Dal Saggio sulle macchine di L. Carnot

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Dal Saggio sulle macchine di L. Carnot
LAZARE CARNOT (1753-1823)
Esponente emblematico e protagonista di primo piano delle vicende della borghesia
rivoluzionaria.
Scrive il Saggio sulle macchine in generale nel 1793, e nel 1803 una riedizione di questo dal
titolo Principi fondamentali dell’equilibrio e del movimento; da questa opera sono riportati qui
di seguito alcuni brani.
Evidenzia in essi ciò che già conosci e gli elementi di novità scrivendo a margine brevi
sintesi:
55. Si chiama forza viva il prodotto della sua massa per il quadrato della sua
velocità: ed ecco che cosa ha condotto alla considerazione di questa nuova
specie di quantità.
L’esperienza prova, come abbiamo visto, che gli uomini, gli animali
ed altri agenti di questa natura, possono esercitare delle forze paragonabili a
quelle dei pesi, sia in effetti per mezzo dei loro propri pesi, sia attraverso gli
sforzi spontanei di cui sono capaci. Ora si presentano due modi altrettanto
naturali di valutare l’azione che essi esercitano effettivamente. L’uno
consiste nel vedere quale carico un uomo, ad esempio, può portare, o quale
sforzo valutato in peso egli può sostenere, restando a riposo. Allora la forza
di quest’uomo è una forza di pressione equivalente a questo o quel peso, e
che si chiama talvolta forza morta.
56. Il secondo metodo per valutare la forza di un uomo, di un cavallo,
eccetera, consiste nell’esaminare l’opera che egli è in grado di compiere in
un tempo dato; per esempio, in un giorno attraverso un lavoro ininterrotto.
Da questo punto di vista, per arrivare, come nel primo caso, ad una
valutazione esatta, possiamo ancora paragonare il risultato del suo lavoro
con l’effetto del peso; poiché è naturale valutare questo lavoro sia attraverso
il peso che egli può elevare in un tempo dato, sia attraverso l’altezza alla
quale egli eleva questo peso. E’ questo che s’intende quando si dice che un
cavallo equivale, per la forza, a sette uomini; non s’intende dire che se sette
uomini tirassero da una parte e il cavallo dall’altra, vi sarebbe equilibrio; ma
che in un lavoro ininterrotto, il cavallo da solo eleverà, per esempio,
altrettanta acqua dal fondo di un pozzo ad un’altezza assegnata che i sette
uomini insieme durante lo stesso tempo. Quando si impiegano degli operai,
interessa sapere quanto lavoro sono in grado di fare di un genere analogo a
quello di cui abbiamo appena parlato, ben più che non sapere i pesi che essi
potrebbero sorreggere senza spostarsi. Questo nuovo modo di considerare le
forze è dunque almeno altrettanto naturale e altrettanto importante del
primo. E poiché è evidente che sollevare un peso di 100 kg a mille metri
d’altezza è la medesime cosa, in questo modo di valutare le forze, che
sollevare 200 kg a 500 metri soltanto: ne segue che le forze, da questo nuovo
punto di vista, devono essere considerate come in ragione diretta ai pesi da
sollevare e alle altezze alle quali occorre portarli, o altri lavori paragonabili a
quello. Ora è su ciò che è fondata la nozione delle forze vive.
57. In effetti, sia M una massa, P il suo peso, g la [accelerazione di] gravità,
dt l’elemento di tempo e H l’altezza alla quale P è stato sollevato. Seguendo
questo nuovo modo di individuare le forze, quella che si è dovuta impiegare
per elevare P all’altezza H, sarà PH; ma H essendo uno spazio percorso, può
essere espresso per mezzo di una velocità V e di un tempo T; d’altra parte si
ha: P=gM= gdtM/dt, gdt è una velocità V’. Dunque PH=MVV’ T/dt; dunque,
essendo dt e T due quantità omogenee, PH sarà il prodotto di una massa per
il prodotto di due velocità, o per il quadrato della velocità media tra V e V’;
dunque la forza PH si risolve nel prodotto di una massa per il quadrato di
una velocità, come Mu2, chiamando u la velocità media tra V e V’. Questa è
l’origine naturale della nozione delle forze vive. Vi furono un tempo grandi
discussioni sul problema di sapere se le forze dei corpi in movimento
debbano essere valutate mediante il prodotto della massa per la velocità, o
mediante il prodotto della massa per il quadrato della velocità. Ciò si riduce,
come si vede, ad una questione di parole. Purché si ragioni coerentemente
con le definizioni adottate una volta per tutte, le conclusioni saranno sempre
le stesse, dal momento che si parte dalle medesime basi. […]
59. Abbiamo appena visto che la forza viva si può presentare sia sotto la
forma Mu2 di una massa per il quadrato di una velocità, sia sotto la forma PH
di una forza motrice per un adistanza. Nel primo caso, si tratta della forza
viv propriamente detta; nel secondo, si potrebbe darle il nome particolare di
forza viva latente. […]
258. Il vantaggio che procurano le macchine non è dunque quello di produrre
grandi effetti con mezzi modesti, ma di consentire di scegliere tra vari mezzi
che si possono considerare uguali, quello più conveniente alla circostanza
presente.
262. Qual è dunque infine il vero scopo delle macchine in movimento?
Come abbiamo già detto, è quello di fornire la possibilità di far variare a
piacere i termini della quantità FVT, o momento d’attività, che deve essere
consumato dalle forze motrici. Se il tempo è prezioso, perché l’effetto debba
venire prodotto in un tempo molto corto, e non si disponga tuttavia che di
una forza capace di piccola velocità ma di un grande sforzo, si potrà trovare
una macchina per supplire la velocità necessaria con l’intensità della forza:
se al contrario non si dispone che di una potenza debole, ma capace di una
grande velocità, si potrebbe concepire una macchina con la quale l’agente
sarà in condizione di compensare con la sua velocità la forza che gli manca.
Infine se la potenza non è capace né di un grande sforzo né di una grande
velocità, si potrà ancora, con una macchina conveniente, fargli produrre
l’effetto desiderato, ma allora non si potrà fare a meno di impiegare molto
tempo; perché infine non si può uscire da questo circolo, l’assoluta necessità
che il prodotto FVT sia sempre uguale all’effetto che si vuole produrre; ed è
precisamente in ciò che consiste questo principio così celebre e così
importante, secondo cui nelle macchine in movimento, si perde sempre in
tempo o in velocità quello che si guadagna in forza. […]
266. Le macchine sono dunque molto utili, non perché aumentino l’effetto di
cui le potenze sono per loro natura capaci, ma perché modificano
quest’effetto. Non si giungerà mai attraverso di esse, è vero, a diminuire la
spesa o il consumo del momento d’attività necessario per produrre l’effetto
che ci si propone; ma esse potranno aiutare a fare di questa quantità una
ripartizione conveniente per lo scopo che ci si prefigge. […]
Nei brani successivi troverai considerazioni che esplicitano idee che in qualche modo avevamo
già considerato. Cerca di spiegare in che modo possono aiutare a capire l’impossibilità del
motore perpetuo
272. […] Se avvengono urti o cambiamenti bruschi tra le parti delle
macchine o le masse che sono loro applicate […] vi è una perdita di forza
viva tanto più grande, quanto maggiore è l’intensità stessa degli urti; da cui
segue evidentemente, che per ottenere dalle macchine il più grande effetto
possibile, è molto importante che esse siano costruite in modo che il
movimento cambi sempre per gradi insensibili. Bisogna fare eccezione solo
per quelle che per loro stessa natura sono soggette a provare diverse
percussioni, come sono la maggior parte dei mulini. Ma in quello stesso
caso, è evidente che si deve evitare qualsiasi cambiamento subito che non
sarebbe essenziale alla costituzione della macchina.
273. Si può concludere di qui, per esempio, che il modo di far produrre il più
grande effetto possibile a una macchina idraulica, mossa da una corrente
d’acqua, non è quello di adattarvi una ruota le cui pale ricevono l’urto del
fluido. In effetti, due ragioni impediscono che si produca così l’effetto più
grande: la prima è quella che abbiamo appena detta, cioè che è necessario
evitare qualsiasi percussione; la seconda è che, dopo l’urto del fluido, resta
ad esso ancora una velocità in pura perdita, poiché si potrebbe impiegare
questo resto per produrre ancora un nuovo effetto che si aggiungerebbe al
primo. Per fare la macchina idraulica più perfetta, cioè capace di produrre il
più grande effetto possibile, il vero nodo della difficoltà consisterebbe
dunque: 1. a fare in modo che il fluido perda assolutamente tutto il suo moto
con la sua azione sulla macchina, o che almeno gli resti solo la quantità
necessaria per sfuggire dopo la sua azione; 2. a fargli perdere tutto il suo
moto per gradi insensibili, e senza che abbia avuto alcuna percussione, né da
parte del fluido, né da parte delle parti solide tra loro: poco importerebbe
pertanto quale fosse la forma della macchina, perché una macchina idraulica
che soddisfi a queste condizioni, produrrà sempre il più grande effetto
possibile; ma questo problema è molto difficile da risolvere in generale, per
non dire impossibile; può anche essere che nello stato fisico delle cose, e
riguardo alla semplicità, non vi sia niente di meglio delle ruote mosse dagli
urti; e in questo caso, poiché è impossibile soddisfare contemporaneamente
le due condizioni desiderate, più si vorrà far perdere al fluido del suo moto
per avvicinare la prima condizione, più l’urto sarà forte; più invece si vorrà
moderare l’urto per avvicinare la seconda, meno il fluido perderà del suo
moto; si capisce che si deve prendere una via di mezzo, mediante la quale si
determinerà, se non in assoluto, almeno per quanto riguarda la natura della
macchina, quella che sarà capace del più grande effetto […].
Alla luce di queste nuove considerazioni e di quanto appreso sui concetti di energia cinetica e
potenziale cerca di interpretare l’impossibilità del motore perpetuo, che era stata decretata
principalmente su base empirica (un gran numero di tentativi falliti). Considera, ad esempio, il
mulino a circuito chiuso e cerca di spiegare cosa non va.