani.
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Il cibo è stato di vostro gradimento? Vi siete ritemprati a
sufficienza? Vi porgo il benvenuto da parte del mio signore,
il quale m’incarica di riferirvi che…».
Ci era davanti, il cielo si anneriva, tuoni vicini.
Continuò, voce dispiaciuta: «Che non è per niente contento. E sapete perché?». Ci fissò minacciosamente interrogativo, scuotemmo il capo in segno di diniego.
Avitano ruggì, esplose la tempesta: «Perché il mio signore
è Domiziano Augusto, Comandante Supremo delle Forze
Armate Imperiali, nelle quali vi siete appena arruolati, teste
di legno. Perché siete dei cunni, buoni a nulla e stupidi e sordi per giunta. Perché quando l’Imperatore chiama col segnale della tromba, voi dovete correre, scattare, schizzare
più veloci dei fulmini di Giove Ottimo Massimo. E schierarvi in ordine perfetto prima del dannatissimo terzo squillo!».
La vitis di Avitano scattò una volta, due, tre. Ater crollò
faccia a terra, io stramazzai, Plozio barcollò. Nuova bastonata, si abbatté anche Plozio.
Avitano: «Permesso di entrare nei ranghi, accordato»,
girò su se stesso, tornò al fondo del cortile. Ci rialzammo
intontiti, Plozio si massaggiava il collo. Ma eravamo diventati quattro. Un giovane basso, magro, testone di ricci chiari e naso enorme, stava alla mia sinistra facendo finta di
nulla. Senza girare il capo sibilai: «E tu chi sei? Da dove salti fuori?».
Il quarto mormorò: «Caio Eutichio Massimo, per gli amici Tichidion. Sono arrivato tardi come voi, ma ho aspettato
a rientrare nei ranghi. Per fortuna». Rise sommessamente.
Avrei voluto strangolarlo, ma non potevo muovermi. Ci
pensò Ater a mordere, recitando Sofocle: «La maggior fortuna per l’uomo è il non essere nato. La seconda, morire il più
presto possibile!».
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Eutichio scosse le spalle: «Ma io sono ancora vivo, si vede
che gli dèi mi amano».
Ater: «Se fosse vero, amico, ti avrebbero reso cieco affinché non potessi specchiarti».
Tichidion: «Se m’avessero dato anche la bellezza, sarebbe stato troppo, non credi?».
Soffocai una risata: «A guardarti, devi essere un uomo
immensamente fortunato».
Risuonò il barrito di Avitano: «Silenzio». Il Centurione ci
osservava, braccia lunghe dietro la schiena, vitis impugnata con entrambe le mani: «Per il potere conferitomi, vi arruolo nella X Gemina, erede di aquila e tradizioni della gloriosa legione del divino Cesare. Siete ufficialmente reclute,
grado che nell’universo militare equivale al rango dei vermi
e degli scarafaggi. Davanti a voi quattro mesi d’addestramento durissimo. I sopravvissuti, conquisteranno l’ambita
qualifica di miles, coi molti privilegi che essa comporta. Incluso quello di morire per l’Imperatore. Ma prima di queste
delizie, che già di per sé varrebbero l’arruolamento, vi attende la marcia di trasferimento a destinazione. La eseguirete sotto l’esperta guida del mio aiutante, Centurione Valerio Marziale, al quale trasferisco il comando di questo distaccamento». Detto ciò, si allontanò.
Il Centurione Marziale cominciò a parlare: «Ecco le disposizioni per il viaggio. Non avete diritto a servitori né animali da soma. Riducete il bagaglio a ciò che potete portare
sulle spalle, minore è il peso meglio sarà. Pasti e pernottamento ci sono generosamente offerti dal nostro patrono Domiziano Augusto. Arrivati a destinazione, riceverete il premio d’arruolamento di quattrocento sesterzi. Se ne avete necessità, trovate calzari, tuniche e mantelli nei magazzini del
palazzo. Domande?».
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Si alzò un braccio in prima fila, voce modulata: «Io, domine».
Marziale: «Presentati, poi parla».
Un giovane alto, scuro di capelli e carnagione olivastra,
barba corta ed elegantemente rifinita, tunica bordata d’oro:
«Sono Caio Erennio Tusco, domine, di nobile famiglia e
posseggo il censo equestre. Ti ricorderai certamente di me,
ci siamo visti stamane». Sorrise, in attesa d’un cenno da
Marziale.
Il quale lo squadrò: «Continua».
«Ricorderai anche il fatto che mi sono arruolato come
Centurione, direttamente ex equite romano, in virtù dei privilegi del mio rango. Io non sono, come costoro, un semplice soldato. Ho dunque diritto a un attendente e un mulo. Il
mio equipaggiamento è costato ben quarantamila sesterzi.
Te ne sarò grato io, e con me il mio ospite e parente, l’eccellentissimo Senatore Quinto Statilio Norbano, di cui ho qui
una lettera, domine», e fece per prendere un papiro appeso
alla cintura.
Ater, ad alta voce: «Per aver ospitato nel tuo culo la nobile mentula di Norbano, sei diventato suo parente, Tusco?».
Il giovane sibilò furioso: «Quando sarò Centurione ti frusterò a morte, Cane Nero».
Marziale: «Silenzio».
Tutti tacquero, immobili sull’attenti. Il Centurione, tono
tranquillo: «Caio Erennio Tusco, di nobile famiglia, possessore del censo equestre, futuro Centurione, tieni pure la lettera. Ti assicuro che sarai trattato con tutti i privilegi e le
immunità che competono alla tua condizione».
Tusco sorrise, Marziale anche: «Condizione, che ti ricordo, è quella di recluta. Porterai i tuoi quarantamila sesterzi
di bagaglio sulle spalle. In libertà».
23
Tusco, ammutolito, rimase immobile col papiro in mano.
Ater scandì ad alta voce, adattandolo fulmineamente, un velenoso verso di Catullo: «Litterae Norbani cacata charta».
*
Passammo la notte nel palazzo. Non più un civile, non
ancora un soldato, ero una recluta. Dovevo superare i quattro mesi d’addestramento, giurare, e finalmente sarei entrato a far parte dell’esercito imperiale. Avrei ottenuto rango e distinzione portando il titolo di miles, comune ai soldati d’ogni grado e persino all’Imperatore. Lo si mantiene
anche dopo il congedo, per il prestigio e perché, più che un
titolo onorifico, è il sigillo d’un destino e la narrazione di
una vita. Accompagna infine i nomi sulle lapidi, che scolpiscono nel tempo quel frammento d’eternità che è l’esistenza mortale. Ne avevo viste tante, di lapidi, lungo le strade
che portano alla fortezza di Oescus. Alcune appartenevano
a uomini che mio padre aveva conosciuto, e me ne narrava
aneddoti, gesta, decorazioni. Non mancava mai di citarne i
detti preferiti dei caduti, e di alzare in loro onore il boccale.
Fin da bambino sono stato abituato a considerare i morti
non come assenti, ma presenti. Da quando anche mio padre è passato nelle loro file, sento spesso il suo passo accanto a me, a volte vedo la sua ombra, un brandello di profilo.
Allora mi giro, ma è già svanito. Resta però un tepore nell’anima, come di un sorriso. Quella notte lo sognai. Poco dopo
l’alba, dalle porte della città usciva un uomo a cavallo, seguito da un gruppo di giovani a piedi. Il vento soffiava freddo dalle montagne verso il mare, imboccammo la via ben
lastricata. Inspiravo l’aria pulita e sorridevo, ancora recluta, muovevo i miei primi passi da soldato.
24
indice
Prologo
5
Probatio
Helix
Minucio
Breux
L’oro del Norico
Brannos
Il canto dei lupi
Ligarino
Macrinio
Forfex
Conodomar
Nama Soli Invicto
Veleda
Epilogo
9
25
41
63
81
99
115
131
151
169
191
207
221
237
Nella legione e tra le province dell’Impero,
la realtà della vita militare dietro le quinte
del romanzo
Glossari
239
245