L`urlodistradadiArias-Misson

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L`urlodistradadiArias-Misson
Cultura bresciana 47
BRESCIAOGGI
Giovedì 15 Settembre 2011
MOSTRE. Nello spazio dellaFondazioneBerardellisonoesposti «ThePublic Poem -Extension Program»
PUBBLICAZIONI. Edito dall’Obliquo
Espone il suo primo lavoro nel 1968
Agrandiletterecubitali colorrosso
sangue,vicinoaPlace Brouckére,
scrivelaparolaViet-Nam
Introducono Francesco Scarabicchi
PietroGibellini eMassimo Raffaeli
L’urlodistrada di Arias-Misson
Mauro Corradini
Una vita nomade, quella di
Alain Arias-Misson, che inizia
fin dall'infanzia, costretto con
la famiglia a spostarsi dal natio Belgio negli Usa (la seconda guerra mondiale era nell'
aria, in quel lontano 1936), ma
in questo nomadismo (Usa,
Francia, Belgio naturalmente,
Italia, otto lingue parlate e
una laurea ad Harvard, in letteratura francese e greca), il
naturale incontro con la parola e con il segno, con quella forma d'arte che è la poesia visiva, che Arias-Misson ha interpretato in una forma peculiare, quella performativa, che diviene la sua essenziale sigla
espressiva.
L'inizio di questa attività,
che risale alla metà degli anni
sessanta (Arias-Misson si affaccia alla ribalta poetica, traducendo in plexiglass un poema tridimensionale, «Permutational Poem») avviene nei
confronti della storia, che ribussava alle porte della sua
sensibilità, come era avvenuto
nel 1939, quando aveva 3 anni;
nel 1968 elabora il suo primo
Pubblic Poem, esponendolo
sulla strada.
Questa diviene da quel momento l'ideale «pagina» di
ogni testo visivo: espone, a
grandi lettere cubitali dipinte
di color rosso sangue la parola
«Viet-Nam»: siamo a Bruxelles, nelle vicinanze della Place
de Brouckère.
LA PAROLA, il color sangue, il
momento storico sono una sufficiente sequenza di dati per
comprendere come l'artista
voglia ad un tempo affermare
e provocare, mostrare e riflettere sull'uso della parola; quella di Arias-Misson è una variante engagée della poesia visiva (non la sola, certamente),
che si caratterizza da subito
nel rapporto con la realtà circostante: la provocazione ha
senso se realizzata in un certo
luogo, se realizzata in una certa forma, e così via.
La singolare avventura linguistica dell'artista belga viene presentata alla Fondazione
Berardelli nella sua compiutezza; proprio perché modello
non solo d'elaborazione ma di
performance, la sua poesia visiva non può che essere recuperata ricostituendo il clima e
il processo con cui l'artista la
realizzò: attraverso un lavoro
che lo ha occupato per tutto il
2010, Arias-Misson ha realizzato una ventina di eventi performativi, ad iniziare dal Pubblic Poem di Madrid (1969) costruito sulla parola «dada» e
sulle varianti possibili (non si
«Quattordicipoesie»
Bandiniricerca
ilsensodellecose
Alessandra Giappi
Un«PublicPoem» diAlain Arias-Misson eaboratodallaparola «Dada»
Lasingolare
avventura
linguistica
riproposta
nellasua
compiutezza
L’artistabelga
dallavitanomade
harealizzato
unaventina
dieventi
performativi
dimentichi che siamo ancora
nella Spagna del dittatore
Francisco Franco).
La riproposta dell'artista
non è solo un documento visivo dell'accaduto, che pure sussiste, ma è una rivisitazione e
reinvenzione che accresce l'aura del Poema: ad un tempo ci
si riporta al clima dei tempi
(40 anni di storia), ma si rivaluta quel segno ricondotto all'oggi.
E SONO RICOSTRUZIONI, installazioni innovative e poetiche,
linguisticamente sempre attente, attraverso cui seguiamo
un percorso e possiamo, contemporaneamente, soffermarci sulla singola installazione,
senza alcun rinvio alla storia;
l'opera vive di una rinnovata
giovinezza, nel momento stesso in cui l'autore recupera la
parola e la capacità visiva di ridarle un ambito e un volto che
la arricchiscono aumentandone i significati.
Una rilettura che la Fondazione Berardelli ha voluto fare
con puntualità per questa occasione. Ma si tratta anche di
un viaggio a ritroso che lo stesso autore ha compiuto, rileggendo se stesso e rivedendosi
in un percorso poetico di coerente e rigorosa continuità.
Alain Arias-Misson «The Public
Poem - Extension Program»;
Galleria Fondazione Berardelli
in via Milano, 107. (fino al 2 ottobre).
Ha un titolo sobrio l’ultima
raccolta di Fernando Bandini,
«Quattordici poesie», edita
dalla bresciana l’Obliquo, accompagnata dalle note di tre
raffinate firme della critica e
della letteratura italiana: Pietro Gibellini, Massimo Raffaeli, Francesco Scarabicchi.
È il canto di un poeta propenso ostinatamente a credere ai
sogni: «Vengo da un vecchio
mondo che credeva alle fate».
E proprio la fede nelle illusioni, in un tempo in cui tutto
crolla - certezze, speranze, borse, musei -, insieme alla volontà di dare un senso alle cose è
segnale della poesia, della
grande poesia, non immune
da rischi e scompensi: «Forse
è nato da questa / smania di
dare un senso alle cose l’ammanco / che mi ritrovo di una
vera vita». Nella poesia noi lettori amiamo le immagini e la
musica, ma da Leopardi in poi
cerchiamo anche la filosofia..
Questi versi di Bandini dipingono sullo sfondo il paesaggio
veneto (la sua Vicenza, la quinta dei Berici) e nordico: le nevi
soprattutto, antiche e favolose, alla Bruegel, così abbondanti che adesso non se ne vedono più, rievocano il passato,
l’infanzia e l’innocenza del po-
eta e di tutti come una ricchezza da consegnare ad altri, a chi
rimane e a chi verrà. Passato e
futuro si tengono, si alleano:
«Memoria del futuro» si intitolava il libro del ’69. Il poeta,
pur credendo alle favole e avvertendo il lavorio di ciò che
deve accadere, è ben legato alla realtà. La precisione da ornitologo di marca pascoliana tradisce - traduce - il suo amore
per le creature della terra, popolata di usignoli, tordi, codirossi, caprimulghi, allodole,
gufi, da un’invasione di affamati beccofrusoni.
Suona come una confessione
la bella «Passeggiata al tramonto»: «Ero vecchio ma ancora non avevo / vuotato il sacco». La poesia vince il tempo,
tema immenso che investe
l’ambito del rapporto con il
mondo, con ogni possesso che
raramente è durevole: «Molte
cose che amavo sono volate
via / anche dopo, la causa qualche enorme / distrazione del
cuore».
Il tono del libro ha la dolcezza e l’amarezza della poesia
della maturità. Si chiude con
un «Omaggio a Rimbaud»,
una versione del «Bateau
ivre» tutta da gustare. Altre
stagioni ci aspettano, caro
Bandini dal sempre giovane
cuore, altre feste. Molto resta
ancora da dire. f
SETTECENTO E DINTORNI. Rileggendo le cronache raccolte nel Compendio storico della città di Brescia di Andrea Costa STORIALOCALE. Ricerca diAngelo Bonaglia
Il fratricidiodi Dariaallarmala Serenissima Porzanodi Leno
scavanella storia
trail 1200e il 1500
Latristevicendamatura acausa
diun gattotroppo ladro
Riccardo Bartoletti
Le cronache settecentesche
cittadine raccolte nel Compendio storico della città di Brescia di Andrea Costa descrivono un efferato fratricidio compiuto con fredda determinazione da una nobildonna bresciana alla nel mese di agosto
del 1772. Il fatto da un lato lascia stupiti per il futile pretesto che lo generò, dall'altra incuriosisce in quanto getta uno
sguardo quanto mai vivo sulla
condotta della giustizia in
quell'epoca, indebolita da casi
di corruzione e da ottusi cavilli burocratici, che ne ostacolavano il corretto funzionamento.
Protagonista della rocambolesca vicenda è la nobildonna
Daria degli Emigli, famiglia di
antichi feudatari, che ottenne
importanti cariche pubbliche
già nel corso del Quattrocento
e, a Brescia, possedeva un palazzo, tuttora esistente, in contrada Santa Chiara di fronte
all'ex monastero delle Clarisse.
Qui vi abitava Emilio, Cancelliere della Città, con la moglie
Giulia e i figli Lodovico, eletto
Canonico Arciprete della Cattedrale, Battista, Lelia, Lucia,
Daria. Morti il padre e il secondogenito Battista, gli altri componenti il nucleo familiare
continuarono ad abitare assie-
me nell'edificio.
Il 29 agosto del 1772 si accese
un improvviso diverbio fra
don Lodovico e la sorella Daria, a causa di maldestri e ripetuti furti domestici compiuti
dal gatto di casa.
Il primo minacciava di uccidere l'animale se non l'avesse
smessa, l'altra attaccò il fratello con parole ingiuriose, tanto
che quegli incollerito le rispose con uno schiaffo (una guanciata).
Daria, risoluta, fece caricare
una pistola per vendicarsi dell'
affronto subìto e il giorno successivo entrò nella stanza del
fratello, a colloquio con un
membro dei nobili Soncini, e
gli scaricò una pistolettata nella testa (così recita la colorita
cronaca del Costa).
Immediatamente si diffuse
la notizia della morte del Canonico e nei registri mortuari della Parrocchia di San Faustino
l'efferato delitto fu registrato
come omicidio per mano di
ignoti, probabilmente per preservare la rispettabilità della
famiglia.
Se il veridico racconto ha del
paradossale, ancora più anomali risultano gli sviluppi successivi, che videro la squilibrata fratricida prima tentare vanamente l'intercessione dell'
Eccellentissimo Vescovo Giovanni Molin poi vagabondare
quasi impunemente fra i territori della Serenissima, dello
Lapubblicazione ècorredata
dafotografiedi AngeloBoffelli
IlCastello di Bresciain unastampa dell’epoca
Stato di Milano e del Ducato
di Parma, creando addirittura
momenti di tensione diplomatica fra questi stati.
Infatti, dopo che il vescovo le
negò in modo categorico il suo
aiuto, Daria fuggì sotto mentite spoglie da Brescia, forse con
la complicità di alcuni gendarmi, oltrepassando il confine
dello stato veneto. Da Soncino, grazie alla connivenza del
Vice Reggente di quel luogo,
potè proseguire verso Piacenza.
Nel frattempo a Brescia è il
Podestà e Vice Capitano Francesco Vendramin a coordinare in prima persona le azioni
per la cattura della fuggitiva.
Una volta che la donna fu intercettata nella città emiliana,
il Governatore ne ordinò il fermo, ma uno specioso iter burocratico ostacolò il «rimpa-
trio» a Brescia. Infatti il Duca
di Parma Ferdinando di Borbone, a cui Vendramin aveva
richiesto la consegna della
Emigli (ricordiamo che Piacenza apparteneva al ducato
parmense), rifiutò di collaborare fintanto che non fosse stato il Senato di Venezia a formalizzare tale domanda.
Nel frattempo le sorelle di
Daria ebbero un'udienza privata presso la moglie del Duca, ottenendo fra lacrime e
suppliche che non fosse consegnata a Venezia ma rinchiusa
in un monastero. In realtà Daria fuggì con il figlio del bargello di Parma. La vicenda nel
frattempo presenta strascichi
politico-giuridici sempre più
complessi. La Serenissima,
preoccupata che la situazione
le fosse sfuggita di mano, «scomodò» il Consiglio dei Dieci,
suo massimo organo di governo, per imbastire un processo
in contumacia, sentenziando
il definitivo bando della donna dallo Stato o la decapitazione in Venezia se fosse stata presa.
Solo nel 1777 si giunse ad un
ormai insperato epilogo. Daria, di passaggio a Coniolo, paese vicino a Orzinuovi fu riconosciuta da una guardia; consegnata al provveditore orceano, fu successivamente condotta a Brescia e da qui a Venezia dove il Consiglio dei Dieci,
avrebbe pronunciato la condanna capitale.
Solo l'ennesimo implorante
intervento delle due sorelle di
fronte al Doge e al Consiglio
mutò la sentenza in carcere a
vita. Daria Emigli morì nelle
segrete del Palazzo Ducale nel
giugno del 1778. f
Presentato il volume «Porzano nei secoli XIII e XV» con documenti, immagini storiche e
impressioni attuali negli scatti di Angelo Boffelli. Si tratta
del secondo volume scritto da
Angelo Bonaglia che prosegue
un impegno «vigoroso in continuità con la precedente edizione "Porzano: storia e documenta dalle origini al 1200"»,
osserva il sindaco Pietro Bisinella nel considerare come «a
fronte di una vasta conoscenza storico agiografica è proprio un peccato che a parlarci
del Comune di Porzano siano
rimasti effettivamente pochi
documenti anche se quelli approfonditi in questo studio sono pregevoli ed interessanti».
Porzano infatti da comune autonomo è diventato frazione
di Leno con la riforma dello
stato del 1929 e solo recentemente l'archivio storico è stato restaurato e conservato accanto al fondo antico di Leno
pur con molta fatica essendo
smarriti documenti certamente importanti.
«Con questo nuovo lavoro sono analizzati e aggiunti altri secoli di conoscenza alla storia
di Porzano e dei suoi abitanti», rileva Rinaldo Floriani,
presidente della Pro Loco che
col Comune ha contribuito a
sostenere la pubblicazione
unitamente ad Cassa Padana,
alcune aziende e privati tra i
quali Gian Battista Bambini.
Anche la parrocchia ha dato
il proprio sostegno all'impresa che «ci lega alla verità del
passato» commenta il parroco don Roberto Rovaris, al quale va riconosciuta l’accesa passione per l'arte sacra.
Riferisce l'autore che «molti
sono stati i problemi incontrati durante la ricerca sia per le
scarse fonti documentarie che
storiografiche in quanto la località per la sua poca consistenza economica, geografica
e politica non destava, allora,
interessi particolari. I documenti reperiti e le cronaca del
tempo, del resto, attestano in
particolare solo i fatti più sensazionali. Porzano presenta
sei atti giuridici, cinque dei
quali sono dello stesso anno
ed emanati nel maggio-giugno del 1358, il sesto nel
1454».
Sono documenti che riguardano l'acquisizione dei beni di
Filippino da Porzano e di Giannino Cervelato da parte del Comune e le vicende collegate alla pace di Ferrara ed a quella
di Lodi. f F.PIO.