All`interno: La dimensione psichica della celiachia Malattia Celiaca

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All`interno: La dimensione psichica della celiachia Malattia Celiaca
Celiachia
All’interno:
La dimensione psichica
della celiachia
Malattia Celiaca e Cardiomiopatia:
una nuova associazione
con importanti
implicazioni terapeutiche
HLA-DQ typing in the
diagnosis of celiac disease
La tipizzazione HLA nella
diagnosi della malattia celiaca
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A cura del dr. Carlo Catassi
Consulente Scientifico di Celiachia Notizie
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può essere utile
al tuo medico
Celiachia news 8
Daniela Amoruso, Carolina Ciacci,
Cattedra di Gastroenterologia, Università “Federico II”, Napoli
La dimensione psichica della celiachia
L’
evento malattia determina
nell'uomo modificazioni non solo
biologiche ma anche psicologiche, alterando il senso dell'identità personale e sociale,
la progettazione ed innestando una serie di
fantasie sul proprio essere malato. Il grado
di queste alterazioni dipende dalla personalità del paziente, dalla gravità della malattia
e dalle condizioni ambientali in cui il paziente si trova. Se la malattia ha carattere
cronico sorgono reazioni emotive specifiche, che influiscono sull'andamento della
stessa, caratterizzate dall'accettazioneadattamento e dalla messa in atto di meccanismi di difesa.
La celiachia richiede l'allontanamento totale dalla dieta di cereali comuni nella dieta
occidentale. Fino ad un decennio fa, la diagnosi si effettuava solo in casi di malassorbimento conclamato e la motivazione a seguire una dieta senza glutine era chiara ad i
pazienti ed i loro familiari. Negli ultimi decenni, tuttavia, il quadro clinico della celiachia dell'adulto è completamente cambiato.
Molto spesso infatti la diagnosi è posta in
soggetti totalmente asintomatici e perciò poco motivati a cambiare le proprie abitudini
alimentari.
Questa restrizione alimentare crea problemi medici e psicologici che confluiscono
nell'elemento “dieta”.
Una ricerca svedese sulla qualità di vita di
celiaci adulti a dieta da 10 anni ha dimostrato che la qualità di vita - così come è percepita dai celiaci - è significativamente peggiore di quella della popolazione generale,
in particolare per l'aspetto vitalità e benessere generale (1). Particolarmente convinte
che il loro stato di salute generale sia precario sono le donne, che lamentano anche molti sintomi di tipo gastrointestinale. Sembra
evidente che questo stato di malessere non
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sia corrispondente ad uno stato di salute generale meno buono, non essendo i sintomi
correlati a cattiva dieta o biopsia intestinale
alterata. In conclusione lo studio ipotizza
che alla base di questo malessere ci possa essere un cattivo adattamento alla dieta per coloro che sono costrette a gestire in prima persona la preparazione del loro cibo e di quello della famiglia.
Molti studi in letteratura internazionale sottolineano gli aspetti psicologici della celiachia nelle sue differenti fasi cliniche. Tra gli
altri, uno studio italiano evidenzia come nella fase pre-dieta uno stato ansiosodepressivo sia di comune riscontro nei celiaci diagnosticati a causa di sintomi classici della celiachia (2). Lo stato d'ansia decresce con il tempo, mentre lo stato depressivo
non sembra modificarsi. Una possibile interpretazione del decrescere dello stato
d'ansia con il tempo legherebbe l'ansia alla
reazione al particolare momento
dell'individuo, e in altre parole al malessere
fisico, allo choc causato dalla diagnosi di
una malattia piuttosto sconosciuta, tutti problemi che con il tempo possono ridimensionarsi. Ma lo stato depressivo non si modifica con l'adattamento alla malattia. Questi
dati confermano un precedente studio condotto presso l'Ambulatorio di celiachia
dell'Università Federico II di Napoli, nel
quale si era evidenziato come la depressione possa essere comune nei celiaci a dieta
senza glutine, sia che la diagnosi sia stata posta in infanzia che nell'età adulta (3).
L'analisi multifattoriale della scala di Zung
usata nel suddetto studio, per la valutazione
della depressione, indica 3 'personalità' nella popolazione di celiaci indagata che raggruppano più del 60% dei soggetti: i reattivi
( irritabili, facili al pianto, poca energia, depressi), i pessimisti ( poca speranza per il futuro, indecisi, spesso con la sensazione di essere inutili) ed infine gli apatici (poco interessati alla realtà, poco interessati al sesso,
spesso con la sensazione di avere una vita
vuota). Naturalmente l'altro aspetto dello
studio è che nel 40% dei casi si rilevano per-
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sonalità equilibrate, ben adattate al cambiamento dietetico, cooperanti e propositive.
La differenza tra i due gruppi sta nella conoscenza anche medica della malattia e delle
restrizioni dietetiche. Maggiore è la confidenza del celiaco nella scelta del cibo, migliore sarà il suo adattamento.
Questi dati e quelli svedesi sulla qualità della vita dei celiaci confermano l'idea che lo
stato depressivo sia una caratteristica della
malattia celiaca di per sé e hanno generato
studi - ancora in corso - che testano
l'efficacia di terapie di supporto psicologico. In tutti i casi appare necessario un sostegno non solo medico ma familiare e sociale.
Infatti, uno studio recente che analizza le risposte ad un questionario sulla qualità della
vita, proposto agli iscritti all'Associazione
Italiana Celiachia, evidenzia come
l'appartenere ad un gruppo forte e ben organizzato migliori in modo notevole la qualità
della vita, diminuisca il disagio nelle occasioni sociali, migliori il supporto familiare
ed allontani le paure di malattia (dati in corso di stampa).
Dati molto recenti indicano anche che il rapporto medico-paziente gioca un ruolo fondamentale. Il momento in cui viene diagnosticata e spiegata la celiachia e la dieta è un
punto chiave per l'adattamento. Perché tutto avvenga con semplicità il medico ideale
deve essere in grado di contenere l'ansia del
paziente senza sottostimare o soprastimare
l'effetto dirompente della diagnosi nei celiaci e nei loro familiari. Deve essere anche
propositivo, indicando anche soluzioni pratiche non limitate alla prescrizione medica
(ad es. consigliare al paziente di iscriversi
alle associazioni di supporto) e consigliare
una visita a breve termine. Nel momento
della diagnosi, infatti, molte delle informazioni e delle raccomandazioni dei medici
vanno perse, sotto l'onda emotiva generata
da questa strana diagnosi. Dopo qualche mese l'impatto emotivo è stato in parte assorbito, quanto basta per affrontare di nuovo i reali problemi e valutare anche se è necessario
consigliare un supporto psicologico. Infat-
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ti, dai dati analizzati in questa ricerca appare evidente che c'è una quota di persone che
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M. Barbato1 , M. Curione2
1
Istituto di Clinica Pediatrica, 2 Dipartimento di Scienze Cliniche, Università “La Sapienza”, Roma
Malattia Celiaca e Cardiomiopatia: una nuova associazione
con importanti implicazioni terapeutiche
L
a malattia celiaca (MC) è un'intolleranza permanente al glutine e alle
corrispondenti prolamine degli altri cereali
tossici, che provoca una enteropatia negli individui geneticamente predisposti (1). Essa
è caratterizzata da importanti fenomeni autoimmuni quali la produzione di autoanticorpi antireticolina ed antiendomisio diretti
contro le strutture della matrice extracellulare. Studi recenti hanno identificato nella
transglutaminasi tessutale il principale autoantigene riconosciuto da questi autoanticorpi. Sembrerebbe infatti che la gliadina
deaminata dalla transglutaminasi mostri un
epitopo che, legandosi alle molecole DQ2,
verrebbe riconosciuto dalle cellule T
dell'intestino con conseguente produzione
di autoanticorpi (2). L'ubiquitarietà della
transglutaminasi potrebbe inoltre giustificare il coinvolgimento nel quadro clinicopatologico di apparati extraintestinali, con
la comparsa di sintomi, erroneamente etichettati come atipici, maggiormente frequenti nel bambino più grande e nell'adulto.
Spesso la M C risulta associata ad altre patologie autoimmuni alcune delle quali, come
ad esempio la tiroidite autoimmune, le malattie del connettivo, la psoriasi, l'alopecia
areata, l'artrite, l'atassia cerebellare e forse
il diabete mellito, più che rappresentare una
associazione casuale, sembrano essere
espressione di un coinvolgimento extraintestinale innescato dall'assunzione di gliadina (3-6).
Nel 1999 è stata segnalata un'aumentata
prevalenza di celiachia, rispetto alla popolazione normale, nei pazienti affetti da cardiomiopatia dilatativa idiopatica (MCDI)
(7-8). Per tale patologia l'ipotesi patogenetica autoimmune sembra essere la più attendibile, infatti in alcuni pazienti affetti da
MCDI e nei loro familiari, è stata rilevata la
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presenza di autoanticorpi diretti verso il cuore e, in alcuni di essi, dei medesimi antigeni
di istocompatibilità presenti in patologie ad
accertata patogenesi autoimmune (9).
Più recentemente un'aumentata prevalenza di celiachia è stata riscontrata anche
in un gruppo di pazienti in attesa di trapianto cardiaco per patologie cardiache di varia
eziologia (10) ed in un gruppo di pazienti affetti da miocardite autoimmune (11). Il follow up a dieta senza glutine dei pazienti affetti da entrambe le patologie sembrerebbe
evidenziare un miglioramento della funzionalità cardiaca (12). Tale miglioramento potrebbe essere dovuto ad un migliorato assorbimento di nutrienti e di oligoelementi
che svolgono un ruolo importante sulla funzione contrattile del miocardio e sulla stabilità elettrica (13-14) e di farmaci cardiovascolari, assorbimento compromesso in questi pazienti a causa sia dall'atrofia dei villi
intestinali, propria della MC, sia della enteropatia proteino-disperdente, secondaria alla stasi venosa, presente nella MCDI in fase
avanzata. Si può anche ipotizzare che il danno cardiaco sia il risultato di un meccanismo autoimmune scatenato dalla gliadina,
come già dimostrato per altre patologie associate alla celiachia. Un legame tra cuore e
transglutaminasi è già stato ipotizzato da alcuni autori (15-16) che hanno evidenziato
alterazioni della transglutaminasi II nelle
miocardiopatie.
Ulteriori studi per la identificazione dei
meccanismi patogenetici alla base di questa
associazione saranno necessari in futuro,
ma al momento sembra opportuno suggerire uno screening per la MC nei pazienti affetti da cardiomiopatie, dati gli incoraggianti risultati positivi dimostrati dalla dieta senza glutine sulla performance cardiaca
e sulla qualità della vita.
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Katri Kaukinen, Jukka Partanen, Markku Mäki, Pekka Collin
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HLA-DQ typing in the diagnosis of celiac disease
La tipizzazione HLA nella diagnosi della malattia celiaca
L
o scopo principale di questo lavoro è
stato quello di valutare l'utilità della
determinazione dell'aplotipo HLA di predisposizione alla malattia celiaca, ovvero la
presenza degli alleli DQ2 e/o DQ8, nei soggetti in cui la valutazione istologica, morfometrica (numero di linfociti intraepiteliali)
ed immunoistochimica (ricerca dei linfociti
CD3, a
b
eg
d
) della mucosa intestinale non
consente di confermare o escludere il sospetto di una enteropatia glutinedipendente. Si tratta in genere di casi per i
quali risultano soddisfatti almeno uno dei
seguenti criteri: a) presenza di lesioni mucosali “minime o borderline” (lieve riduzione
nella altezza dei villi intestinali e modesta
iperplasia delle cripte); b) positività per i
marcatori sierologici di celiachia, in assenza di una chiara atrofia dei villi intestinali;
c) mucosa normale in soggetti che hanno
già avviato il trattamento con dieta priva di
glutine senza aver atteso la adeguata e necessaria conferma istologica.
In una casistica complessiva di 271 pazienti sottoposti a biopsia intestinale, 76 presentavano un quadro morfologico non diagnostico e, quindi, hanno eseguito
l'indagine genetica. La maggior parte di questi soggetti (n = 59/76, gruppo I) rispondeva
ai criteri di cui ai punti a e b sopra riportati,
mentre i rimanenti casi (n = 17/76, gruppo
II) soddisfacevano il requisito di cui al punto c. I dati ottenuti hanno evidenziato che il
49 ed il 14 % dei pazienti compresi nel gruppo I è risultato positivo rispettivamente per
il DQ2 e per il DQ8. In particolare, gli aplotipi HLA-DQ2 e/o DQ8 sono stati osservati
più frequentemente nei soggetti sia con alterazioni mucosali lievi, che in quelli con sierologia positiva. Inoltre, tutti gli individui
“portatori” dell'aplotipo predisponente alla
malattia celiaca erano antiendomisio posiCeliachia news 8
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tivi, mentre tale correlazione non è stata evidenziata per gli altri marcatori (anticorpi antigliadina, antireticolina ed antitransglutaminasi). Per quanto riguarda il gruppo II, la
maggior parte di questi pazienti (65 %) è risultata negativa sia per il DQ2 che per il
DQ8. Inoltre, nessuno di essi è risultato positivo né per gli anticorpi antiendomisio, né
per gli anticorpi antitransglutaminasi. La valutazione istologica ha mostrato un aumento dei linfociti intraepiteliali in 3/17 casi,
uno solo dei quali aveva anche il tipico assetto genetico.
Sulla base di quanto sopra, pertanto, gli
Autori concludono che l'elevato valore predittivo negativo della ricerca degli aplotipi
HLA-DQ2 e/o DQ8 conferisce a questa indagine un carattere di utilità nell'escludere
la presenza o l'eventuale sviluppo di una enteropatia da glutine. La tipizzazione genetica potrebbe dunque rappresentare il test di
screening di primo livello per i soggetti a rischio, al fine di individuare quei casi che necessitano della valutazione sierologica.
Essa risulta altresì di ausilio in tutti quei soggetti nei quali la diagnosi permane incerta,
data la presenza di quadri istologici della
mucosa intestinale poco chiari.
L'inclusione della indagine genetica
nell'iter diagnostico per la celiachia, inoltre, selezionando il numero dei soggetti da
sottoporre a biopsia intestinale, consentirebbe una riduzione dei costi in termini economici, oltre ovviamente a rendere praticamente minimo il disagio per il paziente.
Commento
Il “gold standard” per la diagnosi definitiva di malattia celiaca è sempre stato costituito dal rilievo della tipica enteropatia
glutine-dipendente all'esame istomorfometrico. Negli ultimi anni, tuttavia, il
riscontro sempre più frequente di forme di
malattia celiaca caratterizzate da una notevole eterogeneità sia sul piano clinico che
istologico, ha determinato una significativa riduzione nella specificità della biopsia
intestinale per la diagnosi definitiva di tale
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affezione. Uno dei problemi emergenti in
questo senso è l'osservazione di casi magari sintomatici, nei quali la mucosa intestinale presenta soltanto delle alterazioni minime (ad es., aumento isolato dei linfociti intraepiteliali o lieve modificazione del rapporto villo/cripta), a volte non associate a
positività dei marcatori sierologici. Nei celiaci con enteropatia minore, l'analisi immunoistochimica, ovvero quella basata sulla ricerca di segni di attivazione della immunità cellulo-mediata, può essere importante; tuttavia, la disponibilità di questo tipo di
indagini non è diffusa ed è affidata a pochi
centri, in genere super-specialistici. E' altresì importante ricordare che il criterio clinico, ovvero la osservazione della scomparsa degli eventuali sintomi dopo l'avvio
della dieta priva di glutine, non rappresenta un parametro sufficiente per una diagnosi di certezza. E' dunque facilmente comprensibile come tali quadri possano originare non poche difficoltà ai fini della diagnosi definitiva di una condizione, per la
quale l'intervento terapeutico prospettato è
per tutta la vita.
In questi ultimi anni la tipizzazione genetica, criterio fino ad ora considerato collaterale nella diagnosi di celiachia, ha acquisito una importanza sempre maggiore.
E' noto infatti che la malattia celiaca si associa frequentemente alla presenza di specifici alleli del sistema HLA, ovvero il DQ2
(osservato nel 90 - 95 % dei celiaci) ed il
DQ8 (presente in circa il 5 % dei pazienti).
Esiste altresì una quota di pazienti celiaci
(meno del 2 %) che non possiede né il DQ2
né il DQ8, così come è necessario considerare che circa il 30 % della popolazione generale (non celiaca) presenta i suddetti alleli predisponenti. Si deduce pertanto, come
emerge peraltro dallo studio finlandese,
che la ricerca degli aplotipi HLA-DQ2 e
DQ8 presenta un valore predittivo negativo
molto forte ed un debole significato predittivo positivo per la diagnosi di malattia celiaca. L'indagine genetica può dunque costituire il test di screening di primo livello
per escludere una celiachia non soltanto
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nei gruppi a rischio (familiari di primo grado di celiaci, pazienti con diabete mellito insulino-dipendente, soggetti con sindrome
di Down), ma anche in tutti quei casi nei
quali l'esame istologico della mucosa intestinale abbia evidenziato un quadro “a lesioni minime” o normale nel caso in cui il
paziente segua già una alimentazione priva
di glutine. Le indagini sierologiche (ed
eventualmente lo studio istologico) sarebbero dunque effettuate successivamente in
soggetti selezionati, ovvero soltanto nei casi con positività per l'HLA DQ2 e/o DQ8.
Un tale approccio diagnostico consentirebbe pertanto di evitare inutili follow-up a lungo termine, il che si traduce non solo in un
minor disagio per il paziente, ma anche soprattutto in una netta riduzione dei costi
economici.
Il contributo della genetica potrebbe
dunque “modificare” l'approccio diagnostico per la malattia celiaca, ma non va altresì dimenticato che la biopsia intestinale
può ancora essere molto importante per la
definizione stessa della malattia. Fino a
quando i metodi sierologici non saranno ulteriormente migliorati e la costituzione genetica dei celiaci meglio definita sembra
prudente, per la diagnosi di celiachia, affidarsi ad un approccio combinato di criteri
clinici, genetici, sierologici ed istologici.
Elisabetta Fabiani
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15
I.R.
Associazione Italiana Celiachia