A colori MoCa (im)Press

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Per costruire bisogna abbattere
Ha proprio ragione Michela
Murgia quando dice che siamo ancora sotto la cappa di
una famiglia patriarcale e di
una società che stenta a decostruire pregiudizi. Certo la
legge dice altro, infatti parifica il ruolo dell’uomo e della
donna nella famiglia, e nella
società in genere, ma cosa
accade nella realtà sociale? Accade che in due
giorni tre donne sono
letteralmente massacrate
dai loro compagni, mentre la famiglia, quella
sana, giusta, naturale,
tradizionale scende in
piazza per difendersi contro un mostro a due teste:
unione civile e stepchild
adoption. Cosa vuol dire
difendere la normalità,
quella determinata dalla
consuetudine? Mantenere
in vita stereotipi e pregiudizi, in molti casi. Lo
dimostrano da un lato la
violenza che molte donne
subiscono nel quotidiano
da parte dei loro compagni o
anche dei loro figli e dall’altro
la necessità di continuare a
etichettare qualsiasi azione o
fatto straordinario compiuto
da una donna non per quello
che esso è in sé ma per l’appartenenza ad un genere.
Viene prima cioè l’essere donna e poi il suo ruolo o la sua
funzione o la sua impresa. La
società continua a mantenere
viva, anche attraverso procedimenti educativi meccanici,
quasi inconsci, l’idea della
superiorità maschile. Quando
si tenta di decostruire tale
struttura allora si innesca un
meccanismo di difesa. La
decostruzione è pericolosa,
mina il tessuto sociale, per
cui bisogna osteggiarla. Guai
alla scuola che intenda insegnare ai suoi alunni le differenze di genere! L’ultima
riforma della scuola ci aveva
provato inserendo (forse uni-
co elemento da salvare di una
delle peggiori riforme scolastiche!) nella art. 1 il comma
16 “Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei princìpi di pari
opportunità promuovendo
nelle scuole di ogni ordine e
grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione
della violenza di genere e di
tutte le discriminazioni, al
fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti
e i genitori sulle tematiche
indicate dall’articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14
agosto 2013…” Apriti cielo!
L’educazione alle differenze
di genere è stata trasformata
da famiglie “normali” e da
una certa stampa in un altro
terribile mostro: il gender! A
scuola, secondo costoro, si
sarebbero insegnate, tra l’altro, masturbazione e pratiche sessuali. Cari signori, è
tanto difficile da capire
la lingua italiana? Quando vi indignate di fronte
alle notizie di violenze
familiari, pensate al
comma 16 dell’art.1. La
violenza non si risolve
solo con una legge che
introduca il reato di femminicidio, ma anche e
soprattutto attraverso la
formazione
culturale
delle persone. La famiglia e la scuola sono i
due principali contesti
educativi chiamati ad
assumersi tale responsabilità. Sono i primi luoghi frequentati dalla
persona ed è lì che essa
deve apprendere che
ognuno è una persona e non
che ognuno o è maschio o è
femmina. Smettetela di appellarvi all’assurda idea di
temi eticamente sensibili su
cui solo la famiglia può intervenire. Smettetela di sbandierare parole straniere dal
suono minaccioso. Smettetela di combattere coppie
“anormali” che si amano e
che amano i loro figli. Traducete il vostro sdegno per la
violenza in educazione al
rispetto delle differenze.
La Redazione
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Sommario
Chi siete? A chi ...
2
“Arte perché non…”
2
L’alieno
3
A Giulio
3
L’oltretomba dei...
4
Le occasioni di...
5
Medioevo fatto in...
5
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MoCa (im)Press Febbraio 2016
Chi siete? A chi appartenete? Cosa andate cercando?
Musica e musicanti… e poesie e leggende e visioni,
aggiungerei! Chi ha visto il documentario (anche se
la classificazione è un po’ riduttiva) Nel paese dei
Coppoloni di Stefano Obino con Vinicio Capossela,
tratto o forse meglio ispirato al romanzo omonimo di
quest’ultimo, riconosce nel titolo la domanda che
ripetutamente viene fatta dallo stesso Capossela
quasi a dare un senso al percorso compiuto artisticamente ed umanamente. Cosa sto cercando? Musica e
musicanti, perché questo meraviglioso viaggio tra
suoni, parole, luoghi della memoria ed antiche tradizioni è in realtà il percorso artistico di un cantautore
e non a caso culminerà con l’uscita del nuovo album,
Le canzoni della Cupa. Un linguaggio molto forbito,
una fotografia realistica e asciutta, canzoni come
litanie rendono il documentario non immediatamente fruibile (ma il pubblico, probabilmente, non è lo stesso di Quo vado?!), ma a mio avviso estremamente poetico ed a tratti
onirico. Del resto, la bellezza del lavoro di Capossela sta tutta nel suo rendere visionaria un’opera che parte della ruralità a
noi più vicina, per innalzarsi a picchi danteschi! Il film è diviso in capitoli ed è ambientato per lo più tra Calitri e Cairano,
luoghi che hanno fatto da scenario anche allo Sponz Fest di questa estate e ad un’intervista-racconto allo stesso Capossela
fanno da intermezzo scene del concertone estivo per i venticinque anni di carriera ed una sorta di videoclip delle canzoni. Io
sono stata letteralmente rapita dalla scena di Capossela che porta sulle spalle una fascina a mo’ di ali ed intona una struggente canzone sul mulo, impersonando magnificamente il viandante solitario! Non piace a tutti questo artista, come del resto accade per le cose complicate. Ma credo sia ormai innegabile che faccia parte di quegli autori destinati a lasciare un segno nella cultura italiana, anche per quella sua capacità di far danzare le parole raccontando di mondi così lontani, eppure
così familiari. Il documentario si chiude con una chicca, il video de Il Pumminale, primo singolo estratto dal nuovo album,
magistralmente girato da Lech Kowalski, regista di documentari punk, anche lui probabilmente travolto dalla vena creativa
e dal fascino di Capossela. E allora si esce inevitabilmente dalla sala intonando “nella notte di luna … nella luce di luna ….”
e per un attimo l’incubo del cinema gremito per il Checco nazionale svanisce!!
Giuseppina Volpe
[email protected]
“Arte perché non parli?” Ma forse è meglio di no!
Capita che in un giorno di Gennaio, guardando il tg, mi imbatto nella
notizia della visita del primo ministro iraniano Rouhani in Italia. E
fin qua niente di eclatante. La giornalista si affretta subito a comunicarci che all’ospite iraniano sono stati fatti visitare i Musei Capitolini,
ma…con la censura. Statue che rappresentano un nudo vengono coperte ad arte da pannelli, in modo tale da non turbare l’insigne ospite.
Ammetto di aver avuto una reazione abbastanza dura e per decenza
non riporto gli epiteti utilizzati. Andiamo con calma. Ho un rapporto
con l’arte ormai quasi ventennale e da sempre il mio approccio con
essa è stato tranquillo. Non ho mai guardato ai nudi con malizia, anche quando erano tempi di tempeste ormonali adolescenziali. Per me,
o meglio per tutti quelli che si accostano alla scultura, un nudo è solo
ed esclusivamente una manifestazione di arte e non un oggetto pornografico da non esibire. La nostra cultura e le nostre radici sono etrusche, greche, romane, quindi risalgono ad una società dove la bellezza
era un valore essenziale. E la massima espressione del bello avveniva
proprio attraverso l’arte che, fortunatamente, era ben lontana da tabù
e leziosità odierne. Una cosa è certa: con la storia delle nudità scultoree coperte per non dispiacere al primo ministro iraniano Rouhani, abbiamo fatto, in giro per il mondo, una figura molto misera. Siamo stati visti come una banda di ruffiani che
all’uopo sono sempre pronti a compiacere chi ci interessa (leggasi interessi monetari!) in modo un po’ servile. Insomma ci
siamo fatti ridere dietro. Il web si è sbizzarrito con una satira estremamente pungente. Chi ha avuto quest’idea doveva necessariamente essere deriso. Ovviamente nessuno ne sa niente e, come in una partita di calcio, i nostri fantastici fuoriclasse
(premier, ministro dei beni culturali, responsabili dei Musei Capitolini) si passano la palla in un rimpallo di responsabilità,
tanto alla fine ce ne dimenticheremo e non conosceremo mai il responsabile. A prescindere dalle responsabilità (che onestamente neanche mi interessano più di tanto!) un fatto resta inconfutabile: siamo stati proprio ridicoli! Tutto sommato però è
in linea col nostro spirito, come non ricordare la visita di Gheddafi a Roma qualche anno fa? Chiese ed ottenne l'allestimento della sua tenda beduina a Villa Pamphili attorniato da amazzoni e cavalli berberi. E Berlusconi che gli fece pure il baciamano? Se è vero che gli interessi economici muovono tutto e, nel caso di Teheran sono necessari, perché non organizzare la
visita di Rouhani in modo più accorto, evitando “incidenti” come questo? A che serve altrimenti la diplomazia?
Laura Bonavitacola
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MoCa (im)Press Febbraio 2016
L'alieno
Sono trascorsi un po' di anni. Era, come
capita spesso a noi precari, il solito incarico in qualche Scuola in qualche paese remoto. Quel giorno di diverso c'era
solo la permanenza pomeridiana per i
Consigli di classe, cosa tediosa in quanto costringe a sostare dopo il termine
delle lezioni in lande desolate, in paesi
negletti. Il tragitto prevede un lungo
viaggio nel nulla, a farti compagnia da
un certo punto in poi ci sono solo le pale
eoliche che si stagliano come giganti ai
tuoi lati dimenando le loro braccia. In
uno scenario post-apocalittico un visitatore alieno avrebbe potuto interpretarle
come statue erette a divinità di una
civiltà scomparsa: dèi a cui si innalzavano statue da venerare, che in cambio
dello scempio del panorama concedevano un po' di elettricità. Mi immedesimai
nell'alieno. Uno dei pochi punti di riferimento nel lungo tragitto era un bar: il
tempo di un caffè, di sorbirmi un avventore che elencava le virtù della squadra
di calcio dell'Avellino che si contrapponeva al barista che teneva per il Napoli
(credo che la vertenza fosse “Chi rappresenta meglio la 'terronità' tra i tifosi
dell'una e dell'altra squadra?”) e mi
alienai. Pagai in fretta, non avevo voglia di essere elevato a giudice di quella
dotta querela. Giunsi a Scuola, un plesso di buon valore, personale preparato e
cortese. Lo svolgimento delle lezioni fu
tranquillo. Il problema adesso era perdere tempo. Allo scopo di procacciarmi
il pranzo mi recai in un modesto bar.
Davanti a questo sostavano giovani
umani; quello che sembrava essere il
maschio alfa esponeva i suoi concetti:
33 cl di filosofia spiccia, estratti da una
bottiglia di birra danese. Opposi a
quello strazio il sempre utile cinismo
tabagista, quella coltre di fumo che noi
alieni usiamo per isolarci, ma quello
scudo non mi impedì di percepire che il
soggetto voleva recarsi al Nord. Altra
inalazione di nicotina e pensai: “A Nord
di cosa? Non esiste un Nord dall'essere
un tamarro...”. Rifugiatomi nella mia
auto, ormai eletta mia navicella spaziale, ebbi a consumare una pizzetta buona nel gusto ma gommosa nella consistenza e un tramezzino al tonno, ma da
cui il tonno evidentemente aveva deciso
di scappare via. ”Cibo umanoide” riflettei tra me e me. Giunse l'ora dei consigli di classe, lo stato d'animo di tutti
era “sbrighiamoci”; faceva eccezione un
docente di diritto che disquisiva sulla
necessità di firmare foglio per foglio
ogni documento redatto. Il suo registro
sembrava un faldone di una qualche
procura, ma non ebbe ad insistere più
di tanto nel merito: non voleva fare
l'alieno. Così potei intraprendere il
viaggio verso il pianeta d'origine, la
luce del giorno era scomparsa, i giganti
con le braccia roteanti non erano più
visibili. Durante il viaggio mi venivano
in mente le parole di “Space Oddity” del
compianto Bowie: “…perché sto seduto
in un barattolo di latta, lontano sopra il
mondo, il pianeta Terra è blu e non c'è
niente che io possa fare”; caro David, se
non c'è niente che possa fare Ziggy
Stardust, figuriamoci cosa posso far io,
un alieno di second'ordine.
Adamo Gambone
Inviaci un tuo articolo, lo pubblicheremo!
A Giulio
Caro Giulio, non riesco a pensare parole che, in tale tragica circostanza, non suonino
retoriche. Eppure, pur non conoscendoti, sento che il mio saluto e quello degli amici
con cui mi dedico a questa piccola pubblicazione ti sia dovuto. Anzi, non solo un saluto, ma anche la promessa che continueremo a parlare di te, della tua intelligenza,
delle tue passioni, della tua curiosità da intellettuale e continueremo a tener viva
l’attenzione sulla tua vita stroncata in modo inumano più che disumano perché tutto
non sia liquidato rapidamente con pseudo-ricostruzioni in nome della armonia fra gli
stati. Tu eri uno di noi: un giovane studioso, interessato alla realtà, mosso dalla volontà di offrire il tuo contributo al mondo, schierato dalla parte dei diritti. Ma tu eri
anche più di noi. Non ti sei accontentato né di Fiumicello né del Friuli né dell’Italia,
hai deciso di realizzare te stesso laddove meglio potevi farlo. Non hai avuto paura e
ne avresti avuto tutto il diritto. La tua sete di conoscenza e il tuo amore per la verità
hanno avuto la meglio. Noi per scelta o per comodo o per costrizione siamo rimasti
qui, con i nostri articoli possiamo urtare la sensibilità di qualcuno, ma continuiamo,
nel nostro piccolo, a dire la nostra, di certo senza il tuo stesso coraggio e perché no,
senza la tua stessa ambizione. E uso quest’ultimo termine nel suo significato più nobile, ossia quello di aspirare a qualcosa di migliore, che, nel tuo caso, immagino potesse essere, quello di studiare e conoscere una realtà per denunciarne i soprusi e le nefandezze. Questa è l’eredità che ci hai lasciato e che noi cercheremo di fare nostra, per
essere nel nostro piccolo, un po’ di te. Grazie Giulio
Marialuisa Giannone
[email protected]
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MoCa (im)Press Febbraio 2016
La Narrativa… a cura di Luigi Capone
L’oltretomba dei gratta e vinci
Non riuscivo a stare fermo, con un gesto
nevrotico ossessivo avevo iniziato a grattarmi così forte sulle braccia che mi ero
procurato delle lesioni, le più vistose
vicino alle vene del polso. Bruciavano.
Dovevo spostarmi verso qualsiasi posto,
purché fosse ancora più spopolato e buio
di questo; il serbatoio della mia auto era
quasi pieno ed era un’ottima occasione
da sfruttare. Così mi svegliai, mi misi in
macchina e iniziai a percorrere una delle
strade più tortuose e buie delle vallate
intorno, semiricoperta
di brina che rischiavi
di ammazzarti ad ogni
curva. Dopo molti
tornanti mi fermai ad
un bar per bere con
calma un caffè e chiesi
anche un gratta e vinci; la faccia stupita del
gestore si bloccò un
attimo e poi proferì
due parole: “non più”.
Certo era strano, in
un paese in cui ci sono
più slot machine che
abitanti, dove si vive
di gioco d’azzardo, di
scommesse e di bollette SNAI, non trovare
un gratta e vinci. Il
sole era freddo e creava un’atmosfera bluastra. Mi rimisi in cammino e tra una canzone dei Pixies e l’altra, tra un tornante e
l’altro, dopo mille elettrodotti giunsi al
bivio di Melito: a sinistra il passato, a
destra il futuro. Da una parte il centro
storico dall’altra la zona nuova, presumibilmente a parecchi chilometri di distanza. Raggiunsi per primo il centro storico,
completamente abbandonato. La prima
cosa che notai non fu l’architettura decadente (o meglio ciò che ne rimaneva) ma
dei cumuli di cartacce che con ogni probabilità erano profilattici: quale miglior
posto per le coppiette senza dimora per
appartarsi. Ma avvicinandomi mi accorsi
che si trattava di gratta e vinci, ammucchiati ai lati del lastricato della via principale. Ne osservai almeno una ventina,
erano tutti perdenti. Il sole era freddo e
creava un’atmosfera bluastra. Complessivamente la città era formata da soli
due edifici: i ruderi di un castello e di
una chiesa col tetto scoperto e col campanile svuotato della campana che si
ergevano pochi metri sopra a un fiume
morto. Sembrava un’arteria che aveva
smesso di pulsare, quel liquido pareva
sangue raggrumato dal colore blu scuro.
Salii sul ponte tremolante e scricchiolante, mi sporsi per guardarlo meglio.
Non sfiorai seriamente il pensiero di
buttarmi di sotto ma in quel momento
nessuno sapeva che ero lì e nessuno mi
avrebbe trovato: bastava soltanto nascondere per bene la macchina o darle
fuoco. Nessuno avrebbe notato nemmeno il fumo perché a qualche chilometro
di distanza dei contadini bruciavano
massicciamente sterpaglie producendo
un fitto miasma. Decisi di proseguire
lungo il lastricato che mi portava fino
alla chiesa, sulla mia destra i ruderi
del castello cambiavano forma a ogni
mio passo. Il sole era freddo e creava
un’atmosfera bluastra. Era l’ultimo
sole, di lì a poco non sarebbe rimasto
nulla e ogni cosa sarebbe stata avvolta
nel buio di una notte senza luna. La
chiesa, completamente svuotata e
sventrata, era avvolta dalla vegetazione che se la stava riprendendo. Appena
misi il primo piede dentro ruppi la
quiete di uno stormo di piccioni, accovacciati in mezzo alle travi marce del
soffitto. Tutto iniziò a scricchiolare,
avanzai ancora di qualche passo, oltrepassando la cantoria a balcone quasi
crollata e rimasi per qualche minuto
fermo in mezzo ai calcinacci a sentire
l’odore che c’era lì dentro e a fissare dei
fasci di luce che attraversavano la pol-
vere. Ben presto iniziò a mancarmi il
respiro, mi accasciai per un attimo a
terra, mi bruciavano ancora le ferite
sulle vene fatte accidentalmente. Uscii
fuori che l’ombra aveva ormai investito
quasi a pieno tutta la struttura e andai
in cerca di un bar nella zona nuova e
abitata del paese. Qualcuno pareva
essersi accorto che ero lì come per uno
strano movimento dell’aria, arrivò un
furgone bianco, mi passò davanti due
volte e rimasi fermo sulla strada in
attesa che si fermasse. Non si fermò. La
sentinella
locale
aveva intuito la presenza ingombrante
di qualcuno ma gli
bastava avermi visto
per
annotarselo.
Passai in mezzo ad
inspiegabili cantieri
e alle glaciali forme
geometriche dell’abitato passando per
una chiesa cubica
fino a raggiungere
un bar accogliente e
moderno, che poco
sembrava avere a
che fare con tutto il
contesto. Il sole era
freddo
e
creava
un’atmosfera bluastra. Il bar non vendeva gratta e vinci.
Bevvi un liquore. Anche lì dentro la
luce passava attraverso le finestre allo
stesso modo e mi gustai l’amaro in
mezzo a quei fasci luminosi. Tornai con
la mente per un attimo al bivio e poi al
primo bar in cui ero stato durante la
giornata. Erano tutti perdenti quei
biglietti, erano quelli giocati da me fino
a quel momento. Stavano lì come cadaveri davanti ai miei occhi e non riuscivo a togliermeli davanti, così uscii fuori e scattai qualche “foto-ricordo”. Il
villaggio nuovo era in fermento, c’era
scalpitio di cantieri in ogni dove, c’era
un’attività perdurante che era quella
delle costruzioni, si continuava a costruire, si tentavano anche forme nuove e più graffianti. Le abitazioni erano
fatte apposta per scappare fuori immediatamente.
[email protected]
“La presente pubblicazione non rappresenta una testata giornalistica in quanto
viene pubblicata senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un
prodotto editoriale ai sensi della legge n°62 del 7-3-2001”
MoCa (im)Press Febbraio 2016
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Le occasioni per questa terra
Erroneamente si crede che la nostra terra non abbia più chances né
occasioni. Non è così e praticamente non lo sarà mai finché esisterà
ancora qualcuno che crede nelle proprie radici, nella propria gente,
nei propri paesaggi, nelle proprie storie, scegliendo di non andare
via, scegliendo di restare. Ragionare partendo da questo presupposto ci riavvicina ad un modo di vivere cosciente, perché nulla è più
dannoso per questa terra che lasciarsi andare e credere che sia tutto
inutile: la verità è che ogni azione, compiuta con il cuore per l’Irpinia, lascia il segno e fa la differenza. Le occasioni ci passano accanto, a volte sono anche importanti ma non ci facciamo caso. A Salerno, lo scorso 30 gennaio, si è svolto un incontro di lavoro per la formazione di un’associazione che possa accedere a fondi europei con
un interessante progetto chiamato Longobard Ways across Europe.
A parte l’Ass. Info Irpinia, Prata di Principato Ultra ed il sindaco di
Grottaminarda in rappresentanza dei comuni della Valle Ufita non
ho visto altre partecipazioni, eppure abbiamo paesi che già dal nome attuale dimostrano un legame indissolubile con la storia longobarda: Torella dei Lombardi, Guardia Lombardi, Sant’Angelo dei Lombardi, ma ce ne sono tanti altri. Su questa traccia sarebbe possibile realizzare molteplici progetti di ristrutturazione, recupero e valorizzazione dei nostri borghi, senza il problema ormai imperante della carenza di fondi. La criticità concreta però è la poca conoscenza o considerazione di queste occasioni. Lo sviluppo sostenibile per la nostra terra, ormai è finalmente chiaro, passa esclusivamente attraverso la valorizzazione culturale, ambientale ed enogastronomica: ovvero turistica ed agroalimentare. Sono quelli i nostri binari ed è da lì che
bisogna partire. Se vogliamo però incrementare e stabilizzare il flusso turistico allora dobbiamo essere all’interno di tutti i
circuiti nazionali ed internazionali che ci consentano di mostrare noi stessi al mondo, altrimenti riesce difficile imporsi. Poi,
ne ho convincimento grazie alle testimonianze raccolte in prima persona, sarà l’Irpinia stessa a fare la differenza perché
quando si viene nelle nostre zone, si resta affascinati e non le si dimenticano più: troppo ricche di verde, vino eccellente,
persone accoglienti, borghi incantevoli, paesaggi emozionanti. Ci sono tutte le caratteristiche che un tecnico indicherebbe
come gli aspetti fondamentali per ambire ad uno sviluppo turistico. I problemi pure ci sono, è innegabile, alcuni pesanti,
però esistono anche le occasioni ed è grazie a loro che si possono risolvere i nostri disagi: ciò che conta è non smettere di rincorrere il sogno di vedere questa terra sorridere, insieme a tutti noi che l’amiamo. Coraggio!
Presidente Ass. Info Irpinia
Francesco Celli
Medioevo fatto in casa
Il Giubileo straordinario, tirato fuori dal cilindro da
Bergoglio, sembra essersi inceppato, per ora. I motivi
possono esser tanti e la loro disamina, francamente, è
poco interessante. Più interessante, invece, è stata
l’idea di sfoderare l’artiglieria pesante per ravvivare il
flusso di pellegrini paganti, ben al di sotto delle attese.
I necrofori giubilari hanno dato via al tour per le salme di Padre Pio e Padre Mandic, nel tentativo ecumenico di ramazzare consensi nel Nord e nel Sud del paese. Il frate confessore padovano è in realtà stato eclissato dalla super star del Gargano, che di fatto gli ha
rubato la scena. E che scena! Frotte di persone si sono
riversate per le strade per seguire il feretro scenico di
Padre Pio nella sua cavalcata epica verso Roma. Una
scenografia degna del nostro Dante Ferretti ha accompagnato una salma di 50 anni, imbalsamata ed in ostensione in un
doppio vetro antiproiettile (paura di pistolettate contro un morto?) verso la Città Eterna, dove frotte di pellegrini hanno
potuto rendergli i loro omaggi. Lo spettacolo indegno di frotte di disperati che strofinavano effetti personali sulla teca
(antiproiettile, ricordiamolo) in attesa di miracoli, grazie e modificazioni dell’Universo è stato, ovviamente, trasmesso e ritrasmesso, a reti unificate, da Mamma Rai. A Rai Uno, poi, camminavano tre metri sopra il cielo da settimane: inchieste
(farlocche), testimonianze aberranti, fiumi di parole e tanto tanto paternalismo. Fino a culminare nella diretta tv del trasferimento da Foggia a Roma del santo beneventano. Un momento cult anche per la rete più bigotta dell’offerta pubblica. Dopo
aver passato mesi ad inorridire per le bestialità e l’arretratezza che dominano certe lande desolate dominate dall’Islam più
radicale e fondamentalista, dopo il compiacimento per essere più civilizzati ed evoluti di trogloditi che tagliano teste e violentano la dignità umana sistematicamente, ecco che arriva il lato oscuro nostrano. La superstizione atavica che eleviamo di
rango, che abbelliamo con astruse teologie, e beceramente sfruttiamo per fare business. Un tuffo nel Medioevo tutto nostrano. Che però facciamo sembrare meno Medioevo di quello altrui: perché, diciamo, è “fede popolare”, “devozione”. Quando in
realtà è superstizione. Nuda e cruda. E della peggior specie pure: perché viviamo, nominalmente, nel “primo mondo” e potremmo affrancarci da certi retaggi primitivi. E invece li celebriamo in diretta tv.
Luigino Capone
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