con occhi nuovi

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con occhi nuovi
CON OCCHI NUOVI
Biennale delle Arti e delle Scienze del Mediterraneo
Ente Formatore per Docenti Accreditato MIUR
Questa pubblicazione è il prodotto dell’attività in situazione svolta in
seno al Percorso di Formazione denominato “Scrittura, Regole, Musica,
Armonia, Cittadinanza” II annualità
Partendo dall’incipit di Veronica Tomassini e con il coordinamento dei
propri docenti, hanno scritto il racconto gli studenti delle scuole e delle
classi appresso indicate:
Istituto Comprensivo “E. De Amicis”di Enna – Gruppo misto
Istituto d’Istruzione Superiore “E. Medi” di Leonforte – Classi I A/B classico
I. T. “L. Da Vinci” di Milazzo - Classi I/II/V B turismo, I A grafica, IV/V C turismo
IPSIA – IPSAAR “Federico II” di Enna - Classe I E enogastronomia/alberghiero
I.P.S.S.A.R. “G. Falcone” di Giarre – Classe IV B Eno
Istituto “Campus Don Bosco” – Liceo Scientifico di Tremestieri Etneo – Classi I/II A
Istituto Comprensivo “E. De Amicis” Enna – Classi III D/C/P, I A
Istituto d’Istruzione Superiore “E. Medi” di Leonforte - Classi II A/B classico
Editing a cura del tutor: Annamaria Piccione
Biennale delle Arti e delle Scienze del Mediterraneo
Ente Formatore per Docenti accreditato Ministero dell’Istruzione
La pubblicazione rientra tra i prodotti del Percorso di Formazione per Docenti
“Scrittura, regole, musica, armonia cittadinanza” II annualità.
Il Percorso di Formazione è promosso dal MIUR Dipartimento per l’Istruzione Direzione Generale
per il Personale Scolastico Ufficio VI e si organizza in interazione con il Liceo Alfano I di Salerno
Direzione e progetto scientifico
Andrea Iovino
Responsabile per l’impianto editoriale
Marisa Coraggio
Coordinamento Scientifico
Maurizio Spaccazocchi
Grafica di copertina:
l’Istituto Europeo di Design, Torino
Docente: Sandra Raffini
Coadiuzione nella redazione del progetto
e monitoraggio dell’azione
Ermelinda Garofano
Maurizio Ugo Parascandolo
Impaginazione
Tullio Rinaldi
Francesco Rossi
Ermanno Villari
Segreteria di Redazione
e Responsabile delle procedure
Valentina Landolfi
Margherita Pasquale
Relazioni Istituzionali
Nicoletta Antoniello
Staff di Direzione
e gestione delle procedure
Angelo Di Maso
Adele Spagnuolo
Amministrazione
Rosanna Crupi
Annarita Cuozzo
Franco Giugliano
Piattaforma BIMEDESCRIBA
Gennaro Coppola
Angelo De Martino
I libretti della Staffetta non possono essere in alcun modo posti in distribuzione Commerciale
I Docenti e le classi che hanno operato
per la composizione del racconto si
sono potuti avvelere del contributo di:
Responsabili d’area
del percorso di formazione
Ermelinda Garofano
Adele Spagnuolo
Maria Belato
Docenti Tutor Scrittura
Pino Pace
Stefano Delprete
Annamaria Piccione
Docenti Tutor Musica
Giorgio Dellepiane Garabello
Tullio Visioli
Carlo Pestelli
By Bimed Edizioni
Dipartimento tematico della Biennale delle Arti e delle Scienze del Mediterraneo
(Associazione di Enti Locali per l’Educational e la Cultura)
Via della Quercia, 64 – 84080 Capezzano (SA), ITALY
Tel. 089/2964302-3 fax 089/2751719 e-mail: [email protected]
La Collana dei Raccontiadiecimilamani 2014 viene stampata in parte su
carta riciclata. È questa una scelta importante cui giungiamo grazie al contributo di autorevoli partner (Sabox e Cartesar) che con noi condividono il
rispetto della tutela ambientale come vision culturale imprescindibile per chi
intende contribuire alla qualificazione e allo sviluppo della società contemporanea anche attraverso la preservazione delle risorse naturali. E gli alberi
sono risorse ineludibili per il futuro di ognuno di noi…
Parte della carta utilizzata per stampare i racconti proviene da station di
recupero e riciclo di materiali di scarto.
La Pubblicazione è inserita nella collana della Staffetta di Scrittura
Bimed/Exposcuola 2013/2014
Riservati tutti i diritti, anche di traduzione, in Italia e all’estero.
Nessuna parte può essere riprodotta (fotocopia, microfilm o altro mezzo) senza
l’autorizzazione scritta dell’Editore.
La pubblicazione non è immessa nei circuiti di distribuzione e commercializzazione e rientra tra i prodotti formativi di Bimed.
RINGRAZIAMENTI
Ringraziamenti ossequiosi vanno a S. E.
l’On. Giorgio Napolitano che ha insignito
la Staffetta 2014 e l’azione formativa con
uno dei premi più ambiti per le istituzioni
che operano in ambito alla cultura e al fare
cultura, la Medaglia di Rappresentanza
della Repubblica Italiana giusto dispositivo
Prot. SCA/GN/1047-1 del 12/09/2013.
Si ringraziano per l’impagabile apporto
fornito alla Staffetta 2014:
i Partner tecnici:
UNISA – Salerno, Dip. di Informatica;
Ambasciata Italiana il Libano
Istituto Europeo di Design - Torino;
Cartesar Spa e Sabox Eco Friendly
Company;
Ringraziamenti particolari vanno agli
scrittori redattori degli incipit, a Elisabetta
Barone Dirigente del Liceo Alfano I partner
istituzionale della Staffetta e delle attività
di formazione, a Claudia Enrico Dirigente
della Scuola Primaria Michele Coppino di
Torino e a Filippo Gervasi Dirigente dell’Istituto Comprensivo E. De Amicis di Enna
per aver concesso la propria scuola in funzione delle attività in presenza dell’azione
formativa collegata.
La Staffetta 2013/14 riceve:
Medaglia di Rappresentanza della Presidenza della Repubblica Italiana
Patrocini:
Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Ministero della Giustizia,
Ministero per le Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Ministero dell’Ambiente
PRESENTAZIONE
Il Percorso di Formazione da cui scaturisce la presente pubblicazione ci
ha consentito, quest’anno, di dimostrare come attraverso l’ottimismo della
volontà sia possibile organizzare buone prassi tali da rideterminare
motivazione e nel contempo, dare alla scuola italiana gli strumenti
necessari a affrontare le sfide sempre più complesse che abbiamo davanti
a noi. Attraverso un lavoro rilevante sulla scrittura e sulla musica abbiamo
verificato come sia possibile coinvolgere gli studenti nelle pratiche che attraverso i saperi, le conoscenze e le competenze determinano cittadinanza.
Abbiamo fatto di più nel momento in cui siamo riusciti a sancire un’idea
comune di cittadinanza che si connota dei principi costituzionali su cui
poggia la nostra Repubblica. Il percorso di formazione che si è svolto
per una parte in presenza e per un’altra parte on-line ha il suo valore
aggiunto proprio per la fase in situazione che è, in buona sostanza,
il momento in cui quanto ci trasmettiamo durante le lezioni de visu e
quanto assumiamo attraverso la Piattaforma web può essere provato e
testato nel rapporto con i nostri giovani, quegli studenti italiani che
abbiamo il dovere di ringraziare per il contributo che hanno messo in
campo in favore dell’azione. Il racconto che a seguire avrete il bene di
leggere è il frutto di un lavoro complesso di un insieme di docenti e studenti
che prima sono entrati in relazione con lo scrittore redattore dell’incipit,
poi hanno scritto insieme il proprio capitolo, poi hanno seguito la storia
e, infine, hanno tradotto il lavoro di scrittura in altro linguaggio creativo
documentato dal DVD che è accluso al volume. Tutto questo è stato fatto
in interazione diretta dei docenti fruitori del percorso con il Comitato
Tecnico Scientifico, gli esperti, i docenti tutor e le tante, diverse, figure
che hanno contribuito a determinare un risultato assolutamente unico per
le attività di formazione che è, poi, questa pubblicazione e gli altri prodotti
che attestano quanto possa essere possibile determinare una scuola
stimolante e partecipata in cui la Cittadinanza viene affermata come
obiettivo primario per il contesto formativo del nostro Paese.
Andrea Iovino
INCIPIT
VERONICA TOMASSINI
LA CONTEMPLAZIONE
Il campo dei rom mi appariva nauseabondo, non appena imboccavo la provinciale. Dalla discarica di rottami esalava la sintesi di
una vita primitiva; non avevo timore, il rigagnolo di acque putride
che definiva il perimetro della baraccopoli mi confortava, oltre il
quale intuivo il misero tanfo di legna bruciata e fritto di cipolla e
cavolo cappuccio, tavolacce fradice, comignoli e panni stesi;
era tutto uguale a sempre.
Non avevo paura. Imboccavo la provinciale, in auto, ma al campo
non mi fermavo più di recente, nemmeno quando Janko il macedone, intercettandomi, alzava il braccio; allora rallentavo, guardando furtivamente nella sua direzione, scalando di marcia e
proseguendo, senza un sorriso.
A me faceva effetto parlare con Revista del campo dei rom che
aveva un ordito di rughe sul viso e pendenti luccicanti; e poi
aveva i denti gialli. Si avvolgeva una specie di pashmina sulla
nuca, così nascondeva i suoi capelli che erano neri. Revista si te-
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neva il grembo con un’espressione addolorata, emaciata per fare
figli, ne aveva già fatti, aveva i nipoti, ma lei era troppo giovane
nel corpo per essere vecchia, vecchia come la vecchia del
campo, intendo.
Così io mi fermavo spesso da Revista la rom, perché avevo da
scrivere, chiamavo la redazione e informavo dettagliatamente il
capo servizio.
«Oggi hanno chiodato la vecchia, che facciamo? Sessanta righe
con foto?»
«Verticale» rispondeva il caposervizio asciutto. «Sessanta e foto
verticale».
«Della vecchia chiodata?»
«Chiodata dove?» chiedeva il caposervizio.
«Stinchi e avambraccio, è stato il nipote, il macedone, con un bastone».
E andava più o meno bene; al truce macedone che ancora brandiva il bastone dalle punte acuminate, promettevo: «Buono, che
domani viene il sindaco e vi sistemano i container».
CAPITOLO PRIMO
Strani presagi
In cuor mio però sapevo che le parole rassicuranti del sindaco così come quelle dell’assessore e di tutti gli altri che nelle varie
campagne elettorali avevano visitato il campo, assicurando ai
Rom container, acqua, luce, gas e fognatura - ancora una volta
non si sarebbero concretizzate.
Quella mattina il mio sonno fu interrotto bruscamente alle sei, dallo
squillo insistente del mio cellulare. Cercai quell’oggetto dannato
con gli occhi chiusi, frugando tra gli oggetti sparsi sul comodino.
L’insistenza della suoneria all’inizio mi infastidì.
“Chi rompe a quest’ora?” mi chiesi. Mi aspettavo la solita voce
fredda del caposervizio che mi annunciava l’ennesimo fattaccio
accaduto durante la notte.
«Corri subito campo, vecchia chiodata!»
Era invece la voce di Revista, con l’inconfondibile accento slavo
che ben conoscevo. Perché Revista aveva chiamato proprio me?
Mentre mi preparavo, continuai a chiedermi il perché di quella telefonata e la mia mente ripercorse i momenti dello strano rapporto
che si era creato tra me, lei e il campo rom.
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Strani presagi
Avevo sempre vissuto gli incontri con la zingara in un contrasto di
emozioni: da un lato ero attratta dalla cultura rom che Revista mi
faceva conoscere, dall’altro ne ero spaventata, anche perché
alla fine delle nostre chiacchierate, Revista mi stringeva la mano
nella sua e fissandomi mi prediceva qualcosa che puntualmente si
verificava. Ogni volta giuravo a me stessa che non sarei più tornata, solo che poi non accadeva.
Rassegnata ad affrontare lo sguardo duro e maligno di Revista,
chiusi la porta e mi misi in macchina per percorrere i pochi chilometri che mi separavano dal campo.
Era ancora presto. La pioggia faceva apparire fosforescenti le
case, le strade, i tetti delle macchine che procedevano lentamente. Ripensai a quando ero andata nel campo in primavera, inviata dal giornale per un servizio: era la festa di Gurgevdan, San
Giorgio, la più importante festa rom.
Mentre incuriosita guardavo timidamente da lontano, una donna
si staccò dal gruppo, mi prese per mano e mi condusse tra la sua
gente. Indossava il suo abito migliore di raso, lungo fino ai piedi;
i neri capelli sciolti sulle spalle e il trucco accurato la rendevano
quasi bella, dallo sguardo trasparivano gioia e vitalità.
Capitolo primo
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L’atmosfera della festa coinvolgeva tutti: donne, uomini e bambini.
Alcuni ballavano, altri suonavano e c’era chi preparava da mangiare. Revista, così disse di chiamarsi, iniziò a danzare scandendo
il ritmo con il battito delle mani. Fui coinvolta da quella strana melodia e, quasi ipnotizzata, mi ritrovai nel cerchio di quella danza
che evocava gli antichi mestieri: fabbri, maniscalchi, lautari, cavalieri.
Mangiai la pecora cotta sul fuoco e in quel momento mi sentii una
di loro. Poi però riaffiorò il bisogno di risprofondare nel mio mondo,
nel mio giro. Ebbi paura di non uscirne più. Tirano fuori i coltelli, ti
rubano tutto, ti pelano viva.
Sentii la necessità di scappare da quel vortice di strane sensazioni, balbettai un ringraziamento e mi diressi alla macchina.
Revista però mi bloccò, subito.
«Vai via? Paura di zingari? Non ti piace festa?»
Mi voltai e lei sembrava diventata un’altra. Aveva capito perché
fuggivo e lo sguardo era ritornato sospettoso, di chi era stato educato a contare solo su se stesso e a non fidarsi di nessuno.
«Sto male» risposi. «Ho bisogno di andare a casa».
«Bugia» rispose Revista leggendo il mio pensiero. «Tu paura. Vai,
vai, ma tuo destino legato a campo rom».
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Strani presagi
Di corsa mi allontanai dalla musica, dalle danze, dal fuoco. Dai
poveri panni stesi, dalle baracche miserabili e colorate, metà di
lamiera e metà di legno.
Le parole di Revista mi rimbombavano però nelle orecchie: “Tuo
destino legato campo rom”.
E così era stato.
Passarono due giorni dalla mia fuga quando, ancora per lavoro, fui
“costretta” a incontrare Revista. Mi presentò Mariana, la vecchia del
campo, una donna magra di età indefinibile, coi capelli bianchi pettinati all’indietro, il viso pieno di rughe, i denti rovinati, la pelle scura
e la carne prosciugata. Fumava una sigaretta dietro l’altra, muovendole nella bocca senza tenerle in mano. Mi fece entrare nella sua baracca, fredda perché senza riscaldamento, con i fili scoperti che
penzolavano qua e là, tirati da qualche cavo esterno da cui rubava
la luce. Mi disse di non toccarli per non rimanere fulminata.
L’odore stagnante rendeva l’aria irrespirabile, niente pavimento
ma solo nuda terra con materassi sparsi qua e là. Alle pareti piccoli e consumati drappi sottili con disegni di animali, ventagli di fotografie e santini con icone ortodosse di Gesù e della Madonna.
Mariana insistette perché mi sedessi su uno dei materassi e mi
chiese se avessi mangiato.
Capitolo primo
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Nonostante fossero le tre e mezzo del pomeriggio, risposi di no.
«Il nostro mangiare?» mi invitò allora lei. Accettai.
Su un fornellino mise una padella nera con una gran quantità di
salsicce. Io cercai di scattare alcune foto, ma la vecchia minacciò di mandarmi via. Alzai le braccia, come fa chi si arrende al nemico, e il gesto la rassicurò.
Finì di cuocere le salsicce, le ammucchiò in un unico piatto e iniziammo a mangiare. Poi accese l’ennesima sigaretta e iniziò a raccontarmi la sua vita: a dodici anni il padre l’aveva ceduta al futuro
suocero in cambio di un carretto. Ne fui sconvolta, a dodici anni
si è ancora bambine, si sogna un futuro spensierato, qualcuna
gioca ancora. Mariana notò il mio turbamento e continuò compiaciuta.
«Da noi quando madre insegna a bambina cucinare carne di pecora, salsiccia, polenta, è già pronta per sposare».
Veniva da Titov e si trovava in Italia da più di vent’anni, aveva
gettato nella vita quattordici figli: alcuni erano morti, altri venduti,
altri ancora girovagavano tra i campi nomadi. Con lei viveva solo
suo nipote Janko, figlio di suo figlio.
Raccontò la sua esistenza, caratterizzata da miseria, stenti e soprattutto dalla violenza del marito. Qui Mariana tacque. Abbassò
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Strani presagi
la testa e mi fece vedere due cicatrici, due buchi e il braccio sinistro storto per una frattura non curata.
Poi riprese a parlare, abbandonandosi a un’esplosione di sincerità: durò pochi minuti, ma mi lasciò senza fiato.
Con il suo italiano stentato mi fece capire quanto fosse pesante
il peso portato dalle zingare: a lei era vietato parlare e quando
si scatenava la furia del suo uomo doveva solo stare bassa e
aspettare che fosse finita. Guai se si fosse azzardata ad emettere
anche un sospiro, perché sarebbe stata massacrata. Suo marito
la pestava con un cavo di gomma e non si calmava alla vista del
sangue; si fermava solo quando lei, a terra, non si muoveva più.
Fui colta da un senso di oppressione, la testa mi girava e non
riuscivo a respirare. Sentii la necessità di uscire da quella baracca. Appena fuori mi sedetti su un gradino sgangherato e
piansi con la testa tra le braccia. Ogni lacrima e ogni singhiozzo
corrisposero, in quel momento, a ogni colpo che aveva subito il
corpo di Mariana. Quando mi calmai e rialzai la testa, vidi Revista di fronte a me. Mi aveva seguita preoccupata insieme a
Janko, il nipote della vecchia. Era un ragazzo di venticinque anni,
alto e piantato come una quercia. La carnagione chiara, i capelli biondi e gli occhi azzurri non lo facevano sembrare uno zinCapitolo primo
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garo dalla pelle color della terra. Revista lo descrisse come un
ragazzo mite, stimato nel campo per il carattere pacifico e per
il rispetto verso gli altri.
Fummo bruscamente interrotti dalla voce catarrosa della vecchia.
«Bastardo cane, quanti soldi avere portato me oggi?»
Janko mi salutò ed entrò nella baracca a testa bassa.
Ne approfittai per andare via, camminando velocemente. La
voce di Revista mi colpì come un lama affilata.
«Vai, vai via, ma tu tornare presto da Rom!»
La macchina sobbalzò su una delle tante buche di quella che
era stata una strada. La scossa mi riportò alla realtà, senza accorgermene ero arrivata alle baracche, tra il fango e le pozzanghere grandi come laghi. Entrai nel campo e scesi
velocemente dall’auto. Capii subito che era accaduto qualcosa
di grave. Gli zingari erano fuori dalle baracche, un gruppo di
donne spaventate gridava furiosamente, i bambini correvano
eccitati per il campo, scalzi e con le pance scoperte, e gli strilli
superavano il suono metallico delle sirene ormai vicinissime.
Alcuni uomini erano immobili, quasi impietriti, altri compiaciuti: la
vecchia aveva finalmente avuto ciò che meritava. Altri con fare
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Strani presagi
minaccioso si accostavano al giovane che aveva osato toccare la vecchia, sanguinante per terra.
Il bel viso di Janko si era trasformato in una maschera di rabbia e
dolore. I bei lineamenti che mi avevano catturata fin dalla prima
volta che l’avevo conosciuto, non esistevano più. Nei grandi e
profondi occhi azzurri si leggeva solo sofferenza.
Il mite Janko sembrava ora un lupo.
Revista si staccò urlando dal gruppo e come una furia corse verso
me. Poi, col solito atteggiamento minaccioso, mi annunciò qualcosa che mi lasciò senza fiato.
«Non scrivere tutto, ricorda, tuo destino essere qui».
Capitolo primo
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CAPITOLO SECONDO
Antichi legami
C’era molta confusione: intorno a me baracche troppo vecchie,
odore di gente senza speranza, un tintinnare di gingilli d’oro che
ornavano i volti delle donne, vesti ampie e colorate, stoffe pregiate e svolazzanti.
Erano tutti lì, intorno al corpo insanguinato di Mariana.
Revista però non c’era più.
Sentii il bisogno di allontanarmi e iniziai a camminare senza meta:
in un posto così si dimentica l’esistenza degli alberi, dell’aria
buona. E di una società avanti con il progresso, arrivato poco da
quelle parti.
Intravidi Revista attraverso l’apertura della sua baracca, si muoveva lentamente, intonando note dolci e armoniose, parole a me
sconosciute.
Mi lasciai cullare dal suo canto e rimasi incantata a guardarla.
La vedevo più bella, adesso, portava con sé il fascino di chi
soffre. Com’era possibile vivere ogni giorno in una situazione
tanto difficile?
E com’era possibile che Janko avesse ucciso Mariana?
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Antichi legami
Quando Revista mi vide, mi guardò per qualche interminabile secondo, quindi mi si avvicinò. I miei occhi le posero una domanda.
Revista, dimmi di te, raccontami tutto.
E lei raccontò.
Era nata in Jugoslavia, in una fredda notte di gennaio degli anni
Ottanta. Tra le pozzanghere colorate del campo rom, ogni giorno
imparava qualcosa dalla giovane madre, aspettando di diventare grande troppo presto. A dieci anni sapeva già cucinare ed
era quasi pronta al matrimonio. Revista però non lo sapeva, del
resto aveva l’innocenza di una bambina di dieci anni. E non sapeva neppure che, al di là dei canti allegri del suo campo, stava
per accadere qualcosa di terribile.
Nel 1991 scoppiò la guerra in Jugoslavia e il destino di Revista si
scontrò col dolore, lei che era cresciuta senza sapere che cosa
fosse la violenza.
Nessuno, tra la gente comune, capì il motivo per cui le strade si
riempirono di carri armati, i tetti cosparsi di cecchini, la gente uccisa. Una guerra moderna, fatta di bombe e mitra.
Alla povertà erano abituati, ci vivevano, ma fronteggiare la nuova
situazione non fu facile per nessuno, né per il popolo rom, né per
Capitolo secondo
25
tutti gli altri. La guerra non si faceva scrupoli, colpiva tutti, non la
fermavano le strade devastate, le persone annientate. Neppure
una bambina pietrificata dal terrore che, con lo sguardo perso
nel vuoto, cercava un volto familiare.
I soldati vestiti in maniera uguale arrivarono un giorno nel campo
e devastarono ogni cosa: la sua gente gridava e scappava, mentre dal cielo cadevano fiocchi di neve. Bianchi, mentre il loro
animo diventava cupo, nero.
Lui indossava vestiti scuri, come gli altri, ma lo sguardo era gentile
e rassicurante, per questo lei si lasciò guidare. Le prese la mano
e la portò con sé, dicendole di non aver paura. Revista non esitò.
Quell’uomo la stava aiutando, la stava conducendo in un posto
sicuro, ne era convinta.
Poi, di colpo, lui si fermò. Le afferrò forte il braccio e lei ebbe
paura. Che cosa voleva farle, davvero, quell’uomo? In un attimo
le strappò i vestiti di dosso, senza scrupoli. La vista le si annebbiò
e il soldato abbassò i pantaloni.
Che cosa accadde? Revista sentì il dolore, vide del sangue, si
accorse che il soldato si allontanava. Poi perse i sensi.
Revista tacque per un attimo, ma intuì la mia domanda muta.
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Antichi legami
E dopo? Come sei arrivata fin qua, Revista?
Le violenze dei soldati non furono solo fisiche: rubarono l’oro e
quanto restava del cibo. Il campo era diventato pericoloso, ma
d’altronde loro erano nomadi e in carovana si misero in viaggio.
La madre di Revista era scomparsa all’arrivo dei soldati, probabilmente era morta. Gli altri adulti però non esitarono a portare la
ragazzina con loro, tutti insieme: una volta al sicuro, lei avrebbe
preso marito.
Revista era riconoscente, e cercava in tutti i modi di rendersi utile: badava ai più piccoli, preparava la minestra, accudiva gli anziani. Si
affezionò particolarmente a una ragazza che assistette per l’intero
viaggio. Era incinta, aveva difficoltà a procedere al passo degli altri
durante il giorno e spesso mangiava poco, mettendo a rischio la gravidanza. Aveva solo cinque anni più di Revista, ma su di lei gravava
già una grande responsabilità perché era rimasta vedova. Da sola
le sarebbe toccato crescere la vita che portava in grembo.
Il cammino si fece ogni giorno più faticoso, la neve ricoprì le
strade, rendendo scivoloso il terreno e intorpidendo i muscoli. In
una mattina freddissima arrivarono in Austria e fu la salvezza. Fugato il pericolo incombente di essere uccisi in un conflitto a fuoco,
nelle strade solo automobili e nessun carro armato.
Capitolo secondo
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Non conoscevano la lingua, ma si sentivano al sicuro, increduli di
esserlo.
Non era però l’Austria la loro meta: volevano andare in Italia. Così,
dopo un paio di gelide settimane, partirono nuovamente. La pancia della dolce ragazza cara a Revista divenne sempre più
grande, meravigliosa e insopportabile. Giorni e giorni di faticoso
cammino e finalmente giunsero in Trentino Alto Adige. Era l’Italia.
Una notte Revista si svegliò sentendo urlare forte, in maniera disperata. Nel gelo della notte corse fuori dalla baracca e trovò
l’amica circondata da tante donne che avrebbero voluto aiutarla.
La bambina non voleva nascere e la ragazza giaceva nel proprio
sangue, non avrebbe retto ancora per molto. Infine apparve un
ciuffo di capelli, una testolina minuscola, poi le spalle esili, le manine piccolissime, le gambette scalcianti.
Occhi pieni di luce e il pianto stridulo. Il cordone ombelicale le
restò aggrovigliato al polso, provocandole una cicatrice, un piccolo solco simile a un braccialetto.
Revista avrebbe dato la propria giovane vita per salvare la luce
negli occhi della bambina, ma quel fioretto silenzioso non servì a
salvare la madre, smagrita e svuotata, finita oramai. Se ne andò
senza vedere la propria figlia, se ne andò per darla alla luce.
28
Antichi legami
Pochi attimi di silenzio furono il lutto della carovana. Quando la ragazza smise di urlare, sul campo parve calare una notte nera e
profonda, la più buia mai vista. Poi il corpo fu sepolto in una fossa
scavata in fretta e tutto finì.
Revista non rivide più la bambina di cui aveva tanto atteso la nascita. Forse fu venduta, doveva rendere un mucchio di soldi, piccola com’era.
Pochi giorni dopo lasciarono quel luogo e arrivarono nel campo
dove Revista avrebbe trascorso il resto della propria vita.
Lì conobbe Mariana, lì si sposò ed ebbe numerosi figli, lì la sua
esistenza diventò “normale”. Relativamente normale.
«Tuo destino legato a campo rom» mi disse ancora una volta, parlandomi con i suoi occhi profondi come pozzi. D’istinto io tirai giù
le maniche della felpa, nascondendo i polsi. Mi sentivo stregata,
scossa, le leggevo in volto l’antica sofferenza e l’enorme forza.
Non volevo però farmi sviare dalle coincidenze.
«Janko buono, non uccide, lui prende cura di altri» sbottò Revista,
interrompendo all’improvviso i miei pensieri.
Continuava a ripetere quelle frasi senza senso: il macedone, che
aveva ammazzato la nonna, per lei era buono. Io, nata in città e
figlia del benessere, ero legata al campo.
Capitolo secondo
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Parevano assurdità, ma significavano senza dubbio qualcosa.
Solo che non ero sicura di voler sapere cosa.
Mi chiese di aiutare Janko, disse che ero l’unica a poterlo fare,
l’unica a poter capire.
Mi ritrovai da sola, dentro me stessa e davanti a me stessa, come
un imputato di fronte al giudice, ma senza avvocato.
Mi immaginai la scena. Buio, tutto era nero. Un occhio di bue puntato su di me e uno sul giudice. Lui era la mia coscienza, il mio passato chiaro e trasparente, di dolci bagnetti profumati al
bagnoschiuma fruttato, di favole della buonanotte, di tricicli colorati, di foto gioiose.
Non conoscevo l’accusa, il capo d’imputazione, non conoscevo
il motivo dei miei pensieri confusi, e forse futili. Non sapevo dove
scappare, forse non potevo. Io ero il giudice e, allo stesso tempo,
io ero l’imputato. Ero io a dover dare delle risposte plausibili alle
mie domande.
Soltanto io.
Intanto Revista continuava a guardarmi. Ero sicura che vedesse
la mia anima mentre precipitava in quel buio famelico. Sapeva che
stavo riflettendo sulle sue frasi oscure e che la sua storia mi aveva
scavato dentro. Lei sapeva e vedeva tutto. Perché?
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Antichi legami
Provai a smettere di pensare, a staccarmi da me stessa, per guardare ogni cosa con distacco ed essere solo spettatrice.
In fin dei conti ero solo un’aspirante giornalista ventiduenne.
Era passato poco tempo da quando avevo messo piede in quel
luogo per la prima volta, ma mi sentivo unita a quella gente da un
legame misterioso, legata a loro, anche se allo stesso tempo volevo fuggire da lì. Mi risparmiai la fatica di correre via un’altra
volta, sarei dovuta tornare in ogni caso di lì a poco.
Così rimasi immobile accanto a Revista, a contemplare il mondo
attraverso il riflesso sulla pozzanghera che mi stava davanti. Non
riuscivo a penetrare con lo sguardo al di là della superficie.
Guardai i colori, ogni sfumatura di quel luogo misterioso appena
conosciuto. Per quanto mi sforzassi, non riuscii a capirne il senso.
Come con la pozzanghera, non fui capace di guardare al di là
della superficie.
Capitolo secondo
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CAPITOLO TERZO
Ricordi tra luci ed ombre
“Com’è difficile, talvolta, riuscire a guardare oltre. Com’è difficile
cogliere il senso di alcuni eventi e penetrare il velo di mistero che
avvolge la vita”.
Ero un’aspirante giornalista dalla vita frenetica, pronta a correre
da una parte all’altra della città, alla ricerca di qualche scoop
che mi desse notorietà e mi consentisse di entrare a pieno titolo nel
mondo del giornalismo.
Ferma, davanti a quella pozzanghera, mi concedevo un attimo di
tregua, mi abbandonavo a un vortice di pensieri che collegavano
passato e presente.
Luci e ombre. Gioia e malinconia.
Sarà stato l’uragano di immagini che imperversava incontrollato
nella mia testa o l’inquietudine che mi aveva lasciato il presagio
di Revista, fatto sta che in quell’istante volevo solo fuggire da quel
luogo misterioso. Restavo però immobile, travolta da un’improvvisa ondata di pensieri.
La mia mente tornava a quanto era successo nei giorni precedenti.
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Ricordi tra luci ed ombre
Pensavo alle parole di Revista. Perché ero legata a quelle persone?
E intanto riaffioravano vecchi ricordi della mia vita: le corse in bicicletta, i regali sotto l’albero di Natale, una grande torta di compleanno, l’abbraccio di mia madre e tanti visi gioiosi tutto intorno.
D’un tratto un’improvvisa, sgradevole, sensazione di malessere si insinuò nella dolcezza di quei pensieri. Ancora quella notte. Un tarlo
sottile che, di tanto in tanto, riaffiorava nella mia vita. Avevo solo
otto anni, mi ero coricata da un pezzo ma non riuscivo a prendere sonno. Mi ero alzata per prendere un bicchiere d’acqua in
cucina. Una frase bisbigliata, rubata da un segreto forse troppo
grande da confessare.
Mi ero fermata ad ascoltare di soppiatto, incuriosita dal tono di
voce, ma una parola in particolare mi aveva fatta sussultare.
“Adottata”.
L’indomani mattina avevo rimosso tutto, di sicuro parlavano di
qualcun altro, non certo di me.
Poi, seconda media, primo giorno di scuola. La professoressa con
un nuovo compagno di classe.
«Vi presento Samir, proviene dal Congo, fatelo sentire a casa sua,
come stanno facendo i suoi nuovi genitori». E, rivolta a lui: «Vedrai,
Capitolo terzo
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loro ti renderanno felice, ti daranno l’amore e la felicità che desideri da tanto tempo».
Il flusso dei miei pensieri venne interrotto dalla sirena della polizia. Nel campo un trambusto enorme. Grida, imprecazioni, rabbia,
disperazione.
Davanti ai miei occhi si materializzò la figura di Janko. Si avvinghiò
alle mie ginocchia e mi implorò di aiutarlo.
«Non sono stato io!» urlò tra i singhiozzi. «Mia nonna era quello
che restava di mia famiglia! Ascoltami, ti prego. Aiuta me!»
Mentre Janko veniva trascinato dai poliziotti, provai un senso di impotenza. Non riuscivo a proferire parola. Le sue ultime frasi mi penetravano il cuore.
«Sono innocente! Ho visto un’ombra andare via. Ti prego, aiuta a
trovare chi l’ha uccisa! Non abbandonare Janko!»
Quando la volante si allontanò, abbandonai in fretta il campo.
Nella mia testa, un ingorgo di pensieri, un senso di inquietudine e
le parole martellanti di Revista.
“Tuo destino legato al campo Rom”.
Arrivata a casa, accesi il computer e mi apprestai a scrivere l’articolo sulla tragedia che aveva sconvolto il campo. La pioggia
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Ricordi tra luci ed ombre
tamburellava insistentemente sui vetri del freddo appartamento
di periferia che da due anni chiamavo “casa”.
In quella sera buia, di fronte a me, c’era solo una pagina vuota,
che rappresentava appieno il mio stato d’animo.
Uno squillo improvviso. Risposi immediatamente.
«Sono l’avvocato Alfredo De Onoris. Mi è stato assegnato d’ufficio il caso di Borisov Janko. Potrebbe presentarsi domani mattina al Commissariato di Via Ariosto? Il mio assistito si è rinchiuso
in un mutismo ostinato. Non risponde a nessuna domanda: vuole
parlare solo con lei».
Perché proprio io? Perché un’estranea? In fondo, sapevo poco
del loro mondo e in particolare della vita del ragazzo dagli
occhi azzurri, velati di malinconia.
La mattina seguente, salii in auto e mi precipitai in Commissariato.
Trovai Janko che sedeva rigido su una poltroncina. Aveva i capelli scompigliati e gli occhi sbarrati, persi nel vuoto. Bisbigliava,
come un mantra, le stesse parole.
«Non sono stato io, credete a me».
Nell’avvicinarmi lentamente, mi sentii investita dal suo dolore.
No, non poteva essere stato lui.
Capitolo terzo
35
Lo scrutai, in silenzio. Per alcuni lunghi istanti contemplai quel volto
che mi aveva colpito dalla prima volta che l’avevo incontrato.
Nei suoi occhi si leggeva la bontà. E anche tanta paura.
Notai che cercava di dominare il fremito che scuoteva il suo
corpo.
«Sono contento andati tutti via, io ho bisogno di parlare solo con
te».
«Perché io?».
«Perché so che tu credi a me. Posso giurare... Non sono stato io».
«Chi è stato allora?»
«Non so. Quando io arrivato al campo, lei era a terra, nel sangue.
Io preso bastone per difendermi. Nella baracca tutto in ordine.
Forse suo destino segnato. Troppi litigi, troppi rancori nel campo.
Tante botte fatto diventare suo cuore di pietra. Ma io ho conosciuto sua bontà».
Cambiai discorso, diventai pratica.
«Hai un alibi? Puoi dimostrare che non c’entri? La polizia vorrà sapere».
Janko rispose deciso.
«Sì».
Poi mi sorrise e mi sfiorò la guancia con un bacio.
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Ricordi tra luci ed ombre
Il maresciallo ci comunicò che il tempo a nostra disposizione era
scaduto.
Prima di andarmene gli sussurrai: «Ce la faremo».
Il mio unico intento fu di ritornare subito al campo, per cercare
qualche indizio che potesse scagionare Janko.
Cercai Revista. Dovevo assolutamente parlare con lei. Ripensavo al volto di Janko e provavo insieme amarezza e dolcezza.
Dovevo essere lucida. Forse qualcuno, lì dentro, nascondeva un
segreto, che voleva proteggere anche a costo della propria vita.
Trovai Revista intenta a sistemare qualcosa nella sua baracca.
Manifestava il proprio sconforto mormorando frasi per me incomprensibili e non si accorse della mia presenza. Le poggiai
una mano sulla spalla e lei sobbalzò.
Si rassicurò quando il suo sguardo incontrò il mio.
«Sapevo saresti tornata. Cosa volere scoprire tu?» mi chiese.
«Voglio solo fare giustizia. Janko è innocente e...»
Revista mi interruppe bruscamente.
«Io conosco parte di verità. Ma non dire a te».
Alzai la voce, prendendola per un braccio.
«Vuoi che Janko marcisca per tutti i suoi giorni in un carcere? Lo
sai come venite trattati nelle nostre carceri! Perché non vuoi
raccontare quello che sai?»
Capitolo terzo
37
«Cose di campo rimane nel campo!» replicò lei. «Io sempre difendere lui! Ascolta mie parole, ma tu zitta fuori di campo».
Revista diventò un fiume in piena. Raccontò di incomprensioni passate, delle pretese di Mariana che obbligava il nipote a consegnarle soldi, degli espedienti quotidiani a cui lo costringeva,
mentre lui avrebbe voluto vivere onestamente.
Spesso le reazioni di Janko rasentavano la violenza.
«Voglio cambiare vita! Non sarà certamente la vita del campo a
cambiare me!»
I ricordi di Revista si mischiavano a quelli di Janko, fino a diventare
una cosa sola. Ascoltavo la voce rauca di Revista e riuscivo a
vedere la faccia stravolta e tormentata del ragazzo.
Una sera, mentre contemplavano il cielo punteggiato di stelle, lui le
aveva aperto il proprio cuore e, come un fiume che straripa dagli
argini, aveva riversato ogni inquietudine su Revista. Ogni ricordo.
Gli interminabili mesi di viaggio dal proprio paese verso la “terra
promessa”; la ninnananna di sua madre, con quel sorriso che riusciva a riscaldarlo nonostante fuori dalla tenda nevicasse. Le urla.
Le urla della gente dell’accampamento, della sua gente. E il fuoco
che, incurante di tutto e tutti, polverizzava le tende, i panni stesi,
le speranze di centinaia di persone.
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Ricordi tra luci ed ombre
Il dolore devastante alla notizia che sua madre, fonte di gioia e
dolcezza nella sua vita, da quel tragico incendio non era riuscita
a fuggire.
Poi i giorni della rabbia, una rabbia repressa nei confronti di suo
padre che, invece di lottare, si era rifugiato nell’alcool.
Per prendersi cura di lui, Janko era stato costretto a restare intere
mattinate in quel campo, invece di realizzare il proprio sogno: andare a scuola, studiare e vivere come i coetanei. Il padre si era
sempre più chiuso in se stesso, rifiutando di farsi aiutare. Aveva
amato troppo la moglie, senza di lei la sua vita era finita. Era così
cambiato. Invano Janko cercava tracce dell’antica allegria che
gli aveva reso bella la vita da piccolo. Poi, quella mattina.
Era stato lui, Janko, a trovarlo. Impiccato alla trave della baracca.
La voce di Revista tremò continuando a raccontare.
Dopo la morte del padre, Janko era tornato a scuola. Si impegnava con tutte le forze: le notti insonni passate sui libri gli avrebbero permesso di apprendere sempre cose nuove, di diventare
amico dei compagni, di essere considerato un amico da loro.
Ascoltavo in silenzio.
Parola dopo parola cresceva dentro me un sentimento di tristezza
mista a pietà. Quel ragazzo, che aveva già sofferto tanto e tanto
Capitolo terzo
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si era sacrificato, ora vedeva il proprio futuro sbarrato dalle grate
di una cella fredda.
Quando Revista finì di riversare su di me quel groviglio di ricordi,
i miei occhi erano lucidi. Dovevo a tutti i costi trovare le prove
dell’innocenza di Janko.
Dovevo scoprire la verità.
Come se mi avesse letto nel pensiero, la donna mi disse soltanto:
«Tutto si risolve. Non cercare verità. Sarà verità a trovare te».
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Ricordi tra luci ed ombre
CAPITOLO QUARTO
Preoccupazioni e certezze
Dopo una giornata trascorsa al campo, al freddo e travolta dalle
emozioni suscitate dai racconti di Revista, era inevitabile che, arrivata a casa, scivolassi in una specie di torpore, un dormiveglia
inquieto che forse mi proteggeva e mi aiutava. Un limbo dentro il
quale rielaboravo e componevo, in ordine sparso, i frammenti di
quegli incontri e resoconti.
Fui svegliata dalla vibrazione del cellulare, scivolato sotto il cuscino.
«Pronto? Mamma, sei tu?»
Mia madre. Da quanto tempo non mi facevo sentire? Troppo.
«Bianca, tesoro. Dormivi? Ti ho disturbato?»
«Ma no. M’ero assopita davanti alla tv. Come va, mamma?»
«Tutto bene. Io e tuo padre tutto bene. Tu? Non ti fai sentire mai».
«Significa che sto bene, mamma. Sono presa dal lavoro».
«Lo sappiamo, Bianca. Abbiamo letto i tuoi pezzi su quella faccenda del campo nomadi».
«Ah, vi sono piaciuti? Cosa dice papà?»
«Piaciuti? Siamo preoccupati, Bianca, devi smetterla di esporti
così».
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Preoccupazioni e certezze
Eccolo: il preludio ai soliti rimproveri dei miei. Pazienza. Occorreva pazienza.
Giocare al ribasso, non innescare il meccanismo della provocazione e del risentimento. Tanto sarebbe passato.
«Mamma, è il mio lavoro. Il mio futuro lavoro. Non preoccupatevi,
per favore».
«Ma cosa dici? Non dovremmo preoccuparci, io e tuo padre?
Vuoi fare la cronista di nera, precaria, per il resto dei tuoi giorni?
Frequentare luoghi malfamati? Tra gli zingari, ladri di bambini e
prostitute? Non sono posti per una ragazza. Cosa vuoi dimostrare?
Non era questo che sognavamo per te. Sei così testarda. Tuo
padre potrebbe presentarti le persone giuste».
Me lo sono sempre detta nei momenti difficili: Bianca, respira. Respira.
Perché mi sembrava di sprofondare nella solitudine ogni volta che
mia madre e mio padre avanzavano le proprie ragioni? Sembravano trovare soluzioni facendo sistematicamente a meno di me.
Come se non fossi figlia loro, ma un’estranea, che non si faceva capire, che parlava una lingua diversa.
«Mamma, ancora? Io voglio farcela da sola. Il campo rom non è
come pensi tu. Non è pieno di ladri e assassini. Quella gente...»
Capitolo quarto
43
«Non parlarmi di quella gente! Quella gente è quanto di più distante esista da te, dalla tua vita, dalla nostra famiglia. Non è perdendo tempo fra quei vagabondi che ti costruirai una carriera.
Potevamo farti assumere al “Corriere del Mediterraneo“. Ieri sera,
al club, eravamo seduti allo stesso tavolo col direttore».
«Spero che non gli abbiate detto niente. Io sono contenta così.
Devo chiudere, mamma. Salutami papà».
«Tuo padre non ti parlerà finché non smetterai di occuparti di
quella gentaglia. Non sarai tu, con i tuoi articoli, a salvare il
mondo. Ricordatelo».
«Io non voglio salvare nessuno. Questo lavoro mi piace. E voglio
capire, mamma. Guardare le cose da fuori non serve. Si giudica e
non si capisce niente».
«Vuoi dire che io e tuo padre non capiamo niente? Ma come ti
permetti?»
«Mamma, scusami, non volevo dire questo. Ti prego, ho molto da
fare».
Le mie ultime parole caddero nel silenzio, mia madre aveva già
chiuso. Provai a richiamarla. Niente da fare, cavolo. Occupato.
Respira, Bianca, respira.
44
Preoccupazioni e certezze
Avevo ancora i jeans addosso e stendere le gambe sul vecchio
divano mi diede un immediato sollievo. Cercai con le mani, a tentoni nella penombra, la tazza di tisana al tiglio che avevo preparato appena arrivata, ormai diventata fredda. Mi faceva male
la testa, mi sentivo indolenzita e stanca. Mi pareva di non avere
più le parole, nella vita di ogni giorno, per spiegare. Solo quando
scrivevo riuscivo a trovare pensieri capaci di muovere le cose, di
illuminarle in una luce diversa.
Andare al campo rom mi serviva a questo: disegnavo percorsi di
comprensione fra le parole e le cose. Lì tutto era come doveva essere. Il bene e il male, come categorie, non esistevano. C’erano
uomini e donne. E bambini, con le loro facce, i sorrisi, il pianto, la
lotta quotidiana per l’essenziale. Per loro, giù al campo, la lotta
era estenuante. Ogni giorno. Per un’intera vita. Cosa era giusto,
cosa sbagliato?
Le tempie mi pulsavano adesso, ritmicamente. Improvvisa, tra una
fitta e l’altra, affiorò la melodia struggente su cui avevo danzato
quel giorno al campo, per la festa di Gurgevdan. Quella volta mi
ero mossa obbedendo a un impulso segreto, sconosciuto. Piedi,
mani e fianchi pronti a scattare ai soprassalti armonici che creavano fra di loro, in un dialogo ininterrotto, chitarre e fisarmonica.
Capitolo quarto
45
Dov’ero? Chi ero? Tutto ciò che in me era sempre stato rifiuto si
scioglieva per gradi. Una memoria sonora mi germogliava dentro,
da un luogo segreto dove quelle note erano state custodite gelosamente per tanto tempo.
Mentre il sonno, poco a poco, mi faceva sua, sentii sulla pelle il
lampo dolce e fermo dello sguardo di Janko.
Janko che quel giorno mi aveva guardato danzare, Janko che mi
aveva teso la mano per una piroetta, Janko che si dava il cambio
col compagno, alla fisarmonica, e da quello strumento riccamente
intagliato di ebano, madreperla e avorio, aveva fatto sgorgare
un’onda potente di musica.
Quel giorno sembrava che il cuore del mondo cantasse. Quel
giorno niente, lì, era sbagliato. Janko rideva, con gli occhi all’orizzonte, mentre le mani ricamavano prodigi sulla tastiera ingiallita. Le donne, gli uomini, i bambini segnavano il tempo con le
mani e battevano i piedi sulla terra nera. E io al centro, sotto un
cielo violetto, persa in una danza felice di cui sapevo ogni passo,
senza mai averlo appreso da alcuno. Mi addormentai alla luce
ferma dello sguardo di Janko.
La pelle lo sapeva e io compresi in maniera netta, tra sonno e veglia, che non era stato lui a uccidere Mariana.
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Preoccupazioni e certezze
Pioveva sempre negli ultimi tempi. Me ne accorgevo adesso, che
vivevo sola. Forse prima pioveva alla stessa maniera, ma non lo
avevo mai notato. Una pioggia come quelle raccontate nella bibbia, una maledizione, un pianto divino.
Sorrisi e mi guardai nello specchietto. Ogni tanto esageravo; ho
sempre avuto la tendenza a drammatizzare. Era solo pioggia.
La pioggia mi faceva diventare rossa la cicatrice sul polso e i tatuaggi sul corpo. La pioggia allagava il campo trasformandolo in
lago, dentro cui navigavano baracche e roulotte spettrali. La
pioggia lavava la città e la rendeva fragile, sprofondandola nel
caos di ingorghi continui. Mi controllai il rossetto. Accesi il motore
mezzo ingolfato della vecchia Panda, e partì l’autoradio; Tupac
Shakur e rabbia. Ed energia. Per ritornare con occhi nuovi al
campo.
Cosa succedeva all’ingresso? Chi erano quelle persone? E perché quello sbarramento di auto? Messi di traverso, alcuni Suv e
altri macchinoni superaccessoriati - lustri come se le carrozzerie
cromate respingessero la pioggia - creavano una barriera all’accesso. Uno striscione, che non decifravo, stava appoggiato su un
dosso, mentre alcuni uomini discutevano su come issarlo.
Capitolo quarto
47
Dopo avere guadato a marcia scalata l’ennesima pozza, aspettai aggrappata al volante. Uno dei proprietari delle macchine
avanzò verso di me. Mi fermai.
«Ha sbagliato, signorina. Qui non va da nessuna parte, qui ci
stanno gli zingari».
«Non ho sbagliato. Dovrei passare, invece. Potreste aprire un
varco, per favore?»
«Ma che ci fa una ragazza come lei qui? È pericoloso».
A fior di labbra sussurrai il mio mantra. Bianca, respira. Respira.
Sorrisi mentre rispondevo.
«Sono una giornalista. Vengo spesso al campo. Seguo la vicenda della morte della donna anziana».
«Lei entra abitualmente qui? La polizia non dovrebbe permetterlo. Ma si fa scortare?»
«Scortare? E perché? Sono brave persone. Gentili. Come me e
lei».
«Si vede che lei è giovane e ingenua. E pure carina. Io non sono
certo come quelli. Uno ha ammazzato una sua parente a botte.
Alla faccia della gentilezza».
Respirai per non urlare. Quel quarantenne profumato di dopobarba costoso che parlava a voce troppo alta, dal finestrino
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Preoccupazioni e certezze
abbassato, aveva già detto troppo. Mi controllai, non serviva a
niente rispondere male. Il tizio ricominciò.
«Abbiamo creato una postazione permanente da stamattina.
Siamo gente perbene, noi. Abitiamo nei villini vicini. Lo scriva.
Quando li acquistammo con la cooperativa, non sapevamo che
questi ladri avrebbero piantato qui le loro miserabili baracche».
«La prego, non dica così. Lei non è informato. È mai entrato al
campo? Ha mai parlato con loro?»
«Io con quella gente non ci parlo. Invece mi faccia finire, signorina
giornalista: ci siamo costituiti in comitato: “Pulizia e libertà”. Bel
nome, vero? Stiamo sollecitando il Comune per avviare un’azione
di sgombero forzato. Ci riusciremo. Sono amico dell’assessore all’Urbanistica. Ora arriveranno i giornalisti, quelli veri, e faranno un
servizio in Tv. Questa vergogna deve finire. Sotto gli occhi dei nostri figli, poi!»
Mi si serrarono le mascelle involontariamente. Gli sentii pronunciare
un fiume di parole ripetitive, ossessive, macchiate di pregiudizio.
Frasi fatte e consumate dall’ovvietà.
Stavo quasi per urlare. Odiavo sentirmi trattata così. Odiavo sentirmi
impotente e piccola. Era un gioco cattivo che vedevo spesso mettere in atto da chi ostentava sicurezza, e invece non sapeva nulla.
Capitolo quarto
49
Ingranai la marcia, sfoderai il mio migliore sorriso, da signorina educata, e partii. Lasciai l’uomo profumato di dopobarba costoso
dietro di me, in una nuvola di nerofumo sprigionato dalla marmitta
della mia vecchissima Panda.
E lui parlava, parlava, parlava.
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Preoccupazioni e certezze
CAPITOLO QUINTO
Nuovi sviluppi
Mi allontanai dal campo e dal lezzo profumato di quell’uomo perbene; sentivo ancora l’eco dei suoi pregiudizi, e avevo impresso
negli occhi il disordine creato dal comitato per l’ordine pubblico
con la sua pretesa di “Pulizia e libertà”.
Ostentavano il proprio perbenismo e la propria ricchezza, infischiandosene di tutti quelli che non appartenevano al loro mondo,
o che non rientravano nei loro canoni di comprensione. Come i
miei genitori.
Avevo percorso poche centinaia di metri, quando i miei pensieri
vennero bruscamente interrotti da uno stridio, da un sobbalzo e
dal... silenzio: Bianchina, la mia Panda bianca, si era fermata mentre guadavo una pozzanghera più ampia delle altre.
Immersa nei miei pensieri e ascoltando altri rumori, l’avevo centrata in pieno senza accorgermene, e la mia macchina mi aveva
fatto capire che non ne poteva più della vita a cui la costringevo.
L’avevo comprata cinque mesi prima dal signor Ugo, il vecchietto
ottantacinquenne mio dirimpettaio: non gli avevano rinnovato la
patente perché soffriva di disturbi alla vista e, inoltre, le poche
52
Nuovi sviluppi
centinaia di euro della vendita avevano consentito a lui e alla signora Teresa di tirare il fiato e poter accendere i riscaldamenti.
Con la misera pensione che percepivano dopo una vita di lavoro,
dopo essere riusciti a mandare un figlio all’università per studiare
da avvocato - e che adesso li aveva dimenticati, o quasi - lui e
la moglie si erano ritrovati a girare per casa in cappotto e berretto
di lana.
Da parte mia, ero riuscita a piazzare un articolo che mi era stato
pagato bene e, volendomi emancipare sempre più dai miei genitori, l’avevo comprata all’istante.
Oltre al prezzo, mi aveva conquistato il nome che le aveva dato
il signor Ugo, come si usava in passato: “…ianchina“, le mancava
una B. Era simile al mio e possederla aderiva al mio bisogno di
identità, dopo la “fuga” da una casa agiata e la permanenza in
un casermone di periferia. Con gli ultimi euro che mi erano rimasti,
l’avevo fatta revisionare e avevo messo la targa della provincia
dove abitavo.
Sola, nella strada sterrata, tra le pozzanghere che si ingrandivano,
pensai di chiamare Carlo, il collega della cronaca sportiva, per
chiedergli un passaggio. Non era destino: tra tutte le zone dove
Capitolo quinto
53
poteva capitarmi qualcosa, avevo scelto quella dove non c’era
campo! Non mi allarmai. Prima o poi doveva pur passare qualcuno,
non mi trovavo certo nel deserto!
In lontananza, sotto quel diluvio, come mi ostinavo a chiamarlo,
vidi avvicinarsi dei fari. Era ora, perché stavo per cominciare ad
autocommiserarmi.
Armeggiai con la leva dello sportello per uscire dalla macchina.
Ero decisa a farmi dare un passaggio, chiunque fosse lo sconosciuto. Riuscii ad aprire e scendere proprio mentre sopraggiungeva, lucida di pioggia, una grossa BMW nera metallizzata.
Non so se il conducente lo fece apposta o perché si fosse accorto di me all’ultimo momento, fatto sta che inchiodò proprio in
mezzo alla pozzanghera.
Ed eccola la giornalista che aspirava alla prima pagina, che voleva vincere il Pulitzer, fradicia dalla testa ai piedi! I miei lunghi
capelli biondi, che avevo lavato in fretta quella stessa mattina,
grondavano acqua e fango; si abbinavano al resto del mio abbigliamento, facendomi sembrare uno di quei poveri profughi che
troppo spesso vedevamo ultimamente in TV.
«Ha bisogno d’aiuto signorina?»
«Ma, secondo lei, sto sotto l’acqua a rimorchiare?»
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Nuovi sviluppi
Mi pentii subito delle mie parole sgarbate, anche se forse l’altro le
meritava, quando mi accorsi che si trattava di Alfredo De Onoris,
l’avvocato d’ufficio di Janko.
«È rimasta in panne? Salga, presto, prima di beccarsi un raffreddore!»
Non me lo feci ripetere; gli fui grata per avermi salvato dall’acqua,
e dall’angoscia che mi avrebbe assalito se fossi rimasta ancora lì, da
sola.
Il tepore all’interno dell’auto mi rinfrancò; mi rannicchiai per scaldarmi, cercando di sporcare il meno possibile la tappezzeria color
cammello e i tappetini abbinati. Nell’auto, ovunque guardassi, tutto
denotava classe e buon gusto: dai cassetti portaoggetti all’autoradio, dal navigatore incorporato al supporto per il cellulare. C’era
solo una nota stonata e forse un po’ kitsch: una grossa B corsiva sul
cruscotto, davanti a me.
L’iniziale della moglie? O dell’amante? Ma perché non quella della
figlia?
Ecco, mi ero fatta prendere dalla mia deformazione professionale,
scoprire sempre il chi, dove, come, quando e perché delle cose.
“Rilassati Bianca” mi dissi. Ma non ci riuscii: ancora scossa dalla diCapitolo quinto
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savventura, confrontai l’abitacolo in cui mi trovavo, il suo tepore e,
perché no, il suo odore, con le baracche fredde e puzzolenti di cavolo e cipolle che si trovavano poco più in là!
Le lacrime mi sgorgarono involontariamente e rabbiosamente; le
asciugai in fretta insieme alla pioggia. Sganciai l’orologio d’acciaio:
da poco tempo usavo tenerlo al polso destro, non per vezzo, ma
per nascondere l’antiestetico segno che lo deturpava. Nei giorni di
pioggia come quello, lo sentivo pulsare. E dolere.
L’avvocato, un bell’uomo brizzolato di età indefinita tra i cinquanta
e i sessanta, mi riscosse dai miei pensieri.
«Allora, signorina, come mai da queste parti? Gliel’hanno mai detto
che non è posto per lei?»
«Faccia decidere a me il posto più adatto! Comunque, prima di essere stata bloccata da quei manifestanti e poi dalla pioggia, stavo
andando al campo rom a cercare Revista. Volevo qualche informazione in più per aiutare Janko».
Lui sospirò.
«Niente da fare. Vengo proprio da là; sono reticenti, non dicono
nulla che possa scagionare Janko, ma concordano sulla non colpevolezza. E poi, quella Revista... mi guarda con odio. Non sono
un perbenista come tanti, sono andato anche volontario in Ko-
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Nuovi sviluppi
sovo, ma i rom che ho conosciuto là erano diversi: provati dalla
guerra sì, ma con un forte desiderio di riscatto. Janko, da parte
sua, si ostina nel mutismo, anche adesso che lo hanno portato in
carcere».
Mi venne un’idea. Janko aveva voluto parlare solo con me, mi
aveva professato la sua innocenza, si era fidato e voleva il mio
aiuto, solo il mio.
“Tuo destino legato campo rom“.
Revista.
Forse, se fossi riuscita a parlargli ancora una volta, per farmi dire
cosa avesse visto quella notte o se avesse egli stesso dei sospetti,
forse si poteva venirne a capo e scagionarlo dall’accusa.
Dissi all’avvocato De Onoris che volevo andare a trovare Janko
in carcere, per convincerlo a dirmi quel che sapeva.
«Non è così semplice» scosse la testa lui. «Lei non è una parente e,
ancora peggio, è una giornalista. E anche se si potesse riuscire, ci
vorrebbero troppe richieste, troppe autorizzazioni e troppo tempo».
Non mi feci scoraggiare.
«Bene, allora se vuole proseguire con il caso, mi farà passare per
la sua tirocinante che ha tutto il diritto di seguire l’avvocato mentre visita il proprio assistito!»
Capitolo quinto
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Lo so, azzardai. Ma dopo tutte le sfumature di colore che assunse il
volto di De Onoris, dal bianco al nero, con una punta di verde, per
poi stabilizzarsi sul rosso... Dopo una serie di coloriti improperi ed
eloquenti silenzi... Dopo aver constatato la mia ostinazione ed essersi reso conto che poteva servire allo scopo...
Alla fine si arrese.
Mi feci lasciare al giornale, dopo aver concordato di vederci dopo
due giorni. L’indomani mi sarei fatta accompagnare dal meccanico
a riprendere la macchina.
La mattina stabilita per il colloquio mi alzai presto. Cercai nell’armadio qualche capo che si adattasse al ruolo di “tirocinante avvocato”. C’era poco da scegliere. L’unico vestito adatto era quello
che avevo indossato per impressionare un direttore di giornale: completo blu e camicia azzurra, in pendant con il colore dei miei occhi.
Abbondai con il trucco, per sembrare più matura dei miei ventidue
anni, e raccolsi i capelli in uno chignon per apparire più professionale.
Finalmente non pioveva più. Fuori dal carcere, mentre aspettavo
l’avvocato, mi deliziai a guardare i monti innevati che incorniciavano a nord la città; tenui raggi di sole riflettevano la luce delle
goccioline di pioggia sui rami degli alberi circostanti. Sono sempre
stata meteoropatica, e le mutate condizioni atmosferiche mi face-
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Nuovi sviluppi
vano sperare positivamente sugli sviluppi del colloquio.
Vedemmo avvicinarsi un secondino: accompagnava un detenuto
che procedeva con le spalle curve e le mani dietro la schiena.
«Ciao, finalmente sei tornata a visitare me».
Janko aveva ancora i vestiti del giorno dell’arresto, i capelli scompigliati e la barba lunga, ma, a dispetto dell’insieme dimesso, lo
sguardo era tornato a essere fiero. L’azzurro dei suoi occhi, così simili ai miei, rifletteva il luccichio del mare lontano; sentivo lo sciabordio della risacca sulla spiaggia inondata dal sole; mi parlavano
di infinito, voglia di libertà, di forza, verità, di...
“Tuo destino legato campo rom!”
Revista.
Mi riscossi e risposi bruscamente.
«Sono tornata, anzi siamo tornati, per aiutarti. Se vuoi aiuto, ci devi
dire se hai visto qualche estraneo, quella sera al campo. Hai detto
che hai un alibi per la sera dell’omicidio: dov’eri?»
«Io non c’entro; non posso dire tutto, solo un nome. Satta».
L’unico Satta che conoscevo era il mio professore di italiano al liceo.
Ma cosa c’entrava con Janko? Era il suo alibi o sapeva qualcosa
del delitto?
Capitolo quinto
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CAPITOLO SESTO
“Una di noi”
Satta, il mio professore di letteratura italiana ai tempi del liceo. Un
uomo semplice, buono, dai modi garbati. Fu semplice trovarlo:
bastò andare nella vecchia scuola e chiedere dove abitasse, era
ormai in pensione. Dissi di volergli fare visita, per raccontargli del
mio lavoro e chiedergli qualche consiglio.
Ebbi l’indirizzo senza troppi problemi.
Quando mi vide davanti alla porta della sua casa, il professore mi
riconobbe subito e mi fece accomodare: sembrava mi aspettasse.
Era malato da alcuni giorni, sapeva dell’omicidio dai giornali e
dai tg locali, ed era a conoscenza della mia inchiesta al campo
da Janko.
«Allora lo conosce davvero?» esclamai sollevata: l’idea dell’innocenza di Janko mi rendeva felice.
«Sì, è un mio allievo» mi spiegò. «Gli impartisco privatamente lezioni
di italiano. È un ragazzo molto intelligente e il suo sogno, da sempre, è studiare. L’ho conosciuto per caso. Bazzicava spesso nei
pressi della scuola, un giorno l’ho avvicinato e lui mi ha raccontato
60
“Una di noi”
di questo desiderio. Da quando sono in pensione, ormai quasi un
anno, è il mio unico impegno. Ed è una gioia».
Il professore mi raccontò delle lezioni, dell’impegno di Janko e dell’ostilità di Mariana verso quel nipote che voleva studiare anziché procacciare soldi. Janko gli parlava dei suoi sogni, delle sue
speranze, delle difficoltà. E gli aveva raccontato anche di me e
delle mie visite al campo.
«È lì che devi tornare se vuoi la verità. Janko è innocente, ha trascorso tutta la sera con me, sui libri».
Non me lo feci ripetere: diedi il numero di telefono dell’avvocato
al professore Satta, perché concordassero quando deporre sull’alibi di Janko, non appena fosse guarito.
E tornai al campo. Ancora.
Per essere sicura di non avere alcun problema con gli uomini del
Comitato, qualora li avessi incontrati, mi misi in capo un foulard a
fiori; speravo infatti, di non essere riconosciuta e di passare per
una donna rom.
Così raggiunsi la dimora di Revista facilmente.
«Ti hanno bloccata quei tizi, vero?» quasi mi investì lei. «Ora inizierà la solita protesta contro di noi! Ci costringeranno ad andar
via, del resto noi siamo odiati da tutti e da sempre! Cosa importa
Capitolo sesto
61
se è morta una donna della nostra gente! Hanno già deciso che
Janko è il colpevole! Ma tu, tu lo sai. Lui... lui è innocente!»
Rimasi in silenzio e osservai Revista che con, grande risolutezza, ribadiva l’innocenza di Janko.
Poi lei continuò: «Tu devi aiutarci, tu puoi, hai i mezzi per scoprire
la verità! Tu sei una di noi!»
Disse l’ultima frase a denti stretti, quasi fosse una riflessione a voce
alta.
Rimasi senza parole, inebetita, mi mancò il respiro per un istante.
Poi, a stento, riuscii a proferire alcune parole confuse.
«Una di voi? Cosa vuoi dire? Cosa c’entro, io... con te e con la tua
gente?»
Balbettai e sgranai gli occhi, alla ricerca di una risposta o di uno
sguardo di Revista che mi chiarisse la sua frase enigmatica. Lei
però si chiuse in un silenzio preoccupante, come se mi fossi sognata tutto. Solo dopo tante mie insistenze, spiccicò a mezza
voce: «Non posso svelare ciò che devi scoprire da sola! Cerca nel
tuo mondo e nel tuo passato, e capirai. Ora vattene, e pensa a
Janko!»
Mi spinse quasi a forza fuori dall’ingresso e mi trovai nello spazio antistante le baracche. Ebbi l’impressione che tutto girasse intorno a
62
“Una di noi”
me, come in una danza tradizionale gitana, e che tutti gli abitanti
del campo mi guardassero come se vi fossi giunta per la prima volta.
Tu sei una di noi. Una di noi. Una di noi.
Quelle parole riecheggiavano nella mia mente vorticosamente.
Ma che cosa voleva dire Revista? Io, una rom?
«Impossibile!» pronunciai a voce alta. «Conosco le mie origini, i
miei genitori!»
Fui investita da un senso di nausea e iniziai ad avere le vertigini.
Decisi però di rimanere lucida e di non pensare, per il momento,
alle parole di Revista. Dovevo concentrarmi sulla ricerca degli indizi che scagionassero Janko: era il problema più urgente da risolvere.
Staccai i sigilli, facendo attenzione a non romperli, poi entrai nella
baracca cercando di non essere vista dagli altri. Non trovai
niente, solo vestiti e pentole sparse tutte intorno. Nell’intento di
scovare qualche prova che scagionasse Janko, intravidi un oggetto nell’oscurità che attirò la mia attenzione.
Sembrava una scatola e, per qualche strana ragione, mi era familiare. Notai un gancio particolare e cercai di aprirlo, ma era bloccato e fui costretta forzare la chiusura. Dopo svariati tentativi a
vuoto, finalmente riuscii ad aprirlo.
Capitolo sesto
63
Udii subito un’armoniosa melodia e mi parve di riconoscerla. Dentro di me sentii un calore, come il ricordo di un’antica ninna nanna.
Ero sicura di averla già sentita, ma fui assalita dalla paura e da
una raffica di domande; così chiusi istintivamente il carillon con
forza. Dopo averlo fatto, mi accorsi della presenza di un doppiofondo che conteneva un cassettino: dentro c’era un ciondolo antico e mal conservato, che sembrava fosse lì ad aspettare che
qualcuno lo trovasse.
Presi in mano il ciondolo e mi accorsi che si poteva aprire. All’interno c’era la foto di una neonata con un volto molto familiare: mi
assomigliava tantissimo. Per un attimo mi chiesi se fossi io.
“Mi sembra di aver già visto questa foto, da qualche altra parte”
mi dissi.
Mi chiesi ancora perché avessi quella continua voglia di tornare
al campo.
«Forse sono davvero una di loro. Forse per questo Revista continua a ripetermi “il tuo destino è qui”».
Decisi di portare il ciondolo con me e di confrontarlo con una foto
che conservavo a casa. Era tardi quando aprii la porta: per prima
cosa cercai tra gli oggetti della mia infanzia, ma presto ricordai
che la foto in questione si trovava a casa dei miei genitori. Mi ri-
64
“Una di noi”
promisi di andare il prima possibile da loro, in modo da visionare
tutti gli album fotografici. Magari anche per parlare e chiedere
spiegazioni. Fino ad allora li avevo considerato i miei unici e veri
genitori.
Ma era davvero così?
Feci una doccia e mi preparai per andare a cena con tre mie amiche, non potevo disdire l’appuntamento o, forse, sentivo il bisogno
di distrarmi. Durante la cena, mentre le mie amiche parlavano di
problemi d’amore, io pensavo solo alle scioccanti vicende accadute al campo rom. Ogni pensiero mi riportava al campo.
Mentre Isabella chiedeva il mio parere sul comportamento del suo
compagno durante una lite della sera prima, io trasalii, riconoscendo all’improvviso un accento familiare: era un bimbo rom di
circa dieci anni che elemosinava nei tavoli vicini.
Ebbi voglia di invitarlo al tavolo con noi, ma temetti la reazione
delle mie amiche, così mi limitai a domandargli da quale campo
provenisse. Il volto mi ricordava Janko.
Una serie di domande incalzanti affollarono all’improvviso la mia
mente.
“E se io fossi veramente una di loro? Ma allora chi sono i miei veri
genitori? Ho vissuto fino ad oggi nella menzogna? Mi sarei trovata
Capitolo sesto
65
anche io a fare l’elemosina, se avessi vissuto con quelle persone?”
In quell’istante tutte le certezze svanirono e sentii il mondo crollarmi
addosso.
Fui riportata alla realtà dal trillo del mio telefono e dalle mie amiche che tentavano in ogni modo di richiamare la mia attenzione.
Mi accorsi di aver ricevuto un messaggio: era dell’avvocato De
Onoris, che aveva raccolto la deposizione del professore Satta.
Lessi più volte quelle parole e tirai un respiro di sollievo. Janko
aveva un alibi e quindi la possibilità di dimostrare la propria innocenza.
66
Tornai finalmente a casa, ero esausta e mi sdraiai sul divano, cercando di dormire. Ogni tentativo si rivelò però vano, troppi i pensieri, troppe le cose accadute in quel giorno, troppe le sensazioni
forti e contrastanti tra loro.
Accesi la tv e iniziai a fare zapping, fermandomi su un canale regionale che trasmetteva il notiziario della notte. Fui colpita dalla
notizia dell’evasione di un detenuto dal penitenziario locale, avvenuta durante l’ora d’aria. Il giornalista non specificò il nome e la
nazionalità dell’evaso, ma subito pensai si trattasse di Janko.
Fui colta dalla paura e dall’ansia.
“Una di noi”
“Perché l’ha fatto? Proprio adesso che avrei potuto aiutarlo. Magari lo avremmo fatto rilasciare, grazie alla testimonianza del professore! Perché?” mi ripetei preoccupata.
Decisi di fare altre ricerche sul nome del carcerato scappato dal
carcere, accesi il mio pc e iniziai a navigare su internet, nella speranza di trovare qualche notizia.
Il fatto era però troppo recente e nessun sito di cronaca locale o
nazionale riferiva maggiori informazioni rispetto a quanto detto
dal cronista in Tv.
Si era fatti tardi, molto tardi, la sveglia a forma di gatto segnava
le tre e venti del mattino e mi obbligai ad andare a letto. Dovevo
riposare per essere lucida, il giorno che si apprestava a iniziare
era troppo importante.
Chiusi gli occhi e mi limitai a ripetere più volte, nella mia mente,
che l’evaso non era Janko. Con questo pensiero fui colta da un
sonno profondo e agitato.
Capitolo sesto
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CAPITOLO SETTIMO
Un sogno rivelatore
68
Nel mezzo della notte fui svegliata dal suono del campanello della
porta. La sveglia segnava le quattro e mi domandai chi potesse
essere a quell’ora. Mi alzai e andai ad aprire, ma non c’era nessuno. Chiudendo la porta, mi accorsi che per terra c’era però un
pezzo di carta che diceva: Da Satta in via Palermo 42. Domani
alle 19.30. J
Capii subito che a scrivere quel biglietto era stato Janko.
«Allora l’evaso è proprio lui!» borbottai irritata. «Perché è fuggito?
Poteva essere scagionato senza complicare ulteriormente le cose.
Che incosciente!»
Andai nuovamente a letto e mi addormentai leggendo e rileggendo il biglietto. Feci sogni confusi, ma uno mi colpì particolarmente.
In lontananza vedevo due donne vestite in modo bizzarro, che mi
facevano cenno con le mani. Indossavano ampie vesti, tutte colorate e lunghe fino ai piedi, mentre in testa, tra i capelli, portavano dei fiori di plastica. Sulla spalla di una era annodata
Un sogno rivelatore
un‘ampia coperta che fungeva da porta-neonato, solo che era
vuota, mentre dal collo pendeva una collana con un ciondolo lucente, come quello trovato nella baracca di Mariana.
«Vieni, vieni da me, piccola mia» mi diceva la più giovane delle
due. Il suo viso era però confuso e quando mi avvicinai, lei cercò
di prendermi per mano, mostrando un sorriso smagliante. Fu come
se mi guardassi allo specchio e, da quel momento, la mia attenzione si rivolse solo a lei.
Continuai a girarmi e rigirarmi nel letto, madida di sudore, e alle
sette e trenta suonò la sveglia. La notte movimentata mi aveva lasciato agitata, turbata, stravolta.
Mi alzai e come tutte le mattine feci colazione davanti alla tv: così
ebbi la conferma che l’evaso era proprio Janko.
Mi preparai per andare dai miei genitori, perché avevo bisogno
di spiegazioni e di chiarimenti. Portai con me il ciondolo, per confrontare la foto con le altre che ricordavo di aver visto a casa
dei miei.
Quando arrivai, mia madre era in cucina e le bastò solo uno
sguardo per capire che qualcosa non andava.
«Ciao Bianca, figlia mia, come mai qui, tu, a quest’ora? E quella
faccia? Hai fatto le ore piccole?»
Capitolo settimo
69
Non risposi, ma continuai a guardarla con uno sguardo confuso
e deluso. Poi la lasciai lì, perplessa, e andai direttamente nella
mia vecchia stanza a prendere l’album contenente le foto di
quando ero bambina.
I mie sospetti furono confermati: somigliavo perfettamente alla
neonata della foto del ciondolo e alla donna del sogno.
Era il momento di chiedere spiegazioni a colei che avevo sempre
creduto mia madre, così la chiamai, sempre più turbata. Le raccontai il sogno e le parole che più volte Revista mi aveva ripetuto.
“Tuo destino legato a campo rom. Tu sei una di noi”.
Dalla bocca di “mia madre” non uscì una parola, ma la sua
espressione, assente e inesplicabile, parlò per lei.
Solo qualche tempo dopo mi avrebbe raccontato che non era
stata in grado di dire nulla perché, in quel momento, erano riaffiorati nella sua mente gli eventi di quella notte di ventidue anni
prima, i rischi affrontati per avermi, la paura che qualcuno venisse a conoscenza delle mie origini.
Lasciai mia madre scioccata, sconvolta e, soprattutto, impotente
a reagire, e mi diressi al campo per parlare con Revista.
Volevo sapere, sebbene fossi anche sicura che lì, nel suo ambiente, lei non mi avrebbe rivelato niente: dovevo allontanarla
fuori da quel luogo.
70
Un sogno rivelatore
Giunta al campo, la invitai dunque a venire con me, dicendole
che avevo informazioni su Janko. Incuriosita, Revista mi seguì e andammo a casa mia.
Rimase sorpresa dall’arredamento, perché non aveva mai visto
una vera casa. Fu colpita dal grande divano bianco, su cui ammassavo i miei articoli, spesso incompleti. La invitai a sedersi e la
vidi che respirava, a pieni polmoni, l’essenza di lavanda che proveniva dall’armadio semichiuso. Le preparai una delle mie tisane
e, quando mi accorsi che si era rilassata a sufficienza, le dissi di
avere delle buone notizie su Janko e che avevo trovato il modo
per scagionarlo.
«Ma lo aiuterò solo se mi rivelerai la verità sulle mie origini. Chi
sono io, Revista?»
Lei stavolta non fece resistenza e mi raccontò che aveva capito
chi ero dal solco presente sul mio polso, lasciatomi dal cordone
ombelicale.
«Tua madre si chiamava Mari e aveva solo quindici anni quando
rimase incinta di te. Voleva cambiare vita dopo la morte di tuo
padre e decise di seguire i suoi compagni nel viaggio verso l’Italia. Io e lei facemmo amicizia, Mari sperava di raggiungere sua zia
Mariana, l’unica parente che le era rimasta, la “vecchia del
Capitolo settimo
71
campo”. Purtroppo il viaggio fu faticoso per lei. Come ti ho già
raccontato, il parto fu complicato, tu non volevi nascere, lei era
molto debole e alla fine se ne andò senza vederti. Di te mi rimase
solo una piccola foto che poi ho dato a Mariana e che lei conservò con cura dentro un ciondolo».
Le mostrai il ciondolo e mi presi il volto tra le mani.
«Allora, sono una di voi! Una rom!» esclamai con voce tremolante.
«Chi sono veramente io, Revista? E chi siete veramente voi?»
Revista sospirò prima di rispondermi.
«Siamo persone che rinunciano alla ricchezza e alle comodità in
cambio della libertà. Viviamo ogni giorno come se fosse l’ultimo,
cercando di godere delle piccole cose che la vita ci offre e che
non tutti sanno apprezzare. È difficile capire il nostro modo di vivere, forse devi nascere zingaro per capirlo».
L’angoscia lasciatami dalla notte precedente continuò a crescere
e fu come ricevere una pugnalata: dentro mi sentivo ribollire, come
un vulcano in eruzione.
Mi mancava però ancora un tassello.
«Come hanno fatto i miei genitori ad avermi? Come entrarono in
contatto con quel mondo?»
72
Un sogno rivelatore
«Non lo so, devi chiederlo a loro» disse Revista. «Ricordo però
che la mattina dopo la tua nascita vidi il capo rom che parlava
con un uomo distinto e al quale consegnò delicatamente un involto».
«Ero io».
Capitolo settimo
73
CAPITOLO OTTAVO
Respira, Bianca, respira
Per un attimo mi sentii sprofondare in un baratro. Sul tavolo avevo
lasciato un articolo scritto qualche tempo prima: lessi il mio nome,
ma non mi ricordava nulla, anzi mi dava quasi fastidio.
Sospirando sollevai lo sguardo e incontrai gli occhi lucidi e accoglienti di Revista: la sensazione di disagio fu sostituita da un
confortante tepore familiare. Non parlò, ma capii che era il momento di tornare al campo. Erano le dodici e trenta del mattino,
mancavano circa sette ore all’incontro con Janko.
L’impatto con le baracche fu diverso, una sorta di dejà vu intriso
di ricordi spezzati e ricostruiti.
D’un tratto notai che, nonostante non soffiasse un alito di vento, le
tende della baracca di Mariana si muovevano. Ansiosamente, ma
al contempo decisa, mi avvicinai ed entrai, ignorando la reticenza
di Revista che comunque mi seguì all’interno: fu il nostro timore comune a spingerci a perlustrare la stanza i cui sigilli apparivano intatti.
Mi sentivo osservata da mille occhi e, in preda al panico, mi affrettai ad uscire. Indietreggiando inciampai però in un baule, mi
voltai di scatto e il mio sguardo cadde ai piedi del mobile, al
74
Respira, Bianca, respira
quale era impigliato un foulard bordeaux. Prima che Revista si avvicinasse per aiutarmi, nascosi istintivamente il largo rettangolo di
stoffa ben lavorato, diverso dai soliti foulard sciupati che indossavano le donne nel campo.
A chi apparteneva? Ricordavo di averlo già visto.
Riflettendo mi tornò in mente un’anziana donna seduta in disparte
durante la festa di San Giorgio; era lei a portare sulle spalle un
capo identico a quello che aveva provocato la mia rovinosa caduta.
Sapevo che Revista non mi avrebbe permesso di girare da sola nel
campo e malincuore la riaccompagnai nella sua baracca, anche
perché era visibilmente stanca e scossa. Poi andai alla ricerca
della donna del foulard.
Girovagai per il campo finché non fui attratta da uno strano odore;
lo seguii e trovai l’anziana intenta a cucinare.
Non appena i nostri sguardi si incrociarono, parve scoccare una
scintilla di fuoco. Le sue parole tradirono esattamente lo stesso timore che mostravano le piccole pupille.
«Cos’è questo buon profumo?» chiesi cercando di essere più gentile possibile. «È gulasch, vero? Ho sempre desiderato assaggiarlo».
Capitolo ottavo
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«Sì, ma noi facciamo con paprika. Solo noi fare così! A te piace?»
«Parecchio. Io sono Bianca, e penso che questo le appartenga».
Estrassi il foulard dalla borsa e lo accompagnai con dolcezza alle
sue mani, attendendo una reazione.
«Xabbe lacho kerette sasto» disse però lei.
«Non capisco» sorrisi disorientata.
«Il cibo buono rende sani» tradusse lei indaffarata. «Il mio nome è
Ayana. E sì, il foulard è mio. Dove hai trovato?»
«Nella baracca di Mariana! O dovrei forse dire sul luogo del delitto?» ribattei decisa.
L’anziana si sentì percorsa da un brivido caldo mentre assaggiava
un boccone del suo buon gulasch.
«Cosa vuoi dire?» mi apostrofò sospettosa. Masticando pronunciò
poi alcune parole che non capii, quindi continuò: «Queste baracche non conoscono accusa. Non ti hanno forse insegnato nostra educazione, non conosci rispetto?»
«E chi avrebbe mai dovuto insegnarmi queste cose?»
«Ce lo hai scritto sulle mani, il nostro nome. E sai benissimo cosa voglio dire».
Gli occhi nella pentola, lo sguardo languido, Ayana mi raccontò
la sua storia.
Respira, Bianca, respira
Aveva vissuto una vita di riflesso. Era stata la moglie di un grande
capo, ne aveva ereditato la fama, ne aveva subito il ruolo e le
ombre. Ne ricordava le mani, allacciate all’involto indifeso, e il
passo celere verso quell’uomo dall’aria attenta e distinta che lo
attendeva all’ingresso del campo in quella mattina nuvolosa. Per
poi scomparire per sempre. Quella mattina di nuvole Ayana non
l’aveva più dimenticata. Né aveva dimenticato le mattine seguenti, quelle senza la piccola, l’avversione del campo prima e
l’odio di Mariana poi, per lo sdegno e l’affronto. Avrebbe voluto
dimenticare i ricordi, e diluire il dolore.
Per questa ragione era tornata nella baracca: voleva impadronirsi del medaglione e insabbiare, una volta per tutte, quella storia.
Il gulasch scoppiettò nella pentola e Ayana lo spense nel momento esatto in cui smise di parlare.
Ormai sentivo di stare per ricostruire la mia vita, da Revista ad
Ayana, tassello dopo tassello.
Si erano fatte le tre, l’incontro con Janko si avvicinava. Nonostante mancassero ancora quattro ore, uno strano senso di fretta
incombeva sul mio pomeriggio.
Capitolo ottavo
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Lasciai in fretta la baracca speziata e corsi, forse avventatamente, dall’avvocato De Onoris per avvisarlo del messaggio di
Janko e portarlo con me.
Accettò e salimmo in macchina. In quegli agitati momenti di foga,
seduta sul comodo sedile color cammello dell’auto del legale, riflettei su quanto mi fossi cacciata nei guai, sui rischi corsi tra baracche e sconosciuti, per ritrovare un passato tanto potenzialmente
rassicurante quanto sconvolgente.
Per cosa? Per chi avevo corso quei rischi?
All’inizio per soddisfare la mia curiosità, forse, la mia smania di sapere. Ora però lo facevo per proteggere le sorti non solo di un cugino, ma soprattutto della mia gente.
Io e l’avvocato arrivammo in via Palermo alle diciannove e trenta
in punto e vedemmo Satta sul balcone: si affacciava sempre
quando aspettava i suoi alunni che ritardavano. Salii gli scalini a
due a due e mi fermai di scatto non appena riconobbi quegli
occhi blu, troppo simili ai miei, sull’uscio dell’appartamento.
Non sapevo se abbracciarlo per la gioia di trovarlo sano e salvo
o prenderlo a schiaffi per la leggerezza commessa evadendo. Non
ebbi il tempo di decidere: l’avvocato De Onoris balzò letteralmente su Janko, spingendolo all’interno della casa.
Respira, Bianca, respira
«Sei un evaso dal carcere, non lo sai?» lo investì. «Sei ricercato,
sei stato accusato di omicidio. Credi di potere stare sul pianerottolo di un condominio in centro città?»
Io rincarai la dose.
«Cosa diavolo hai combinato, Janko? Ti rendi conto di essere passato dalla parte del torto?»
«Ma Bianca, io...»
«Tu cosa?» lo interruppi immediatamente. «Avevi un alibi e ora non
serve a nulla! Spiegami perchè lo hai fatto!»
Persino l’avvocato si rese conto che qualsiasi parola che non
fosse mia o di Janko sarebbe stata fuori luogo. Così tacque e si
mise accanto al professor Satta, aspettando una risposta.
Janko fu sin troppo chiaro.
«Bianca, io... anzi noi, siamo rom! Il mondo è un luogo troppo piccolo per la nostra gente, figurati una cella!» strinse i pugni, poi
continuò. «So di avere sbagliato: non dovevo evadere, ma lasciami spiegare. Ero sicuro che il professor Satta ti avrebbe confermato il mio alibi, io però non riuscivo ad aspettare lì dentro,
aspettare senza poter fare nulla. Alla prima occasione sono uscito
e sono corso a cercare l’assassino di nonna Mariana».
«Sai chi è stato quindi?»
Capitolo ottavo
79
Lo chiedemmo in tre, quasi all’unisono. Janko annuì.
«Sì, ho foto e nome di quest’uomo».
Ci mostrò le foto e subito sentii risalire un conato di vomito.
Era l’uomo che mi aveva bloccato all’ingresso del campo, un membro di quell’assurdo comitato, “Pulizia e Libertà”.
Mi sconvolse scoprire che, in una delle immagini, il tizio in questione appariva assieme a mio padre. Subito mi tornò però in
mente una conversazione di qualche mese prima tra me e mio
padre, che avevo ascoltato con assoluto disinteresse: lui mi aveva
raccontato di un collega imprenditore in procinto di aprire un supermarket in periferia, ma che stava avendo dei problemi con alcuni rom.
Lì per lì non avevo dato peso alle sue parole: si trattava uno dei
tanti imprenditori amici di mio padre, farciti di soldi e di pregiudizi.
Tutto era più chiaro adesso.
Nonostante l’apparente scontrosità, Mariana era celebre per la
sua fermezza. Era figlia di una vita di sofferenze e dolori, e
avrebbe dato la vita per il suo campo. Quella sera, una delle
tante in cui gli spasmi del suo corpo martoriato non le davano
pace, aveva sicuramente visto quell’uomo muoversi tra le barac-
80
Respira, Bianca, respira
che, tramando di distruggere il loro piccolo mondo. Non era difficile immaginarla mentre si scagliava sull’intruso, nonostante l’età e
gli acciacchi, per difendere il campo e se stessa.
Mariana aveva pagato con la vita l’attaccamento al suo modo di
appartenere al mondo, il modo di vivere della sua gente. Della
mia gente.
L’avvocato non perse tempo e iniziò a fare una chiamata dietro
l’altra, elaborando un piano per scagionare il suo assistito. Aiutato dallo stesso Janko, Satta si apprestò a scrivere un articolo
che sarebbe uscito in prima pagina su ogni giornale del paese.
E io? Cosa avrei fatto io?
“Respira, Bianca, respira”.
In pochi giorni la mia esistenza era stata stravolta, le mie certezze
fatte in mille pezzi. Sarei potuta tornare dai miei genitori e accusarli, per ciò che mi avevano fatto, per la verità che mi avevano
nascosto. E poi, cosa avrei ottenuto? Avrei perso quell’unico appiglio ancora esistente, seppur traballante.
No, non era certo quella la soluzione da scegliere.
Sospirai e chiusi gli occhi, sapendo finalmente quale svolta dare
alla mia vita e alla mia carriera.
Capitolo ottavo
81
Avrei accettato le mie origini, avrei lottato con tutta me stessa,
con tutto l’inchiostro e tutte le pagine possibili, per difendere la
mia gente.
Solo così, solo raccontando gli altri, avrei contemplato la mia meritata libertà.
82
Respira, Bianca, respira
APPENDICE
1. Strani presagi
Istituto Comprensivo “E. De Amicis”di Enna – Gruppo misto
Dirigente scolastico
Filippo Gervasi
Docenti responsabili dell’Azione Formativa
Ida Ardica, Rosa Bonfissuto
Gli studenti/scrittori del gruppo misto
Emeka Ohalete, Viorel Durac, Anton Caldarar, Nicolaie Lacatus, Faisal Igala,
Tauland Caushay, Georgi Karadzhov, Mohamed Al Ahmer, Anis Amri, Salvatore Di
Grazia, Davide Platania, Cristian Vlase, Costid Dorinel Vinache, Florin Lazar
Hanno scritto dell’esperienza:
“… È il secondo anno che partecipiamo al progetto di scrittura creativa e, con
grande entusiasmo, ci siamo cimentati nella stesura del primo capitolo, consapevoli della responsabilità che questo comportava. L’incipit di Veronica Tomassini, scrittrice che, per la sua grande capacità di raccontare gli ultimi, sentiamo
molto vicina a noi, ha permesso di immedesimarci nei protagonisti del racconto
e nei loro vissuti: ciascuno di noi è diventato Revista, Janko o la vecchia Mariana. Il contributo dei nostri compagni di etnia rom ci ha permesso di conoscere
e descrivere la vita, gli usi e i costumi di un campo. La staffetta di scrittura creativa si è rivelata, anche quest’anno, un ottimo momento di riflessione, confronto
e aggregazione”.
APPENDICE
2. Antichi legami
Istituto d’Istruzione Superiore “E. Medi” di Leonforte – Classi I A/B classico
Dirigente scolastico
Antonella Tedeschi
Docenti responsabili dell’Azione Formativa
Annamaria Crudo, Salvatore Romano
Gli studenti/scrittori delle classi I A/B classico
Giulia Benintende, Simona Buscemi, Chiara Calabrese, Silvia Calcaterra, Federica Cosentino, Brigida La Delfa, Lorena Patti, Giorgio Pashalidis, Andrea Pashalidis, Maria Trovato, Emanuela Truglio
Hanno scritto dell’esperienza:
“… La stesura del capitolo ha favorito la crescita personale delle allieve coinvolte. Il gruppo, costituito da un cospicuo numero di partecipanti, ha saputo collaborare proficuamente; infatti, sebbene ogni allieva presentasse una propria
idea creativa, è stata disponibile all’ascolto delle proposte e dei suggerimenti
altrui”.
APPENDICE
3. Ricordi tra luci ed ombre
I. T. “L. Da Vinci” di Milazzo - Classi I/II/V B turismo, I A grafica, IV/V C turismo
Dirigente scolastico
Stefania Scolaro
Docenti responsabili dell’Azione Formativa
Antonino Caruso, Anna Sciotto, Teresa Frisone
Gli studenti/scrittori delle classi
I B turismo - Francesca Maiorana, Carola D'Andria, Ana Beatriz Brito da Silva
II B turismo - Ylenia Torre
V B turismo - Simon Di Bartolo
I A grafica - Luana Mastroieni
V C turismo – Valentina Bandi, Dalila Carbone, Chiara D'Amico, Francesco
Munafò, Domenica Pignatelli, Maria Vicentino
IV C turismo – Marika Famà, Carmelo Giorgianni, Claudia Vicentino
APPENDICE
4. Preoccupazioni e certezze
IPSIA – IPSAAR “Federico II” di Enna - Classe I E enogastronomia/alberghiero
Dirigente scolastico
Paola Rubino
Docente responsabile dell’Azione Formativa
Elisa Giovanna Di Dio
Gli studenti/scrittori della classe I E enogastronomia/alberghiero
Adriana Brutaru, Mattia Colombo, Filippo Di Pasqua, Jesielyn Flores, Miriam Gulina, Chiara Mazzola, Antonia Piscitello, Concetta Romano, Giuseppe Salvaggio,
Angelo Scelfo, Kevin Tomasello, Pasquale Urso, Sigismundo Valenti
Hanno scritto dell’esperienza:
“… Leggere, immaginare, scrivere, stare insieme per vivere insieme e dare un contributo a un lavoro collettivo. Tutto questo ci ha fatto crescere nella consapevolezza che, per realizzare qualcosa, è sempre necessario dare un contributo
personale. Abbiamo superato la timidezza e l‘indifferenza, e adesso siamo felici
di vedere il risultato del nostro lavoro”.
APPENDICE
5. Nuovi sviluppi
I.P.S.S.A.R. “G. Falcone” di Giarre – Classe IV B Eno
Dirigente scolastico
Massimo Grasso
Docenti responsabili dell’Azione formativa
Maria Rosa Puglisi, Caterina Teresa La Spina
Gli studenti/scrittori della classe IV B Eno
Simona Pappalardo, Clara Scionti, Graziella La Spina, Camilla Cannavò, Francesco Calì, Venera Grasso
Hanno scritto dell’esperienza:
“… Scommettersi, mettersi alla prova; scoraggiarsi e riprovare: un’esperienza
nuova, diversa e stimolante, per gli alunni e i docenti coinvolti per la prima volta
nella staffetta di scrittura.
Le difficoltà di potersi riunire e confrontare come gruppo di lavoro, sono state aggirate e superate utilizzando “pizzini”: post-it e appunti vari, suggerimenti scambiati nei corridoi; sms ed e-mail!
Più difficile è stato formare un testo di senso compiuto da un collage di idee!
La positività dell’esperienza? Essere riusciti a lavorare ad un progetto comune,
cooperando e crescendo insieme”.
APPENDICE
6. "Una di noi"
Istituto “Campus Don Bosco” – Liceo Scientifico di Tremestieri Etneo – Classi I/II A
Dirigente scolastico
Antonino Finocchiaro
Docenti referenti dell’Azione Formativa
Giovanna Russo, Germana Di Martino, Isabella Salanitri
Gli studenti/scrittori delle classi
I A - Irene Brunetti, Cristel Fanni, Enrico Fiasco, Fabrizio Foti, Carlo Guido, Diletta Nicotra
II A Angelo Alessio Branciforte, Alessia Castorina, Michael De Marco, Luigi Giordano, Chiara Ingaglio, Marian Leotta, Alberto Ligresti, Filippo Marco Lomartire,
Claudia Lombardo, Helene Lombardo, Arianna Longo, Dominic Elena Magno, Simone Pellegrino, Marco Renato Potenza, Lucrezia Puglisi, Alessandro Pulvirenti,
Francesco Spina, Concetto Torrisi, Stefano Torrisi, Francesco Veroux, Leonardo
Verzì, Alessandro Vinci
APPENDICE
7. Un sogno rivelatore
Istituto Comprensivo “E. De Amicis” Enna – Classi III D/C/P, I A
Dirigente scolastico
Filippo Gervasi
Docenti responsabili dell’Azione Formativa
Rita Campo, Silvana Sanfilippo
Gli studenti/scrittori delle classi III D/C/P, I A
George Catalin Bondaret, Roberto Cannistrà, Anton Draghic, Mohamed El Mekkaoui, Faissal Erradi, Karim Mannai, Nabil Meddeb, Dario Minnella, Alessandro
Murabito, Gheorghe Marcel Ursache
Hanno scritto dell’esperienza:
“… Alla lettura di ogni capitolo abbiamo dedicato un’intera lezione, durante la
quale abbiamo letto e commentato il testo; poi, provavamo ad immaginare possibili seguiti per la storia, e questo lavoro veniva continuato dagli alunni individualmente nelle loro celle.
Per loro, è stata un’esperienza molto positiva, ed il tema “Il mondo degli zingari”
è stato da stimolo a leggere altre storie sull’argomento. Hanno compreso come
si scrive una storia, e vissuto dei momenti bellissimi. Uno di loro, El Mekkaoui, ha
aggiunto entusiasta di aver creduto, per un momento, di essere uno scrittore!”.
APPENDICE
8. Respira, Bianca, respira
Istituto d’Istruzione Superiore “E. Medi” di Leonforte – Classi II A/B classico
Dirigente scolastico
Antonella Tedeschi
Docenti responsabili dell’Azione Formativa
Massimo Nicolosi, Mariacristina Marino
Gli studenti/scrittori delle classi II A/B classico
Mirko Castiglione, Dario Artale, Mariangela Sanfilippo, Selene Sebeto, Barbara
Bonifacio, Roberta Ilardo, Marina Maccarrone, Antonino Campagna, Adriana
Calcaterra, Mariagrazia Algozino
Hanno scritto dell’esperienza:
“… L’esperienza di condivisione nella stesura del capitolo ha favorito la crescita
personale degli allievi. Si è rivelata un’occasione in cui i ragazzi hanno saputo
lavorare in maniera interattiva, mettendo al servizio dei compagni impegno proficuo ed estro creativo, che sono risultati ingredienti indispensabili per la buona
riuscita del progetto e per sviluppare le competenze presupposte dalla natura
e dallo spirito di una staffetta di Scrittura Creativa”.
NOTE
NOTE
INDICE
Incipit di VERONICA TOMASSINI..................................................................pag
14
Cap. 1 Strani presagi ..............................................................................................»
16
Cap. 2 Antichi legami ..............................................................................................»
24
Cap. 3 Ricordi tra luci ed ombre..........................................................................»
32
Cap. 4 Preoccupazioni e certezze ....................................................................»
42
Cap. 5 Nuovi sviluppi ..............................................................................................»
52
Cap. 6 “Una di noi” ..................................................................................................»
60
Cap. 7 Un sogno rivelatore....................................................................................»
68
Cap. 8 Respira, Bianca, respira............................................................................»
74
Appendici ..................................................................................................................»
84
Finito di stampare nel mese di aprile 2014
da Tipografia Gutenberg, Fisciano (SA)