In nome del padre

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In nome del padre
Gianluca Nicoletti
Una notte ho sognato
che parlavi
Così ho imparato a fare il padre
di mio figlio autistico
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Pensare che io un figlio nemmeno lo volevo. Fui costretto a concepire i miei due con un out out che non ammetteva repliche. M’illudevo che comunque sarebbe passato
del tempo, invece niente: entrambi concepiti al primo colpo. Non mi sono mai visto nelle vesti di padre, anche se
mi era capitato più volte di sentirmi dire: «Oh, saresti un
padre meraviglioso!». La dichiarazione mi faceva sempre
meditare la fuga, perché di solito veniva da un’amica o fidanzata. Per essere battezzato come ipotetico padre ideale
bastava che io rilanciassi il pallone a un gruppo di ragazzini che l’aveva mandato fuori campo, o avessi tranquillizzato un infante caduto dalla sedia che urlava a squarciagola o, peggio ancora, fingessi affabilità e simpatia verso un
suo cugino, nipote o fratellino minore che per qualche disgraziata fatalità mi ero trovato fra i piedi.
Per questa ragione avevo predisposto un meccanismo di
autodistruzione di ogni cascame amoroso: scattava verso
qualsiasi femmina che accennasse, sotto tutte le metafore
possibili, alla sua vaghezza di esser trasformata da oggetto passionale a fattrice della mia progenie.
Ora che Tommy mi agguanta ogni pensiero, immagino
quanto fosse inutile combattere contro il mio fato. Pensavo
di essere invincibile e corazzato verso ogni rischio di farmi divorare da un figlio, ma Tommy mi ha colpito preciso
dove ero più indifeso, e mi ha vinto.
Me lo chiedo spesso il perché della mia capitolazione.
Se tutto con lui fosse andato come con il maggiore, Filippo, ora non starei qui a scrivere ma, invece che incollarmi
a una tastiera, farei esercizi di doppio salto mortale. Un figlio in condizioni normali, nel tempo, diventa sempre più
un estraneo con il tuo dna. Puoi solo augurarti che impari a essere il più possibile autonomo, che sia il più possibile felice, che si ricordi nel tempo che tu lo hai portato a
cavalluccio. Il figlio autistico, invece di staccarsi, crescendo ti si cementifica addosso. Questa è la fase più delicata
della perdita del proprio diritto a essere felici; riesco an-
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cora a viverla abbastanza lucidamente, anche se avverto
i sintomi della simbiosi irreversibile con ogni sua quotidiana ritualità.
Il punto di caduta del padre che accetta il figlio non conforme alle sue attese corrisponde al momento in cui scopre
che quel figlio è diventato la rappresentazione culminante
di ogni sua aspettativa paterna: è il cobra che ti ipnotizza
prima di morderti. Non mi spiegherei altrimenti la totale e
incondizionata abnegazione che vedo nei molti altri genitori nelle mie condizioni. Il figlio incomunicante diventa il
loro unico idolo, crudele e allo stesso tempo generosissimo.
Spesso mi sono meravigliato della reticenza di padri e
madri a cercare vie alternative alla presenza perenne del
figliolo in ogni loro momento di vita. Quando lo affidano, a persone sicure e referenziate, spesso fanno comunque di tutto per restare nei paraggi, o cercano scuse per
riaffacciarsi a vedere se tutto proceda senza problemi, che
si tratti di un campo estivo o di una qualsiasi attività che
coinvolga altre persone. È difficile spiegare questo desiderio progressivo di isolarsi in un mondo parallelo plasmato a esatta misura del figlio autistico. È come se lo aiutassimo a costruire il bozzolo in cui resteremo imprigionati
con lui, ma quando di noi non resterà più nulla da divorare, lui di che si nutrirà?
Vedo soprattutto genitori con vite articolate su ogni desiderio, mania, ritualità del figlio. Sta accadendo anche per
me. Nonostante mi sforzi in tutte le maniere per inventare un sistema di affrancamento da Tommy, la mia vita è
oramai condizionata quasi totalmente da lui. In questo fatalismo irreversibile pesa di certo l’assenza di alternative
organizzate alla militanza individuale del genitore. Inutile immaginarle: non ci sono, se non con interventi sporadici e discontinui. Gli operatori che paghiamo i fine settimana si riposano, quando avremmo bisogno di tempo per
noi i centri diurni sono chiusi, la sera nessuno è disponibile a darci il cambio perché avremmo voglia di futilità vita-
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li, come per me sarebbe bere un Margarita in compagnia
invece che fare la sentinella al mio Polifemo.
Poi è innegabile che questi ragazzi, anche se forse non tutti alla stessa maniera, emanano un’affettività così primordiale e intensa da indurci ad avvertirne la mancanza fisica quando sono lontani da noi. Ho spesso scritto in queste
pagine che mi ritengo comunque fortunato nel mio problema: conosco storie di genitori che hanno in casa un figlio
perennemente scatenato, cui sono costretti a fare indossare un casco perché non si faccia male battendo la testa contro il muro; un essere che sistematicamente distrugge ogni
oggetto si trovi a portata di mano, in grado di urlare tutta la notte, e per tutte le notti; a volte violento senza motivo apparente, capace di un’aggressività spaventosa per un
qualsiasi essere umano, che di solito nella sua vita non ha
occasione di provare il dolore e la mortificazione di essere
picchiato in maniera selvaggia.
Eppure i padri e le madri fanno di tutto per avere quell’individuo speciale sempre addosso, sono terrorizzati dall’idea
di doversene separare, è come se fosse per loro un figlio e
un fratello siamese allo stesso tempo. L’autistico diventa
così la clausola indissolubile di un contratto fatale, da noi
mai lucidamente sottoscritto, ma che che ci impone di dovercelo tenere accanto per ogni istante della vita.
Tommy mi allucina con la sua presenza ininterrotta, persino in ogni mio istante di lecita e sacrosanta fuga da lui e
dal pensiero di pensarlo. Io non sono mai stato un esempio
di virtù domestica, non ho mai pensato che la ricerca della mia individuale soddisfazione dovesse essere regolata
da patti, principi etici o morali oltre quelli che d’istinto mi
sentivo di dover seguire. Mi accorgo, però, che sto cominciando a rinunciare a troppe occasioni di spensieratezza e
curiosità e sono sempre più incline a convincere me stesso che è l’angustia che mi provoca Tommy a farmi recedere. Può essere che stia semplicemente invecchiando. Il mio
generoso figlio strampalato, in cambio di una totale dedi-
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zione, mi concede il pretesto che l’eutanasia sui pensieri
più malandrini proceda dalla mia eroica scelta di dedicare
a lui ogni energia, non dall’acquietamento del crepuscolo
che regala a ogni umano il trascorrere del tempo.