1 Un figlio bastardo: recensione di

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1 Un figlio bastardo: recensione di
Un figlio bastardo: recensione di “European Journal of Psychoanalysis. Humanities,
Philosophy, Psychoterapies” n. 26/27, 2008. Vimodrone: Ipoc 2010.
1. Giunto al suo diciassettesimo anno di vita, con il numero 26/27 qui recensito, quello
che si è finora chiamato Journal of European Psychoanalysis cambia editore, veste e nome:
diventa European Journal of Psychoanalysis. Per comprendere sia la sua iniziale
intenzione che questo suo secondo battesimo e per dare adeguatamente conto di quel
numero, bisogna volgere lo sguardo indietro nel tempo.
Nel 1909, in viaggio verso l’America per un ciclo di conferenze, Freud si disse convinto
di star portando ai suoi ignari ospiti la peste. Intendeva una teoria che avrebbe scosso la
loro mentalità puritana e positivistica e l’avrebbe costretta a riconoscere i processi psichici
inconsci moderando così la repressione che gravava sulla vita sessuale e cambiando la
società. Tuttavia, l’uso, per significare una teoria che doveva portare cambiamento, di una
parola che designava malattia, era indice di una contraddizione che gli si manifestò quando,
sia nella sua Austria che in America, fu posto il problema della convenienza o meno di
autorizzare i non medici alla pratica della psicoanalisi.
In un lavoro del 1926, sollecitatogli da un’azione giudiziaria contro il suo allievo non
medico T. Reik, egli ribadiva che la sua era una teoria nuova in grado di curare le nevrosi
individuali e di cambiare la società. La capacità di usarla a tali fini non era però ricavabile
dalla sola lettura dei molti scritti nei quali l’aveva resa pubblica: pretenderlo poteva dare
campo alle analisi cosiddette “selvagge” e produrre danni che l’Austria repubblicana
intendeva evitare riservandone con una legge l’uso ai laureati in medicina e limitandone
l’applicazione al campo medico. Egli riteneva tale legge a sua volta dannosa; conveniva
però che, per conoscere effettivamente quella teoria e impedirne usi patogeni, fosse
necessaria un’esperienza personale diretta dei processi psichici da essa descritti. Tuttavia
questa non poteva ottenersi nelle Facoltà di Medicina, ma nel libero spazio del setting
analitico quale unica sede del rapporto con qualcuno che l’avesse già attraversata
direttamente o indirettamente con lui, che sosteneva di averla attraversata nel rapporto con
sé stesso. Aggiungeva che le applicazioni della teoria andavano oltre il campo medico. In
particolare, quella nell’educazione delle nuove generazioni poteva evitare l’eccessiva
inibizione della sessualità risolvendo preventivamente il malessere che per essa affliggeva
l’uomo civilizzato; era perciò essenziale che l’acquisizione, per la suddetta via, della
conoscenza della teoria e della capacità di usarla non fosse limitata ai soli medici. La
liberazione della sessualità, però, tanto nella terapia quanto nell’educazione, tanto nei
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singoli quanto nella società, comportava pericoli per fronteggiare i quali non bastava
neppure che chi doveva portare la teoria nella pratica fosse stato iniziato a usarla nel
rapporto con altri già iniziati; era anche necessario che questi ultimi fossero
particolarmente esperti e affidabili e che questa loro particolarità fosse garantita dal
controllo di un’Istituzione libera dal condizionamento che lo Stato avrebbe esercitato
attraverso le Facoltà di Medicina delle sue Università. Tuttavia alcuni, memori del
fenomeno della ciarlataneria e del potenziale di scandalo e sovversione delle terapie
suggestive alle quali la teoria era storicamente legata, ritenevano che neppure tale
Istituzione avrebbe dato quella garanzia e che fosse comunque necessario ammettere i soli
medici alla formazione che essa avrebbe fornito. Freud vedeva quest’opinione diffusa
soprattutto tra gli aderenti al suo movimento attivi in quell’America alla quale diciassette
anni prima si era detto convinto di portare la peste: essi sembravano averlo suo malgrado
preso alla lettera, ed egli ora obiettava loro di vanificare, con un’inibizione peraltro
inefficace, il significato di novità e cambiamento che, usando quella parola, aveva voluto
rivendicare alla psicoanalisi, e di ridurre quest’ultima da missione a mera professione
privandola della sua ambizione rivoluzionaria.
2. Le manifestazioni della contraddizione tra innovazione e conservazione discussa da
Freud nel 1926 in rapporto al problema della formazione all’uso della sua teoria costellano
la storia del movimento psicoanalitico sia in Europa che nelle Americhe. In Italia, la prima
si ebbe nell’immediato dopoguerra per il conflitto che oppose i tre maggiori rappresentanti
della Società italiana di psicoanalisi (SPI), Musatti, Servadio e Perrotti, e i tre Istituti che
facevano loro capo. Le simpatie socialiste dell’ultimo dei tre facevano infatti sì che
l’Istituto da lui diretto guardasse alla formazione avendo, per le istanze innovative e le
finalità sociali del freudismo, una maggiore sensibilità che si rifletteva nel dettaglio di una
maggiore apertura verso i candidati non medici. Il conflitto tra i tre Istituti 1 portò la SPI a
un degrado che nel 1962 indusse l’International Psychoanalytical Association (IPA) a
sottoporla a una tutela durata fino al 1967. Proprio però quando questa ebbe fine e la
riabilitazione della SPI fu sancita dalla decisione dell’IPA di tenere a Roma il suo XXVI
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Acutizzato dal verificarsi nell’ultimo di comportamenti che riproponevano i rischi connessi con la
trattazione della materia incandescente della sessualità. Mi riferisco all’episodio dell’espulsione di due
membri, A. Modigliani e I. Majore, per motivi deontologici sul quale è calato un totale silenzio, mentre forse
varrebbe la pena indagare se e in che misura rientri nella storia della contraddizione di cui qui si parla. Uno
spunto a quest’indagine è dato dal breve racconto di Majore intitolato “L’analista malato” che, sempre a
proposito di contraddizione, fa seguito a un altro intitolato “L’analista sano”, ambedue in Majore 1996. Per
inciso, va riconosciuto a Majore, a prescindere da ogni valutazione, di essere stato il primo in Italia a porre
l’accento sul pensiero di Freud a proposito dell’istinto di morte (Majore 1970).
2
Congresso, la contraddizione tra innovazione e conservazione si propose in una forma che
era nuova perché si esprimeva tramite il coinvolgimento di una realtà esterna all’Istituzione
psicoanalitica, e cioè del movimento del ’68: se questo scorgeva nella teoria freudiana un
fattore di cambiamento che riteneva tradito da quell’Istituzione, questa scorgeva in esso
un’ennesima manifestazione del conflitto edipico.
Questa seconda forma della contraddizione si tradusse in una terza, nella quale i suoi due
termini tornavano a essere interni all’Istituzione quando, parallelamente al suddetto
Congresso, un gruppo di analisti, allievi analisti e intellettuali di diverse nazionalità diede
vita a un “Controcongresso” nel quale contestò all’IPA il tradimento sia degli «scopi
scientifici» che di quelli «socio culturali della psicoanalisi» (Bolko& Rotschield 1960 p.
711; Benvenuto 1990).
Il Controcongresso ebbe un seguito. Elvio Fachinelli nell’Istituto milanese e un gruppo di
analisti e allievi in quello romano diretto da Nicola Perrotti avanzarono, per vie e in forme
diverse, proposte volte al cambiamento degli aspetti del percorso formativo che ritenevano
responsabili di quel tradimento; volte, in particolare, ad abolire le due pratiche della
preselezione e dell’analisi didattica e a dare alla SPI un assetto statutario, ispirato all’ideale
della democrazia partecipativa, che consentisse quel cambiamento.
Le due iniziative non avrebbero però avuto seguito se la contraddizione non avesse
assunto una quarta forma per l’ intervento di un altro fattore esterno all’Istituzione; cioè se
nella storia italiana degli anni Settanta non si fosse prodotta una dilatazione della domanda
sia di cura che di formazione.
La dilatazione della domanda di cura conseguì a tre fonti di malessere: il fallimento del
movimento del ’68; gli esiti del ricorso, conseguito al venir meno della sua valorizzazione
dell’immaginario come mezzo del cambiamento della società, a un’attività di devastazione
del costituito; la mancata risposta della sinistra parlamentare all’esigenza del nuovo
comunque presente all’inizio degli anni Settanta (De Giovanni 1989).
La dilatazione della domanda di formazione conseguì invece alla comparsa, negli stessi
anni, di una nuova categoria di operatori in procinto di uscire dai neoistituiti corsi
universitari di Psicologia (AA.VV. 1974 pp. 57-58; Benvenuto 1990).
Le due domande in qualche misura si sovrapponevano (Armando 1976). L’istituzione di
quei corsi conseguiva infatti anche all’identificazione da parte dello Stato di un mezzo atto
a contenere il suddetto malessere fornendo a chi avrebbe potuto incorrervi un’identità
onnipotente in cui disperderlo e alla quale al tempo stesso affidare il contenimento di chi vi
fosse incorso: sulla soglia degli anni ’70, futuri malati e futuri psicologi aspiranti
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psicoterapeuti costituivano una massa indistinta che premeva sulla SPI chiedendole di
essere resa partecipe del suo sapere e potere, e stabilendo una contraddizione con il suo
assetto corporativo.
La contraddizione tra innovazione e conservazione si manifestò perciò ora in una quinta
forma: quella dell’opposizione tra, da un lato, quanti nella SPI scorgevano nella suddetta
dilatazione della domanda l’occasione per realizzare quella funzione sociale della
psicoanalisi per la quale nel 1926 Freud si era opposto all’intenzione di chiuderla nel
ghetto di una specialità medica; e, dall’altro, quanti scorgevano in essa una minaccia cui
rispondere arroccandosi sul compito di formare un’élite di tecnici della cura della malattia
mentale, e potenziandone la funzione conservatrice.
Costoro ebbero il proprio manifesto teorico in uno scritto di F. Fornari (“L’angoscia
genetica nella simbolizzazione delle Istituzioni psicoanalitiche”) circolato dattiloscritto fin
dal 1972 e pubblicato nel 1976 (Fornari 1976). Fornari riconduceva il tema del rapporto
con il nuovo entro il modello del complesso edipico. Individuava la presenza nella storia
del movimento psicoanalitico di un’«angoscia genetica» distinguendone due aspetti: quello
dovuto all’essersi la psicoanalisi fin dall’inizio avvertita come «figlia bastarda» per
l’ostracismo subito da parte della comunità scientifica; e quello dovuto all’avere
l’Istituzione psicoanalitica fin dall’inizio sospettato in chi chiedeva di esservi accolto un
potenziale «figlio bastardo» che avrebbe introdotto la peste tra le sue mura. Fornari
identificava poi gli strumenti di cui l’Istituzione si era dotata per fronteggiare questa
duplice angoscia proprio nelle due pratiche della preselezione e dell’analisi didattica
contestate da quanti propugnavano la sua apertura al cambiamento, e auspicava uno Statuto
che le consolidasse.2
Un tale Statuto fu approvato alla fine del 1973. Di conseguenza, quanti avevano scorto
nella dilatazione della domanda l’occasione per realizzare la funzione sociale della
psicoanalisi continuarono a farlo secondo modalità diverse che avevano in comune
l’abbandono della pretesa di incidere sull’assetto statutario e sulla pratica formativa della
SPI.3 Questa per parte sua ritenne di avere risolto la contraddizione che la lacerava
2
In termini diversi, un’idea dell’Istituzione analoga a quella di Fornari era stata già espressa da S. Bordi
(1970) che avrebbe poi fatto parte di una Commissione per la revisione dello Statuto dell’Istituto di
psicoanalisi di Roma. Nell’ambito di tale Commissione, una minoranza propose, tentando di darle forma
statutaria, un’idea di Istituzione, diversa da quella di Bordi e di Fornari, conforme al modello della
democrazia partecipativa (si vedano al riguardo Armando 1973 pp. 151-191; AA.VV. 1974; e la relazione di
minoranza della suddetta Commissione in AA. VV. 1973 pp. 83-108). I lavori di questa Commissione per la
revisione dello Statuto dell’Istituto finirono nel nulla in seguito all’approvazione del nuovo Statuto della SPI.
3
Alcuni premettero per un rinnovamento della SPI da ottenersi anche attraverso l’apertura a ipotesi teoriche
da essa fino ad allora mal tollerate, come quella di M. Klein, ma soprattutto quella di W. Bion il cui classico
testo sulle dinamiche dei gruppi, tradotto in Italia nel 1970, parve aprire alla psicoanalisi spazi di azione più
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espungendo da sé l’istanza di cambiamento. Tuttavia la ontraddizione le si ripresentò in
una sesta forma in vista della promulgazione nel 1987 della Legge Ossicini che avrebbe
regolamentato l’esercizio della professione di psicoterapeuta; allora infatti la SPI espresse
l’intenzione di fare a meno del riconoscimento statale rivendicando in tal modo per sé la
condizione del «figlio bastardo» portatore, a differenza delle tante altre scuole riconosciute
dallo Stato, di un progetto innovativo.4 Ma, a parte il fatto che, una volta promulgata la
legge, essa recedette da tale intenzione perdendo la posizione privilegiata che per circa
mezzo secolo aveva avuto nel formare i cosiddetti “medici dell’anima”, la politica della
rimozione da lei adottata a fronte del cambiamento dandosi il nuovo Statuto non avrebbe
comunque reso credibile e praticabile quella sua rivendicazione.
3. Questa fu raccolta da altri, tra i quali il Journal il cui ultimo numero viene qui
recensito.5 Similmente alla civetta di Minerva che si leva al volo al crepuscolo, esso appare
nel 1995 nel crepuscolo dei percorsi della contraddizione freudiana sopra descritti. Sergio
Benvenuto che ne è stato il principale artefice (JEP 2010 p. 7) e che ne è, insieme a
Cristiana Cimino e ad Antonello Correale, uno degli Editors, ha pubblicato nel 2009 uno
scritto che può essere considerato come una dichiarazione del suo programma e del suo
intento redatta a posteriori. In esso, significativamente intitolato “Una rivista senz’anima”,
egli racconta come il Journal sia nato per spontanea iniziativa di «un gruppo di amici e
colleghi» diversamente afferenti al movimento psicoanalitico, sceltisi reciprocamente «non
sulla base della fedeltà a una teoria o una scuola, ma sulla base della stima personale [e di]
un criterio di affinità elettive», ne dichiara apertamente, senza vergogna e anzi con qualche
orgoglio l’identità di figlio bastardo e tenta di definirla.
A tal fine, ne sottolinea anzitutto il rifiuto delle appartenenze e delle ascendenze, il non
volere sottostare «agli obblighi delle riviste corporative o militanti», il non voler «essere
espressione di nessuna associazione o scuola o tendenza psicoanalitica», il non volere
ampi di quelli consentiti dal setting duale. Paolo Perrotti diede vita a un percorso formativo parallelo. M.
Fagioli fu espulso dalla SPI (Benvenuto 1990) per avere posto in essere un percorso formativo del tutto
indipendente da essa, si veda al riguardo oltre, la nota 9. Non rientrano nel presente contesto le risposte date
alla dilatazione della domanda da figure non transitate per la SPI, come S. Gindro, A. Verdiglione e altri
rappresentanti del lacanismo in Italia.
4
Nella conversazione con S. Benvenuto (Benvenuto 1990), Fachinelli acutamente osserva: «A un certo
punto l’Istituzione si è accorta che, mutato [in seguito alla legge Ossicini] il clima culturale generale, essa
rimaneva al centro della nebulosa psicoterapeutica, e non aveva quindi bisogno di riconoscimento statale. E
così è riemersa la posizione di fondo del movimento psicoanalitico al tempo di Freud: “Noi psicoanalisti
dobbiamo rimanere in una posizione libera, indipendente dallo Stato”».
5
Come altro esempio di rivista che, per vie e con modalità diverse, raccoglie la suddetta rivendicazione, può
essere qui menzionata Psicoterapia e scienze umane fondata da P. F. Galli nel 1967. Per le sue intenzioni
programmatiche si veda Galli 2002 e per le sue connessioni con le vicende del movimento psicoanalitico
sopra riassunte si veda AA.VV 2006.
5
rispettare il format «che oggi definisce una “buona rivista di psicoanalisi”»; e il volere
invece essere una «rivista interdisciplinare» attenta alle (…) intersezioni tra psicoanalisi,
filosofia, arte, letteratura, saggistica, storia» e il volere «affermarsi unicamente sulla base
della qualità dei papers pubblicati».
Tuttavia non vuole neppure ricorrere, per definire il criterio in base al quale stabilire quali
contributi siano detentori di «qualità», a paradigmi esistenti; tanto meno a quello freudiano,
anche perché il progetto di fare di esso il paradigma comune del movimento psicoanalitico
«è presto venuto meno» avendo le tante varianti da esso assunte fatto sì che la psicoanalisi
non sia «mai diventata veramente una scienza normale», anzi non sia «mai stata scienza».
Come è noto, Kuhn, alla cui terminologia dichiaratamente attingono i passi citati,
sostiene che la conservazione di una possibilità di cambiamento e avanzamento nella
scienza è subordinata all’attenzione per le anomalie del paradigma vigente ed alla
disposizione non a rimuoverle, ma a rilevarle e affrontarle. Una rivista quindi che voglia
riaccendere nella psicoanalisi la fiaccola del cambiamento deve ospitare contributi
definibili di «qualità» in quanto debordanti da un paradigma per altro incerto e volti a
rilevarne e affrontarne le anomalie: contributi «idiosincratici, squisitamente singolari (…)
inclassificabili, marginali, nomadici».
Contributi senza qualità, «senz’anima», figli bastardi ospiti di un figlio bastardo, che
però, gli uni e l’altro, una qualche qualità, un’«anima segreta», un’identità, debbono pur
darsela. Il tentativo di definirla fa qui appello all’arte, e specificamente all’arte di Cézanne,
alla sua capacità di «rivelarci l’essenza visiva delle cose», di comunicare una «tensione
[che] ci impressiona» di accendere una «scintilla metafisica» di «metterci a contatto (…)
con qualcosa che ci inquieta, che strappandoci dal rassicurante previsto magari non ci fa
dormire la notte [che] è sempre prospettica, non è mai attuale, è sempre inattuale, ad un
tempo assolutamente momentanea e assolutamente progettuale» (qui e in seguito i corsivi
stanno nel testo).
L’identità del figlio bastardo si definisce quindi per la funzione traumatica, che esso si
attribuisce, di partecipare attivamente alla dissoluzione delle forme e alla «scoperta
squilibrante di altre forme possibili (passate o future) da vedere».
Il riferimento implicito in queste parole allo scritto di Freud del 1919 Das Unhemliche
diventa subito appresso esplicito; e sembra che con ciò quell’identità, inizialmente definita
dal rifiuto dell’ascendenza freudiana, in qualche modo se ne riappropri. Su questo viraggio
dirò poi. Ora vanno sottolineati il coraggio e l’importanza del tentativo sopra riassunto di
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definire l’identità di un Journal che, rivendicando per sé il ruolo di figlio bastardo, intende
sostenere l’istanza di cambiamento che Freud rivendicava alla psicoanalisi nel 1926.
4. I contributi della rivista vengono pubblicati in lingua inglese perché, essendo questa la
lingua della comunità scientifica, la sua adozione li rende più fruibili di quanto sarebbero
altrimenti. Quelli apparsi nei diciassette anni di vita del Journal riflettono l’intenzione,
accennata nel suo stesso titolo iniziale (Journal of European Psychoanalysis. Humanities,
Philosophy, Psychoterapies) di dar voce a una psicoanalisi aperta alle altre discipline e non
disposta a identificarsi con una specialità medica;. e più in generale gli orientamenti esposti
da Benvenuto nel lavoro del 2009. Il rifiuto di appartenenze ed ascendenze a scuole e
discipline, si riflette nell’appartenere tali contributi ad autori provenienti da diversi contesti
culturali europei (anche se va rilevata una prevalenza di quello francese), da diverse
correnti della psicoanalisi e della psichiatria e da diverse specialità6 e nel loro essere attenti
alle «intersezioni tra psicoanalisi, filosofia, arte, letteratura, saggistica, storia». La
determinazione a pubblicare contributi scelti in base alla loro «qualità» (nel senso, sopra
definito, di essere «idiosincratici, singolari, inclassificabili, squilibranti») si rilette nel fatto
che essi, per la maggior parte e quali più quali meno, pongono problemi, inducono piccoli
traumi spaesanti, sollecitano a riflettere, a cercare nessi inesplorati, a scoprire «altre forme
possibili».
La determinazione poi a pubblicare contributi scelti in base alla loro «qualità» nell’altro
loro senso sopra definito di essere «nomadici» si riflette nel fatto che i numeri della rivista,
considerati retrospettivamente e nel loro insieme, forniscono l’immagine di un libero
vagabondare attraverso temi diversi: la teoria e la clinica psicoanalitiche7, la storia della
psicoanalisi, le sue correnti, le sue figure rappresentative8, la sua crisi, i suoi rapporti con la
filosofia, l’ermeneutica, il cinema, l’antropologia, la tragedia greca, l’arte e la poesia.
Insomma, nei suoi diciassette anni di vita, il Journal ha realizzato una presenza culturale
quanto mai significativa e stimolante.
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Alcuni nomi di autori: G. Agamben, A. Carotenuto, M. de M’Uzan, Derrida, F.Dolto, E. Fachinelli, I.
Fõnagy, A. Geeen, A. Iacono, O. Kernberg, J. Kristeva, G. Lai, S. Leclaire, J.-F. Lyotard, I. Matte Blanco, R.
Mayor, P. Migone, J.-L. Nancy, D. Napoletani, M. Perniola, P. Roazen, P. A. Rovatti, E. Roudinesco, A.
Schicchitano, M. Trevi, G. Vattimo, S. Vegetti Finzi, Vernant, S. Žižek, ecc.
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Numeri o sezioni di numeri della rivista sono piccole monografie su: il transfert, il controtransfert,
l’interpretazione, la resistenza, il narcisismo, il masochismo e il sadismo, l’isteria, le perversioni, i fenomeni
gruppali, la femminilità, ecc.
8
S. Freud, J. Lacan, M. Torok, C. Castoriadis, J. Cremerius, ecc..
7
4. Tre pagine di “Introduzione alla nuova edizione” spiegano il senso del cambiamento di
veste e di nome attuato con il numero qui recensito. Esse ribadiscono i già dichiarati
orientamenti del Journal: l’interdisciplinarietà come ricerca di dialogo sia con «la
medicina, la psichiatria, la psicologia, la biologia e le neuroscienze», sia con la filosofia,
l’epistemologia, le metodologie di ricerca e le varie humanities; l’attenzione per il legame
indissolubile tra individuo e società e per la filosofia della politica; l’internazionalismo
testimoniato dall’adozione della lingua inglese anche «al fine di porre [la psicoanalisi
europea] in contatto con mondi e tradizioni non europee»; il rifiuto delle ascendenze e delle
appartenenze. Aggiungono però che è venuto il tempo per il Journal di «fare un passo
avanti, di rafforzarsi (…), di accrescere la propria incisività»; vuoi affrontando con maggior
determinazione i problemi che più caratterizzano la società contemporanea e accentuando
perciò l’attenzione per la filosofia della politica, vuoi rispondendo alle difficoltà incontrate
dall’emergente esigenza di «revisionare la metapsicologia freudiana», di colmare il vuoto
costituito dal non essere «negli ultimi quarant’anni e forse più (…) emersa nella
psicoanalisi nessuna eresia».9
Il confronto tra lo scritto programmatico del 2009 e questa “Introduzione” permette di
comprendere cosa si debba intendere per maggiore attenzione alla filosofia della politica e
per “eresia”, quale aspetto della metapsicologia freudiana si ritiene abbisogni di essere
revisionato o ereticamente sostituito. Tra i due testi v’è infatti continuità non solo perché,
come si è detto, il secondo ribadisce gli intenti dichiarati nel primo. Questi si riassumevano
nel proposito di dar vita a un Journal estraneo ad ascendenze e appartenenze, un’entità
«senz’anima», un figlio bastardo; e rivendicavano per lui il diritto a uno spazio in cui
vivere ed esprimersi, e a vedersi riconosciuta un’«anima segreta». Ciò implicava, in primo
luogo, il compito di penetrare in questa segretezza, di reperire un fondamento dell’identità
del figlio bastardo che prescindesse dai criteri dell’agnazione e dell’appartenenza; e, in
secondo luogo, di svolgere, sulla base di quel reperito fondamento, l’idea di una politica in
grado di cambiare la società tanto da assicurare il diritto di quel figlio a vivervi e ad
esprimervisi. Implicava, né più né meno, che la messa a punto di un’idea di soggetto
eretica rispetto a quella freudiana basata sul concetto d’identificazione.
9
Per inciso, può essere interessante osservare che, essendo presumibile che all’”Introduzione” a questo
numero non sia estranea la mano di S. Benvenuto, l’affermazione secondo cui non ci sarebbero state, negli
ultimi quaranta anni e più, eresie nel movimento psicoanalitico, contrasta con la notazione, fatta nella
conversazione con Fachinelli, che almeno una c’era stata, a prescindere dalla valutazione che ne venga data e
dai suoi sviluppi: si vedano al riguardo Armando 2007; Lalli 2007; Armando-Seta 2009.
8
Inizialmente il Journal aveva tentato di reperire quell’idea di soggetto e di società
all’interno della metapsicologia freudiana. Non a caso la prima tappa nel suo procedere
nomadico era stato un numero interamente dedicato al tema del narcisismo. La comparsa
della parola “eresia” sembra però significare la volontà di portare quel percorso oltre; e il
numero qui recensito riflette questa volontà.
Esso si apre con un breve scritto di J.-L. Nancy il cui titolo ha già un sapore vagamente
eretico: Freud-so to speak esprime il proposito, dichiarato poi nel testo, di mantenersi «il
più possibile prossimi» a lui, ma al tempo stesso «infinitamente distanti» (p. 17). Seguono
tre sezioni, la prima sul pensiero di S. Žižek, la seconda sul transfert e il controtranfert, la
terza sulla storia della psicoanalisi. La prima contiene uno scritto dello stesso Žižek (del
quale il Journal aveva già pubblicato diversi articoli) sul rapporto tra il pensiero di Lacan e
l’ideologia di Mohuammad Bouyery, uno degli attentatori delle torri gemelle, cui seguono;
uno scritto di F. Vighi e H. Feldner sul rapporto tra Žižek e Foucault e l’introduzione di S.
Benvenuto all’edizione italiana del libro di G. Daly, A Conversation with Žižek.
La
seconda sezione contiene scritti di R. Major sull’amore di transfert; di F. Bassi
sull’evoluzione dell’uso clinico del controtranfert; di C. Cimino sul transfert come
espressione della tendenza a fondersi con un altro in risposta alla esistenziale esposizione a
un «Reale (…) estraneo, perturbante, non domesticato e non soggettivo»; di G. Lai e P.
Levanchy sul fenomeno del «disidentity shok» prodotto dal concorso del fatto che, nella
relazione analitica, il paziente non percepisce l’analista per quello che è, ma per quello che
sono figure della propria storia passata, e del fatto che i vissuti dell’analista non
appartengono al suo Sé attuale, bensì derivano da proprie esperienza passate elicitategli dal
paziente; di A. Maiolino sulla pratica della psicoanalisi in istituzioni pubbliche. La terza
sezione contiene scritti di B. Fink sul concetto di personalità in Lacan; di M. Vegetti sul
rapporto tra Lacan e Kojève; e di M. Csabai sull’impatto della scuola di Budapest rispetto
al modo di concepire la relazione terapeutica. Segue una recensione di L. Gaffuri al libro di
A. Sciacchitano, Scienza come isteria. Il soggetto della scienza da Cartesio a Freud e la
questione dell’infinito.
Riportare più dettagliatamente il contenuto di questi scritti, oltre ad essere qui impossibile
per motivi di spazio, privarebbe lettori non pigri del vantaggio che un contatto diretto con
essi porterebbe loro per il fatto che pressoché tutti corrispondono, in diversa misura,
all’intenzione del Journal di ospitare contributi «di qualità», tali cioè, come si è visto, da
provocare piccoli traumi, «spaesare», indurre a riflettere e eventualmente a revisionare. Mi
9
limiterò pertanto a mostrare succintamente come la composizione del numero svolga con
coerenza le due intenzioni dichiarate nella sua ”Introduzione”.
L’ultima sezione raccoglie il suggerimento dello scritto d’apertura di J.-L. Nancy a
cercare la possibilità di una revisione della metapsicologia freudiana non più al suo interno,
bensì standovi «il più possibile prossimi», ma, al tempo stesso, quanto possibile «lontani».
Gli articoli che la compongono si volgono infatti a cercare quella possibilità nella storia del
movimento psicoanalitico: l’ultimo in una sua espressione ancora abbastanza, ma non del
tutto, prossima a quella metapsicolgia, i primi due in una ritenuta più lontana ed eretica.
Come ho accennato, l’ultimo articolo è dedicato a quella scuola di Budapest fondata da S.
Ferenczi, uno dei primi grandi eretici della psicoanalisi, e in particolare a quattro suoi
rappresentanti: Franz Alexander, Michael Balint, George Engel e Thomas Szasz. Esso ci
riporta ai problemi accennati all’inizio di questa recensione ricordando il ruolo svolto da
Alexander come direttore dell’Istituto di psicoanalisi di Chicago in linea con la
raccomandazione di Freud di non ridurre la psicoanalisi a una specialità medica; pone poi
l’accento sul contributo sia suo che di Balint allo studio dei fenomeni del transfert e del
controtranfert e soprattutto sull’impegno dei quattro a valorizzare le «forze più creative del
soggetto» e le «capacità integrative del Sé» (p. 299) anticipando le formulazioni di Kohut
sul narcisismo alle quali si era rivolto il primo numero della rivista. L’articolo suggerisce
numerosi suggestivi nessi sui quali bisogna qui soprassedere. Va invece sottolineato come
la sua attenzione per ricerche volte a cogliere gli aspetti di autonomia del soggetto sia
coerente con l’intenzione, dichiarata nell’”Introduzione”, di revisionare la metapsicologia
freudiana, non essendo il ruolo strutturante da essa attribuito all’identificazione compatibile
con il fine di reperire un fondamento all’identità del figlio bastardo e di far valere il suo
diritto a uno spazio di vita.
Gli altri due articoli della terza sezione si volgono a cercare la possibilità di una
revisione di quella metapsicologia in un’espressione postasi come eretica rispetto ad essa. Il
primo, dedicato, come ho accennato, al concetto di personalità in Lacan, sottolinea come,
secondo questi, il soggetto sia originariamente scisso e l’idea di una personalità come
intero non scisso sia illusoria, nulla più che una «maschera» posta a coprire quell’origine
mostruosa. Come è noto, già Freud aveva dichiarato che l’essere umano si affaccia alla vita
come un grumo e coacervo di pulsioni e parti scisse. L’eresia dunque rispetto alla sua
metapsicologia consiste nel fatto che, mentre Freud concettualizzava il superamento di
questo stato con acquisizione dell’Io e possibilità di vita sociale nella risoluzione del
conflitto
edipico
grazie
all’identificazione
con
il
costituito,
Lacan
attinge
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quell’acquisizione e quella possibilità alla scissione stessa: la personalità non sarebbe altro
che la «capacità di sussistere a fronte di ciò che fa di noi soggetti scissi» (p. 273). Il
secondo articolo rinforza l’immagine del pensiero di Lacan come eretico rispetto alla
metapsicologia freudiana sostenendo la derivazione sua, e in particolare di quel suo
concetto di soggetto, dall’interpretazione data da Kojève, nei seminari che tenne presso
l’École pratique des Hautes Etudes, tra il 1933 e il 1939, delle capitali pagine della
Fenomenologia dello spirito di Hegel sulla dialettica servo-padrone.
Come è noto, secondo Hegel l’individuo si riconosce come soggetto ottenendo di essere
riconosciuto da un altro individuo come superiore attraverso una lotta che vede vincente chi
l’affronta avendo sviluppato la capacità di “essere per la morte”, e avendo così superato il
terrore di perdere nella lotta la vita elevandosi oltre l’istinto animale di autoconservazione.
Nella sua monografia del 1994 su Kojève, Shadia Drury (p. 17) sostiene che la specificità
dell’interpretazione kojèviana di Hegel risiede nel non considerare che l’esito di questa
lotta nella costituzione delle due figure del padrone e del servo rappresenta, secondo Hegel,
solo un momento di una storia che procede verso un fine di reciproco riconoscimento e, per
contro, nel sottolineare che «l’umanità dell’uomo è intimamente legata a quell’atto di
conquista privo di precedenti che ha inizio con il tentativo di un uomo di rendere un altro
schiavo e di ridurlo a una cosa da usare per i propri propositi e la propria soddisfazione»
(p.18); e ciò perché, appunto, quell’umanità starebbe nella capacità di “essere per la morte”
che eleva oltre l’animalità dell’istinto di autoconservazione e produce quell’atto.
Conseguentemente, per Kojève, lo svolgimento della storia non consiste nel superamento
della relazione servo-padrone, ma nel divenire il servo egli stesso padrone, ovvero
nell’acquisire anch’egli la capacità di “essere per la morte”.
Il carattere eretico rispetto alla metapsicologia freudiana del pensiero di Lacan
discenderebbe dunque dal suo aver fatto proprio quest’insegnamento di Kojève e
dell’averlo fatto valere nella propria concettualizzazione del trattamento analitico e del
soggetto.
L’ultimo articolo della terza sezione del numero del Journal qui recensito viene svolto in
quelli della sua seconda sezione che, affrontando sotto varie prospettive i temi del transfert
e del controtranfert, riprendono l’attenzione posta dalla scuola di Budapest sul ruolo svolto
dalle «capacità integrative del Sé» del paziente nella relazione analitica; mentre i primi due
vengono svolti in quelli della prima sezione tutta centrata sul pensiero di S. Žižek, in base
all’assunto che questi non solo avrebbe messo adeguatamente in luce la derivazione di
Lacan dall’interpretazione kojèviana di Hegel (il suo essere «Hegeljevian»), ma avrebbe
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altresì raccordato quell’interpretazione alla concettualizzazione freudiana dell’istinto di
morte. Ne Il soggetto scabroso, Žižek legge infatti la descrizione hegeliana della dialettica
servo-padrone, e più specificamente il momento in cui i due suoi protagonisti, non
essendosi ancora definiti in quei due ruoli, si confrontano con il nulla, come il momento del
confronto con la pulsione di morte: questa sorgerebbe in esso e si esprimerebbe in un
fantasma senza forma oppure con la non-forma del corpo spezzettato. Ne trae una filosofia
della politica da porre al servizio del cambiamento, della dissoluzione della società
esistente in favore di una nella quale abbiano diritto di vita e di espressione le tante forme
del figlio bastardo; non solo il Journal, ma tutte le odierne presenze proletarie.
Si realizza nel pensiero di Žižek una complessa concatenazione tra Hegel, Freud, Kojève,
Lacan che giunge arditamente ad includere Marx. Ciò può suscitare l’impressione
derealizzante di trovarsi di fronte a un ritorno fuori tempo, sia pur in termini assai più
sofisticati, di Marcuse e del freudo-marxismo: stante la sostanziale identità di Eros e
Tanatos e il loro servirsi a vicenda nella metapsicologia freudiana, non cambia di molto
affidare il riscatto di quello che fu chiamato proletariato all’uno o all’altro. Né può essere
tenuto in poco conto il fatto che l’interpretazione kojeviana di Hegel, ripresa nella
valorizzazione che Žižek fa dell’interpretazione lacaniana di Freud, è stata una delle
maggiori fonti di ispirazione di L. Strauss e della destra neoconservatrice americana (Drury
2005; Armando 2005).
Nel terzo articolo della prima sezione, Sergio Benvenuto, ha presente quanto sopra e
prende le distanze dal pensiero di Žižek. Egli dichiara infatti la sua poca simpatia per il
freudo-marxismo in genere, e specificamente per la riedizione fattane da Žižek,
sostenendola con tre motivazioni. In primo luogo, quella riedizione partecipa della fede in
un ideale rivoluzionario, è un’ideologia e va rifiutata per gli stessi motivi «che giustamente
portano Žižek a rifiutare le ideologie, cercando esse di dare un significato alla sofferenza e
alla storia» (pp. 94-95). In secondo luogo, quella riedizione non tiene conto della critica che
già Freud in Il futuro di un’illusione aveva rivolto al Comunismo e alla Rivoluzione
sovietica, e perciò al Marxismo, imputando loro di obbedire, al pari delle religioni,
all’illusione. In terzo luogo, l’ideale rivoluzionario di Žižek sottende la convinzione di una
«esclusione attiva» nei confronti dei figli bastardi dei quali cerca il riscatto, laddove quella
che pesa su di loro è un «esclusione passiva», risalente cioè non all’azione di altri cui
sarebbe possibile opporsi, ma alla condizione umana: è invalsa oggi, scrive Benvenuto,
l’idea dell’innocenza di Edipo e della colpevolezza di Laio e di Giocasta, ma il Complesso
di Edipo è terribile perché dice «che ogni soggetto deve alla fin fine riconoscere – sia
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nell’analisi che nella vita – (…) un’evidenza semplice e terribile: che ogni essere umano è
fortuito, che egli o ella non hanno alcun diritto ad essere nati» (p. 95).
La presa di distanza da Žižek di quello che è non solo uno degli Editors del Journal, ma
anche il suo ideatore, significa l’intenzione del Journal stesso di procedere nel suo
cammino nomadico alla ricerca di una concezione del soggetto eretica a fronte di quella
freudiana e in grado di fondare l’identità dell’escluso, del figlio bastardo, e il suo diritto di
appartenenza alla comunità umana. Tuttavia le parole sopra citate, nel significare tale
intenzione, sembrano proiettare un’ombra su quel cammino
5. Per stabilire fino a che punto Benvenuto si spinga nella sua presa di distanza da Žižek,
bisognerebbe sapere quanta dose d’ironia è contenuta nel fatto che egli, nell’accingersi a
criticarlo, gli rende l’onore delle armi paragonando la sua scrittura alla musica rock, funk e
rap (p. 68). Non manca comunque di asserire che il maggior apprezzamento che si possa
manifestare a un autore sta, non essendo del tutto d’accordo con lui, nel mostrargli tanto
interesse da argomentargli contro (p. 69). E’ dunque un maggior apprezzamento quello che
io ora vorrei manifestare al Journal dicendo brevemente di qualche mia perplessità.
Come ho accennato, nello scritto programmatico del 2009, Benvenuto, dopo avere
affermato il proposito del Journal di scegliere gli articoli da ospitare non in base ad
ascendenze, in particolare all’ascendenza al pensiero di Freud e alle sue derivazioni, bensì
in base alla loro qualità, chiarisce che per «qualità» intende la capacità propria di una certa
arte, quella, ad esempio, di Cézanne, di impressionare, di accendere una «scintilla
metafisica», di strapparci «dal rassicurante previsto», di proporci «l’inattuale», di
permetterci la «scoperta squilibrante di altre forme possibili»; e, aggiunge, di mostrarci il
volto del «terrificante». L’aggiunta, corsivata, viene improvvisa, senza soluzione di
continuità. L’identità che pone tra inattuale e terrificante sembrerebbe perciò immotivata.
Posto che viene portata, come esempio dell’arte che propone l’inattuale e il possibile,
quella di Cézanne, chiunque ne abbia fruito può restare perplesso di fronte all’affermazione
di quell’identità e scorgervi un’incongruenza.
L’incongruenza si spiega con il fatto che l’identità dell’inattuale e del possibile con il
terrificante è immediatamente desunta dalla metapsicologia freudiana, e specificamente
dallo scritto del 1919 Das Unhemliche, citato nel contesto, in cui Freud cercò di risolvere
l’impedimento che una certa arte opponeva alla teorizzazione che veniva facendo della
coazione a ripetere e dell’istinto di morte (Armando 2009).
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Ciò porterebbe a cercare le radici profonde della contraddizione di Freud accennatasi
nell’avere egli usato, per significare la propria teoria della cura dell’individuo e della
società, una parola che significa malattia e manifestataglisi quando si trovò ad affrontare il
problema della convenienza o meno di autorizzare i non medici alla pratica della
psicoanalisi. Questa ricerca non può però essere qui svolta; deve bastarci avere un poco
precisato i contorni dell’ombra che, nel prendere atto della critica che uno degli Editors del
Journal, e suo riconosciuto ideatore, rivolge a Žižek, era parsa affacciarsi sul cammino del
Journal stesso verso la definizione di un’eresia che riconoscesse identità e diritto di
cittadinanza alla propria rivendicata realtà di figlio bastardo e a quella di tutti i figli bastardi
dell’oggi, eredi di quello che fu chiamato proletariato: potrebbero essere, quei contorni,
quelli del dramma che quel figlio porta e vive in sé per il suo rifiuto di dismettere il sogno
di scoprirsi un giorno figlio prediletto.
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