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Amerigo
Scritto da antonio boco il 20 Ottobre 2011
Ricevo e condivido con gioia alcune suggestioni di Alessandra Meldolesi* su Amerigo
che, per quanto mi riguarda, è luogo dell’anima prima che della pancia.
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*giornalista enogastronomica, sommelier, traduttrice specializzata e food writer. Dopo la
laurea e un breve passaggio alla Comunità Europea, ha abbracciato il mondo della
cucina, a cominciare dai fornelli. In veste di cuoca ha studiato e lavorato in Francia, al
fianco di chef prestigiosi come Marc Meneau. Fra le opere già sfornate una monografia
sullo Champagne con le ricette dell’Enoteca Pinchiorri, il primo ricettario di Carlo Cracco
e una prestigiosa miscellanea sull’alta cucina spagnola, da Ferran Adrià ad Andoni.
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Via Marconi 16, 40060 Savigno. La poetica di Amerigo è tutta qua.
Un concept così adamantino, da sparigliare i menu con serena
evidenza.
Il tomtom che guida il cliente affamato a inerpicarsi lungo le strade dell’Appennino non è
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meno preciso del navigatore che orienta la sua cucina, capace di una localizzazione
perentoria e centripeta, senza digressioni o scampagnate nell’esotismo.
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Mentre gli ingredienti sono teleguidati a piedi o dentro portabagagli polverosi, piuttosto
che sulle ali della turbocucina cosmopolita. Classe 1961, come la Faema sul bancone e le
lampade Castiglioni in saletta, fra vecchi legni non meno melodiosi di un concerto d’oboe, il
patron Alberto Bettini canta la sua patria come un impiccato discetterebbe di nodi
scorsoi, senza concessioni ai nostalgismi o alla querelle sciovinista. Il suo territorio è
un’altra cosa: la tela alacre di una renaissance puntiforme, capace di risvegliare le materie
prime da un’amnesia ventennale fatta di profitti selvaggi, standardizzazione e roundup.
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Invece no. In piena voga locavore, da consumato maieuta ha disseminato le colline di
artigiani della gola, inaugurando la strada maestra di una pre-cucina celebrata anche a
Eataly, fra i banconi del mercato e le facciate di chiese trecentesche ingoiate nei magazzini.
Il seme del piatto germoglia sotto la vanga e fiorisce nella porcilaia. Porgerlo è l’ultimo atto
di una storia collettiva che si affresca intorno a noi.
Ed è una favola compiuta e perfetta, come vuole la Poetica che abbiamo tutti appreso a
scuola. Ristoratore aristotelico per eccellenza, Bettini poeta la sua Savigno con
aderenza in elastene ai dogmi della narrazione che fila. L’unità di tempo della stagionalità
ortodossa e della contemporaneità condivisa, quasi che l’orologio fosse l’ultimo piatto da
spartirsi a centrotavola; l’unità di spazio della sua Savigno, tenuta al guinzaglio di un
chilometraggio implacabile; e l’unità di azione di una coerenza di ferro, che spalma il suo
stile solido su tutti i piatti in carta, come un comfort food d’alta gamma.
“Vedi, è questa la vera trattoria: un modo di intendere la cucina, piuttosto che un
repertorio o una fascia di prezzi”, sbotta Giorgio Melandri, folgorato dal crostino con
midollo e tartufo. “Hai ragione”, annuisce il peripatetico. “Perché la trattoria è
l’interpretazione di un luogo. Un ristorante può fare ciò che vuole, anche usare i tartufi
cinesi; ma una trattoria no, perché è l’ufficio informazioni, la proloco, il comune, la
farmacia, il dottore e i carabinieri, tutto insieme. E cos’è Bottura, rispetto a tanti posti
mediocri, se non una grande trattoria?”.
Alcuni piatti firmati Amerigo
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Tags: Amerigo, cicuna emiliana, cucina Emilia, cucina tradizionale emiliana, Emilia,
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Categorie: Dire, Emilia Romagna, In primo piano, Mangiare
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Commenti
Commento di giorgio del 20 Ottobre 2011 alle 23:01
aggiungo una considerazione di alberto bettini, in arte amerigo:
La patria non è un fatto geografico e non è necessariamente il luogo in cui sono nato,
ma è un modo d’essere e rappresenta l’insieme nel quale mi riconosco, con le mie
abitudini di pensiero, di comportamento, di stile di vita. La patria è lo stato interiore
ed il paesaggio familiare che mi fa sentire a mio agio e a casa, ovunque nel mondo.
Commento di antonio boco del 21 Ottobre 2011 alle 10:11
E allora, visto che ci siamo: “Patria è ciò che si conosce e si capisce”. Luigi Veronelli
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