La riscrittura del passato. Ancora sul nesso memoria oblio perdono

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La riscrittura del passato. Ancora sul nesso memoria oblio perdono
PIO COLONNELLO
La riscrittura del passato.
Ancora sul nesso memoria oblio perdono*
1. Il perdono come “redenzione” del passato
Perché il nesso memoria/oblio/perdono? In realtà, il perdono, è ben
noto, è una forma di dono intensivo, la capacità di cancellare l’offesa
ricevuta, di fare inabissare la colpa nelle oscure profondità dell’oblio. Nelle
pagine che seguono, cercherò di “ripetere” – nel senso di una “re-petitio”
come ricerca di ulteriori possibilità esegetiche – gli snodi fondamentali
della questione a partire da due significativi pensatori del nostro tempo,
Paul Ricoeur e Hannah Arendt, per giungere quindi ad alcune conclusioni.
Che il perdono sia quella facoltà umana dotata del potere di mutare il
passato, di convertire il «così fu» in «così volli che fosse», e che questa
facoltà sia una forma di azione, che consente all’uomo di sottrarsi
all'imprevedibile, all’incessante rottura del cambiamento, alla
destabilizzazione esistenziale come traumatico prodursi della differenza1 –
è certamente risaputo, per quanto riguarda il pensiero della Arendt.
Complementare al perdono è un'altra tipica capacità umana, quella di
fare e mantenere promesse. Se il perdono annienta l'irreversibilità del
*Il presente lavoro riprende e sviluppa alcuni temi del mio saggio apparso nel Bollettino
filosofico, XXVI (2010), dal titolo: L’ambiguo volto della dimenticanza. Una rilettura della
dimenticanza tra colpa e innocenza.
1 Cfr. H. ARENDT, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 1958;
tr. it. Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1988, p. 174. Cfr. della stessa
autrice: “Truth and Politics”, The New Yorker (25.2.1967); poi in Between Past and
Future. Eight Exercises in Political Thought, New York 1968; la tr. it. Tra passato e futuro,
Garzanti, Milano 1991, è condotta sulla prima ediz. dell'opera Between Past and Future.
Six Exercises in Political Thought (1961), dove mancava il saggio Truth and Politics. Per la
tr. it. di quest'ultimo, cfr. Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 29;
“Lying and Politics. Reflections on the Pentagon Papers”, The New Yorker Review of Books
8 (1971), pp. 30-9; ora in Wahrheit und Lüge in der Politik. Zwei Essays, München 1972;
tr. it. “La menzogna in politica. Riflessioni sui Pentagon Papers”, in Politica e menzogna,
SugarCo, Milano 1985.
Bollettino Filosofico 27 (2011-2012): 77-93
ISBN 978-88-548-6064-3
ISSN 1593-7178-00027
DOI 10.4399/97888548606436
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passato, se esso serve ad inserire una falla – o un ventaglio di possibilità –
tra il continuum spazio-temporale fossilizzato nella necessità del già stato, la
promessa funge da rimedio all'imprevedibilità e all'incertezza del futuro; il
vincolarsi con promesse, così si esprime Hannah Arendt, «serve a gettare
nell'oceano dell'incertezza, quale è il futuro per definizione, isole di
sicurezza»2. Così, perdono e promessa appaiono come le due facce di
Giano bifronte: l'una rivolta al non-più e l'altra al non-ancora, ma
entrambe testimoniano la nostra capacità di agire, la nostra libertà umana,
cioè la capacità di svincolarsi dalle conseguenze di ciò che è stato, di ciò
che abbiamo fatto, a differenza dell'apprendista stregone – come suggerisce
suggestivamente la Arendt -, cioè di colui che finisce per restare egli stesso
vittima delle conseguenze del suo agire. In tal guisa, l'uomo, grazie alla
promessa e al perdono, finisce per rivelarsi ancora una volta il punto
archimedico – o il "tra" – da cui è possibile ripensare il rapporto tra la
gravità del passato e la consolazione del futuro, tra la cupa pesantezza del
già stato e la speranza del non ancora.
Entrambe le facoltà sono infine accomunate dalla relazione con la
presenza dell'altro o dall'apertura alla sua "trascendenza", risultando
impossibile sentirsi legato da una promessa fatta solo a se stesso o
perdonare nel completo isolamento dagli altri.
Ma lasciamo pure in ombra il tema della promessa, per rivolgere
l'attenzione peculiarmente alla questione del perdono. La Arendt riconosce
come solo a partire dal cristianesimo questa facoltà abbia acquistato
rilevanza nel dominio degli affari umani e come dal campo religioso il
perdono sia stato poi mutuato dalla sfera politica. D'altra parte, il fatto che
la scoperta del perdono abbia, alle sue origini, radici in un contesto
confessionale, non deve sminuire l'importanza di questa facoltà nelle
questioni politiche; vero è, sottolinea Hannah Arendt, che «la nostra
tradizione di pensiero politico è stata per sua natura altamente selettiva ed
ha escluso dalle sue articolazioni concettuali una grande varietà di
esperienze politiche autentiche, tra le quali non dovremmo sorprenderci di
trovarne alcune fondamentali»3. Prima dell'esperienza cristiana si possono
riscontrare tracce informi della consapevolezza del perdono, come rettifica
dei guasti derivanti dall'azione, solamente nel principio romano di
risparmiare i vinti (parcere subiectis), un principio del tutto sconosciuto al
mondo greco, o nel diritto di commutare la pena capitale.
2
3
H. ARENDT, Vita activa, cit., p. 175.
Ivi, p. 176.
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Il perdono, come capacità tipicamente umana, è esattamente l'opposto
della vendetta, che è la naturale e quasi meccanica reazione contro
un'offesa e, pertanto, può essere prevista e in qualche modo calcolata
all'interno del processo dell'agire. Perdonare è “agire”, cancellare l'azione
dell'offensore, annullare il passato, cioè inaugurare l'assolutamente nuovo,
l'inimmaginabile, lo straordinario. In definitiva, tale facoltà mette in
questione la linearità seriale del tempo naturale, quel continuum spesso
raffigurato con l'immagine della freccia del divenire e pensato come
assolutamente irreversibile. Vero è che, di fronte alla scissione e alla
lacerazione che possono provocare i guasti dell'azione, non resta che agire
e superare le fratture esistenziali, proprio come fa chi perdona e "redime"
il passato. Restano comunque centrali, nel pensiero della Arendt, il
problema del tempo e quello del superamento della scissione, due
questioni in qualche modo tra loro connesse, che oggi sono fecondamente
ripercorse dalla riflessione ermeneutica. Si tratta allora di un cogitare che
non si affida più solo alla forza cogente del logo, ma a quella pietas del
pensiero, capace di fare esperienza fino in fondo della diversità e della
scissione e di conservare le ragioni della differenza.
Ebbene, la comprensione come sforzo di sfuggire alla protervia che tutto
– fenomeni e noumeni, situazioni affettive e modi dell'essere – possa
essere "afferrato" con le categorie dell'intelletto; la comprensione come
conato di superare la difettività del pensiero nel dire i nomi dell'essere, del
non essere o del fondamento trova la propria fonte sorgiva nella
dimensione della scissione e della lacerazione. In fondo, ogni
riconciliazione e giustificazione, e dunque ogni autentica comprensione,
muove dal dolore e dal tentativo di superare la scissione, di annullare la
rovina del negativo.
Si tratta insomma di una riconciliazione – o giustificazione – che non si
affida, come nel caso della fenomenologia hegeliana, alle strutture
"necessitanti" della ragione; affiora, piuttosto, la pietas di un pensiero che è
insieme giustificazione e perdono, epifania e innocenza, benedizione e
speranza. Bisogna, in ogni caso, fare attenzione, perché qui giustificare non
è semplicemente riabilitare il passato e valicare le differenze. Si ha qui da
fare con una giustificazione più "alta", cioè si tratta di "intervenire" sul
passato. È qui che le considerazioni arendtiane sul perdono come
"riscrittura" del passato risultano di grande interesse: in fondo,
interrompere o meglio "trasformare" il continuum temporale pietrificato
nella necessità del già stato, cioè mutare il passato svincolandoci dalle sue
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conseguenze, ha senso per aprire appunto nuove possibilità per il futuro.
Ed è proprio dell'uomo non semplicemente vivere "tra" le modalità del
tempo – tra ciò che non è più e ciò che non è ancora -, ma essere egli
stesso l'elemento che, mettendo in questione la linearità seriale del tempo,
inaugura il nuovo e l'impensabile.
2. Il perdono come “influenza” del passato sul futuro
Singolare appare l’intreccio tra memoria, oblio, colpa e perdono
nell’opera di Paul Ricoeur. A volere individuare un significativo punto di
partenza, possiamo fare riferimento anzitutto ad una caratteristica
fondamentale della memoria, il suo essere orientata verso il futuro. Essa si
contraddistingue non solo perché è un criterio di identità personale o
perché costituisce il legame originario della coscienza col passato: ciò che
qui interessa è che dalla memoria dipende l’orientazione del tempo: dal
passato verso il futuro4.
Nondimeno, l’influenza del passato sul futuro ha, come contropartita, il
movimento inverso, cioè l’influenza dello stesso futuro sul passato. A
riguardo, Ricoeur richiama esplicitamente il tema della colpa, «un fardello
che il passato fa pesare sul futuro». Che questo tema sia un Leitmotive
ricorrente nella letteratura esistenziale, in particolare nei paragrafi 58-60 di
Essere e tempo, è certamente risaputo. Non a caso, vi è un chiaro riferimento
proprio alla fenomenologia della colpa e alla tesi svolta nel famoso capitolo
III della seconda sezione dell’Hauptwerk heideggeriano: «La Cura porta in sé
cooriginariamente morte e colpa»5. Tuttavia, a Heidegger Ricoeur contesta
il convincimento che la colpa collochi saldamente, in una sorta di
4 Cfr. P. RICOEUR, Das Rätsel der Vergangenheit. Erinnern – Vergessen – Verzeihen,
Wallstein, Göttingen 1998; tr. it. Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato,
Il Mulino, Bologna 2004, pp. 23 sgg. Cfr. dello stesso autore P. RICOEUR, La mémoire,
l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000; tr. it. La memoria, la storia, l’oblio, Cortina, Milano
2003; Philosophie de la volonté. I. Le volontaire et l'involontaire, Paris 1950; tr. it., Genova
1990. Philosophie de la volonté. II. Finitude et culpabilité. I. L'homme faillible. II. La
symbolique du mal, Paris 1960; tr. it. Finitudine e colpa, Bologna 1970. Phénoménologie et
herméneutique, in AA.VV., Phänomenologie heute. Grundlagen – und Methodenprobleme
(Phänomenologischen Forschungen, Bd. I.), Freiburg-München 1975, pp. 31-75
5 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1957, p. 306 («Die Sorge birgt
Tod und Schuld gleichursprünglich in sich»); tr. it. Essere e tempo, a cura di P. Chiodi,
UTET, Torino 1986, p. 451.
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ancoraggio, il poter-essere nel passato, in quanto la colpa rivestirebbe anche
un significato più profondo, se confrontata con un’attesa indeterminata. È
perciò necessario, «restituire al concetto di colpa l’ampiezza che nozioni
affini, come quella di eredità, “pre-acquisizione” (Vorhabe), “previsione
orientatrice» (leitende Vor-sich) contribuiscono a preservare»6.
Se il debito obbliga e se c’è un dovere di ricordare, argomenta ancora
Ricoeur, «esso è in virtù della colpa che, trasferendo la memoria al futuro,
letteralmente la declina al futuro: ti ricorderai! Non dimenticherai!»7. È
poi differente discorso che la colpa, in quanto argomento cardine
dell’analisi esistenziale, sia comunque altro rispetto allo status corruptionis in
senso teologico – come il medesimo pensatore ricorda –, sebbene, per
altro verso, si possano riscontrare significative analogie tra la “previsione
orientatrice”, che caratterizzerebbe ab intus la stessa colpevolezza e,
dunque, il trasferimento della memoria nella dimensione del non-ancora,
da una parte, e la protensione verso il futuro, sancita nel ristabilimento
dell’alleanza tra Jahvé e il suo popolo, dall’altra. Dopo la rottura del patto,
Cristo, nel ristabilire l’alleanza e cancellare la colpa, orienta, nell’ultima
cena, la memoria verso il futuro. Il pentimento, oltre che ricordo delle
colpe, è appello alla memoria di Dio. Affinché l’uomo potesse ricordare
per sempre l’alleanza con Dio, la religione cristiana si è convertita
prontamente, come già quella ebraica, in una religione della memoria. Al
centro di questo ricordo sta l’ultima cena con l’invito diretto al futuro
fatto agli apostoli. Il “comando del ripetere” si manifesta, così, come
antidoto ad una imperdonabile dimenticanza: ogni celebrazione eucaristica
avviene nell’esternare ciò che giace nella memoria, perché sia di nuovo
interiorizzato e consegnato alla memoria. Vero è che occorre ora
riconsiderare la questione, come vedremo più avanti, eminentemente nei
termini di un’ingiunzione morale, l’ingiunzione di “non dimenticare”:
«Zakhor, dice la Torah: divieto di oblio»8, sottolinea Ricoeur.
A questo punto occorre, però, fare i conti con un paradosso: è opinione
comune che il passato non possa essere cambiato, che esso è determinato in
P. RICOEUR, Ricordare, dimenticare, perdonare, cit., p. 38.
Ibid., p. 37. Molto opportunamente Ricoeur osserva che «verrebbe allora da dire che
il passato che non è più, ma che è stato, reclama il dire del racconto dal fondo stesso
della propria assenza. Michel de Certeau suggerisce qualcosa di analogo in L’absent de
l’histoire: assente dal dire la storia, il passato essente-stato si fa domanda di un dire» (p.
40).
8 Ivi, p. 82.
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quanto affonda nella cieca notte della necessità; viceversa, il futuro è
generalmente considerato incerto, aperto, essendo il regno indeterminato
delle possibilità. Tuttavia il paradosso, commenta Ricoeur, è solo
apparente, perché se è vero che i fatti sono incancellabili, se essi appaiono
“pietrificati” nel loro essere-stato, in compenso il senso degli avvenimenti
non è fissato una volta per tutte: vero è che il carico morale legato al
rapporto di colpa verso il passato può essere di volta in volta alleggerito o
appesantito, «a seconda che l’accusa imprigioni il colpevole nel sentimento
doloroso dell’irreversibile, oppure che il perdono apra la prospettiva di
una liberazione dal debito», e ciò equivale a una conversione del senso
stesso del passato. «Si può considerare questo fenomeno di
reinterpretazione […] come un caso di azione retroattiva della mira del
futuro sull’apprensione del passato»9.
Naturalmente, nel porre in essere una tale operazione, occorre lasciarsi
guidare dall’imperativo di salvare le tracce, valorizzando al tempo stesso
l’elemento della “testimonianza”, il “vedere” “vicariato” dal dire e dal
credere. Ma salvare la veracità della memoria, salvare le tracce, implica
nondimeno preservare anche la memoria delle ferite e delle vittime della
violenza. Ecco la dimensione etica – o etico-politica – dell’ingiunzione di
“non-dimenticare”; tra le tracce vi sono, infatti, anche le ferite inflitte alle
vittime nel corso violento della storia. Per ciò appunto, rileva Ricoeur,
bisogna introdurre accanto a categorie epistemologiche, come fedeltà,
esattezza, che riguardano la veracità della memoria, categorie “patologiche”
o «quasi-patologiche e terapeutiche», come ferita e trauma, consentendo in
tal modo la riorganizzazione dei ricordi in livelli di senso, orientati
intenzionalmente nella direzione che dal passato conduce al futuro.
Si è osservato poc’anzi come il carico morale, legato al rapporto di
colpa verso il passato, possa essere appesantito se il colpevole resti
imprigionato nel sentimento dell’irreversibile o, viceversa, alleggerito se
sopravvenga il perdono come liberazione dal debito. Appare così centrale
il ruolo del perdono, che Ricoeur paragona a una forma di oblio. Ma sorge
prontamente la domanda: a quale forma di oblio?
Non è qui possibile ripercorrere, sia pure sinteticamente, la complessa
fenomenologia dell’oblio disegnata in Ricordare, dimenticare, perdonare,
unitamente all’elogio di ciò che non va inteso come il nemico o l’esatto
contrario della memoria, la minaccia dalla quale preservare il passato. Una
9
Ivi, pp. 92-93.
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tale fenomenologia va dall’“oblio profondo”, che si manifesta nelle forme
complesse dell’oblio inesorabile – che non si limita a impedire il richiamo dei
ricordi, ma si adopera anche a cancellare la traccia dei vissuti – e dell’
“oblio immemorabile”, l’oblio dei fondamenti; fino ad una serie di figure
che si collocano tra l’oblio passivo e l’oblio attivo. Tra esse, interessante è
la figura “semi-passiva” dell’ “oblio di fuga”, «espressione della cattiva fede,
che consiste in una strategia di evitamento, essa stessa motivata da una
volontà oscura di non informarsi, di non indagare sul male commesso»10.
Tra le forme dell’oblio attivo, sintomatica è quella dell’ “oblio selettivo”,
che si rivela indubbiamente benefico, in quanto consente di filtrare la
massa dei ricordi del passato, che sarebbero altrimenti un peso
insopportabile, in senso nietzscheano: «il peso più grande».
Anche le riflessioni sul perdono si snodano nell’arco di un suggestivo
orizzonte fenomenologico. Esso, se da un lato risulta il contrario dell’oblio
passivo, tanto nella sua forma traumatica, quanto in «quella astratta
dell’oblio di fuga», dall’altro manifesta una certa affinità con l’oblio attivo,
ma «con molta cautela», avverte Ricoeur11. Oggetto del perdono, come
Ivi., p. 106.
Se il perdono, come forma di “oblio attivo”, verte direttamente sulla colpa, quel fondo
oscuro che sostituisce alla leggerezza della scalata la pesantezza che spinge verso il basso,
paralizzando così la memoria, e se occorre fare della colpa stessa il lavoro del lutto, allora
è forse opportuno ricordare le stesse analisi ricoeuriane sulla colpevolezza – come
contrappunto del perdono – a partire da quella dimensione originaria della coscienza, la
dimensione emozionale, che appare come il bagliore antelucano che precede il solare
splendore dei simboli del mito e della speculazione. A fronte della ripetuta insistenza di
alcuni filoni dell’ermeneutica contemporanea su concetti quali finitudine, fallibilità,
naufragio, a parere di Ricoeur, è possibile cogliere il passaggio dalla fallibilità alla colpa
nell’atto, cioè «“ripetendo” in noi stessi la confessione che ne fa la coscienza religiosa» (P.
RICOEUR, Finitudine e colpa, a cura di V. Melchiorre, Il Mulino, Bologna 1970, p. 249).
Al filosofo importa piuttosto la «ripetizione» della confessione, in quanto il linguaggio
della confessione rinvia ad un’esperienza che è la meno elaborata possibile: esso precede
il linguaggio mitico e quello speculativo. È interessante rilevare l’itinerario di Ricoeur
verso un territorio genuinamente originario: dalla speculazione sul peccato originale al
mito della caduta e da questo alla confessione dei peccati. In tanto è possibile guadagnare
la regione premitica e speculativa, in quanto al di sotto della gnosi e del mito vi è ancora
un linguaggio: quello della confessione, mentre il linguaggio del mito e della speculazione
sarebbero «riassunzioni di secondo e di terzo grado». L’esperienza della confessione,
tuttavia, al di là di una apparente semplicità, rivela una sua intrinseca stratificazione: il
sentimento di colpevolezza rinvia ad un’esperienza più radicale, l’esperienza del
“peccato”, che indica «la situazione reale dell’uomo dinanzi a Dio; a sua volta, il peccato
rimanda a una concezione più arcaica della colpa, quella della “impurità” concepita come
una macchia che contamina dall’esterno», come lo sfondo o il fondo oscuro dei
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forma dell’oblio attivo, sono non già gli avvenimenti in se stessi, gli eventi
passati, ma il loro senso, che riguarda il grado di colpevolezza assegnato ad
essi nella dialettica della coscienza storica. Tuttavia, a differenza dell’oblio
di fuga, il perdono non resta chiuso in «un rapporto narcisistico tra sé e sé,
poiché presuppone la mediazione di un’altra coscienza, quella della
vittima, la sola abilitata a perdonare»12.
Nella fenomenologia del perdono è descritta e analizzata tutta la vasta
gamma delle figure del perdonare: dal perdono di autocompiacimento, che
prolunga l’oblio di fuga, idealizzandolo, al perdono di benevolenza, che propende
ad accordare l’impunità, fino al perdono di indulgenza, figura cardine di gran
parte della nostra tradizione teologica, per la quale perdonare significa
concedere l’assoluzione, consentire la remissione dei debiti.
In ogni caso, occorre guardarsi dalla trappola del perdono facile, cioè dalla
pretesa di esercitare il perdono come un potere o una facoltà, «senza essere
passati attraverso la prova della richiesta di perdono e, peggio ancora, del
rifiuto del perdono». D’altra parte, occorre uscire dalla logica della
retribuzione, spesso chiamata in causa in occasione della problematica della
sofferenza ingiusta, come nel caso di Giobbe; tuttavia questa «cancellazione
magica» andrebbe nella stessa direzione dell’oblio profondo, che consiste
nell’usura delle impronte e nella stessa distruzione delle tracce.
Occorre a questo punto, argomenta Ricoeur, guadagnare un rapporto
nuovo con la colpa, con la perdita; la ricerca di questo nuovo rapporto
deve passare necessariamente attraverso l’idea di dono, che è alla base stessa
dell’idea di perdono. La critica alla logica della retribuzione è all’origine
della nostra tradizione teologica cristiana: amare e fare del bene ai propri
nemici, prestare senza chiedere nulla in cambio13, in quanto è appunto
sentimenti e dei comportamenti relativi alla colpa. Ancora una volta, il linguaggio deve
intervenire per delucidare un territorio emozionale ricco di polivalente significatività. Ad
ogni modo, con questo tentativo di risalire à rebours ai simboli primari del male attraverso
la ripetizione della confessione considerata ai suoi vari livelli di simbolizzazione, ci
avviciniamo propriamente alla soglia di una filosofia della colpa, che tuttavia deve essere
ancora indagata in una molteplicità di direzioni. È poi altro discorso se il lungo itinerario
ricoeuriano di risalire da una “mitica” della volontà malvagia ad una “simbolica” del male
– nella quale i simboli più densi teoreticamente come la materia o il peccato originale,
rimandano ai simboli mitici come l’esilio, l’accecamento divino o la caduta di Adamo, e
questi a loro volta ai simboli di impurità, del peccato e della colpevolezza – bene illustri il
tentativo di penetrare nella trama profonda o “segreta” del mito.
12 Ivi, p. 110.
13 Lc 6, 32-35
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l’amore dei nemici la misura assoluta del dono, cui si associa l’idea del
prestito senza speranza di ritorno. È proprio il comandamento di amare i
nemici che inizia a spezzare la regola della reciprocità, esigendo un
perdono difficile, un perdono nelle situazioni estreme, puntando
direttamente alla radice dei conflitti e dei torti che richiedono il perdono.
È qui che si intrecciano storie “incommensurabili”, come quella di
Antigone; è qui che «si affrontano fedeltà al tempo stesso assolute e
limitate; la giustizia confina con la vendetta e il potere con la violenza; le
ferite sono curate come benedizioni»14.
Nondimeno, per illustrare in cosa consista il perdono nelle situazioni
estreme, Ricoeur ritiene opportuno fare riferimento, in conclusione, alla
hegeliana Fenomenologia dello spirito: alla fine della sezione dedicata allo spirito
certo di se stesso: la moralità, compare per la prima volta – ancora prima del
capitolo dedicato alla Religione – il termine perdono (Vergebung), inteso come
«equiparazione di entrambe le parti, mutuo perdono», “riconciliazione”.
3. Dal perdono come riconciliazione al perdono come “compensazione”
Nel tirare le fila di questa riflessione sul perdono, ricorderò brevemente
come questo luogo della Fenomenologia rappresenti davvero un momento di
fondamentale importanza nel lungo ed accidentato cammino della coscienza
che ha da riconoscersi come spirito assoluto. È mia intenzione fare riferimento
successivamente ad alcuni passi tratti dallo Zarathustra di Nietzsche, non per
individuare affinità o consonanze con il luogo hegeliano in questione, ma per
seguire un’ipotesi ermeneutica che possa scoprire, nelle stesse distanze
speculative, relazioni problematiche e piene di senso e, dunque, i luoghi di
passaggio che consentano l’attraversamento di ambiti teoretici differenti, tra
l’idea del perdono come riconciliazione e l’epifania di uno spirito innovatore,
capace di annullare un passato remoto inabissato nelle oscure gore di un oblio
colpevole.
Torniamo al passo della Fenomenologia. La vita infinita, scissa
nell'azione, aspira ora a una riconciliazione. Si fa strada l'idea di una riconciliazione vivente al posto di una opposizione morta. Il “fatto”, ciò che è
stato, l’elemento della singolarità sussiste ancora, ma come una ferita dello
spirito che attende il suo significato dal futuro, e perciò l’elemento della
14
P. RICOEUR, Ricordare, dimenticare, perdonare, cit., p. 117.
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singolarità, presente nel fatto, è destinato a dileguare immediatamente:
«Le ferite dello spirito si rimarginano senza lasciar cicatrici»15.
Dallo spirito, divenuto spirito morale concreto (Gewissen), è nata una
nuova opposizione che riproduce la serie delle innumerevoli
opposizioni della coscienza. Lo spirito come universale affronta lo
spirito come individualità singola. Ora l'opposizione ha assunto una
forma concreta in due distinte figure della coscienza ciascuna delle quali
contiene, in maniera diversa, i due momenti dell'universale e del singolare. L'una è lo spirito agente, l'altra è l’anima bella. Ma il male è nella
separazione, perché il vero non è né nello spirito agente né nell’anima
bella, ma è nell’intero, anzi è l’intero: il Sé attuatore, che è «soltanto un
momento dell’intero», è il sapere che determina mediante il giudizio e
stabilisce la differenza del lato singolo e di quello universale dell’agire.
Quel male pone tale alienazione di sé o pone sé come momento,
attirato, mediante l’intuizione di se stesso, entro l’altro, nell’esserci
facente confessione di sé. Ma a questo altro deve infrangersi il suo
unilaterale e non riconosciuto giudizio; così come a quello il suo
unilaterale e non riconosciuto esserci dell’essere-per-sé particolare; e
come l’uno rappresenta la potenza dello spirito sopra la sua effettualità,
così l’altro rappresenta la potenza sopra il suo determinato concetto16.
L'unità si può attuare soltanto attraverso un continuo conflitto, un
incessante superamento. La vera vita dello spirito è appunto in questo
superamento, in una riconciliazione attraverso una opposizione.
Proprio come nella dialettica servo-signore, le figure della coscienza
nobile e della coscienza spregevole risultano rovesciate. La coscienza
universale giudicante si avvia a mostrare se stessa come cattiva e
particolare. Come ha opportunamente osservato Jean Hyppolite che
«proprio nel constatare in lei l'ipocrisia la coscienza agente giungerà alla
propria confessione. In tal modo essa si colloca non più sopra ma
accanto alla coscienza che essa giudica, ed è costituita “in tutto e per
tutto” come quella»17. Di conseguenza, il perdono che la coscienza
15 G. W. F. HEGEL, Phänomenologie des Geistes, in G.W.F. Hegel Werke in zwanzig Bänden, hrsg.
E. Moldenhauer – K.M. Michel, Bd. 3, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1970, p. 492;
Fenomenologia dello spirito, t. II, tr. it. di E. De Negri, La Nuova Italia. Firenze 1985, p. 193.
16 Ibidem
17 J. HYPPOLITE, Genèse et structure de la Phänomenologie des Geistes» de Hegel, Ed. Montaigne,
Paris 1946; Genesi e struttura della «Fenomenologia dello spirito» di Hegel, tr. it. di G. A. De
Toni, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 643.
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agente concede all’altra è la rinunzia a sé: «La parola della conciliazione
è lo spirito esistente che intuisce il puro sapere di se stesso come
essenza universale nel suo contrario, nel puro sapere di sé come
singolarità che è assolutamente in se stessa, – reciproco riconoscimento
che è lo spirito assoluto»18.
Lo spirito assoluto come “reciproco riconoscimento” ci riporta al
tema di fondo della Fenomenologia: lo spirito che nella sua forma di sapere
più alto, cioè l’intuire il puro sapere di se stesso come essenza universale;
ma questo afferramento di sé è esattamente nel suo contrario, è l’«Io
esteso fino alla dualità». Dunque, la confessione della coscienza
impegnata nell’azione consiste nel riconoscere la continuità del suo Io
con l'altro Io; grazie alla medesima confessione da parte dell’altra
coscienza si restaura la loro identità: «Il sì della conciliazione, in cui i due
Io dimettono il loro opposto esserci, è l’esserci dell’Io esteso fino alla
dualità, Io che quivi resta uguale a sé e che nella sua completa alienazione
e nel suo completo contrario ha la certezza di se stesso; – è il Dio
apparente in mezzo a loro che si sanno come puro sapere»19.
Lo spirito assoluto, disvelato così dalla remissione dei peccati, non è
né l'astratto spirito infinito che si oppone allo spirito finito, né lo spirito
finito che persiste nella propria finitezza, ma propriamente l'unità e
l'opposizione dei due Io. In definitiva, il perdono è qui inteso come
«mutuo perdono», “riconciliazione”, che è ricostituzione dell’unità,
eguaglianza dell’Io con se stesso.
Se ci rivolgiamo ora allo Zarathustra di Nietzsche, notiamo che anche
qui – sia pure su un differente piano speculativo – abbiamo da fare con
un’unità scissa in una dualità e con una dualità che rappresenta, a suo
modo, un’unità. Secondo la stessa espressione poetica nietzscheana,
contenuta nelle Canzoni del principe Vogelfrei, in appendice alla Gaia
Scienza, Zarathustra è «l’Uno divenne Due» – («Da, plözlich, Freundin!
Wurde Eins zu Zwei – Und Zarathustra gieng an mir vorbei»)20. Intendo
ora ripercorrere alcuni significativi luoghi di Così parlò Zarathustra,
tenendo presente in particolare l’interpretazione che Carl Gustav Jung ha
svolto nei suoi Seminari su Nietzsche nella seconda metà degli anni
G.W.F. HEGEL, cit., 492; tr. it. cit., p. 194.
Ivi, p. 196.
20 F. NIETZSCHE, Die fröhliche Wissenschaft, in ID. Werke, Kritische Gesamtausgabe, hrsg.
von G. Colli-M. Montinari, Bd 5.2, de Gruyter & Co., Berlin 1973, p. 333; tr. it. La Gaia
Scienza, a c. di G. Colli-M. Montinari, Adelphi, Milano 1965, p. 274.
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Pio Colonnello
Trenta21, sebbene, nella conclusione, io pervenga ad alcune riflessioni
che si discostano dalla finissima ermeneutica junghiana.
Jung ricollega opportunamente la figura di Zarathustra/Zoroastro
ad alcune divinità della mitologia persiana, anzitutto a Ahura Mazdā, il
dio in cui coabitavano originariamente due spiriti, Vohū Manah, lo
spirito della buona intenzione, e Angrā Mainyu, lo spirito maligno.
Questi due spiriti, uniti nello stesso dio, esprimevano al tempo stesso
l’unità e la divisione, l’Uno e il Due. Con la loro unione, essi
dimostravano come inizialmente non vi fosse alcuna separazione tra
bene e male; solo in seguito iniziarono a litigare e allora divenne
necessaria la creazione del mondo. Nondimeno, Jung riscontra alcune
affinità anche tra la predicazione di Zarathustra e la dottrina del
cristianesimo. L’insegnamento primitivo di Zarathustra era
caratterizzato infatti, egli osserva, da una vera pietas spirituale: «più che
le opere esteriori contava la Gesinnung, l’atteggiamento morale. La sua
dottrina insegnava che, come si commetteva peccato nella realtà
esterna, si può commettere peccato dentro di sé, e che si tratta di una
cosa altrettanto malvagia»22.
Interessante è, peraltro, tanto l’interpretazione archetipica della figura
di Zarathustra, che Jung identifica con l’esperienza primordiale del
Vecchio Saggio, quanto il parallelo che egli istituisce tra la dottrina
zoroastriana, in cui dopo un indeterminato periodo cosmico fa la propria
apparizione un Saošyant – un mietitore, un redentore – il quale dona
all’uomo l’insegnamento di una nuova rivelazione o rinnova verità antiche,
e la dottrina cristiana, dove la stessa idea riappare, sia pure mutata di
senso, nella forma dell’enantiodromia, nell’alternanza/oscillazione degli
opposti23: dallo stesso libro dell’Apocalisse si apprende che dopo che
l’insegnamento di Cristo ha raggiunto il suo effetto, allora viene concessa a
Satana, per un periodo indeterminato, l’opportunità di mettere in atto
malvagità di ogni genere; questi mostrerebbe, così, la sua natura di
21 C.G. JUNG, Nietzsche’s «Zarathustra». Notes of the Seminar given in 1934-1939, ed. by J.L.
Jarrett, Princeton University Press, Princeton 1988; Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario
tenuto nel 1934-39, tr. e c. di A. Croce, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
22 C.G. JUNG, Lo Zarathustra di Nietzsche, cit., p. 11.
23 Jung utilizzava l’espressione eraclitea «enantiodromia» nel senso di «corsa nell’opposto»
– la tendenza a dar luogo al proprio opposto – già nei suoi scritti dei primi anni venti (cfr.
C.G. JUNG, Lo Zarathustra di Nietzsche, cit., p. 15, nota 25).
La riscrittura del passato
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«Saošyant negativo che fa la propria comparsa nel momento in cui il regno
positivo di Cristo si approssima alla sua conclusione»24.
Zarathustra medesimo si manifesta, dunque, come un Saošyant che
apparirebbe in un determinato periodo cosmico, dando avvio alla propria
carriera, appunto come avevano fatto i Saošyant precedenti – Cristo o
l’Anticristo. Egli, infatti, entra in scena nel momento in cui si verifica un
evento epocale, che rende necessaria la sua presenza, la “morte di Dio”: se
Dio muore, occorre per l’uomo un nuovo orientamento, una nuova
rivelazione. Solo Zarathustra, come archetipo del Vecchio Saggio, può
donare all’uomo una nuova verità.
Cosa ha da dire Zarathustra all’umanità? Egli deve insegnare all’uomo
ciò di cui manca, ciò che l’uomo teme o disprezza. Il suo compito è
restituire ai poveri la loro ricchezza e ai saggi ciò che essi hanno perduto,
cioè la loro follia. La sua vera intenzione, sottolinea Jung, è quella di dare
avvio all’enantiodromia, offrendo la compensazione degli opposti.
Non è qui il caso di porre la questione se tale compensazione sia o
meno una forma di “redenzione”, dal momento che in Nietzsche, in fondo,
la redenzione non è quella che succede al peccato, ma quella che lo
anticipa, togliendo il peccato e la colpa prima ancora che essi siano. In
questo orizzonte redentivo non bisogna attendere il futuro, l’al di là del
tempo, non c’è alcuno iato temporale tra la caduta e il riscatto, la rovina e
la benedizione, proprio perché manca la separazione del bene dal male,
anzi siamo già «al di là del bene e del male».
Da parte sua, Jung ritiene di dovere considerare questo simbolismo in
riferimento al piano soggettivo, e ciò significherebbe che quando
Zarathustra, «nauseato dalla propria consapevolezza, sarà disceso fino ai
livelli più bassi dell’umanità nel suo complesso, sarà proprio lui quel saggio
che verrà ricompensato, per la propria saggezza, con la follia»25.
Proviamo invece a trasferirci dal piano soggettivo ad altro livello di
discorso. L’ipotesi che qui presento è che l’offerta della “compensazione” –
affinché «i saggi tra gli uomini tornino a rallegrarsi della loro follia e i
poveri della loro ricchezza»26 – consiste nel riconoscere la parzialità che
dimora nella saggezza – la hegeliana coscienza giudicante, lo spirito agente
Ivi, p. 15.
Ivi, p. 23.
26 F. NIETZSCHE, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, in Werke, cit., Bd. 6.1,
p. 5; Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, a c. di G. Colli-M. Montinari,
Adelphi, Milano 2011, p. 3.
24
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-, fino a quando non venga ricomposta l’unità. Solo che in questo caso,
l’unità non è la ricomposizione di ogni conflitto, il superamento delle
opposizioni e delle scissioni; si tratta, piuttosto, di un’unità che conserva
nel suo senso una tensione alla dualità, una “vocazione” enantiodromica.
Proviamo ora a rileggere un passo iniziale dello Zarathustra, lo stesso
che commenta Jung, partendo dall’ipotesi ermeneutica poc’anzi avanzata.
Il passo in questione è il seguente:
Zarathustra prese a discendere da solo la montagna, senza incontrare
alcuno. Ma giunto alle foreste, ecco si trovò dinanzi un vegliardo, che, in cerca
di radici per la foresta, aveva lasciato la sua pia capanna. E così parlò a
Zarathustra il vegliardo: «Questo viandante non mi è sconosciuto: alcuni anni
fa è passato di qui. Zarathustra era il suo nome; ma egli si è trasformato.
Portavi allora la tua cenere sul monte: oggi vuoi portare nelle valli il tuo fuoco?
Non temi i castighi contro gli incendiari? Sì, riconosco Zarathustra. Puro è il
suo occhio, né disgusto si cela sulle sua labbra. Non incede egli a passo di
danza? Trasformato è Zarathustra, un bambino è diventato Zarathustra.
Zarathustra è un risvegliato: che cerchi mai presso coloro che dormono?»27.
Si può essere senza dubbio d’accordo con Jung nel ritenere che il vegliardo
della foresta e Zarathustra si conoscono già, anzi sembra vi sia una segreta
identità tra i due – sebbene l’anacoreta rappresenti lo spirito cristiano delle
origini, ancora ignaro che il cristianesimo è giunto alla fine della propria
parabola. Il fatto stesso che si tratti di un eremita corrisponde agli ideali del
cristianesimo delle origini. Peraltro, l’annuncio della morte di Dio gli è dato
dallo stesso Zarathustra: «Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire
nella sua foresta che Dio è morto». L’anacoreta, lo spirito cristiano delle origini,
tuttavia ricorda che Zarathustra ha portato, in un tempo immemorabile, la
proprie ceneri sul monte, cioè ne ricorda la morte. Ora, invece, se lo trova
dinanzi trasfigurato: un bambino, un risvegliato, colui che è venuto a portare il
fuoco nelle valli per destare coloro che dormono ancora.
Zarathustra, l’archetipo del Vecchio Saggio, ora ne incontra un altro? O
incontra la sua vecchia identità, quella che egli si è lasciato alle spalle, nella sua
morte e trasfigurazione? Ovvero si tratta di due diverse rappresentazioni della
stessa figura archetipica?
Ora, è lo spirito ringiovanito che irrompe nel presente, dal momento che
lo spirito del cristianesimo ha dinanzi a sé solo il suo passato, senza potere
rivolgere il suo sguardo al futuro. Davvero singolare, a questo riguardo, è il
27
Ivi, 6; tr. it., cit., p. 4.
La riscrittura del passato
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parallelo istituito da Jung tra l’archetipo del Vecchio Saggio e lo spirito
Paraclito, promesso da Cristo al momento della sua morte, come effetto
postumo della sua rivelazione: «Cristo lasciò tra noi o promise, secondo il
dogma, l’avvento del Paraclito, il consolatore, in altre parole lo spirito, come
nella discesa dello Spirito Santo durante la Pentecoste; si tratta dell’effetto
postumo della rivelazione cristiana, dello spirito che l’apparizione di Cristo
sulla terra ha lasciato dietro di sé. La sua apparizione fu come l’esplosione di
una granata, dopo la quale lo spirito continua ad aleggiare per un po’ e poi,
lentamente, si ritrae di nuovo sullo sfondo. A questo vegliardo potrebbe
dunque essere attribuito il nome di Paraclito: è lo spirito residuo del
cristianesimo, ed è sul punto di ritirarsi nella natura»28.
L’anacoreta dunque sa che è giunta la sua fine, la sua dissoluzione. E lo
sa anche l’altra grande figura emblematica che Zarathustra incontra più
avanti, l’«ultimo papa», il quale proclama la morte del «santo della foresta,
che cantando e mugolando lodava continuamente il suo Dio. Quando
trovai la sua capanna, non c’era già più, – c’erano invece due lupi che
ululavano per la sua morte – infatti tutte le bestie lo amavano. Allora
scappai via. Dunque ero venuto inutilmente in queste foreste e montagne?
Allora il mio cuore decise ch’io cercassi un altro, il più devoto di coloro
che non credono in Dio – ch’io cercassi Zarathustra!»29.
Zarathustra stesso, il più devoto tra gli atei, appare così il Consolatore,
il riconciliatore dell’uomo con il suo destino. Anche qui vi è l'idea di una
riconciliazione vivente, di sanare le «ferite dello spirito, senza lasciare
cicatrici», come abbiamo già visto nel testo della Fenomenologia hegeliana.
Anche qui si fronteggiano, di volta in volta, due figure: ora Zarathustra e il
vecchio anacoreta, ora Zarathustra e l’«ultimo papa», e così via. Tuttavia,
la riconciliazione che sancisce il perdono – che hegelianamente una
28 C.G. JUNG, Lo Zarathustra di Nietzsche, cit., p. 38. Non è qui il caso di interrogarsi
se il termine “Paraclito” (Paràkletos), “colui che è chiamato accanto” – appartenente alla
letteratura giovannea – abbia davvero il senso di “Consolatore” o se piuttosto questo
significato derivi da una dubbia etimologia e non sia attestato nel Nuovo Testamento.
Certo è che la venuta del Paraclito segna una nuova tappa nella storia della presenza di
Dio tra gli uomini. Al termine dell’ultima cena, Cristo annunzia che la sua venuta, al
momento delle apparizioni pasquali colmerà di gioia i discepoli (Gv 16, 22), ma la sua
presenza non sarà più di ordine sensibile, bensì “spirituale”. Il Padre donerà loro «un
altro Paraclito» (Gv 14, 16) che Gesù stesso manderà. Pur essendo “diverso” da Gesù,
il Paraclito, in quanto “Spirito di verità”, porta a perfezione la presenza di Cristo
stesso.
29 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., p. 318; tr. it., cit., p. 301.
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coscienza concede all’altra coscienza – è di ben diversa natura. Ora non si
tratta dell’afferramento di sé esattamente nel suo contrario, dell’«Io esteso
fino alla dualità», dunque di restaurare l’identità, ovvero di ricostituire
l’eguaglianza dell’Io con se stesso.
Sanare le ferite dello spirito – secondo l’ipotesi ermeneutica che qui
presento – ha ora il senso di un “dono intensivo”, del per-dono, come una
forma di pietas (Frömmigkeit)30: è il dono della “compensazione”: restituire
ai poveri la loro ricchezza e ai saggi ciò che essi hanno perduto. Ma occorre
fare attenzione, perché pietas non indica, in questo contesto,
semplicemente la messa in mora delle strutture “necessitanti” della ragione
teoretica; la pietas, come forma di “dono intensivo” sta a indicare,
piuttosto, una sorta di restituito in integrum del passato remoto. Vero è che,
nella dottrina di Zarathustra, il passato dipende dal futuro e Zarathustra è
appunto l’uomo del futuro, colui che cancella la «menzogna» del passato e
ne riabilita la verità nell’orizzonte del futuro – mentre la figura del vecchio
anacoreta, che vive nell’oblio di verità profonde, all’oscuro della morte di
Dio, si inabissa nel gorgo senza fondo del passato: giustappunto nella messa
in questione della linearità seriale del tempo, nella trasformazione del “giàstato”, del «così-fu», nella forma del futuro anteriore («così-avrò-volutoche-fosse»), dunque nel singolare rapporto delle ekstasi temporali tra loro,
entra finalmente in gioco la riconciliazione, il rinnovato accordo dell’uomo
con il suo proprio destino.
Abstract
Why the nexus memory/oblivion/forgiveness? The paper thinks back
to the main themes linked to that conceptual constellation, beginning from
Hannah Arendt’s and Paul Ricoeur’s thinking, crossing through the
complex network of meanings the subject forgiveness takes on in Hegel’s
Phenomenology of Spirit, up to the problematic territory of Nietzsche’s
Zarathustra. Once again, one should deal with a paradox: it is common
belief that past cannot be changed, that it is given, since it sinks into the
blind night of necessity; on the contrary, future is mostly considered
uncertain, open, because it is the indefinite reign of possibilities. Now, is
the paradox actual or just illusory? In the face of reality, that is the notNon a caso, Zarathustra è definito Fromm, pio, devoto, anzi Frömmisten, “il più pio”. Cfr.
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., p. 318; tr. it., cit., p. 301.
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erasable nature of the past, their being (or appearing) “petrified”, does the
sense of events result as fixed – or not-fixed – once for all, since the moral
responsibility, linked to the guilt-feeling towards the past, could be, from
time to time, made lighter or heavier? Is it possible, through the present
men reconciliation with their own past, to replace the covenant with
destiny? These are the questions the present paper is hinged on.