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STORIA/CULTURA
n
di RENZO FRACALOSSI
TERRA TRENTINA
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u queste pagine abbiamo più volte affrontato alcuni temi della storia medioevale, ovvero di quei capitoli del percorso umano che forse sono, almeno a livello scolastico, fra
i meno frequentati. Ma parlare di epoca medioevale
vuol dire anzitutto conoscere la figura più rilevante di
quel periodo, che fu sicuramente quella dei Cavalieri.
Vediamo chi erano costoro.
Quel complesso insieme
di tradizioni, costumi atteggiamenti mentali ed istituzioni che noi usiamo indicare
con il termine policomprensivo di “Cavalleria”, si sviluppò lentamente a partire dal
X secolo per giungere a maturazione tra l’XI e il XIII secolo – l’”età cavalleresca” per
eccellenza; quella delle Crociate, degli ordini monasticomilitari, della cultura cortese
– indi lentamente decadere,
non senza però episodici “ritorni di fiamma”, anzi talora
autentici revival.
L’esser “Cavalier e”, sia
pure di uno dei molti ordini
creati dai vari sovrani a partire dalla fine del Medioevo
per premiare e per tenere legati alla loro casa i sudditi
più capaci ed intraprendenti, costituì un vanto per generazioni intere di piccoli nobili e di borghesi arricchiti.
Quello dei Cavalieri non
era però un gruppo chiuso:
solo a partire dalla fine del
XII secolo ci sarebbe voluta
l’appartenenza ad un casato
di cavalieri per accedervi, e
l’aristocrazia cavalleresca
avrebbe mosso i primi passi
verso la trasformazione in
nobiltà di sangue. Tuttavia
era un gruppo che accoglieva per cooptazione e riconosceva come fratelli d’arme i
suoi membri.
Questi circoli di guerrieri
avevano un loro patrimonio
iniziatico-rituale, al quale si
accedeva passando per una
cerimonia specifica, quella
che sarebbe poi divenuta
“l’addobbamento” o “vestizione”. Non bastava dunque
possedere un paio di cavalli,
delle armi e doti personali di
vigore e di coraggio fisico: bisognava essere anche accettati. Quindi l’essere Cavalieri
richiedeva tre diversi ordini
di requisiti: mezzi economici, preparazione professionale, cooptazione nel gruppo
dei già insigniti della dignità
cavalleresca.
Sulla Cavalleria sappiamo
parecchie cose; in particolare, molto conosciamo su quei
Cavalieri che decidevano di
entrare in una religio, in un
ordine monastico-militare, e
sulla vita che all’interno di
esso conducevano. Ma nonostante ciò, la Cavalleria come
tale restava un fatto laico: e
non è un caso che essa ricevesse la sua prima sanzione
e la sua prima decisa formulazione etica proprio nel corso della riforma ecclesiastica
del XI secolo, allorché molti
guerrieri si posero al servizio
di Gregorio VII, per collaborare all’opera di risanamento
dei costumi della Chiesa.
I secoli XI-XII sono quelli
dell’incremento demografico
dell’Occidente, della conquista di nuove terre coltivabili
strappare alla brughiera, della rinascita del mondo urbano, della riconquista cristiana del bacino mediterraneo,
del rinnovarsi dell’economia
monetaria. Al crescere delle
fortune dei ceti mercantili e
anche di quelle delle grandi
abbazie che seppero per tempo cogliere il vento nuovo e
mobilitare le loro forze produttive trasformandosi in centri di gestione di “fattorie modello”, corrisponde un’ampia
e profonda crisi della feudalità laica, specie nei suoi quadri più bassi: i milites accasati nei piccoli feudi dipendenti dalle castellanie, quei
guerrieri-contadini che talora erano anche proprietari
terrieri liberi, cioè detentori
di “allodi”, terre non soggette a vincoli feudali, e che alternavano la gestione del loro
modesto patrimonio rurale ai
turni di guardia presso la dimora del castellano.
Piccoli e piccolissimi feudatari, quindi, oppure figli cadetti di illustre o meno illu-
maggioranza espressione dell’ambiente monastico, non
sono teneri con le comitive
di giovani Cavalieri: e, se anche bisogna tener presente
che essi partono da posizioni spesso preconcette e come
tali non accettabili senza un
rigoroso controllo, in genere
paiono veritiere. Abbiamo
così una triste sequela di vendette, di crudeltà, di rapine,
perfino di sacrileghe profanazioni. Il disordine morale regna nelle comitive cavalleresche; così come la sodomia,
che del resto è abbastanza tipica, antropologicamente
parlando, delle società iniziatiche militari. Il rapporto maestro-discepolo, fondamentale nell’etica cavalleresca, ha
risvolti che non sarà mai possibile cristianizzare, ma che
al massimo si celeranno in
varia maniera. Anche per
questo nel corso del XI secolo, gli ambienti dei riformatori della Chiesa – quelli facenti capo ad Ildebrando di
Soana (poi papa Gregorio
VII) – cercheranno di elaborare un ideale del Cavaliere
come laico al servizio della
Chiesa, della pace e della giustizia, come miles Christi, e
appunto da quell’elaborazione nascerà l’etica del riparatore disinteressato dei torti,
del protettore degli orfani e
dei miseri, del difensore degli oppressi.
E questa è l’immagine, peraltro, che giunge fino a noi
attraverso la letteratura e poi
il teatro ed il cinema, ma che
non deve farci dimenticare
cosa in realtà erano i Cavalieri che, come abbiamo visto, erano militari di professione e forse “imprenditori
agricoli”, soprattutto nelle nostre vallate. Custodi del territorio e delle sue ricchezze, ma
anche dei valori di una società come quella medievale,
così complessa e ricca di fascino.
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non avevano cioè ricevuto
l’addobbamento e non lo
avrebbero ricevuto mai, per
quanto ci sia da chiedersi
quanto fosse frequente lo
spacciarsi indebitamente per
Cavaliere l’usurparne le insegne, dato che l’esser tale non
comportava ancora uno status giuridico preciso e dato
che il meccanismo di cooptazione era per sua natura
flessibile (un adagio francese diceva che “ogni Cavaliere può creare a sua volta dei
Cavalieri”: a partire dalla seconda metà del XII secolo, il
diritto di “addobbare” sarebbe viceversa stato ristretto, di
fatto prima che di diritto, ai
principi e – con la liturgizzazione della cerimonia – ai vescovi).
Nelle fonti medievali, lo
iuvenis è un personaggio caratteristico, il neocavaliere
che parte per l’avventura attorniato da altri neocavalieri,
da scudieri a loro volta desiderosi di dimostrare con i fatti
di esser degni dell’addobbamento, da sergenti destinati
a rimanere in uno stato inferiore e tuttavia trattati come
fratelli d’arme. Il mondo cavalleresco, per sua natura
gerarchico, conosce tuttavia
un profondo egualitarismo di
gruppo, come tutte le società militari del resto.
Ed eccoci quindi davanti
al Cavaliere errante, una realtà effettiva, anche se meno
romantica di quanto Orlando
e don Chisciotte ci hanno insegnato a ritenere.
Le avventure che i nostri
iuvenes affrontavano e che,
giunti poi alla maturità amavano rileggere nelle belle pagine di Chrétien de Troyes o
di Wolfram von Eschenbach,
erano per la verità un tantino più crude anche se non
meno movimentate dei loro
modelli letterari. I testi cronistici, che per i secoli XI-XIII
sono nella loro stragrande
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stre casata: il figlio minore
che abbandona la casa paterna e che se ne va per il mondo in cerca di fortuna risponde certo al vecchio schema
biblico del “figliol prodigo”,
ma non si spiega solo con
esso. In genere, non si lasciavano alle spalle la loro dimora avita senza una meta o una
prospettiva. L’una e l’altra
dovevano essere costituite al
contrario, nella maggioranza
dei casi, dal “servizio” presso un più alto signore feudale. Ogni corte signorile abbastanza ricca e potente da poter ospitar e un gruppo di
guerrieri in una sorta di
guardia del corpo del signore diveniva un centro d’istruzione tecnica e di elaborazione ideologica di giovani cavalieri o aspiranti alla dignità cavalleresca. Inversamente, il chiostro attendeva i rampolli illustri che la natura non
aveva favorito: i deboli, gli
ammalati, gli affetti da imperfezioni che impedivano
l’esercizio delle armi.
La Corte del grande signore feudale ospitava anzi sovente anche i figli dei signori
vicini o meno vicini, che trascorsa presso la famiglia
d’origine la loro infanzia venivano poi spediti ad un illustre amico o parente per compiere il loro bravo tirocinio
pre-cavalleresco in qualità di
paggi o poi di scudieri. E accanto a loro c’era il “proletariato cavalleresco” di quelli
che – magari elevati alla dignità dal nulla, o divenuti
scudieri ed in attesa della
“cintura” – si aspettavano dal
signore non solo il quotidiano sostentamento, ma anche
dei doni-salario in cambio
della loro prestazione di guardia del corpo: doni che erano appunto vesti, armi, cavalli. E ancora accanto a questi,
i “sergenti”, che potevano
anche combattere a cavallo,
ma che non erano milites,
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