Furto di corrente, ecco come e quando scatta l`aggravante
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Furto di corrente, ecco come e quando scatta l`aggravante
Furto di corrente, ecco come e quando scatta l'aggravante La sentenza della Suprema Corte pubblicata il 22 febbraio 2017. Era stato condannato in primo e secondo grado per furto aggravato perché, al fine di trarne profitto e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, si impossessava dell'energia elettrica erogata dall'ENEL per un valore imprecisato, con il mezzo fraudolento consistito nell'allaccio abusivo alla rete elettrica ENEL mediante un cavo elettrico, che alimentava l'edificio adibito a scuola comunale, dallo stesso occupata. Non solo inutile, ma anche costoso è stato il tentativo effettuato dal ladro di corrente di ottenere una riduzione della pena in quanto la Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, con sentenza pubblicata in data 22 febbraio 2017 (Presidente: PALLA Relatore: CATENA Data Udienza: 23/01/2017) ha rigettato il ricorso condannandolo sia al pagamento delle spese processuali che ad una ulteriore somma in favore della Cassa delle Ammende. Secondo la pacifica giurisprudenza richiamata dalla Corte regolatrice "in tema di furto di energia elettrica costituisce mezzo fraudolento, e pertanto integra l'aggravante di cui all'art. 625 n. 2 cod. pen., l'allacciamento abusivo alla rete tramite sistemi quali un cavo volante, un cavo bipolare, ovvero qualsiasi modalità di allacciamento per la sottrazione dell'elettricità diretto alla rete di distribuzione, in quanto tale attività comporta il necessario danneggiamento, seppure marginale, per distacco dei fili conduttori". Sulla base di tale principio la Corte - accertato che il ricorrente aveva effettuato un allacciamento abusivo alla rete elettrica a mezzo di un cavo elettrico, con conseguente integrazione della contestata circostanza aggravante - ha dichiarato il ricorso inammissibile. Cassazione: urlare di notte è reato Nessuna depenalizzazione del reato di disturbo della quiete pubblica. La sentenza del 14 febbraio 2017.Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una ondata di depenalizzazioni che ha travolto molti reati, tale sorte non ha colpito, tuttavia, il reato di disturbo della quieta pubblica previsto dell'art. 659 del codice penale nonostante il principio di depenalizzazione di tale reato, fosse incluso nella legge delega n. 67 del 2014.Tale depenalizzazione, infatti, non ha trovato attuazione ad opera del legislatore delegato in quanto il decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8, emanato in attuazione della delega della menzionata legge, non include la contravvenzione di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone tra le fattispecie penali trasformate in illeciti amministrativi. Chiarito il quadro normativo vigente, la Corte di Cassazione Penale Sez. 3 con sentenza pubblicata il 14 febbraio 2017 (Presidente: CARCANO Relatore: ROSI - Data Udienza: 26/10/2016) ha confermato ad un "urlatore notturno" - riconosciuto il vizio della infermità parziale di mente - la pena inflitta dai giudici di merito di euro 110 di ammenda per avere, appunto in ora notturna ed in evidente stato di alterazione psico-fisica derivante dall'abuso di sostanze alcoliche, turbato il riposo delle persone urlando frasi e parole farneticanti, dapprima affacciato alla finestra della propria abitazione e poi in strada. Inutile è stato il ricorso proposto dall'urlatore notturno dinanzi alla Suprema Corte che ha rigettato, per le ragioni sopra esposte, il motivo con il quale si sosteneva l'avvenuta depenalizzazione del reato ed altrettanto inutile è stato il tentativo di farsi riconoscere la non punibilità prevista dall'art. 131 bis del codice penale per la particolare tenuità del fatto. La Suprema Corte - dopo aver premesso che il reato tutela la pubblica quiete e l'idoneità e l'incidenza delle condotte poste in essere ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone costituisce un accertamento di fatto che non può che essere rimesso all'apprezzamento del giudice di merito - ha evidenziato come la condotta del ricorrente si era sviluppata per un consistente arco temporale alle due di notte ed aveva comportato l'intervento di due pattuglie dei Carabinieri, per cui il giudice ha valutato la stessa certamente idonea a superare, per natura, intensità e collocazione cronologica, la normale tollerabilità e ad arrecare disturbo alla quiete di un numero indeterminato di persone. Inoltre è stata esclusa la sussistenza della causa di esclusione della punibilità della particolare tenuità del fatto, collegando tale giudizio proprio alla consistenza dell'allarme provocato nei vicini e all'intervento di due pattuglie, resosi necessario per riportare alla calma l'imputato e farlo rientrare nell'abitazione, con successivo piantonamento della stessa, con la conseguenza che la condotta del ricorrente era risultata, a parere del giudice di merito, "concretamente lesiva" del riposo alle persone. La critica al politico che fa scattare il reato di diffamazione Offesa all'onore di consiglieri comunali. La scriminante dell'esercizio del diritto di critica politica. La sentenza della Suprema Corte del 10.2.2017. Era stato condannato in primo e secondo grado del reato di diffamazione aggravata e al risarcimento dei danni un per avere offeso l'onore di tre consiglieri comunali, facendo affiggere per le strade principali di un Comune dei manifesti in cui detti consiglieri erano indicati come responsabili della sottrazione di 560 mila euro dal bilancio comunale per motivazioni addotte dai "cinque cavalieri della tavola ... rotonda" quali "problemi personali che possono essere compresi, ma non possono essere soddisfatti dall'amministrazione comunale ...". La Corte di Cassazione, Quinta sezione Penale, con sentenza pubblicata in data 10.2.2017 (Presidente: FUMO Relatore: CAPUTO Data Udienza: 23/11/2016) se da un lato ha annullato la sentenza agli effetti penali per intervenuta prescrizione del reato dall'altro ha, invece, confermato gli effetti civili della condanna in quanto non ha riconosciuto la sussistenza della scriminante dell'esercizio del diritto di critica politica. In particolare, la Corte, ha richiamato la giurisprudenza a tenore della quale l'esercizio di tale diritto può rendere non punibili espressioni anche aspre e giudizi di per sé ingiuriosi, tesi a stigmatizzare comportamenti realmente tenuti da un personaggio pubblico, ma non può scriminare la falsa attribuzione di una condotta scorretta, utilizzata come fondamento per l'esposizione a critica del personaggio stesso: dunque, la critica politica - che nell'ambito della polemica fra contrapposti schieramenti può anche tradursi in valutazioni e commenti tipicamente "di parte", ossia non obiettivi - deve pur sempre fondarsi sull'attribuzione di fatti veri, in quanto nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che ne sia investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica, quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti non vera. Alla luce di tali principi, la Suprema Corte ha evidenziato come nella vicenda in esame la Corte distrettuale ha dato conto della falsa attribuzione alle persone offese di una condotta scorretta, ricostruendo il significato offensivo delle espressioni riportate nei manifesti non già singolarmente considerate, ma collocate nel «complesso dell'informazione rappresentato dal testo»: in tale corretta prospettiva ricostruttiva dell'obbiettivo significato del fatto comunicativo, il riferimento alla "sottrazione" della cospicua somma dal bilancio comunale è posto in correlazione, nei manifesti fatti affiggere dall'imputato nelle strade principali del Comune, a "problemi personali" dei consiglieri comunali, a loro volta indicati come "cavalieri della tavola ... rotonda". Nei termini indicati, conclude la Corte, "la deduzione difensiva circa la riferibilità del contenuto dei manifesti ad un'operazione di storno di bilancio dà corpo, al più, ad un'interpretazione soggettiva di detto significato, laddove la sua valenza lesiva della reputazione delle persone offese fondata su una prospettazione dei fatti non vera è stata congruamente argomentata valorizzando il collegamento testuale della sottrazione all'esigenza di far fronte a "problemi personali" dei consiglieri comunali, rappresentati come partecipi alla "tavola ... rotonda" costituita, all'evidenza, da risorse pubbliche". Senza contratto è il dipendente che paga la fornitura La Cassazione individua nel singolo funzionario che ha permesso la consegna dei beni il responsabile tenuto a pagare il prezzo in favore del privato. Una società inviava ad un Comune veneto del software, in forza di una deliberazione adottata dalla Giunta che poi non veniva più ratificata dal Consiglio, che l’Amministrazione utilizzava nell’ambito della informatizzazione del servizio cimiteriale. Non ottenuto il pagamento reclamato, la società adiva il Tribunale civile che nel 2002 rigettava la domanda di ingiustificato arricchimento motivando con il difetto del requisito della sussidiarietà, in quanto la ditta avrebbe potuto esercitare l'azione di rivendicazione dei materiali consegnati. In sede di gravame la Corte di appello ribaltava in parte la decisione di primo grado rilevando che, pur in assenza di un valido contratto, l'Amministrazione comunale aveva tratto un vantaggio dall'utilizzazione dei materiali e programmi ricevuti, traendo un arricchimento, da farsi valere con una domanda che non trovava corrispondenza in alcuna altra azione esperibile. Ciò costringeva il Comune a proporre ricorso per cassazione, che è stato accolto con sentenza n. 80 del 4 gennaio 2017 resa dalla I sezione civile della Suprema Corte, la quale ha osservato che il tema della sussidiarietà dell'azione di indebito arricchimento, proposto dell'ente ricorrente sotto il profilo della possibilità di rivendicare i beni a suo tempo consegnati dev’essere esaminato alla stregua della normativa, applicabile ratione temporis, di cui all'art. 23 del D.L. n. 66 del 1989, convertito nella L. n. 144 del 1989 ed oggi rifluito nell'art. 191 del D.L.vo. n. 267 del 2000 (c.d. TUEL), che così recita: "Nel caso in cui vi sia stata l'acquisizione di beni o servizi in violazione dell'obbligo indicato nel comma 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge tra il privato fornitore e l'amministratore o il funzionario che abbiano consentita la fornitura. Detto effetto si estende per le esecuzioni reiterate o continuative a tutti coloro che abbiano reso possibili le singole prestazioni". La Corte, con la sentenza in commento ha, quindi, ribadito il contenuto e la finalità della normativa in questione, la quale ha previsto un innovativo sistema di imputazione alla sfera giuridica diretta e personale dell'amministratore o funzionario degli effetti dell'attività contrattuale dallo stesso condotta in violazione delle regole contabili in merito alla gestione degli enti locali, comportante relativamente ai beni ed ai servizi acquisiti, una vera e propria frattura o scissione ope legis del rapporto di immedesimazione organica tra i suddetti agenti e la Pubblica Amministrazione, con conseguente esclusione della riferibilità a quest'ultima delle iniziative adottate al di fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme ad evidenza pubblica. La normativa in esame ha poi comportato la sostituzione del pregresso regime di nullità del contratto per effetto delle norme regolataci della sua formazione con quello della sua piena validità ed efficacia tra agente in proprio e fornitore (del quale sotto questo profilo viene incrementata la tutela) per via di una sorta di novazione soggettiva (di fonte normativa) dell'originario rapporto obbligatorio che avrebbe dovuto intercorrere con l'ente pubblico di cui l'agente è organo, con l'introduzione di una nuova disciplina del rapporto tra gli enti medesimi e i soggetti agenti, nonché tra questi ultimi e i privati contraenti improntata a schemi privatistici. E' stato quindi valorizzato, sia ai fini della controprestazione, che per ogni altro effetto di legge, il reale incontro di volontà tra il privato contraente (che nell'accettare di eseguire l'incarico conferitogli contra legem non possa ignorare che il rapporto contrattuale deve intendersi intercorso con il funzionario o l'amministratore ed assumere, quindi, volontariamente il rischio conseguente alla definitiva individuazione della parte contraente e patrimonialmente responsabile) e quest'ultimo, che, nell'attribuirlo o nel consentirlo, accetta, per converso, la propria responsabilità personale diretta verso il terzo contraente per gli impegni assunti al di fuori od in violazione del procedimento contabile previsto dalla legge. L'interpretazione della disposizione sopra menzionata, in relazione al senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse (art. 12 preleggi) e alla finalità della normativa, indiscutibilmente volta a prevenire il formarsi di debiti fuori bilancio a carico delle Amministrazioni, secondo i giudici di legittimità esclude la necessità di un ruolo attivo in capo al funzionario. Infatti, l'uso del verbo "consentire" descrive il comportamento di chi, trovandosi privo del potere decisionale sul conferimento dell'incarico o l'acquisizione del bene, nell'esercizio delle sue funzioni permetta che avvenga l'acquisizione della prestazione o della fornitura, senza opporvisi per quanto dovuto nei limiti delle sue attribuzioni. Il disposto normativo è volto a far sì che un contratto non perfezionatosi secondo legge non pervenga alla fase esecutiva. A questo fine viene responsabilizzato l'amministratore o il funzionario che, chiamato ad operare, a cagione del suo ufficio, per la conclusione e l'attuazione del contratto, cooperi, lasciando che la prestazione venga eseguita. In definitiva, secondo la sentenza n. 80, l'assenza di qualsiasi vincolo contrattuale e di una previsione di spesa rende la prestazione comunque espletata dalla ditta privata assolutamente avulsa dal paradigma sopra evidenziato, e non può in alcun modo - essendo prevista la responsabilità del funzionario o dell'amministratore che la consentì - rendere predicabile l'esperimento dell'azione di indebito arricchimento nei confronti del Comune. Da qui l’accoglimento del ricorso. Allaccio abusivo alla rete idrica, il reato é aggravato I principi sanciti dalla Quinta Sezione nella sentenza n. 42337 del 6.10.2016. "l'impossessamento abusivo dell'acqua convogliata nelle condutture dell'acquedotto municipale integra il reato di furto aggravato e non la violazione amministrativa prevista dall'art.23 del D.Lgs. 11 maggio 1999, n.152, che si riferisce alle sole acque pubbliche, ossia ai flussi non ancora convogliati in invasi o cisterne". È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione Penale Sez. 5 nella sentenza Num. 42337 pubblicata il 6.10.2016 (Presidente: NAPPI - Data Udienza: 20/05/2016) con la quale, la Corte ha confermato la condanna per furto aggravato inflitta ad un uomo per essersi impossessato di una quantità di acqua potabile tratta dalla rete idrica di un comune, con uso di mezzo fraudolento (attraverso l'allacciamento realizzato con rubinetti nel giardino di pertinenza dell'abitazione). Nella sentenza la Suprema Corte ha, altresì, evidenziato come vada applicata anche l'aggravante prevista dall'art. 625 n.2 del codice penale atteso che l'allacciamento in questione (come stabilito con sentenza Sez.IV n.2835 del 20.11.99 in tema di furto di energia elettrica con l'allacciamento abusivo alla rete tramite un cavo volante) costituisce mezzo fraudolento e pertanto integra l'aggravante. Nuove regole per i call center Le novità introdotte dalla legge di bilancio. Nell'ambito dell’ultima legge di bilancio sono state approvate nuove regole per il funzionamento dei call center. Dal 1° gennaio 2017 quando un utente effettua o riceve una chiamata da un call center deve essere informato preliminarmente riguardo al Paese in cui è fisicamente collocato l’operatore che risponde. Dal 1° aprile 2017, l’operatore del call center collocato in un Paese extra UE deve inoltre offrire subito la possibilità di richiedere che il servizio sia reso da un operatore collocato nel territorio nazionale o nella UE, con immediato trasferimento nel corso della medesima chiamata. Per tutti gli operatori economici che svolgono attività di call center diventa inoltre obbligatorio iscriversi al Registro degli operatori di comunicazione tenuto dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, alla quale dovranno essere fornite tutte le numerazioni telefoniche messe a disposizioni del pubblico e utilizzate per i servizi di call center. Per chi decide di localizzare, anche mediante affidamento a terzi, l’attività di call center in un Paese extra UE, diventa obbligatorio darne comunicazione almeno trenta giorni prima del trasferimento alle seguenti amministrazioni: Ministero del lavoro e delle politiche sociali nonché Ispettorato nazionale del lavoro Ministero dello Sviluppo Economico Garante per la protezione dei dati personali. Coloro che hanno localizzato l’attività di call center al di fuori del territorio nazionale e dell’Unione europea prima del 1° gennaio 2017 devono procedere alle comunicazioni entro il 2 marzo 2017. Un'ulteriore novità è la responsabilità solidale tra committente e gestore del call center: chi affida il servizio ad un call center esterno è responsabile in solido con il soggetto gestore. Le sanzioni previste arrivano fino a 50 mila euro per ogni giornata di violazione e a 150 mila per ciascuna comunicazione omessa o tardiva. Fonte: Ministero dello sviluppo economico Privacy: il risarcimento per gli atti pubblicati on line. (La pubblicazione sull'Albo Pretorio on line) La pubblicazione sull'Albo Pretorio on line. Il tempo non perentorio di affissione on line. I dati sensibili e la risarcibilità dei danni non patrimoniali. La sentenza della Cassazione del 13.10.2016.La Corte di Cassazione Civile, Sez. 3 con sentenza n. 20615 pubblicata il 13.10.2016 ha accolto il ricorso di un Comune ed annullato la sentenza che aveva condannato l'Ente Locale al risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti dalla violazione del diritto alla riservatezza di tre persone. La sentenza è interessante in quanto analizza la problematica afferente la contemperazione tra Privacy e Trasparenza ed in particolare si sofferma dapprima sulle tempistiche di pubblicazione on line sull'Albo Pretorio degli atti dei Comuni, sui dati che consentono l'identificazione della persona, nonché sui dati che rilevano lo stato di salute ed infine sui presupposti per la risarcibilità del danno. Ma vediamo i fatti. Nel maggio del 2009, tre persone fecero causa al Comune, chiedendo di essere risarciti dei danni subiti, due di loro a seguito di un sinistro stradale, mentre la terza persona, una signora, in conseguenza di una caduta in un locale di proprietà dell'ente territoriale. Per costituirsi in giudicio, l'Ente Locale ritualmente emette una delibera di giunta con la quale conferisce incarico ad un avvocato di difendere l'Ente. Nella vicenda in esame, quindi, il Comune procedeva, come di consueto, ad adottare due delibere di giunta che, in ossequio al Testo Unico degli Enti Locali (D.lgs n. 267/2000) venivano pubblicate sul sito internet istituzionale nella sezione "Albo Pretorio", il cui contenuto, a detta degli attori e poi del Tribunale, violava il proprio diritto alla riservatezza. Non è dello stesso avviso la Suprema Corte che con la sentenza in esame ha annullato per tre motivi la condanna del Comune. In primo luogo la Corte evidenzia che la pubblicazione e la divulgazione di atti che determinino una diffusione di dati personali deve ritenersi lecita qualora prevista (come nella specie, poiché l'Amministrazione comunale non avrebbe potuto adempiere alla finalità dell'atto in modo diverso da quello attuato) da una norma di legge o di regolamento - mentre il termine previsto dall'art. 124 D.lgs 267/2000 (pubblicazione nell'albo pretorio per 15 giorni consecutivi) non può ritenersi di natura perentoria (come indirettamente confermato dalle linee guida contenute nel Decreto legislativo 33/2013 che, disciplinando la pubblicità per finalità di trasparenza, ne ha previsto la durata in 5 anni). In secondo luogo, il contenuto delle due delibere comunali - con le quali vennero, rispettivamente, riportati il nome e cognome degli odierni resistenti, oltre alla targa e al modello di autovettura di proprietà di uno di essi, ed i dati anagrafici della signora caduta nell'atrio comunale, integrati dall'annotazione della lesione al ginocchio destro riportata a seguito della caduta nell'atrio comunale - non rende il soggetto "identificabile" se non associato ad altri elementi identificativi (data e luogo di nascita, dimora, residenza, domicilio, codice fiscale, attività lavorativa) e se calato in un contesto sociale ampio (nella vicenda in esame si tratta di un Comune con circa 83 mila abitanti). Ad avviso della Corte, in tali casi "La identificazione dei soggetti menzionati nella delibera avrebbe potuto, pertanto, conseguire soltanto ad operazioni di ricerca, anche attraverso banche dati in possesso di terzi, comportanti un dispendio di attività, di energie e di spesa del tutto sproporzionato rispetto all'interesse all'identificazione di tre soggetti coinvolti in un banale incidente d'auto ed in una altrettanto banale caduta in un locale do proprietà pubblica, non potendosi ragionevolmente sostenere che i dati contenuti nelle delibere comportassero ipso facto una automatica e certa "identificabilità" rilevante". A questo punto, si potrebbe porre il problema della pubblicazione on line da parte dei comuni piccoli, dove non servono di certo ricerche per capire chi è la persona in questione. Ma tale problematica trova soluzione analizzando l'ultima parte della sentenza che identifica puntualmente quali sono i dati "idonei a svelare lo stato di salute" e i presupposti per la risarcibilità del danno. Si legge nella sentenza che in che nessun dato realmente sensibile può dirsi, colpevolmente ostentato di una sua rilevanza a fini risarcitori: nè quello della mera indicazione dei nominativi dei danneggiati e del tipo di autovettura posseduta, nè quello relativo ad un banale infortunio al ginocchio, che non rientra a nessun titolo tra le notizie "idonee a rivelare lo stato di salute" del danneggiato (tali essendo per converso, quelle destinate a disvelare patologie, terapie, anamnesi familiari, accertamenti diagnostici). Da ultimo, ma non per importanza, la Suprema Corte, precisa come "nessun automatismo è lecito inferire tra il disposto dell'art. 4 del Codice della Privacy e la predicabilità di un danno non patrimoniale, fattispecie cui le sezioni unite di questa Corte hanno riservato un ampia e approfondita disamina, affermando il principio della irrisarcibilità di quelli che non superino una determinata soglia di serietà e gravità (con esclusione dei danni cd. bagattellari, e di quelli rientranti una normale ed auspicabile dimensione di tollerabilità dovuta alla civile convivenza, come imposta dal contemperamento tra i principi costituzionali di solidarietà e tolleranza e quelli posti a presidio della dignità libertà e salute dell'individuo), e comunque della irrisarcibilità di quelli che non risultino puntualmente allegati e provati (allegazione e prova, nella specie, del tutto assente), come ancora di recente affermato da questa Corte regolatrice (Cass. 15429 del 2014)." La firma a stampatello su atti pubblici o documenti privati è legittima Cos'è la firma La sottoscrizione in senso tradizionale è considerata l’insieme dei segni grafici ed autografi idonei a riferire un determinato documento ad un distinto soggetto, il quale, mediante l’apposizione di tali segni grafici, se ne assume la paternità. Si tratta perciò di un segno autografo mediante il quale il soggetto fa proprio il contenuto di un testo. Nel nostro contesto sociale risulta preferibile l’uso della firma in carattere corsivo per le sue caratteristiche di continuità nella scrittura, ma nessuna norma dispone di come debbano essere precisamente rappresentati i caratteri autografi della firma o della sottoscrizione rilevante nella redazione di atti pubblici o di documenti privati. Come rileva in un'ampia e articolata disamina sull'argomento il Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2817/2007, delle caratteristiche della firma si occupa la dottrina. La quale ritiene che la sottoscrizione svolge tre funzioni essenziali: a) indicativa (mira a individuare l’autore del documento), b) dichiarativa (comporta l’assunzione di paternità dell’atto) e c) probatoria (definisce l’autenticità del documento). Per assolvere a queste tre funzioni, alla sottoscrizione sono spesso associate tre caratteristiche essenziali: l’autografia, la nominatività e la leggibilità. In particolare il carattere dell’autografia importa che debbano essere usati mezzi i quali rivelino il movimento grafico della mano (anche a caratteri stampatelli), con la sola esclusione di mezzi meccanici di qualsiasi tipo. Stampatello e corsivo La presunta inidoneità dello stampatello ad assolvere alle funzioni proprie della firma autografa è talvolta collegata alle particolarità tipiche di tale grafia che, secondo la definizione comune, è un tipo di scrittura a caratteri distanziati, per lo più maiuscoli, che imita il carattere della stampa. Invece, il carattere corsivo sembra riflettere maggiormente quello che è l’ideale della sottoscrizione autografa, ovvero la scritturazione 'senza soluzione di continuità', la quale sarebbe maggiormente idonea, per sue caratteristiche, a riflettere la personalità del sottoscrittore, garantendo, al tempo stesso, la verifica dell’autenticità del segno grafico e la sua effettiva paternità. In tale prospettiva, il carattere stampatello risulterebbe, per sua natura, impersonale e asettico e pertanto, in ultima istanza, meno idoneo a comportare l’assunzione della paternità di un documento. Questa considerazione comunque trascende le motivazioni giuridiche per allinearsi a valutazioni sviluppate dalla scienza grafologica, diretta, prevalentemente, a stabilire le relazioni tra la scrittura e la personalità dell’autore. E anche in tale contesto non è escluso che il carattere stampatello possa in concreto rivelarsi molto più personale e caratterizzato di numerose grafie effettuate con lo stile corsivo. La preferenza non è d'obbligo Si può affermare, forse, che, in linea tendenziale, esista una preferenza per la redazione della firma in carattere corsivo, particolarmente evidente quando sono previsti appositi meccanismi di verifica della sottoscrizione, rapportata a modelli predeterminati (i campioni o “specimen” della firma degli assegni, delle carte di credito; la firma depositata del notaio e di altri pubblici ufficiali). Ma, anche in tali casi, la necessità della firma in carattere corsivo deriva, essenzialmente, dalla corrispondenza con il modello predeterminato e non dalla inidoneità, in sé, del carattere stampatello. Perciò, conferma il Consiglio di Stato nella citata sentenza, in mancanza di apposite norme che definiscano i requisiti stilistici della sottoscrizione, si deve prendere atto che l’unico dato certo è che, a parte i peculiari caratteri assunti ora dalla “firma elettronica”, in apposito contesto normativo, la firma si caratterizza per l’autografia della sua formazione e dalla sua attitudine ad evidenziare un qualche elemento di identificazione, anche allo scopo di prevenire possibili abusi o vere e proprie falsificazioni. E dunque allo scopo - anche in materia elettorale, dove la disciplina si caratterizza per la netta prevalenza del principio di strumentalità delle forme -, può servire anche la firma a stampatello; con la sola esclusione dell’uso di mezzi meccanici di qualsiasi tipo, come timbri o stampa, che la renderebbero di fatto inidonea a svolgere le già viste funzione (indicativa, dichiarativa e probatoria). (Tratto dalla Rivista Lo Stato Civile)