lontane, ma di- stinte come tre obeli

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lontane, ma di- stinte come tre obeli
“… lontane, ma distinte come tre obelischi, si ergono le Drei
Zinnen (Tre Cime). Il
sole splende
attraverso una foschia
leggera: i raggi orizzontali penetrano una
nube trasparente e,
come lame
luminose, le accendono
simili ora a rosei icebergs fluttuanti in un
mare di nebbia dorata…”
(Amelia B. Edwards,
1872)
Ricovero di pastore
in Supramonte
(Ph M.G.)
Malga Bajon ora
Rifugio Pian dei Buoi
Cadore
(Ph U.S.)
Malghe in Val Malenco
a Chiareggio e il Monte
Disgrazia
(Ph M.M.)
207
Agosto
2012
I ricoveri temporanei
Caselle e pastori
208
Monte Acuto
(Ph XX)
Se l’ambiente con i suoi cambiamenti ha influenzato l’evoluzione dell’uomo e del suo mondo è ovvio che le sue dimore
(grotta- capanna- casa) hanno subito, proprio per il mutato
clima attraverso i millenni, profonde trasformazioni.
… Il semplice riparo dal vento e dalla pioggia costruito con
frasche e rami d’albero, la palafitta, la capanna, la casa in
legno e pietra, sono tutti aspetti e momenti diversi della ricerca di una soluzione allo stesso problema di trovare cioè riparo e sicurezza.
…la casa, collegata strettamente alla civiltà cui appartiene,
ha vissuto tutte le tappe dello sviluppo delle varie culture e
ne rappresenta uno degli elementi più evidenti, per ad essa
si associano i diversi aspetti della struttura e delle abitudini
delle varie comunità.
E poi nel fenomeno “casa” si sovrappone tutta una serie di
componenti sociali e personali, per cui il semplice luogo di riparo diventa anche il luogo della famiglia, della tradizione,
della proprietà personale di oggetti di uso quotidiano e di lavoro e la casa diventa lo specchio fedele della civiltà che la
produce. Gli uomini, scoprendo nuovi modi di vita e sentendo nascere in sé nuovi bisogni, cercano di soddisfarli, trasformando non solo le proprie usanze, ma anche le stesse
abitazioni.
Fonte: Vincenzo di Gironimo
“…i più abitano sparsi in casali impiantati sopra le cime dei
monti e difesi da terrapieni che dominano le gole delle valli, i
pascoli e l’alveo dei torrenti. I loro tuguri sono fatti di pietre sovrapposte senza malta, ma vi stanno di rado, aborrendo l’uso
dei letti quasi fossero altrettanti sepolcri dei vivi”
Così scriveva dei Liguri Strabone, filosofo e geografo greco, al
tempo della conquista romana.
I “tuguri di pietre sovrapposte senza malta” potrebbero essere
gli antichi Castellari ma possono richiamare alla mente anche
le caselle, caratteristiche costruzioni rurali di antichissime origini la cui caratteristica è la presenza di una copertura a “volta
in aggetto” detta anche a “tholos”.
L’utilizzo di questi ripari costruiti in pietra a secco risale a ben
prima della conquista romana. Indagini e scavi eseguiti in Francia attribuiscono l’origine e la diffusione della tecnica a pseudovolta all’Età del Bronzo. Tecnica che ebbe ampia espansione
in tutto il bacino del Mediterraneo e anche lungo l’arco Alpino,
come ben testimoniano strutture analoghe rinvenute in località
anche molto distanti tra loro come ad esempio i nuraghi sardi,
le “bories” provenzali o le “casite” istriane.
Probabilmente il successo e la diffusione di questo tipo di costruzione ebbe tra i suoi punti di forza due elementi base: la
semplicità della tecnica costruttiva e il tipo di materiale necessario per costruirle, niente altro che pietre.
Materiale che si rinveniva ovunque con relativa facilità, anche
se con fatica, materiale che sovente era il prodotto dello spietramento dei terreni da destinare all’agricoltura.
La costruzione delle strutture a “tholos”, contrariamente a
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Monte Acuto
(Ph XX)
Fronte A
(Ph M.S.)
210 Fronte B
(Ph D.B.)
quanto richiesto da una struttura a volta tradizionale, non ha bisogno, durante la costruzione, di armature e centine di sostegno, senza dimenticare che le spinte dei conci che compongono
la pseudovolta sono solo verticali quindi non è neppure necessario contrastare spinte laterali, con la costruzione di contrafforti lungo il perimetro della casella.
La pseudovolta della casella si ottiene mediante la successiva
sovrapposizione, in cerchi concentrici, di file di pietre aggettanti verso l’interno di pochi centimetri alla volta sino ad ottenere la quasi chiusura della volta, chiusura che viene
completata con l’apposizione di una o più grosse lastre, ottenendo una struttura che si regge esclusivamente per gravità.
Infine, per meglio impermeabilizzare la casella, la parte sommitale esterna veniva ricoperta di terra e pietrisco che, in breve
tempo, veniva “colonizzata” dall’erba.
Esternamente hanno un aspetto tronco-conico, cilindrico o a
cupola. Le strutture realizzate a cupola, che oggi appaiono in
pietra a vista, anch’esse al tempo del loro utilizzo erano ricoperte di terra ed argille per impermeabilizzarle ma la mancanza
di manutenzione nel corso degli anni a fatto si che il terriccio
sia stato asportato dal dilavamento provocato dalle piogge.
Quelle più elementari e più comuni hanno un solo vano, normalmente sono prive di finestre e hanno una bassa apertura
che serve da porta e per dare un minimo di luce all’interno. Alcune hanno delle piccole nicchie interne con funzione di porta
oggetti. Non dimentichiamo che avevano la funzione di ricovero temporaneo quindi del tutto prive di comodità.
In alcuni casi sul vano d’ingresso veniva realizzato un sopraluce con lo scopo dare un minimo di chiarore all’interno nel
caso l’apertura venisse chiusa, generalmente con un telo, raramente con una porta, anche se in alcuni casi, tra le strutture
ancora utilizzate sino agli anni ’40 – ’50, si notano delle cerniere destinate alla messa in sito di un battente in legno. Cerniere che venivano murate in cemento alla casella a
testimonianza di un uso relativamente recente della struttura.
Gli ingressi, specialmente dove il terreno era particolarmente
acclive, venivano realizzati sul lato opposto al lato a monte ,
per impedire che terriccio, fogliame ed altri detriti andassero ad
occludere l’apertura quando venivano trasportati a valle dalle
piogge, tanto che oggi, mancando la manutenzione, molte caselle sono quasi inglobate dal terreno posteriormente.
Le caselle generalmente sono di piccole dimensioni, ma non
mancano esempi di strutture di proporzioni sopra la media tali
da poter ospitare dalle due alle quattro persone. Talvolta più
piccole destinate al ricovero dei cani o delle provviste. Per accedere all’interno era necessario curvarsi in quanto la porta,
formata da stipiti sempre in pietra, costruiti con massi più
grossi e squadrati, sormontati da un lastrone a guisa di architrave, oltre ad essere piccola era piuttosto bassa, in modo da
mantenere il poco calore che si sviluppava all’interno. A tal proposito è stato evidenziato che gli ingressi delle caselle delle
aree costiere e collinari hanno, mediamente, una apertura maggiore rispetto alle caselle costruite a quote superiori in quanto
minore era la necessità di preservare la temperatura interna. Il
pavimento era di terra battuta, solo in un caso, per quanto riguarda l’area presa in esame, si è riscontrata una pavimentazione interna in pietra.
I muri perimetrali, in rapporto alla dimensione della cella sono
sempre di spessore rilevante, dai 60 agli 80 centimetri, talvolta
un metro. Dimensioni necessarie per contrastare la pressione
e la spinta statica della cupola di pietre.
Le caselle, nella loro versione base, hanno una pianta che può
essere circolare, quadra/rettangolare o absidata mentre il loro
profilo, mantenendo rigorosamente la struttura a cupola internamente, può variare da quello tronco-conico a quello a cupola oppure con copertura piana.
Questa metodologia costruttiva le fa apparire a prima vista
tutte uguali, impressione che viene smentita da una osservazione meno superficiale e si potranno allora notare sopraluce,
nicchie, architravi, materiali diversi da una casella all’altra; naturalmente non mancano eccezioni dovute all’estro, alla necessità e all’abilità del costruttore e allora si vedrà la presenza
di una doppia camera piuttosto che una struttura a torre o due
caselle affiancate di dimensioni diverse o quant’altro.
Stiamo parlando di una architettura, come già detto, molto
semplice non destinata a durare a lungo nel tempo. Il mantenimento all’efficienza di questi piccoli edifici destinati ad attività agropastorali, nel periodo del loro utilizzo, era una costante
giornaliera. Manutenzione che era necessariamente dedicata
anche alle altre strutture in pietra a secco come, ad esempio, i
muri di sostegno ai terrazzamenti, alle canalizzazioni per l’acqua o ai recinti per le greggi. Più che di manutenzione bisognerebbe parlare di cura tante erano le attenzioni che venivano
riservate a questi antichi ripari. Quando i pastori accompagnavano le greggi al pascolo o quando i contadini coltivavano
la terra o sfalciavano i prati se venivano trovate delle pietre
adeguate alla riparazione o alla preventivata costruzione di una
nuova struttura, non sempre in sito se ne trovavano di adatte
a costruire gli architravi o a fungere da lastra di chiusura, erano
trasportate, a spalla o dorso di mulo, sino al luogo dove erano
necessarie per la necessità contingente.
Purtroppo oggi, in seguito all’abbandono delle montagne e
delle campagne, questa cura è venuta a mancare e, inevitabilmente, si assiste ad un progressivo degrado delle strutture ancora rimaste in piedi. Anno dopo anno si deve prendere atto di
nuovi crolli, dovuti non solo alla mancanza di custodia ma
anche al progressivo avanzamento del bosco dove, un tempo,
c’erano pascoli o campi coltivati.
Per quanto sopra, è evidente che le strutture che vediamo sono
di epoca piuttosto recente, al massimo potrebbero risalire all’inizio del secolo scorso, anche se in qualche caso qualcuno azzarda l’ipotesi di origine settecentesca, in quanto un edificio con
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caratteristiche architettoniche così rustiche, anche se costruito
a regola d’arte, non potrebbe reggere al logorio dei secoli. Oltretutto è difficile dare una data di origine certa alle costruzioni
considerando che, generalmente, venivano ricostruite riutilizzando le stesse pietre più volte per cui l’eventuale analisi della patina superficiale darebbe risultati poco attendibili.
L’uso delle caselle come abitazione permanente ebbe fine, presumibilmente, intorno al medioevo. Migliorando le condizioni di
vita la loro funzione mutò. Divennero strutture di servizio, destinate a dare riparo temporaneo. I terreni coltivati erano sovente
distanti dai villaggi e i contadini avevano bisogno di un luogo
dove trovare rifugio in caso di cattivo tempo e da utilizzare come
deposito per gli attrezzi. Al termine della giornata lavorativa, invece, facevano ritorno a valle alle loro case. Raramente le caselle
venivano utilizzate per trascorrevi la notte.
Questo valeva per i contadini ma non per i pastori, i quali le utilizzavano proprio per fermarvisi durante i trasferimenti lungo
le vie della transumanza.
Quando parliamo di caselle e pastori parliamo, almeno in origine, dell’allevamento più arcaico, quello relativo agli ovini ed
ai caprini, solo in periodi relativamente recenti in alcuni casi è
stato affiancato da quello bovino ed ha perso le caratteristiche
della transumanza diventando stanziale o semistanziale. Le
strutture più antiche sovente erano senza proprietario e, salvo
casi rari, anche senza un nome e venivano individuate con il
nome della località sulla quale sorgevano. Di molte di esse si
sono perse le tracce e la conoscenza.
Un altro indicatore dell’utilizzo temporaneo delle caselle da
parte dei pastori transumanti è la mancanza, nella maggioranza
dei casi, di recinti (gias), generalmente anch’essi costruiti in
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Monte Carmo 1
(Ph A.F.)
pietra a secco, necessari al ricovero delle greggi.
In modo particolare, quando le greggi venivano portate a svernare in terreni coltivati, soprattutto oliveti, a parziale pagamento per la concessione del terreno che veniva fatta loro dal
proprietario, era uso farle stabulare ogni notte in un appezzamento diverso per far si che le loro deiezioni concimassero il
terreno.
Che le caselle fossero utilizzate dai pastori transumanti è abbastanza evidente in Liguria se si analizza la loro distribuzione
territoriale, tenendo comunque in considerazione che il loro
numero è aumentato in maniera considerevole, più o meno
dopo il XVI secolo, con l’aumento dello sfruttamento delle risorse boschive e agricole.
Molto frequenti tra l’Imperiese e l’Albenganese, zone frequentate dai pastori delle aree brigasche, si incontrano ancora in
buon numero tra il Monte Carmo e il Colle del Melogno, dove un
tempo erano presenti vaste aree prative. Dal Finalese sino al
Gruppo del Beigua sono praticamente assenti per ricomparire
nell’areale genovese di Pegli sino all’entroterra di Lerici, territorio soggetto a fenomeni di transumanza dalla vicina Val Trebbia sulle aree comuni di pascolo, le cosiddette “comunaglie”,
regime che durò sino alla seconda metà del XIX secolo, quando
le aree vennero cedute a privati e vennero utilizzate ad uso
sfalcio. In quel periodo le caselle cambiarono la loro destinazione d’uso: da ricovero per i pastori a riparo per i contadini
durante la fienagione.
In numero considerevole si trovano anche nell’estrema Liguria
di Levante, nell’area spezzina.
Sul perché siano assenti nel Finalese è abbastanza evidente.
La conformazione geologica del territorio offre innumerevoli
ripari naturali. La presenza di grotte (alcune ampliate artificialmente) e di pareti aggettanti permetteva di ottenere dei
semplici ripari o dei veri e propri ricoveri, per uomini e animali,
con la semplice realizzazione di un muro a secco davanti all’ingresso, senza avere la necessità di costruire strutture nuove
come le caselle. Nella regione del Beigua, anch’essa importante
area di pascolo, invece, sono state costruite delle casette a
quattro muri con il tetto a una o due falde.
Quanto sopra mi porta ad ipotizzare che la tecnica di costruzione delle caselle fosse portata in dote dai pastori transumanti
i quali avevano la necessità di costruirsi dei ripari, da utilizzare
durante la loro permanenza, utilizzando il più comune materiale da costruzione, reperibile ovunque: la pietra, che, lungo
la fascia costiera e collinare, era fornita in abbondanza dal lavoro di spietramento del terreno, necessario a renderlo arabile
mentre alle quote più alte dove la vegetazione arborea lascia
spazio a quella arbustiva e viene a mancare il materiale indispensabile per costruire pali di sostegno per ripari provvisori
ecco nuovamente l’esigenza di utilizzare il materiale più abbondante reperibile in loco.
In alcune località, come ad esempio nella zona di Alto (CN), in
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Sezione
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Santuario-Monte Acuto
(Ph )
Val Pennavaira, si trovano delle caselle piuttosto piccole, costruite con tecnica approssimativa, difficilmente destinate a
dare riparo a pastori o a contadini ma, probabilmente utilizzate
come ricovero per attrezzi o scorte alimentari.
Un’altra tipologia di caselle, in origine non legata alla pastorizia
ma al mondo contadino, è quella denominata “sottofascia”, ricavata all’interno dei muri di sostegno dei terrazzamenti. Durante la costruzione della “fascia”, talvolta, si ricavavano dei
ricoveri, sempre con tecnica a pseudovolta, da utilizzare come
deposito o come riparo in caso di pioggia. Per forza di cose, dovendo sfruttare l’altezza e la profondità del muro del terrazzamento questi ripari erano piuttosto piccoli. In rari casi
l’ampiezza della zona utile veniva ampliata con una parte di casella sporgente verso l’esterno.
Considerando che queste caselle sono inglobate in uno strato
di terreno, rispetto alle tradizionali “fuori terra”, oltre alle lastre
di chiusura della volta veniva posto sulla sommità uno strato di
pietre e ciottoli, dello spessore di una ventina di centimetri i cui
interstizi venivano riempiti di pietrisco e fango pressato, con lo
scopo di meglio impermeabilizzare la struttura.
Come detto, in origine non legate alla pastorizia ma in seguito
utilizzate, durante il periodo di permanenza invernale, anche
dai pastori.
Abbiamo parlato della distribuzione territoriale delle caselle legate alla pastorizia e al mondo contadino ma altre teorie sono
state dette a proposito dell’esistenza di questi ripari in pietra a
secco.
Così scrive Mario Soldati, a proposito delle caselle, durante le
sue escursioni nell’entroterra di Lerici:
... Quest’area, come alcune altre a macchia di leopardo nel monte
Caprione, mostra al visitatore minuscole caselle in pietra a secco,
per lo più a cupola, inserite nei muri che reggono le piane. Sono
chiamate “cavanèi” nel dialetto tellarino. Ricoveri fortunosi per
l’uomo? Per i suoi animali domestici? Per i suoi attrezzi da lavoro? C’è fitto mistero.
Ancor più siamo portati a meditare se accanto alla casella si erge
una pietra fitta, poiché allora sconfiniamo nel fantastico mondo
dell’archeoastronomia…
La premessa per introdurre l’ipotesi, da alcuni ricercatori teorizzata, che le strutture a “tholos” abbiano un legame con le
culture megalitiche, in base alle aree geografiche (Sardegna,
Corsica, Baleari, Provenza, Isole Britanniche ecc.) dove è stata
accertata la cultura del megalitismo e dove sono presenti strutture litiche con copertura a pseudovolta.
Per quanto riguarda la Liguria il megalitismo è piuttosto marginale ma non del tutto assente, quasi a suffragare l’ipotesi citata.
Oggi abbiamo assistito ad una profonda trasformazione socioeconomica che ha interessato in modo particolare l’entroterra
e le aree montane determinando, in tal modo, la scomparsa
quasi definitiva del tradizionale mondo contadino e agro-pastorale. Attività che non erano circoscritte esclusivamente all’ambiente collinare e montano, come talvolta si è portati a
pensare, ma patrimonio di tutte le comunità rurali a partire
dalla linea costiera.
Purtroppo l’intensa urbanizzazione dei primi chilometri di territorio dal litorale ha irreversibilmente cancellato molte testimonianze delle vecchia ruralità.
Ruralità che non appartiene soltanto agli abitanti dell’entroterra, ma permea la cultura di tutti i liguri.
Sino alla prima metà del secolo scorso vedere pascolare greggi
di pecore nei pressi delle spiagge era una cosa comune, greggi
che venivano, durante i mesi estivi, portate a pasturare sulle
colline dell’entroterra creando delle mini transumanze lungo
mulattiere e sentieri che raggiungevano i crinali spartiacque
con il versante padano.
Venendo a mancare la mano dell’uomo, con frequenti ed efficaci interventi sull’ambiente e sulle costruzioni da lui create
nel corso dei secoli, il degrado delle strutture è ormai irreversibile, non solo per l’edilizia rurale ma anche per il reticolo delle
mulattiere, dei muri a secco o semplicemente delle cunette per
convogliare le acque piovane ed evitare il dissesto idro-geologico. Parliamo infatti di architetture create esclusivamente per
un utilizzo pratico, non concepite con requisiti di durevolezza,
la manutenzione delle opere era una costante quotidiana,
senza la quale, non può che accelerare il degrado e la scomparsa di buona parte delle testimonianze di un mondo che non
c’è più.
Walter Nesti
(CAI Finale Ligure)
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE:
AA. VV. “Segni dell’uomo nelle
Alpi”
Quaderno di Antropologia delle
Alpi Marittime L.A.S.A. 2001
AA. VV. “Pastorizia, transumanza e segni
dell’uomo tra le Alpi e il bacino
del Mediterraneo” Quaderno di
Antropologia delle Alpi Marittime L.A.S.A. 2002
AA. VV. “Rialto storia e cultura
contadina nell’Alta Val Pora” Tipolitografia Ligure 1997
BIANCO Marco “Alto:
allevamento e pastorizia in una
comunità alpina” Quaderno di
Antropologia delle Alpi Marittime L.A.S.A. 2001
GOLLO Paolo,
MORETTO Barbara
“L’architettura delle caselle –
Atlante dei manufatti in pietra a
secco delle Valli Imperiosi” Edizioni Grafiche Amadeo
ORTALE Stefano “Caselle in
pietra a secco” - Edizioni del
Delfino Moro 2000
PAGLIANA Tullio “A muntoo d’
l’olpe – Pascoli, alpeggi e mar215
gari nelle Valli di Ormea” Quaderno n. 3 Museo Etnografico Alta Val Tanaro – Ormea
1995
SPALLA Giovanni “Pietre e
paesaggi - L’architettura popolare in Liguria” - Edizioni Laterza 1994
VASSALLO Nilde “Ricerche
preliminari sulle caselle nei dintorni di Imperia” - Estratto da
Rivista Ingauna e Intemelia N. 12 1958 - Istituto internazionale
di Studi Liguri 1958
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Gentiana clusii
(Ph Luigi Sebastiani)
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Mondeval (Ph U.S.)
MERCOLEDÌ
S. Alfonso M. de’ Liguori
31 . 214 - 152 5,04 - 19,28
47. I ripari dei cacciatori-raccoglitori mesolitici
Quando si parla dell’uomo preistorico (termine sbagliato) si usa,
spesso, anche il termine uomo
delle caverne. Termine abbastanza sbagliato, anche questo,
perché l’uomo antico viveva
anche all’entrata delle caverne
(mai dentro) ma prediligeva i ripari sottoroccia oppure siti all’aperto. Durante il Mesolitico, il
primo momento in cui si registra
una frequentazione abituale della
montagna da parte dell’uomo, la
situazione ambientale era, praticamente, molto simile a quella attuale.
La frequentazione era di tipo stagionale e le quote abitualmente
raggiunte erano notevoli, 1900 /
2300 m slm. Gli insediamenti durante la stagione fredda erano in
bassa quota: Prealpi, grandi valli
alpine, normalmente sotto grandi
ripari, che venivano riutilizzati nel
tempo.
Gli insediamenti estivi erano in
quota, normalmente all’aperto, in
quanto vi è difficoltà nel reperire
pareti adatte. Di conseguenza la
maggior parte dei siti di quota li
troviamo localizzati all’aperto,
nella parte iniziale di quella che
era la prateria alpina, in luoghi
pianeggianti e ricchi d’acqua.
Dobbiamo ricordare che il limite
del bosco ha subito variazione
nello scorrere dei millenni.
Tuttavia non mancano alcuni siti
localizzati sotto ripari costituiti da
grandi massi erratici o di crollo.
Questi sono i più famosi - uno per
tutti: Mondeval de sora - in
quanto in questi casi la conservazione dei materiali è di gran lunga
migliore che non nei siti al-
l’aperto. Infatti all’aperto si conservano solo i materiali indistruttibili ossia la selce oppure il
cristallo di rocca. Tutti gli altri materiali oppure le strutture abitative vengono distrutti dagli agenti
atmosferici. Solo nei casi di una
buona protezione esiste la speranza che i materiali archeologici
possano, almeno in parte, conservarsi e dare delle informazioni
utili per comprendere la vita di
queste popolazioni in quota.
Antonio Guerreschi
(CAI Ferrara)
Ricostruzione ambiente di Mondeval (Museo Selva di CADORE)
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S. Eusebio
31 . 215 - 151 5,05 - 19,27
S. Lidia
31 . 216 - 150 5,06 - 19,26
Ricoveri e scavi all’Alpe Veglia
(Ph A.G.)
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S. Domenico di Gusman
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DOMENICA
S. Giovanni Maria Vianney
31 . 217 - 149 5,07 - 19,24
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Trasfigurazione del Signore
32 . 219 - 147 5,09 - 19,22
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S. Gaetano da Thiene
32 . 220 - 146 5,10 - 19,21
8 MERCOLEDÌ
S. Domenico
32 . 221 - 145 5,11 - 19,19
48. La fascia di prealpeggio
La fascia di prealpeggio detta
anche maggengo, è quella zona
che si inserisce a mezza montagna, tra il fondovalle e l’alpeggio.
I contadini salivano a maggio con
il bestiame e si fermavano fino al
taglio del fieno di fine giugno.
In luglio e agosto il bestiame era
affidato ai pastori per il pascolo
negli alpeggi.
In questi mesi i contadini soggiornavano in strutture abitative
molto semplici chiamate maggenghi.
Erano costituiti da gruppi di edifici accentrati, posti a buona distanza dal centro abitato principale; gli edifici erano più piccoli
e semplici di quelli del paese, generalmente la struttura prevalente è quella della “stalla –
fienile”.
I maggenghi potevano essere costituiti a diverse quote, fino a ridosso degli alpeggi più bassi o al
di sopra dell’insediamento stabile.
La dimora del maggengo era
quasi sempre costituita da due
edifici distinti, ma vicini. Uno era
Prealpeggio al passo di Lavaze
(Ph G.B.)
la cucina ed ha spesso una piccola cantina al piano interrato;
l’altro è costituito dalla stalla al
piano seminterrato e dal fienile al
piano superiore, con accessi diretti dall’esterno.
Un altro tipo di dimora rurale di
maggengo ancora più semplice
era costituita da un unico fabbricato con stalla al piano seminterrato e fienile al primo piano con
accessi diretti dall’esterno.
In un angolo del primo piano, a
lato dell’ingresso, si trova il focolare e, poco discosti, i giacigli, vi-
cino al fieno. Poi attorno erano
presenti dei locali di servizio
come il ricovero notturno dei maiali, e quello per la conservazione
del latte, collocato nei pressi di
una sorgente o di un piccolo
corso d’acqua e la concimaia per
il letame.
Tutti questi servizi erano generalmente costruiti in muratura a
secco. La stalle-fienili sono collocate ai margini dei prati e al limite
del bosco.
Marco Ceccaroni
(CAI Cesena)
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S. Romano
32 . 222 - 144 5,12 - 19,18
10 VENERDÌ
S. Lorenzo martire
32 . 223 - 143 5,13 - 19,17
Prealpeggio Dolomiti
(Ph U.S.)
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SABATO
S. Chiara d’Assisi
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DOMENICA
S. Ercolano
32 . 224 - 142 5,14 - 19,15
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32 .225 - 141 5,15 - 19,14
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S. Ippolito e S. Cassiano m.
33 . 226 - 140 5,16 - 19,13
14 MARTEDÌ
S.Alfredo e S.Massimiliano Kolbe
33 . 227 - 139 5,17 - 19,11
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Assunzione di Maria Vergine
33 . 228 - 138 5,18 - 19,10
49. La fascia dell’alpeggio
L’attività dell’alpeggio è costituita
da diversi elementi che contribuiscono, ognuno per la sua parte, a
formare quell’articolato e complesso mondo che riunisce aspetti
tipicamente produttivi ad altri di
natura sociale, culturale ed ambientale. Le componenti principali
sono quindi la malga, il pascolo, i
modelli organizzativi, gli uomini e
gli animali. La malga è costituita
da una superficie a pascolo, talvolta con significative porzioni di
bosco, e dai fabbricati per gli uomini e per gli animali e si configura come una proprietà silvopastorale.
Il pascolo comprende in molti casi
più zone pascolive che vengono
distinte con diverse denominazioni legate alla loro ubicazione
altitudinale (di sotto, di sopra, di
mezzo, alta, bassa). L’elemento
principale del sistema malghivo è
il buon pascolo che determina la
fortuna di una malga; un cattivo
pascolo, nei momenti di crisi, è il
primo ad essere abbandonato. Gli
edifici di solito sono collocati
nella parte centrale del pascolo,
quella più pianeggiante, con una
disposizione che risponde a precisi criteri che tengono conto
della morfologia del luogo, della
natura dei terreni, della presenza
di acqua, della direzione del
vento, della esposizione al sole.
La costruzione principale è la casera, che assume forme tipologiche diverse a seconda della zona
in cui si trova e logicamente legato alle tradizioni del sito. Possono essere costruite in pietra, in
muratura, in legno, con tetto in lamiera (un tempo in scandole di
legno o ricoperti da sottili scaglie
di pietra), presentano all’interno
una grande stanza che funge da
cucina e da latteria. Annesso a
questa stanza c’è un ripostiglio
dove vengono riposte su apposite
scaffalature le forme di formaggio, le ricotte e il burro.
Al piano superiore c’è il dormitorio per i pastori e per il malgaro.
Accanto alle moderne attrezzature per la lavorazione del latte,
in molte casere sono ancora pre-
senti le tipiche e antiche attrezzature rappresentate dalla classica caldaia in rame, sostenuta da
un braccio mobile di legno, fissato
al muro al di sopra del focolare.
Sopra il focolare si trova normalmente un apposito graticcio per
affumicare le ricotte. Il complesso
degli edifici comprende infine
altri piccoli rustici come i porcili, il
deposito del legname, il deposito
per il fieno, i vasconi per la raccolta del letame. Le malghe
aprono la loro attività con l’arrivo
della buona stagione ovvero a
giugno, portando appunto in alpeggio (monticazione) le loro
mandrie di animali (vacche, pecore, capre) e rimane aperta quei
pochi mesi estivi. Verso metà settembre poi si riportano a valle gli
animali e in paese viene festeggiata la Desmontegada, appunto
il ritorno degli animali e dei pastori a valle. Pochissime malghe
oggi utilizzate sono raggiungibili
da soli sentieri, mentre la stragrande maggioranza è collegata
con strade a fondo naturale uti-
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S. Stefano d’Ungheria
33 . 229 - 137 5,19 - 19,08
17 VENERDÌ
S. Giacinto
33 . 230 - 136 5,20 - 19,07
Alpe nel Parco Nazionale
del Gran Paradiso
(Ph L.D.B.)
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SABATO
S. Elena imperatrice
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DOMENICA
S. Giovanni Eudes e S. Ludovico
33 . 231 - 135 5,21 - 19,05
33 . 232 - 134 5,22 - 19,04
lizzabili anche da camion e trat- reale, ma anche quella sociale che
tori. Le notevoli risorse investite un tempo isolava per tre mesi i
negli ultimi decenni nella viabilità pastori dai paesi.
forestale hanno favorito il colleMarco Ceccaroni
gamento con il fondovalle, ridu(CAI Cesena)
cendo così non solo la distanza
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AGOSTO 2012
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20 LUNEDÌ
S. Bernardo
34 . 233 - 133 5,24 - 19,02
21 MARTEDÌ
S. Pio X Papa
34 . 234 - 132 5,25 - 19,01
22 MERCOLEDÌ
Beata Vergine Maria Regina
34 . 235 - 131 5,26 - 18,59
50. Le dimore padronali: dal palazzo alla villa
Il palazzo ha riferimenti con una o
più famiglie nobili, ha legami diretti o indiretti con la conduzione
e la gestione del territorio circostante, quindi non esiste un’unica
epoca di edificazione, perché diverse sono le età storiche di riferimento, dal Medioevo all’età
contemporanea.
La diffusione dei palazzi rispetto
ai castelli, poi, è più omogenea sul
territorio, segno d’un radicamento non tanto politico, quanto
sociale ed economico di simili
strutture prevalentemente abitative. Sono le mutate esigenze residenziali,
che
si
vanno
affermando con il diffondersi
della civiltà del Rinascimento in
Italia, a promuovere ad un certo
punto l’abbandono da parte delle
famiglie nobili incastellate delle
antiche fortezze, per le residenze
nobiliari fortificate prima, quindi
per i palazzi veri e propri nei villaggi e nelle città montane.
Nella seconda metà dell’ottocento si diffonde un tipo di costruzione che fino ad allora non
si era mai vista, la villa. Per secoli
le popolazioni alpine, viaggiando
per tutta l’Europa, avevano portato stimoli, idee, soluzioni stilistiche che avevano introdotto
nelle loro costruzioni; la dimora
alpina manteneva comunque la
sua struttura logica, la sua funzione di strumento della vita produttiva, sociale, affettiva delle
persone. Anche quando, in genere a quote non molto elevate,
le dimore assumevano un aspetto
imponente. Lo schema distributivo del palazzo settecentesco, la
sua stessa struttura e soprattutto
il modo di inserirla nel contesto,
naturale o urbanizzato, rimangono sostanzialmente quelle tradizionali. La vera differenza, il
vero apporto eversivo rispetto
alla tradizione culturale alpina
viene introdottonell’ottocento
dalla villa. È con la essa che l’abitare nelle Alpi e più in generale in
montagna diventa villeggiatura,
cioè evasione dalle necessità quotidiane, svago. La villa si piazza in
mezzo alla proprietà con uno
spreco di spazio utile all’agricoltura.Si espone agli agenti atmosferici su tutti i lati, da ombra ad
una buona parte di terreno, costringe a consumare spazi per la
strada di accesso: tutte soluzioni
adatte alle grandi estensioni delle
tenute agricole di pianura e di collina, ma irrazionali in montagna.
La villa diventa l’emblema di un
utilizzo contemplativo della montagna che, nata con le ricerche
scientifiche della fine settecento,
si evolve in moda per ricchi aristocratici nell’epoca romantica, e
ora diviene espressione delle necessità sociali e delle ambizioni di
prestigio di una borghesia mercantile o professionale. La villa è
la rottura traumatica e definitiva
con la storia millenaria della costruzione alpina. Anche se vengono adottati materiali e tecniche
costruttive tradizionali, la villa li
inserisce in un manufatto profondamente diverso, trasfigura
forme, volumi, dettagli, introduce
torrette, tetti a mansarda, abbaini, con un gusto eclettico che
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S. Rosa da Lima
34 . 236 - 130 5,27 - 18,58
24 VENERDÌ
S. Bartolomeo apostolo
34 . 237 - 129 5,28 - 18,56
Dimora padronale
a Perarolo
(Ph U.S.)
va dal neogotico al rinascimentale, con un prevalere in Italia del
“romantico” alla francese. In altre
zone la villa assume la forma più
autoctona dello chalet, che comunque si limita ad assumere
l’apparenza formale della casa di
legno, e non ha niente a che vedere con l’autentica costruzione
alpina. Nei decenni a cavallo tra il
XIX e il XX secolo, l’introduzione
nel paesaggio di ville romantiche,
gotiche o di chalet è limitato e
non modifica in modo sostanziale
la struttura dell’insediamento al-
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SABATO
S. Lodovico re
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DOMENICA
S. Alessandro martire
34 . 238 - 128 5,29 - 18,55
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34 . 239 - 127 5,30 - 18,53
pino: perduta una tradizione costruttiva, non viene annientato
l’aspetto complessivo della montagna, che anzi in certi casi assorbe efficacemente questi
interventi architettonici di solito
posizionati al di fuori dei vecchi
nuclei.
Intorno a questi imponenti edifici
dell’architettura laica l’immaginario popolare ha poi costruito nel
tempo interi cicli di leggende, racconti, tradizioni, segno della loro
importanza sociale e culturale.
Luca De Bortoli (CAI Belluno)
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AGOSTO 2012
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27 LUNEDÌ
S. Monica
35 . 240 - 126 5,31 - 18,51
28 MARTEDÌ
29 MERCOLEDÌ
S. Agostino
35 . 241 - 125 5,32 - 18,50
Martirio di S. Giovanni Battista
35 . 242 - 124 5,33 - 18,48
51. Le dimore turistico stagionali
Nelle Alpi lo sviluppo turistico risale alla seconda metà dell’Ottocento, anche se le prime
manifestazioni sì hanno già alla
fine del Settecento. I primi vacanzieri sono attratti dal termalismo
e dall’alpinismo, ma solo il secondo esercita un’influenza decisiva sullo sviluppo turistico. Le
gesta degli scalatori, infatti,richiamano numerosi viaggiatori
che restano affascinati dagli scenari di montagna e apprezzano la
frescura che si gode d’estate in
questi luoghi, ove la popolazione
mantiene antiche usanze: le più
celebri stazioni alpinistiche diventano ancor più famose località
di villeggiatura estiva; in qualche
caso, però, è l’avvento della ferrovia o di più comode vie di comunicazione a innescare il
decollo turistico. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, alcune località alpine
cominciano ad essere frequentate d’inverno per la pratica dello
sci, ma è solo a partire dagli anni
Venti e Trenta che si costruiscono
le prime funivie, sciovie e slittovie, che rendono le discese accessibili a un maggior numero di
appassionati. Tra queste stazioni
“pioniere” s’inserisce anche qualche località appenninica.
Dalla metà degli anni Sessanta lo
sci diventa uno sport relativamente popolare e contribuisce in
maniera sempre più consistente a
consolidare l’affermazione turistica delle stazioni montane. Induce milioni di persone a
soggiornare d’inverno in montagna e i meno abbienti a recarsi in
giornata sulle nevi delle località
più vicine. Lo sci affascina anche
perché, col pretesto della pratica
sportiva, permette di tornare in
città in forma in periodi in cui il
mare è solo un pallido ricordo e di
trasformare una stagione tradizionalmente “morta” come l’inverno in una comunque adatta a
brevi vacanze (i weekend e la fatidica settimana bianca, o anche
solo la domenica sulla neve), lontano dal grigiore della città.
Quanto all’estate, se luglio è in ge-
nere dedicato al mare, agosto è
consacrato almeno in parte alla
villeggiatura in montagna: chi
non possiede un alloggio (ed è
proprio in questo periodo che
proliferano, soprattutto in montagna, le seconde case), lo affitta
per un mese o per l’intera stagione, oppure trascorre una decina di giorni in albergo. Nel
“periodo d’oro” del turismo montano le Alpi d’estate non differiscono molto dagli Appennini
quanto a intensità di frequentazione.
Contemporaneamente l’abbandono delle attività tradizionali, la
costruzione di nuove strade, la
diffusione sempre maggiore dell’automobile, lo svilupparsi di più
frequenti rapporti con la pianura
e quindi la rottura dell’isolamentohanno causato una rivoluzione
nei paesi di montagna, che si è
verificata con modalità diverse:
tendenza a trasferirsi in centri più
importanti, dotati di maggiori servizi; spopolamento dei centri lontani dalle arterie stradali;
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S. Faustina
35 . 243 - 123 5,34 - 18,46
AGOSTO 2012
30 GIOVEDÌ
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S. Aristide
35 . 244 - 122 5,35 - 18,45
Vecchi fienili trasformati
in seconde case - Dolomiti
(Ph G.B.)
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Vecchio Romitario
Eremo dei Romiti
restaurato ora in rifugio alpino
Cadore
(Ph U.S.)
rinnovamento delle case, con tendenza a far scomparire la dimora
rurale tipica, caratterizzata da
ampio impiego di legname.
All’abbandonodella vita rurale e
all’esodo di una parte degli abitanti, si contrappone un maggior
interesse per la montagna da
parte di persone esterne; di conseguenza, da un lato si sono moltiplicati i casi di abbandono di
dimore rurali, dall’altro si sono intensificate la ristrutturazione di
vecchie case e la costruzione di
edifici nuovi, in diversi casi dall’impatto negativo sull’ambiente
circostante. L’ascesa turistica ha
portato non solo all’urbanizzazione delle vallate, ma anche al
rapido abbandono dell’economia
chiusa dei secoli passati, basata
anche qui suun’autarchica agricoltura di fondovalle e sul pieno
sfruttamento di tutte le risorse foraggere, sino ai limiti massimi
concessi dalla natura.
Molte strutture esistenti vengono
così trasformate in seconde case,
abitate saltuariamente nelle stagioni estiva ed invernale. Oltre ai
grandi blocchi edilizi degli alberghi, riconducibili per funzioni agli
ospizi medievali, negli ultimi decenni si sono affiancate le strut-
ture di altre attività ricettive: le
case per ferie di proprietà ecclesiastica o laica, gli ostelli per la
gioventù, gli agriturismi e i Bed
and Breakfast, sempre più diffusi
perché a conduzione e a misura
familiare, e altro ancora.
In alta quota, oltre alle vecchie
malghe trasformate in moderni
agriturismi, i rifugi alpini, di proprietà privata o associativa (basti
pensare al CAI) sono diventati un
punto di riferimento e d’appoggio
insostituibile per chi frequenta la
montagna.
Luca De Bortoli
(CAI Belluno)
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52. Gli ovili del Supramonte di Baunei
La Sardegna, sin da tempi remoti,
la cultura pastorale ha caratterizzato il tessuto sociale; tradizione
radicata profondamente in un
eterno rapporto di amore e odio.
Aspri e selvaggi, luoghi inaccessibili, solitari e silenziosi sono stati
testimoni di vite faticose, eremitiche, di uomini semplici ma ingegnosi.
Gli ovili dei Supramontes, con le
loro costruzioni tipiche, i pinnettos o barracus, i recinti e i ricoveri
per gli animali, costituiscono uno
degli esempi di architettura spontanea più pregevoli della Sardegna.
In gran parte risalgono alla prima
metà del Novecento, ma se ne ritrovano anche di più antichi, ricostruiti talvolta persino sopra i
nuraghi. E insieme a un’intricata
rete di mulattiere e di sentieri
sono una importante testimonianza di una porzione della nostra storia, la storia del popolo
sardo.
C’è un Supramonte che mi sta
particolarmente a cuore, ed è
quello di Baunei, al quale ho dedicato anni di studio e di continua
ricerca.
Con la parola coile (ovile in dialetto baunese) si intende in generale l’insieme di strutture adibite
alla attività del pastore e al ricovero del bestiame.
Esistono tuttavia diversi tipi di
ovile. Una prima differenziazione
deriva dall’uso a cui era destinato,
ovvero a seconda del tipo di allevamento, ovino, suino o caprino,
che ne determinava conseguentemente non solo la struttura, ma
anche il posizionamento geografico.
Gli ovili dei caprai avevano una
posizione strettamente legata
alla stagione: i coiles de ierru, per
l’inverno, spesso riparati all’interno delle valli, o baccus, e i coiles d’eranu, per la primavera,
solitamente costruiti nelle zone
più alte.
I loro nomi derivano generalmente dal toponimo della zona in
cui si trovano o dal nome dell’ultimo proprietario che vi ha abitato.
Spesso i nomi segnati sulle carte
nulla hanno a che fare con queste
origini, perché trascritti in modo
errato dai topografi che non conoscevano la lingua parlata locale. Ne è un esempio, quello che
comunemente è conosciuto come
Coile Mancosu, pressappoco
sopra Cala Biriala, che in realtà è
identificato da due nomi: Coile
228
Ovile a Supramonte
(Ph M.G.)
Piddi, toponimo della zona in cui
si trova, e Coile Leporeddu, nome
del pastore che lo ha costruito.
Esistono, invece, ben due ovili
Mancosu, ma si trovano in una
zona ben distante, nei pressi di
Punta Salinas.
L’appezzamento di terreno che
ospita il complesso del coile
prende il nome di su masongile.
L’insieme degli edifici sono su
barraccu (la capanna del pastore),
sa corte (il recinto per le capre),
as cumbulas (i ricoveri per i maiali) e, in qualche caso, una capanna ausiliaria di dimensioni
ridotte, con funzione di ricovero
degli attrezzi. Oltre a questi manufatti si possono trovare in alcuni casi, la vasca per la raccolta
dell’acqua piovana, su pressu (da
cui derivano tanti toponimi),
l’orto, eventuali cavità carsiche e
grotte, sfruttate come cantine naturali, e le scale o passaggi realizzati con tronchi di ginepro, is
scalas ‘e fustes, utilizzate dal pastore per transitare agilmente su
punti esposti.
Calcare e ginepro sono i materiali
a chilometro zero; il ginepro, su
sinniperu, è un legno profumato
molto robusto, difficilmente intaccabile dagli insetti quindi preferito al leccio.
La capanna del pastore ha una
pianta circolare del diametro di
circa quattro metri. La struttura
è costituita da due parti: un muretto a secco, alto più o meno un
metro, in blocchi di calcare e una
copertura a cono, realizzata con
travi di ginepro che raggiungono
una lunghezza anche di tre metri
e mezzo.
La parte sommitale, su cuccumale, una sorta di cappello realizzato con piccoli rami di ginepro
incrociati, aveva la funzione di deviare la pioggia perché non penetrasse dalle fessure di chiusura; è
una rifinitura caratteristica propria degli ovili baunesi. L’accesso
avveniva attraverso sa enna, la
porta, un’unica tavola di leccio
che poggiava su una sorta di architrave.
Lo spazio interno era studiato nei
minimi dettagli.
Su foggile, il focolare, era scavato
al centro e chiuso da grosse pietre a circondarlo o, nelle capanne
più piccole, posizionato su un lato
e isolato da un muro che impediva alle fiamme di arrivare alle
parti in legno.
Numerosi ovili, dopo esser stati
abbandonati dai pastori, sono
purtroppo andati distrutti proprio
a causa di fuochi accesi al loro interno da turisti imprudenti.
Non erano presenti mobili, ma alcuni ingegnosi arredi: nicchie sul
muro, piccole mensole ai lati e
una tavola sospesa al soffitto era
ottima base d’appoggio per il formaggio da far stagionare, al sicuro dai topi.
Per sedersi bassi sgabelli di legno
o ferula e per dormire un giaciglio
di paglia e in qualche caso un più
comodo letto di legno e frasche.
Il recinto degli animali era curato
con la stessa meticolosità della
capanna del pastore. Costruito interamente in legno di ginepro, po-
La palizzata principale era costruita attorno all’ingresso e poi
erano ricavati via via tutti gli altri
piccoli ambienti.
Nonostante possa evocare un’immagine romantica, la vita del pastore in Supramonte era tutt’altro
che facile. L’attività richiedeva un
lungo apprendistato, che iniziava
da bambino, collaborando con il
padre nella gestione del coile di
famiglia o alle dipendenze di un
altro capraio come servo pastore.
Sacrifici, duro lavoro, isolamento,
talvolta si restava mesi e mesi
senza vedere la propria famiglia
o incontrare anima viva con cui
proferir verbo.
Nasce da qui la sacralità dell’ospite accolto sempre con pane,
formaggio e un bicchiere di vino,
sconosciuto o bandito che fosse.
Un’ospitalità che ha reso il pastore quasi un mito, talvolta tanto
forte quanto poco conosciuto.
La bellezza disarmante e al con229
Ricovero naturale
Supramonte
di Baunei
(Ph M.G.)
teva raggiungere dimensioni
notevoli ed era organizzato in un
cortile principale, sa corte, e nelle
nicchie per i capretti, as cerinas,
separate da minuscole porticine
con chiusure adatte alle loro dimensioni. I piccoli erano fatti
uscire solo nel momento dell’allattamento e il pastore era in
grado di attribuire ogni capretto
alla sua mamma.
Il recinto era pavimentato con lastre di pietra ricoperte di frasche
per mantenere caldo e pulito
l’ambiente; per lo stesso motivo,
la cerina non era di grandi dimensioni e al suo interno, in circa
5 metri di lunghezza, poteva essere stipati ben 100 capretti!
Esistono numerosi esempi di ripari cosiddetti sotto roccia.
tempo violenta dell’antico paesaggio pastorale conquista o
mette in fuga chi si avventura a
esplorarlo. Non ci sono vie di
mezzo.
Chi riesce, anche con umiltà e curiosità, a entrare in sintonia con
questa dimensione, ne rimane
stregato per sempre, tanto da
non poterne più fare a meno.
Ed è quel che è successo a me. A
distanza di tanti anni dalla presentazione della mia tesi di laurea
dedicata agli ovili del Supramonte
di Baunei, non riesco a smettere
di scriverne e soprattutto di rimanere incantata ogni volta allo
stesso identico modo del primo
incontro.