Avant-garde_Sud - Queste Istituzioni

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Avant-garde_Sud - Queste Istituzioni
queste istituzioni n. 158-159 luglio-dicembre 2010
editoriale
Avant-garde Sud
N
on c’è interesse per il Mezzogiorno. Nord e Sud si fronteggiano in un
dibattito nazionale divenuto ormai miserabile, con i suoi “giudizi sommari e pregiudizi volgari”. Trattato come un aggregato geografico e
umano a sé, il Sud è muto. Nell’impasse di decidere se parlare per difendersi
dalla pubblicistica antimeridionalista (con rilanci grotteschi e contributi stanchi al revisionismo storico) o per reagire contro lo stato immobile delle cose,
si consolida l’arretramento del dibattito nazionale sulle politiche di sviluppo.
La mistificazione della percezione del Mezzogiorno, che poi è espulsione
radicale di questioni che invece sono nazionali, costituisce un grave fattore di
ritardo nella messa a punto di azioni, politiche e strategie di sviluppo per il
Paese. Con l’aggravante della crisi.
I cittadini delle Regioni del Sud sono spesso chiamati ad una coscrizione
obbligatoria nella lotta alla criminalità organizzata, alla mala sanità, alle clientele, al malgoverno, invocando diritti e doveri di fatto inesistenti perché non
più e non già esigibili. Mentre i pubblici poteri, a tutti i livelli, stanno a guardare. A parte la delega – a fasi alterne – alle forze dell’ordine ed ai magistrati della DIA nella lotta alla criminalità organizzata, la mancanza di anticorpi
istituzionali in grado di sostenere i processi sociali dal basso è totale o quasi.
Le radici classiste della subordinazione Nord-Sud nel discorso pubblico
costruito ad hoc da fonti male assortite e, come sempre, bene accreditate presso le pubbliche suggestioni – in assenza di pubbliche opinioni vigili – sono
quelle che già Gramsci aveva individuato dietro la sovrapposizione della questione del brigantaggio con l’intera questione meridionale. Ieri i briganti, oggi
la criminalità organizzata e i rifiuti di Napoli. Il silenzio della politica nel fragore della stampa e dei discorsi da bar smarrisce il senso e l’urgenza delle
risposte necessarie e degli strumenti da predisporre, anche ai fini delle riforme in senso federale.
III
È il tema dello sviluppo economico e civile italiano.
In quanti hanno capito che la questione meridionale è il fronte avanzato
nella lettura e nella lotta contro quelle che Tonino Perna (il manifesto, 7 ottobre 2010) chiama “le borghesie mafiose”, sedute nei Consigli di amministrazione, in Parlamento, nelle istituzioni e nelle Banche, capaci di essere locali e
globali? “Perché chi pensa che il problema del Sud sia la spazzatura di Napoli non
ha capito che i rifiuti sono la punta dell’iceberg grande quanto l’intero Paese, ovvero l’esito – evidente – di una trama di relazioni, poteri, crimini che si muove in
continuità da Napoli a Milano, da Reggio Calabria a Padova.”
Sono questi i temi ed i problemi del Paese, dei quali il Sud è avanguardia
suo malgrado, lasciato a presidiare e difendere un territorio assente nelle scelte di politiche pubbliche e strategie nazionali. È avanguardia in primo luogo
nella coscienza dei suoi cittadini che “lavorano quotidianamente per costruire
una coscienza civile, una alternativa di mercato, una lotta senza quartiere a questa nuova classe dominante… Perché di questo si tratta: ‘ndrangheta, mafia e
camorra non costituiscono il cancro di un sistema sano, ma il braccio armato di una
classe sociale emergente che sta conquistando tutto il Paese.” Ed è avanguardia nel
disegno di nuovo sviluppo nazionale attraverso ed oltre la crisi. A patto che ci
si convinca che per uscirne con nuove punte di avanzamento non basta difendere (e come?) le ormai deboli rendite di posizione in settori sempre più esposti alla competizione globale ed all’innovazione (è il caso delle industrie automobilistica e manifatturiera). Occorre investire in nuovi settori, nuove risorse, nuovi territori.
In primo luogo, come più volte affermato da Adriano Giannola (Presidente SVIMEZ), significa fare delle aree ai margini dell’economia e del lavoro
attrattori di risorse. Quindi, scelte strategiche come quelle che negli anni cinquanta ponevano il Sud al centro di riforme di struttura. Nel 1952, con Alcide De Gasperi al Governo, ci fu la prima legge sui Sassi di Matera e fu un
uomo politico ed imprenditore sui generis come Adriano Olivetti a farsi
interprete del cambiamento. Olivetti che, non a caso, nella prima metà degli
anni cinquanta portò la fabbrica a Pozzuoli. Il suo discorso inaugurale ai lavoratori (23 aprile 1955) è un programma straordinario per “un periodo nuovo
nella restaurazione del Mezzogiorno” e per l’“unità morale e materiale tra
Nord e Sud”. Oggi restano soltanto compromessi istituzionali mediocri ed
estemporanei. Senza respiro.
Gli amministratori e i politici locali che l’hanno compreso sono riusciti ad
intervenire, seppure con esiti parziali, declinando i problemi in termini di
welfare, servizi, diritti, infrastrutture. Occupandosi di lavoro e investimenti.
Che competano con quelli della malavita e dell’illegalità. Servono soprattutto classi dirigenti capaci e lungimiranti, resistenti ai discorsi nei quali Franco
Cassano vede ormai i sintomi di un male italiano, “la sindrome di MarchionIV
ne”: quello che non funziona e non piace più si getta via. Così il Mezzogiorno oggi non interessa perché è cambiato il suo rapporto con il Nord, con lo
sviluppo industriale del Paese. Sono cambiate le convenienze. O la capacità di
intenderle e leggerle in prospettiva.
Questa dislessia del contesto si riflette pesantemente anche sui discorsi in
materia di federalismo. Occorre essere cauti e schietti. Senza demagogismo e
senza censurare i fattori di contesto che sono le condizioni reali e immateriali di realizzazione delle politiche territoriali. I dati vanno letti in filigrana,
nelle pieghe delle leggi e delle misure, dal federalismo demaniale ai criteri di
compartecipazione all’IVA, dall’attuazione della competizione fiscale all’IRAP
e gli indici di sopravvivenza delle industrie, fino ai diritti sociali ed ai livelli
essenziali dei servizi.
Altrimenti, è difficile vedere realizzarsi le condizioni affermate – correttamente – da chi confida nelle virtù del ciclo risorse-governo-responsabilità-outcome. Perché, se anche politici e amministratori locali massimizzassero ed
accorciassero il ciclo dell’apprendimento e della messa in opera di un tale processo, e gli output assoluti fossero buoni (difficile, viste le esigenze di recupero
e ripristino), non avrebbero margini di legittimazione in termini di outcome. In
un panorama politico di folle volubilità in cui è ragionevole cercare una continuità di presenza e di azione. Cassano, richiamando il saggio di James
O’Connor “La crisi fiscale dello Stato”, sottolinea che, quando non dispongono
allo stesso tempo di risorse per l’accumulazione e di risorse per la legittimazione, le classi dirigenti – soprattutto locali – si trovano di fronte ad un dilemma
tragico. E devono scegliere. Che cosa sceglieranno? Consenso o sviluppo?
Dipenderà dai margini di azione che saranno dati loro, non soltanto in termini
di risorse – si badi attentamente – ma anche e soprattutto in termini di sostenibilità e sviluppo dei territori che si governano. Come sempre, è difficile valutare le risorse e le capacità. Ma ancora di più le potenzialità, quando ci si preoccupa del baratto per il consenso quotidiano. Converrebbe riandare alla lezione di Gaetano Salvemini sull’importanza del federalismo per responsabilizzare
le classi dirigenti meridionali. Ma la fatica di studiare e verificare la consistenza delle soluzioni è rifuggita a priori. Meglio la propaganda degli slogan.
Occorre allora capovolgere la logica delle politiche di sviluppo territoriali,
facendole convergere attorno ad un’ampia strategia nazionale, per liberare
risorse e riavviare i processi. È quello che dice Banca d’Italia e che non si
lasciano sfuggire anche le dieci proposte del Rapporto 2010 di Italiadecide
(“L’Italia che c’è. Le reti territoriali per l’unità e per la crescita”).
L’unità nazionale, quindi, come condizione cruciale e chance per la competitività e la crescita del Paese.
Il che non significa, pare ovvio, smarrire l’orizzonte dell’Europa, punto e
parametro di riferimento che attraversa ormai tutti i territori. O del MediterV
raneo, della Cina, di ogni altro possibile interlocutore e partner (geopolitico,
economico, culturale). E come sarebbe possibile? C’è anche quello. Anche.
Non a prescindere. Ma non ha senso ancorare – con la falsa testimonianza
della globalizzazione – un qualunque territorio nazionale all’Europa, illudendosi di saltare il fosso a piè pari. Ogni comunità locale, ogni territorio circoscritto si definisce relazionalmente ad altri. Quello che il glocalismo dice ai
meno inesperti è che in queste relazioni (non soltanto spaziali, ma primariamente tali) esiste una progressività piuttosto lineare, magari non gerarchica –
è questa la novità, non certo nuove categorie cui si applica tutt’al più
un’accelerazione – ma in qualche modo propedeutica di una parte rispetto
all’altra e rispetto al tutto, un contesto che non è mai inerte o insignificante.
È questione di geografia che è scalare come la politica che la governa ed
amministra. La questione della rappresentazione politica è un campo di
riflessione ed esercitazione che dovrebbe bastare a tenere queste opinioniimpressioni impegnate per un po’. Alain Touraine rovescia la prospettiva
dipingendo uno Stato nazionale sempre più “debole sul piano delle relazioni
transnazionali, e sempre più presente e determinante quanto a ruolo politico, vale
a dire non rivolto verso l’economia globale ma verso il proprio interno. Cosa produrre, come distribuire, che scuola promuovere, come curare, che ricerca fare. Stiamo assistendo all’agonia di trent’anni di neoliberismo puro e duro: che si vuole di
più per convincerci del ruolo positivo dello Stato?” (Alfabeta2).
L’Europa come progetto è essa stessa in difficoltà in gran parte per questa
immutabilità della materia dei territori dei suoi Stati membri. Attenti, quindi,
a non fare dell’Europa un campo radiale verso il quale si indirizzerebbero istanze e relazioni di parti che non fanno sistema tra di loro, con uno Stato che
dovrebbe cedere la responsabilità dello sviluppo all’interno del suo territorio.
Che cos’è, l’evoluzione della delocalizzazione civile e sociale?
E infatti, le suggestioni di quanti pensano costruzioni di vario tipo (politicoistituzionali, economico-commerciali, antropologiche e sociali finanche!) di
decomposizione nazionale oggi non sono più solo frutto di visioni localistiche
ideologiche, ma soprattutto di una spinta a salvare il salvabile, ciascuno il proprio. È la difesa di interessi e aspirazioni locali che fa “tana libera tutti”. Fingendosi multinazionali delle cittadinanze multiple sì ma selezionate, vincenti in
quanto – dice Eric Hobsbawm – slegate dalla costrizione delle istanze plurime
e casuali che affollano il campo di azione: è “l’egoismo collettivo” come metodo
di trattazione dei confini e dei conflitti. A corto di soluzioni, ma non di fantasia. Sempre nella versione rodata – talvolta inconsapevole – dei (più) ricchi contro i (più) poveri. Salvo poi scoprire che l’asfissia dei vicini è la propria, quella –
ad esempio – dei mercati di sbocco delle merci e dei capitali che si volevano
attrarre. La glocalizzazione qui c’è, eccome. Se Sparta piange Atene non ride.
C. L.
VI