2005 Sentenza n. 285-05 Corte di Cassazione

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2005 Sentenza n. 285-05 Corte di Cassazione
Suprema Corte di Cassazione
I^ Sezione civile
Sentenza n. 285
Del 27 settembre 2004 – 10 gennaio 2005
Svolgimento del processo
M. M. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Latina G. I., lo Scau e l’Inps, esponendo di
avere contratto matrimonio in data 8 settembre 1958 con A. D.G., e che in data 20 giugno 1974 era
intervenuta la separazione personale e in data 7 dicembre 1981 era stata dichiarata la cessazione
degli effetti civili del matrimonio. A favore dell’attrice era stato disposto un assegno alimentare poi
adeguato dal Tribunale di Latina, con ordinanza del 7 novembre 1991, a lire 700.000 mensili
rivalutabili secondo gli indici Istat. A seguito del decesso, in data 15 giugno 1994, del D.G., che nel
1982 aveva contratto nuovo matrimonio con la signora I., l’attrice chiedeva la determinazione della
quota del trattamento di fine rapporto maturata dall’ex coniuge presso lo Scau, ove costui prestava
servizio, e della quota di pensione di reversibilità che le spettava.
Si costituì in giudizio lo Scau, deducendo di avere già corrisposto alla I. la somma liquidata a titolo
di t.f.r. spettante al D.G., in forza di decreto ingiuntivo emesso nel 1995 dal Pretore di Latina per la
sorte, gli interessi e la rivalutazione monetaria.
Il Tribunale adito condannò la I. a pagare all’attrice la somma di 15.826.417 di lire, quale quota
parte del tfr già riscosso da quest’ultima, nonché l’Inps a corrispondere alla M. il 40 per cento della
pensione di reversibilità del D. G..
Avverso tale sentenza propose appello la M., sostenendo che il Tribunale aveva errato nel calcolare
la durata dei rispettivi matrimoni del D.G.,e chiedendo che le venisse attribuito il sessanta per cento
della pensione di reversibilità; che inoltre sulla somma a lei dovuta quale quota parte del tfr
venissero calcolati anche gli importi corrisposti alla I. a titolo di interessi e di rivalutazione. A sua
volta, la I. propose appello incidentale, sostenendo che alcune ordinanze riservate non erano state
comunicate al procuratore dello Scau, con conseguente nullità degli atti successivi; che, inoltre, il
giudice di primo grado aveva pronunciato ultra petita, avendo la M.i chiesto solo l’accertamento di
quanto a lei dovuto, e non la condanna, pronunciata invece dal Tribunale; che,ancora, la M. non
aveva alcun diritto ad una quota della pensione di reversibilità, in quanto titolare di un assegno
alimentare e non divorzile, né al t.f.r. , in quanto l’articolo 12bis della legge 898/70, che attribuisce
una quota del t.f.r. all’ex coniuge che non sia passato a nuove nozze, contempla l’ipotesi in cui il
coniuge obbligato abbia percepito in vita il t.f.r. e non quella in cui tale trattamento sia corrisposto,
come nella specie, per morte del coniuge.
La Corte d’appello respinse l’appello incidentale, escludendo, quanto alla denuncia della mancata
comunicazione di alcune ordinanze pronunciate fuori udienza, l’interesse della I. al motivo di
gravame; rilevando, quanto alla pretesa violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e
pronunciato, che la finalità della domanda della M. era quella di percepire una parte del t.f.r. e della
pensione di reversibilità, e non già quella di un teorico riconoscimento del suo diritto; osservando,
quanto alla presunta titolarità in capo alla M. di un assegno alimentare e non divorzile, che in realtà
l’assegno percepito da quest’ultima doveva qualificarsi proprio come divorzile, tenuto conto che,
pur essendo stato stabilito in sede di separazione consensuale che alla M. fosse corrisposto un
assegno di mantenimento di lire 110.000 mensili, di cui la stessa aveva ottenuto un aumento a titolo
di alimenti, con una sentenza del 15 dicembre 1980, e non già attraverso la procedura ex articolo
156 Cc, tuttavia, nella sentenza del 1981 dichiarativa della cessazione degli effetti civili del
matrimonio, il Tribunale di Latina non aveva pronunciato provvedimenti di natura economica,
recependo, quanto all’assegno da porre a carico del D. G., le determinazioni della sentenza del
1980, come confermato anche dalla circostanza che l’appellante, in data 10 ottobre 1991, aveva
chiesto una modifica delle condizioni del divorzio ex articolo 9 della legge 898/70, ottenendo che il
Tribunale elevasse l’assegno a lire 700.000 mensili; infine, rilevando, circa l’asserita inapplicabilità
alla specie dell’articolo 12bis della legge 898/70 - il quale sarebbe riferibile, secondo la I., ai soli
casi in cui il t.f.r. sia stato percepito all’atto della cessazione del rapporto di lavoro dal coniuge
ancora in vita in tale momento - , che il termine «percepito» adottato nella formulazione legislativa
va inteso nel senso di «maturato»,o «corrisposto» in tale data, in quanto una diversa interpretazione
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determinerebbe una ingiustificata sperequazione di trattamento collegata ad un evento del tutto
casuale, quale il decesso del coniuge obbligato, con conseguente dubbio di illegittimità
costituzionale della norma.
La Corte ritenne invece di accogliere parzialmente l’appello della M., riconoscendo in suo favore il
calcolo degli interessi dalla domanda al saldo, ma non della rivalutazione, per essere stata tale
domanda formulata per la prima volta in grado di appello; e concludendo, quanto agli altri motivi,
che il Tribunale aveva correttamente valutato tutti gli elementi richiesti dalla giurisprudenza di
legittimità per la determinazione della entità della pensione di reversibilità, tenendo debito conto
della durata dei rispettivi rapporti matrimoniali e della situazione delle parti, nonché
dell’ammontare dell’assegno divorzile.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la signora M.. Resiste la signora I., che propone ricorso
incidentale. L’Inps si è costituito depositando copia del ricorso della M. allo stesso notificato, con
delega in calce.
Motivi della decisione
I ricorsi, proposti nei confronti della stessa sentenza, vanno riuniti per essere decisi congiuntamente.
Per ragioni di priorità logica, vanno trattate per prime le censure svolte con i primi cinque motivi
del ricorso incidentale.
Con il primo motivo di detto ricorso, la I. lamenta violazione degli articoli. 101, 134 e 157 Cpc, in
relazione all’articolo 360, n. 4, Cpc., osservando, quanto alla mancata notificazione di alcune
ordinanze allo Scau, che, a parte la sussistenza di un interesse della ricorrente a sollevare la
questione, detta omissione si sarebbe comunque dovuta rilevare di ufficio, riguardando la regolarità
del contraddittorio.
Il motivo è inammissibile. Non è dato, invero, desumere dal ricorso – avuto riguardo alla estrema
genericità della contestazione - quali siano i “diversi provvedimenti” dalla cui mancata notifica allo
Scau discenderebbe la nullità, rilevabile di ufficio, della sentenza impugnata: ne consegue la
impossibilità di effettuare alcuna valutazione al riguardo.
Con il secondo motivo, si denuncia violazione dell’articolo 112 Cpc in relazione all’articolo 360, n.
4, Cpc, ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla circostanza che la
domanda formulata dalla M. fosse di solo accertamento della quota di t.f.r. e di pensione di
reversibilità a lei spettante; nonché omessa motivazione circa la doglianza relativa alla
individuazione da parte del Tribunale, in difetto di espressa domanda, dei soggetti obbligati.
Il motivo è infondato. Risulta infatti sufficientemente e congruamente motivata la sentenza della
corte d’appello che ha confermato la interpretazione che della domanda della ricorrente aveva fatto
il giudice di prime cure, qualificandola come domanda di condanna e non già di mero accertamento,
in considerazione della finalità della stessa, che, all’evidenza, era diretta ad ottenere la
corresponsione della quota di trattamento di fine rapporto e di pensione di reversibilità alla
ricorrente medesima spettante, e, conseguentemente, individuando anche i soggetti tenuti alla
relativa corresponsione. La logicità di detta interpretazione inibisce ogni altra valutazione.
Con il terzo motivo, si lamenta violazione dell’articolo 5 della legge 898/70 e difetto o
contraddittorietà e insufficienza della motivazione circa un punto decisivo della controversia,
concernente la dedotta insussistenza dell’assegno divorzile in favore della M., alla quale sarebbe
stato attribuito solo un assegno alimentare. Si contesta, al riguardo, la interpretazione della Corte di
merito secondo la quale il Tribunale, recependo nella sentenza dichiarativa della cessazione degli
effetti civili del matrimonio il contenuto della sentenza del 1980, avrebbe trasformato l’assegno
alimentare in assegno divorzile, sottolineando la diversa natura dei due assegni, e rilevando altresì
che anche il successivo ricorso presentato dalla M. per ottenere una modifica delle condizioni del
divorzio avrebbe fatto riferimento esclusivo allo stato di bisogno della donna (implicitamente
richiamando l’articolo 438 Cc), oltre che alle mutate condizioni dell’obbligato ( implicitamente
rifacendosi all’articolo 440 Cc.).
Congiuntamente a detto motivo, per evidenti ragioni di connessione con esso, va trattato il quinto,
con il quale si lamenta violazione e falsa applicazione dell’articolo 5 della legge 898/1970 ed
omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia, osservandosi che, in quanto non
titolare di assegno divorzile, la M. non avrebbe avuto diritto ad una quota della pensione di
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reversibilità.
I motivi sono infondati. Congruo e ragionevole appare invero l’apprezzamento della Corte di merito
che ha confermato la natura di assegno non già alimentare, ma divorzile – con conseguente diritto
della M. ad ottenere anche una quota della pensione di reversibilità dell’ex coniuge – della somma
che periodicamente il D.G. corrispondeva alla ex moglie, senza che assuma rilievo in contrario la
circostanza che la stessa nel 1980 avesse ottenuto una sentenza che aumentava a titolo di alimenti
l’importo che in sede di separazione consensuale, intervenuta nel 1974, le era stato assegnato a
titolo di assegno di mantenimento. A conferma della ragionevolezza della interpretazione accolta
nella sentenza impugnata, basta considerare, per un verso, che, nella sentenza del 17 dicembre
1981, dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale si richiamò,
quanto ai provvedimenti di natura economica, alla precedente decisione del 1980 che aveva “risolto
tra le parti ogni divergenza in proposito”, e che tale richiamo correttamente va interpretato come
riferimento per relationem all’assegno in quella occasione attribuito alla M. al fine della
quantificazione dell’assegno divorzile che sicuramente alla stessa doveva ritenersi spettante, proprio
in quanto già titolare di assegno alimentare, e, quindi, in stato di bisogno conclamato; per l’altro,
che, come evidenziato dalla Corte di merito, in data 10 ottobre 1991 la M. aveva chiesto, ed
ottenuto, una modifica delle condizioni del divorzio, ai sensi dell’articolo 9 della legge 898/70,
senza che il D.G. contestasse il titolo fatto valere.
Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge per erronea e falsa applicazione dell’articolo
12bis della legge 898/70, e difetto di motivazione su di un punto decisivo della controversia, riferito
alla erronea interpretazione da parte della Corte d’appello secondo la quale detto articolo potrebbe
essere applicato anche nel caso in cui il coniuge muoia nel corso del rapporto lavorativo. Si sostiene
in proposito che la interpretazione fornita dalla Corte di merito dell’articolo 12bis della legge
898/70 è del tutto svincolata dal dato normativo, e che la ipotesi in cui il coniuge muoia in costanza
di rapporto di lavoro è regolata dall’articolo 2122 Cc, che attribuisce iure proprio a determinati
soggetti, tra i quali non è ricompreso il coniuge divorziato, il t.f.r. spettante al lavoratore deceduto.
Anche tale motivo è infondato. Questa Corte condivide sul punto la interpretazione che del citato
articolo 12bis della legge 898/70, introdotto dall’articolo 16 della legge 74/87, - nella parte in cui
attribuisce al coniuge titolare dell’assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze il diritto ad
una percentuale, indicata al secondo comma, della indennità «percepita» dall’altro coniuge «all’atto
della cessazione del rapporto di lavoro» -, ha adottato il giudice di seconde cure, secondo la quale la
disposizione in esame si applica anche nelle ipotesi in cui il t.f.r. sia comunque spettante al
lavoratore, anche se non ancora percepito. Al riguardo, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha già
chiarito che, ai fini del richiamato articolo. 12bis, non assume alcun rilievo la circostanza che detto
trattamento sia maturato per decesso del lavoratore stesso, o per altra causa ( v. sent. 12426/00); e
che la sussistenza delle condizioni previste dallo stesso articolo per il riconoscimento del diritto di
cui si tratta va verificata al momento in cui «matura» per l’altro ex coniuge il diritto alla
corresponsione del trattamento di fine rapporto (v. sent.2466/04); precisando, inoltre, che il diritto
stesso non sorge ove l’indennità sia maturata, e percepita, dopo la pronuncia di separazione, ma
anteriormente alla proposizione della domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nel
qual caso la riscossione della indennità da parte del coniuge separato può solo incidere sulla
situazione economica del coniuge obbligato e legittimare una modifica delle condizioni della
separazione( v. sent. n. 14459/04). Né può assumere valore di precedente contrario la recente
sentenza di questa Corte 5719/04 - la quale afferma che il diritto in questione diviene attuale, ed è
quindi azionabile, nel momento in cui, cessato il rapporto di lavoro dell’ex coniuge, questi
percepisce il relativo trattamento - , che all’evidenza si fonda sulla interpretazione letterale della
disposizione in esame, prendendo in esame la sola situazione in cui il lavoratore cessi dal servizio
alla naturale scadenza del rapporto, e non già a quella, verificatasi nella specie, di decesso in
costanza di rapporto.
Quanto, poi, al rilievo che l’articolo 2122 Cc., che disciplina la fattispecie da ultimo descritta, non
indica tra gli aventi diritto alla indennità di fine rapporto l’ex coniuge, è agevole rilevare che la
norma codicistica - anteriore alla entrata in vigore della legge sul divorzio, e che pertanto in nessun
caso, e a nessun effetto, avrebbe potuto prendere in considerazione il rapporto tra ex coniugi – si
limita, nel quadro della regolamentazione del rapporto di lavoro, a disciplinare, tra l’altro,
l’attribuzione del trattamento di fine rapporto in caso di morte del lavoratore, stabilendo che esso, in
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detta ipotesi, debba essere corrisposto al coniuge, ai figli, e, se vivevano a carico del prestatore di
lavoro, ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo grado, aggiungendo, al terzo
comma, che, in mancanza delle persone indicate, l’indennità sia attribuita secondo le norme sulla
successione legittima. L’articolo 12bis della legge 898/70 si inserisce, invece, nel plesso normativo
concernente la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra divorziati, con la previsione della
spettanza all’ex coniuge, nell’ambito dei principi solidaristici cui si ispira anche la disposizione
relativa alla corresponsione allo stesso di una parte della pensione di reversibilità, e
subordinatamente alla condizione positiva dell’avvenuto accertamento del suo diritto all’assegno
divorzile, ed a quella negativa del mancato passaggio a nuove nozze – condizioni entrambe che
farebbero venir meno la esigenza del rispetto di quei principi cui si è appena fatto riferimento - , di
una quota parte del t.f.r. dovuto all’altro ex coniuge. Così inquadrata la disposizione in esame,
appare non rispettosa dei menzionati principi solidaristici, e complessivamente affetta da
irragionevolezza, una opzione ermeneutica che escluda il diritto dell’ex coniuge ad una quota della
indennità per il servizio già prestato, maturata dall’altro coniuge, per effetto di una circostanza
accidentale, quale il decesso di quest’ultimo in costanza del rapporto di lavoro.
Con il primo motivo del ricorso principale, si lamenta la violazione e falsa applicazione
dell’articolo 9, comma 3, della legge 898/70, e successive modificazioni, in relazione agli articoli.
112 e 116 Cpc, nonché vizio della motivazione per omissione e contraddittorietà su punti decisivi,
deducendosi essere stata valutata, ai fini della determinazione della quota di pensione di
reversibilità spettante alla ricorrente, la sola durata della convivenza, e cioè 16 anni, anziché quella
del matrimonio, pari a 23 anni, e non essendosi tenuto conto inoltre della situazione di indigenza
della stessa ricorrente né delle sue condizioni di salute che non le consentivano di svolgere alcuna
attività lavorativa, e così essendosi riconosciuta in suo favore una quota della pensione di
reversibilità pari al quaranta per cento, anziché la maggior quota del sessanta per cento.
Il motivo è infondato. Rileva al riguardo il Collegio che la Corte di merito ha correttamente
motivato in ordine all’iter logico seguito nel confermare la determinazione del Tribunale circa la
percentuale della pensione di reversibilità spettante alla ricorrente, in quanto ex coniuge del D.G.
Al riguardo, va osservato che la giurisprudenza di legittimità, anche alla luce dei principi affermati
dalla Corte costituzionale con la sentenza 419/99, ha individuato i parametri cui il giudice di merito
è tenuto ad uniformarsi nella ripartizione del trattamento di reversibilità, in caso di concorso fra
coniuge divorziato e coniuge superstite aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione,
stabilendo che detta ripartizione deve essere effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata
del rapporto matrimoniale - ossia del dato numerico rappresentato dalla proporzione tra le
estensioni temporali dei rapporti matrimoniali degli stessi con l’ex coniuge deceduto - , anche
ponderando ulteriori elementi, correlati alle finalità che presiedono al diritto di reversibilità, da
utilizzare eventualmente quali correttivi del criterio temporale. Fra tali elementi, da individuarsi
nell’ambito dell’articolo 5 della legge 898/70, specifico rilievo possono assumere l’ammontare
dell’assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell’ex coniuge, nonché le condizioni
dei soggetti coinvolti nella vicenda, oltre che l’eventuale esistenza di un periodo di convivenza
prematrimoniale del secondo coniuge( v. tra le altre, sentenze 2920/00, n.1057/02, n. 2471/03).
Nella specie, la Corte di merito ha tenuto debito conto di siffatti criteri, scrutinando positivamente,
in parte qua, la decisione del Tribunale, che agli stessi si era attenuta. Né è esatto il rilievo della
ricorrente in ordine alla circostanza che i giudici di merito avrebbero preso in esame, ai fini di cui si
tratta, il solo periodo relativo alla durata della convivenza (16 anni) anziché quello corrispondente
alla intera durata del matrimonio (23 anni), giacchè è invece vero proprio il contrario.
Con il secondo motivo del ricorso principale, si deduce violazione e falsa applicazione degli
articoli. 112 e 116 Cpc in relazione agli articoli 1224 e 2041 Cc. Si rileva che, avendo la I. incassato
dallo Scau la somma effettiva di lire 95.578.990, comprensiva della sorte, pari a lire 65.369.990, e
degli interessi e rivalutazione monetaria, per un ammontare di lire 30.209.000., è su tale somma che
si sarebbe dovuto calcolare l’importo percentuale da corrispondere alla ricorrente.
Il motivo merita accoglimento. La Corte d’appello, rigettando la domanda, interpretata come
pretesa della ricorrente alla rivalutazione della somma alla stessa attribuita a titolo di quota del t.f.r.
di spettanza dell’ex coniuge, ha mostrato di aver frainteso la censura rivolta alla sentenza di primo
grado, con la quale la ricorrente intendeva in effetti non già conseguire gli accessori sulla somma
che le era stata riconosciuta al predetto titolo, ma piuttosto ottenere che il computo di detta quota –
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che andava calcolata sulla somma già corrisposta alla I. in qualità di coniuge attuale del lavoratore
deceduto – tenesse conto dell’intero ammontare effettivamente percepito dalla stessa I., e, quindi,
della somma risultante dalla aggiunta degli interessi e della rivalutazione alla sorte.
Resta assorbito dall’accoglimento del predetto motivo l’ultimo motivo del ricorso incidentale, con il
quale si deduceva la violazione dell’art. 345 c.p.c., per avere la Corte d’appello omesso di
dichiarare inammissibile in quanto nuova la domanda relativa agli interessi ed alla rivalutazione.
In conclusione, devono essere rigettati il ricorso incidentale e il primo motivo di quello principale, il
cui secondo motivo deve invece essere accolto. La sentenza deve essere cassata in relazione al
motivo accolto e rinviata ad altro giudice, che si designa nella stessa sezione della Corte d’appello
di Roma, in diversa composizione, che determinerà la somma dovuta alla ricorrente, ai sensi
dell’art. 12 bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898, a titolo di quota del t.f.r. spettante all’ex
coniuge, tenendo conto della circostanza del conseguimento da parte della I. degli interessi e della
rivalutazione sulla intera somma maturata a tale titolo dal D.G.; e che regolerà anche le spese del
giudizio di legittimità.
PQM
La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il secondo motivo del ricorso principale; rigetta il primo ed il
ricorso incidentale. Cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla
Corte d’appello di Roma, stessa sezione, in diversa composizione.
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