Visioni (Dimmi Che Mi Ami)

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Visioni (Dimmi Che Mi Ami)
Visioni
(Dimmi Che Mi Ami)
racconto di Alessandro Amadesi
Visioni - Dimmi Che Mi Ami
- L’elettrovalvola comandata dal pressostato vi dice se siete in
condizioni di sicurezza. Il tutto è legato ad una logica si/no come
quella dei computer. Solo che qui è: valvola aperta/valvola chiusa.
Lei, qui, come farebbe? Roberta si rivolse ad un suo studente che stava guardandola
insistentemente da un po’, ma non con l’aria di quello che ascolta
coinvolto, ma con quella del bullo che la mangiava con gli occhi.
Il ragazzo alzò la testa e sorrise imbarazzato: - Beh, io direi...
cioè come farei come? -
Voglio
dire,
è
sufficiente
il
pressostato
o
ci
vuole
qualcos’altro? Un manometro, un altro strumento… - No, va bene così - Eh, bravo, lei in condizioni normali avrebbe già fatto saltare
l’impianto Risatine sparse per l’aula. Roberta era una giovane assistente di
un professore che aveva poca voglia di farsi vedere. Molto brava,
ma anche molto bella. Il che, in un tipo di università come quella
è un caso quasi unico. Non si vedevano troppe signorine, da quelle
parti.
Lei sorrise e continuò la spiegazione, fino a una mezz’ora prima
della fine, come sempre. Finire mezz’ora prima era un vezzo dei
professori universitari. Classico.
Uscì di fretta. Aveva deciso di fare un salto da Giovanni. Lui stava
un po’ fuori città ed era bene muoversi per tempo. Forse quella
sera sarebbero riusciti ad uscire insieme come non facevano già
da un po’. Lei con le lezioni all’università, lui con il lavoro
ed i suoi dipinti.
Non avevano un gran voglia di riservare un po’ di tempo agli altri,
presi dalle tante attività: la fiera dell’egoismo. Comunque, un
po’ di tempo per trovarsi lo avevano, in fondo. Lui era un amico,
un grande amico.
Forse qualcosa di più. Ancora non aveva capito. Da parte sua non
sapeva bene come affrontare la situazione: stare insieme sarebbe
stata una cosa molto facile, conoscendosi da sempre. Tutti e due
avevano la mezza idea, ma anche la voglia, di andare oltre. Cercarsi
altre persone e rimanere sempre in contatto.
Arrivò in macchina a grande velocità in una strada laterale a quella
in cui abitava lui. Ormai aveva rinunciato a cercare un parcheggio
in quella strada. S’incamminò fino al portone e suonò il campanello.
Poco dopo era sul pianerottolo di casa.
*
La sua splendida fanciulla aveva suonato il campanello. Giovanni
la aspettava. Si alzò in piedi dallo sgabello davanti alla sua tela
preferita. Erano secoli che non gli veniva più in mente niente.
D’altronde aveva già ritratto Roberta cento volte e non c’era più
verso di richiederglielo. Si avvicinò alla porta e la aprì.
- Trottola, hai le chiavi – esordì - Puoi entrare senza problemi,
lo sai - Non so mai se c’è una qualche bella pollastra qui con te - gli
rispose allegra lei.
- Come no. Una fila di donne fuori dalla porta –
Si incamminarono verso l’ingresso
- Accomodati – continuò lui muovendosi verso il soggiorno – Vieni
a vedere. Sto cercando di chiudere la pratica Paesaggio - E’ sempre quello…? - Sì, non me ne parlare. Ormai è diventato un mio amico, questo
dipinto. Gli darò un nome di persona e gli offrirò il caffè, tra
qualche giorno. Qualcosa come Carmelo. Ti piace ‘Carmelo’ per
questo pezzo di tela? - E’ molto bello, il pezzo di tela di cui parli – rispose lei quasi
sbuffando. Le dispiaceva che lui sminuisse i propri lavori, che
a lei piacevano molto, che si chiamassero Paesaggio o Carmelo o
chissacosa. In ogni caso non c’era altro da aggiungere lì, secondo
lei. Lei, però, non faceva la pittrice.
*
Serata favolosa. Si erano divertiti molto a fare le solite scemate,
a parlare di altro che non fossero gli impianti meccanici o i
dipinti. Si erano lasciati sotto casa e lei non era salita. Doveva
andare a letto presto, assolutamente. Si salutarono ridendo per
qualche cosa che avevano detto e Giovanni arrivò in casa ridendo.
Non riusciva ad addormentarsi dalle cazzate varie che ogni tanto
gli tornavano in mente. Poi cadde in un sonno ipnotico che lo portò
via, miglia lontano.
Quando si svegliò la mattina, Giovanni era ancora scosso. Aveva
sognato qualcosa di strano che non ricordava. Non gli riusciva di
ricordare niente. Si alzò distrutto. Barcollò fino alla cucina.
Aveva bisogno di un minimo di colazione, almeno un caffè, per
rimettersi in attività. Doveva andare al lavoro, non poteva vivere
di dipinti per tutta la vita. Nel passare nel corridoio che lo
portava alla cucina, urtò il muro con una mano. Doveva essere
proprio malmesso per dare un colpo al muro nel passare. Lasciò una
striscia scura sulla parete.
Che cazzo succede? Cosa ho?
Si guardò le mani. Aveva certamente urtato qualcosa nell’alzarsi
e si era fatto un taglietto. Si disinfettò il dito e pensò che
sarebbe stato meglio togliere i segni dal muro. Oltretutto, così,
sembrava il luogo del delitto. Poi ci ripensò. Ebbe un lampo.
L’unica cosa che gli saltò in mente fu che era un’ottima idea
lasciare lì il segno. Accese il fornello sotto il caffè e cominciò
a pensare. Dettagli minimi del sogno che aveva fatto gli tornavano
in mente. Si avvicinò alla parete del soggiorno. Dipingere sul muro,
quella era una grande idea. Sarebbe stato il suo dipinto più bello,
un grande affresco. Tema libero. Sarebbe stato solo suo e
soprattutto avrebbe lasciato da parte il paesaggio, finalmente.
La giornata al lavoro era quella che era. Il giugno in arrivo si
faceva sentire e Roberta cominciava a sperare nella fine delle
lezioni, come i suoi allievi. Non era finita, del resto. C’erano
ancora gli esami. Sapeva che, tra una storia e l’altra avrebbero
tirato in lungo fino a luglio. C’erano già più di trenta gradi e
continuando così sarebbe aumentata rapidamente.
Giovanni doveva rimanere fino a tardi. Anche lui con il lavoro aveva
problemi, soprattutto quando, da pittore, si trovava a lavorare
con un commercialista. Era una situazione un po’ schizofrenica,
perché uno che stava in ufficio durante il giorno si trovava a fare
un’altra vita di sera. Da artista a commercialista. Bella, questa
cosa. Lui rimediava, mettendo come periodo ‘di decompressione’ il
ritorno a casa in auto. Quello gli permetteva di pensare a
tutt’altro, per tornare ai propri affari. Per qualche motivo che
non capiva, il suo lavoro era qualcosa che lo impegnava e gli
piaceva. Però era anche qualcosa che finiva appena metteva piede
fuori dall’ufficio. Non riusciva ad avere entusiasmo per quello.
Nei suoi periodi di viaggio in auto, la mente gli volava quasi
sempre verso le donne che aveva conosciuto ed in particolare
Roberta. Si trovava a pensare a lei come la sua ragazza e sapeva
che non era così. Non ufficialmente, cioè. Loro erano ognuno a casa
propria, si vedevano di tanto in tanto e si conoscevano da sempre,
ma qualche volta si chiedeva come sarebbe stato, insieme e sapeva
che il pensiero l’aveva anche lei. Non c’è niente di male a sognare,
si diceva.
E’ un balcone. Sono qui a guardare il panorama. Sono incantato da
ciò che vedo. E’ un posto molto bello e non so dove sono. Qualche
nuvoletta, il cielo è sereno, comunque.
E’
una
baia
o
un
golfo.
All’improvviso,
con
una
velocità
incredibile, cominciano a formarsi le nuvole, nuvole nere e cupe.
Il cielo, così, ha un colore quasi rosso scuro; le nuvole si
spostano e si muovono a formare figure molto particolari, mentre
torna un sottofondo azzurro. E’ molto strano come la vista cambi,
così veloce. Nel cielo, di nuovo, le nuvole formano una figura
particolare di diavolo con le fauci spalancate. Mi sembra quasi
che mi si stia avvicinando, veloce, veloce...
Giovanni aprì gli occhi di colpo. Respirava a fatica, ansimava e
gli ci volle un po’ di tempo per capire. Dove si trovava? A casa,
tutto bene. Tutto bene un tubo. Guardò la radiosveglia a fianco
del letto. Era già quasi l’ora di alzarsi. Si alzò, allora. Tanto
valeva andare a farsi qualcosa per colazione prima di uscire. Passò
dal corridoio, come sempre e vide i segni del giorno prima. Ora
aveva capito quale sarebbe stato il tema del dipinto sul muro.
Era più che mai determinato a farlo.
Prese il telefono e chiamò una collega in ufficio.
- Marina, scusa. Sono io, Giovanni. Ti volevo dire solo che sono
incastrato nel traffico e farò un po’ tardi Ecco fatto. Riattaccò il telefono ed andò a prendere i colori. Si
mise sulle mani il blu. Quello c’era, nel sogno...
*
Avevano appuntamento per la sera con Giovanni. Avevano bisogno di
parlare di quello che era successo la sera prima. Almeno Roberta
gli voleva dire qualcosa di importante. Arrivò da lui aprendo con
le chiavi come aveva chiesto.
- Giovanni... Silenzio. Forse era uscito un momento. Eppure sentiva qualche
rumore in casa.
- Giovanni? Ci sei? Ancora silenzio. Entrò e si guardò attorno. Solo dopo un po’,
guardando
nella
penombra,
riconobbe
Giovanni
in
piedi
nel
corridoio, rivolto verso il muro, silenzioso.
- Ehi, sei in castigo? Guarda che... - si interruppe vedendo quello
che c’era sul muro.
Striato di colori, il muro era un inno all’azzurro. C’erano effetti
di luce e macchie chiare, più di un cielo. Nuvole nere e lampi di
rosso. Lui si voltò e la guardò sorridendo.
- Ciao, bellissima. Stavo guardando la mia ultima opera. La notte
scorsa ho sognato una aurora boreale. O australe, non so. Era una
cosa strana, perché non l’ho mai vista, un’aurora boreale, in
realtà Rimasero in silenzio. Roberta non si aspettava certo che lui
facesse una cosa simile
- Sono senza parole - gli disse.
Lui rise
- Sì, l’ho notato. Mi faccio una doccia rapida ed arrivo –
Si allontanò lasciandola davanti al muro
- Non fuggire, eh? *
Benissimo. Riuscivano ad uscire insieme di nuovo, dopo tanto tempo
passato senza poterlo fare. Roberta e Giovanni tornarono in un
locale diverso da quello dell’altra volta. Strano, perché ormai
si erano affezionati e tornavano ogni volta. Quella sera si
sentivano in vena di sbragare ed andarono a mangiare qualcosina,
poi ad alcolizzarsi in un pub e alla fine in un posto alternativo
che faceva rock e concerti. A loro piaceva moltissimo. C’erano
normalmente musiche di Marylin Manson, dei Korn, con qualche
eccezione, poche volte, per cose tranquille come i Linkin Park,
ad esempio.
Strano ma vero, loro non si sentivano come quegli esaltati che vanno
in disco a muoversi con una musica elettronica finta a tutto volume.
Non erano i tipi. A loro piaceva pogare, fare un po’ di casino.
D’altronde erano tipi piuttosto tranquilli.
*
Arrivarono a notte fonda sotto il portone di casa di lui, dove c’era
la macchina di Roberta. Si fermarono lì e si guardarono a lungo.
Lei gli sorrise
- Allora… ci vediamo… Perché la fai andare via? O forse è giusto che lei se ne vada?
- Ascolta, ragazza, quando ci si rivede? Dalle un bacio, deficiente...
- Non so dirti. Spero di liberarmi, perché questa settimana finisco
il ciclo di lezioni… E’ giusto che io me ne vada? Non è meglio rimanere con lui?
Giovanni fissò gli occhi su di lei per molto tempo, così le sembrò.
Aveva questo tipico atteggiamento, quando stava per dirle qualcosa.
Era incerto se dirlo o no.
- Non andartene, Roberta. Non andartene *
Così era successo. Tutto sommato erano due adulti, ne avevano
voglia da tempo ed era successo, alla fine. Era stato una meraviglia,
per tutti e due. Avevano cominciato nel corridoio e proseguito nel
letto. Mentre stavano a letto, tranquilli e contenti, Giovanni la
guardò e cominciò a parlare.
- Sai, dopo che ci siamo lasciati, l’altra sera, ho urtato il muro.
Ero rincoglionito, quella mattina. Mi ero fatto un taglietto in
un dito e ci ho lasciato una traccia forte. Nel muro, dico - Ah, dai, non le voglio sentire, queste cose. Basta. Mi fa
impressione - Ma non mi sono fatto niente. Vedi che adesso è a posto, il dito?
Era un taglietto minimo - Sì, ma mi da fastidio –
Roberta si interruppe e lo guardò - Mi stai dicendo che hai dipinto
con il sangue? Porca… - Ma no, ci ho solo lasciato un segno. Certo, si può dire che è
dipinto col sangue, quello che hai visto. L’azzurro da dove l’ho
preso? - Dai, non è un bello scherzo - Sto dipingendo con tutti i liquidi organici. Pensavo quasi, prima,
che anche tu mi potresti aiutare Roberta aveva capito prima del tempo dove lui voleva arrivare, ma
non aveva voglia di crederci. Glielo chiese, aiutandosi con i gesti
- Vuoi dire che prima, quando noi… e quando io… - Mh, avremmo potuto interrompere sul più bello per lasciare una
tua firma sul muro. E’ un segno che si vede poco, ma è molto
importante Lei gli rispose con una smorfia.
- Oh, sì - continuò lui - e avrei potuto lasciare un segno anch’io.
Coito interrotto contro un muro - Piantala Lui rise
- Dai. Scherzo, su - Non mi diverte. La prima volta che andiamo a letto insieme tu
ti metti a fare queste scene. Ci conosciamo da sempre e so che non
è da te fare queste cose Giovanni si meravigliò. Se l’era presa, sul serio? Capì di aver
detto qualcosa di strano, che di sicuro non avrebbe detto, fino
a qualche giorno prima. Quei dipinti gli facevano uno strano
effetto. Era stanco, per la prima volta se ne rendeva conto. Si
mise improvvisamente a piangere, mentre lei si alzava da letto.
- Mi vado a fare una doccia - gli disse - e me ne vado. Ci risentiamo
quando ti sei calmato. Non ho voglia di dividere la vita con i tuoi
dipinti che sono più importanti di me Poco dopo uscì, sbattendo la porta.
*
Sto rimorchiando una puttana sulla strada. Non l’ho mai fatto, però
stasera
mi
viene
così.
Devo
seguire
le
mie
inclinazioni,
l’ispirazione è così. Non me ne frega un cazzo che lei se ne sia
andata. Una di meno. Un problema in meno. Questa è una bella ragazza.
Non so se sia indiana o di dove. E’ un po’ scura di carnagione.
Ha degli occhioni grandi, splendidi. Non mi interessa, né da dove
viene né se dei begli occhi. Non la devo sposare. Tiro su la tipa
e me la porto a casa in macchina.
Sulla porta di casa lei comincia a togliersi i vestiti. Aspetta,
le dico, non sarebbe meglio fare le cose con un po’ di calma...
Non ho molto tempo, bello, mi risponde, devo pur arrivare alla fine
del mese.
Continua a spogliarsi e io riesco a prenderle la mano ed a portarla
nel corridoio. Lei vede il dipinto e mi dice ‘forte, ti è caduto
un secchio di vernice contro il muro’.
Non posso sopportare queste ironie sulle mie opere d’arte. Davvero,
la picchierei selvaggiamente per quello che ha detto.
Mi allontano mentre lei ride continuando a togliersi quel poco che
ha addosso. Vado in soggiorno e prendo una spatola delle mie. E’
tagliente, solo un po’. Lei è ancora nel corridoio, completamente
nuda. La guardo ed è proprio bella. Una bellissima ragazza. Mi
avvicino senza dire una parola e le pianto la spatola nel collo.
Lei grida mentre sanguina come una matta. Non ho mai visto una cosa
così. Non ho mai fatto una cosa così. Sono molto tranquillo, non
sento niente. Continuo a piantarle lo strumento nel corpo, colpisco
dove capita. Solo dopo un poco mi fermo. Lei è a terra, cerca di
muoversi, si lamenta. Io sto in piedi sopra di lei e contemplo il
mio lavoro. La guardo mentre si dissan...
Giovanni si svegliò. Spalancò gli occhi, terrorizzato. Di solito
quando aveva gli incubi, non si svegliava di colpo. Gli capitava
di rivoltarsi nel letto, al peggio di ricordarseli la mattina dopo.
Quella volta si trovò a sedere tutto sudato tra le lenzuola.
- Che cazzo ho fatto? –
Il solo sogno lo aveva terrorizzato. Era terribile, anche solo aver
pensato una cosa del genere. Non avrebbe mai fatto niente di… non
poteva e non voleva credere di poter essere così. Si alzò da letto,
tanto la notte era già andata. Si accese una sigaretta, andò al
tavolo da cucina e si andò a sedere in modo tale da guardare la
finestra. Se guardo fisso davanti a me, si disse, mi calmerò prima
o poi.
Aveva ucciso una persona. L’aveva fatto in sogno, ma l’aveva fatto.
Stava facendo cose che non avrebbe mai immaginato. Cominciava ad
aggiungere la stanchezza del lavoro a quella della sua nuova vita.
Perché era una vita nuova, quella. L’unica cosa che gli veniva in
mente per tutto il giorno era dipingere. Non era andato a lavorare,
accampando un mucchio di scemenze, apposta. Dipingeva sui muri,
insultava la donna più importante della sua vita. Uccideva in sogno.
Non capiva più dove stesse andando la sua vita.
Tutto il giorno successivo, Giovanni rimase fuori di casa. Aveva
paura di quello che c’era sul muro e di se stesso in quella casa.
Uscì, andò in giro a piedi. Cercava di stancarsi, di ridursi al
punto di entrare in casa e cadere a terra addormentato, non importa
dove. A volte intuiva che non poteva essere quello il modo. Che
un sogno ed un quadro non potevano cambiargli la vita così. Era
giusto e bello, vivere per l’arte, ma non così. Si decise a tornare
quando era sera. Entrò in un fast food, prima, per poter tornare
calmo e pieno. Si rivolse alla cameriera leggendo il nome sulla
targhetta. Evidentemente il suo sguardo era stato attirato da ciò
che c’era dietro quella targhetta. Si sentì leggermente porco a
fare così, ma anche molto contento. Stava tornando alla vita, forse.
La prima cosa che avrebbe fatto era telefonare a Roberta per
scusarsi. Quella che invece aveva di fronte era: - Judith, se non
sbaglio. Fammi vedere... - continuava a fissarla. La ragazza
sorrise, capendo benissimo. Quanti avevano già fatto così con lei.
Era bella e lo sapeva.
Giovanni alzò gli occhi e vide la splendida fanciulla scura di
carnagione, al banco. Poteva essere indiana, o di chissadove.
- Judith, io sono già contento se mi porti un po’ di patatine fritte
con… Si bloccò di colpo.
Assomigliava, anzi era uguale alla ragazza che aveva sognato. Lei
si fece seria tutto d’un tratto. Forse aveva notato la sua
espressione.
- Sei libera, questa sera dopo il lavoro, Judith? *
Roberta era stata in giro tutto il giorno. Era tempo che non sentiva
più Giovanni e rimandò l’esame di Strumentazione Industriale per
andare ad informarsi. Prima telefonò al suo ufficio.
- Non è al lavoro, signorina. E’ già da tempo che non viene. Un
giorno ha telefonato per avvertire del ritardo e non è più venuto.
Anzi, sì, qualche giorno fa ha dato le dimissioni con preavviso.
E’ venuto qui apposta Lei cominciò ad allarmarsi. Non si era fatto più sentire da nessuno.
Neanche gli amici, i conoscenti comuni, nessuno. Non rispondeva
al telefono. Si ricordò improvvisamente di avere le chiavi della
sua casa, da qualche parte. Le trovò e si precipitò in auto da lui.
Entrò dal portone e cominciò a correre nel corridoio che portava
all’appartamento. Non sapeva perché, ma le notizie che aveva
sentito durante il giorno l’avevano allarmata.
Arrivò alla porta di Giovanni e stette ferma ad ascoltare. Sperava
di sentire qualcosa di lui ma era tutto silenzioso. Inserì la chiave
e la girò. Entrò lentamente. Era talmente agitata che si muoveva
con una lentezza impressionante. Almeno, credeva di muoversi
lentamente. Si trovò nel corridoio deserto. Una foresta di colori
invadeva i muri. Tutto il corridoio era dipinto, non più di blu,
ma con nuove figure. Si incantò davanti allo spettacolo. In un
angolo in fondo, a guardare bene, c’erano figure strane, piccoli
esserini dipinti. Dovevano essere in un bosco. Sotto, il titolo:
Giovanni aveva scritto CONCILIO VATICANO CON AURORA BOREALE.
Guardò bene, in un altro punto, un tavolo molto grande, che arrivava
fino a metà del dipinto, con le insegne della chiesa. Al tavolo
un gruppo di diavoletti, alcuni seduti, altri che ballavano in giro.
Cosa gli è venuto in mente, pensò.
- Ti piace, eh? Si voltò. Giovanni la stava guardando. Aveva un’aria stralunata
che la preoccupò.
- Dov’eri finito? Ci stavamo preoccupando - Eri tu che telefonavi? Stavi cominciando a rompere, Roberta - Io… cosa dovevo fare? Non sapevamo più niente. Avevo paura per
te - Ah, ah, ragazzi… avevi paura per me? Tu troietta, avevi paura
per me? Che cazzo me ne frega… me lo dici che cazzo me ne può fregare?
Io ho altro da fare che guardare voi. Sto dipingendo per il Vaticano.
E’ il soggetto definitivo, l’immagine sacra vera.
Queste cose - proseguì indicando il muro - le ho tutte sognate!
Ispirazione divina? Forse. Ho finalmente usando tutte le vernici
possibili, capisci quello che voglio dire. Manca solo quella
definitiva. Un piccolo segno sul muro è niente. Ho bisogno di sangue
vero, adesso. Anzi… mi fai venire un’idea Prese qualcosa dal tavolo che aveva vicino ed avanzò verso di lei.
- Che intenzioni hai? – chiese Roberta allarmata
- Lo sai già Lei arretrò lentamente verso la porta di uscita. Urtò il muro.
Giovanni rideva, mentre si avvicinava. Era completamente partito.
Doveva fuggire. Mise la mano sulla maniglia e cercò di aprire. Non
riuscì. Lui doveva aver chiuso a chiave senza che lei lo vedesse.
Si attaccò alla maniglia, a costo di rompere tutto.
Non posso uscire
Aiutatemi!
Giovanni le arrivò vicino ed alzò il braccio per colpirle la mano.
Lei si meravigliò di aver avuto i riflessi così pronti. La tolse
quasi in tempo. Quasi, perché lui riuscì a farle un taglio profondo.
Lei si guardò il taglio e guardò lui, terrorizzata.
Giovanni si sentiva forte. Anzi, quasi esaltato. Si sentiva
invincibile.
Potente.
La sua era una missione divina.
Lei cercava attorno, sempre più sconvolta. Doveva esserci una via
di uscita. Sentiva il cuore andarle a velocità folle. Guardò la
porta nel momento esatto in cui l’arma di lui si piantava tra la
porta e lo stipite. Nel ritirarla, inavvertitamente, toccò lo
scrocco della serratura, aprendola.
Che porta del cazzo. Si apre con niente…
*
E’ un posto molto più luminoso, adesso.
Forse a Giovanni piace, in fondo.
Poche persone e medici dall’aria rassicurante che lo seguono.
Roberta non sa e non ricorda nemmeno come avesse fatto a scappare
ed a chiamare aiuto. Purtroppo, la maggior parte del giorno lui
è legato e non può uscire. Beh, sì, qualche volta, raramente,
l’infermiera lo mette sulla carrozzina e lo porta nel parco, là
davanti. Lei lo va a vedere, ma può farlo solo da dietro un vetro.
I dottori non credono che si riprenderà più. I suoi quadri sono
sempre a casa, comunque. Un esperto era andato con Roberta a vedere
la parete del corridoio e la prima volta si voleva portare via
l’affresco. Diceva che è meraviglioso. Sembra che ci siano delle
tecniche per rimuoverlo e trasportarlo senza rovinarlo. Potrebbe
essere esposto. Lei, comunque, a Giovanni cosa così non la direbbe,
anche se potesse parlargli. Continua ad insegnare, anche se sente,
sa, che le cose sono diverse. Tira avanti, in fondo.
L’unica cosa che le fa veramente male, quando certe volte arriva
alla clinica psichiatrica, è che l’infermiera le dica che lui ha
gridato e pianto tutta notte.
Lei lo sa cosa dice.
Anche se l’infermiera glielo ha detto solo una volta. Comunque lo
sa e lo sente. Le sue parole sono sempre le stesse.
- Roberta! Ho fatto tutto per te. Dimmi che mi ami! Dimmi che mi
ami! –