Appello. Interventi di chirurgia plastica e lesioni

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Appello. Interventi di chirurgia plastica e lesioni
Appello. Interventi di chirurgia plastica
e lesioni personali
Quesito n. 8
Tizia è una giovane donna che decide di rivolgersi a Caio, chirurgo estetico, per
sottoporsi ad un intervento di mastoplastica additiva.
Qualche tempo dopo l’operazione, però, quando i postumi operatori vengono
smaltiti, Tizia si rende conto che le protesi innestate erano più grandi di quelle
richieste e ciò aveva causato una asimmetria delle mammelle e la nascita di alcune
protuberanze improprie sul seno che rendevano evidente l’intervento chirurgico.
Dinanzi a questa situazione, la donna si rivolge ad un altro medico che le conferma
l’utilizzo di tecniche errate da parte di Caio e certifica il tutto con una relazione
che evidenzia anche i gravi inestetismi procurati alla paziente.
Tizia, a questo punto, agisce in sede penale contro Caio per il reato di lesioni
colpose.
All’esito del dibattimento il Giudice Monocratico, ritenendo sussistenti gli estremi del
delitto previsto dall’art. 590 c.p., condanna il chirurgo, soggetto ancora incensurato, alla
pena di anni 1 e mesi 6 di reclusione con il beneficio della sospensione condizionale.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga l’atto di appello avverso la
sentenza di primo grado.
Istituti rilevanti
Alla luce della dinamica degli eventi descritti nella traccia si rende opportuna una breve analisi dei requisiti necessari per la sussistenza del reato di lesioni colpose.
Commette il delitto in questione chiunque cagiona ad alcuno, per colpa, una
lesione personale dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente.
Nel nostro ordinamento, come si evince dal combinato disposto degli artt.
582 e 583 c.p., sono previsti quattro differenti tipi di lesioni personali: lievissime (sono quelle da cui deriva alla vittima una malattia di durata non superiore ai venti giorni), lievi (sono quelle dalle quali deriva alla vittima una malattia dalla durata compresa tra i 21 ed i 40 giorni), gravi (sono quelle da cui deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, una malattia o una incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per più di 40 gior-
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Quesito n. 8
ni ovvero l’indebolimento permanente di un senso o di un organo), gravissime
(sono quelle da cui deriva una malattia certamente o probabilmente insanabile, la perdita di un senso, la perdita di un arto o una mutilazione che lo renda
inservibile, la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, una
permanente e grave difficoltà della favella ovvero la deformazione o lo sfregio
permanente del viso).
In merito all’elemento materiale del reato è opportuno specificare che esso
non deve consistere necessariamente in un’azione violenta: se infatti le lesioni sono normalmente provocate con atti di violenza fisica o morale, la violenza può anche mancare del tutto come ad esempio nei casi di malattie cagionate
tramite esposizione al freddo o privazione di cibo; la lesione del resto può essere cagionata anche mediante omissione.
Sempre con riferimento all’elemento materiale è importante definire il concetto di malattia.
Al riguardo va detto che la dottrina ha sentito la necessità di creare una definizione di «malattia» che prescindesse da una terminologia strettamente medica.
Tra le varie tesi appare preferibile quella elaborata dall’ANTOLISEI che definisce la malattia come un processo patologico, acuto o cronico, localizzato o diffuso, che determina una apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo.
Sulla base di questa definizione non si considerano lesioni, perché non costituiscono malattia, la contusione, l’escoriazione, la graffiatura e simili, in quanto non importano disturbi funzionali.
Nella stessa ottica, secondo la Cassazione, il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità, a cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione, a breve o lunga scadenza, verso un esito
che potrà essere la guarigione perfetta, l’adattamento a nuove condizioni di vita
oppure la morte. Ne deriva che non costituiscono malattia, e quindi non possono integrare il reato di lesioni personali, le alterazioni anatomiche, a cui non si
accompagni una riduzione apprezzabile della funzionalità.
Il momento consumativo del reato coincide con il concreto verificarsi della malattia.
Il tentativo è, in dottrina, quasi univocamente ammesso (contra, però, IANNIBELLI).
Al riguardo, tuttavia, sorge un problema: dal momento che solo il reato di lesioni volontarie lievissime è perseguibile a querela dell’offeso, il tentativo, che
in pratica non ha arrecato nessuna lesione, neppure lievissima, è perseguibile
di ufficio o a querela?
La dottrina critica l’orientamento secondo cui il tentativo è sempre perseguibile d’ufficio, in quanto, porterebbe alla conclusione assurda di punire a querela
il reato consumato (di lesioni personali lievissime) e di ufficio il mero tentativo.
Si sostiene, pertanto (MANZINI, ZAGREBELSKY, ANTOLISEI, PANNAIN),
che il tentativo è punibile sempre a querela, in considerazione del fatto che
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se la querela è richiesta per una malattia di durata non superiore a 20 giorni, a maggior ragione deve essere richiesta quando la malattia non si è proprio verificata.
La giurisprudenza sul punto è, invece, incerta passando da posizioni che ritengono il tentativo procedibile d’ufficio in tutti i casi, data la difficoltà di un
giudizio prognostico relativo all’ipotesi in cui le lesioni si fossero verificate, a
pronunce che configurano, al contrario, la procedibilità d’ufficio del tentativo
solo per quei casi in cui il suddetto giudizio prognostico faccia ritenere che, se
la condotta fosse stata portata a termine, la lesione provocata sarebbe stata di
durata superiore ai 20 giorni, ritenendo, invece, per gli altri casi, necessaria la
proposizione della querela.
Non essendo necessario alcun fine particolare in capo al soggetto attivo il
dolo richiesto è quello generico, consistente nella coscienza e volontà di provocare le lesioni anche a titolo di dolo eventuale.
Non è necessario, inoltre, che l’agente abbia voluto la malattia, in quanto essa
è una conseguenza della condotta criminosa ma non rientra nell’elemento psicologico del reato, come affermato anche dalla giurisprudenza dominante, ne
consegue che l’elemento soggettivo del reato di lesioni colpose è integrato dalla mera inosservanza delle norme di prudenza e di diligenza a causa della quale resti provato l’evento dannoso (Sez. 4, sent. 16695 del 4-5-2005).
Tutte le varie ipotesi di lesioni, ai sensi dell’art. 585 c.p., sono aggravate se il
fatto viene commesso con armi o sostanze corrosive ovvero se concorre qualcuna delle circostanze di cui agli artt. 576 e 577.
A norma dell’art. 576 la pena per il delitto di lesioni personali sarà aggravata quando il fatto è commesso fra l’altro, col concorso di taluna delle circostanze indicate nel numero 2 dell’articolo 61 (aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro ovvero per assicurare a sé o ad altri il prodotto,
il profitto, il prezzo o l’impunità di un altro reato); contro l’ascendente o il discendente quando è adoperato un mezzo venefico o un altro mezzo insidioso, ovvero quando vi è premeditazione o quando concorra taluna delle circostanze indicate dai numeri 1 e 4 dell’art. 61 c.p. (aver agito per motivi abietti,
futili od aver agito con crudeltà verso le persone o adoperato sevizie); dal latitante per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione o per procurarsi i mezzi di sussistenza durante la latitanza; dall’associato per delinquere, per
gli stessi motivi del latitante.
Ulteriori circostanze aggravanti sono, infine, previste dall’art. 577 quando il
fatto è commesso contro l’ascendente o il discendente; col mezzo di sostanze
venefiche ovvero con altro mezzo insidioso; con premeditazione; quando concorra taluna delle circostanze indicate dai numeri 1 e 4 dell’art. 61 c.p. (aver agito per motivi abietti, futili od aver agito con crudeltà).
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Quesito n. 8
Redazione dell’Atto
Ill.mo Sig. Presidente e sigg. giudici
corte di appello di
……………
R.G.N.R.
Dichiarazione di appello con motivi contestuali avverso la
sentenza n. ….… emessa in data ……. dal GIUDICE MONOCRATICO di
……………. ……, depositata il ….…, nei confronti di TIZIo, con la quale
il predetto veniva condannato alla pena di ANNI 1 E MESI 6 DI RECLUSIONE PER IL REATO DI CUI ALL’ART. 590 C.P.
A) Assoluzione perché il fatto non sussiste
Con questo atto di gravame, si vuole censurare la decisione del Giudice di prime cure che, nel pronunciare sentenza di condanna a carico dell’imputato, ha
interpretato erroneamente il disposto dell’art. 590 c.p.
Al fine di una maggiore chiarezza espositiva, nell’affrontare il problema che
più rileva in questa sede - e cioè l’esatto inquadramento giuridico della condotta posta in essere da Caio - si rendono necessarie alcune brevi considerazioni
di fatto e di diritto.
In primo luogo, è evidente come nella fattispecie il chirurgo abbia causato
dei gravi inestetismi a Tizia utilizzando delle tecniche improprie per eseguire
l’operazione richiestagli e, pertanto, in questo senso sono presenti tutti i requisiti per un addebito penale a titolo colposo.
Ciò che, invece, resta da valutare e chiarire è il concetto di malattia penalmente rilevante, secondo quanto affermato nelle pronunce più recenti della Corte di Cassazione.
È, perciò, il caso di analizzare gli orientamenti giurisprudenziali sviluppatisi in materia.
L’indirizzo più risalente accoglie un concetto ampio di malattia, consistente
in «qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata e non impegnativa delle condizioni organiche generali» (in tal senso ex
ultimis Cass., sent. 43763 del 29-9-2010).
Sulla scorta di tale affermazione, quindi, si avrà una malattia (rilevante per
la sussistenza del reato di lesioni colpose) anche quando l’alterazione anatomica o funzionale procurata sia rimasta localizzata ed ininfluente sulle condizioni
generali dell’organismo e si finisce per estendere la portata della norma incriminatrice anche ad alterazioni minimali per nulla impegnative, seppure in parte, dell’organismo (esasperando questa ottica anche un eritema superficiale potrebbe considerarsi malattia).
Secondo un diverso indirizzo, più recente ed ormai prevalente, invece, affinchè si configuri lo stato di malattia, è necessaria una perturbazione funzionale di tipo dinamico che, quindi, dopo un certo tempo, conduca alla guarigio-
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ne, alla stabilizzazione in una nuova situazione di benessere fisico degradato o
alla morte, con la conseguenza che le alterazioni anatomiche da cui non derivi
un’apprezzabile riduzione della funzionalità non possono assumere rilevanza.
Si è rilevato, infatti, sia che il concetto di infermità non è del tutto sovrapponibile a quello di malattia, risultando, rispetto a questo, più ampio e sia che dal concetto di malattia sono esclusi i cosiddetti stati patologici, ossia quelle stazionarie
condizioni di anormalità morfologica, o funzionale, ereditaria, congenita o acquisita, in cui non vi sono tessuti od organi in condizione di sofferenza e che sono
compatibili con uno stato generale di buona salute (S.U., 25/1/2005, n. 9163).
In questa ottica interpretativa, quindi, il concetto clinico di malattia richiede
la presenza di una riduzione apprezzabile di funzionalità (anche senza alcuna
lesione anatomica) e di un fatto morboso in evoluzione a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l’adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte (vedi Cass., sent. 47265 del 6-12-2012).
Apparendo quest’ultima impostazione più corretta, si potrà allora affermare
che gli inestetismi procurati da Caio con l’intervento chirurgico, seppur diretta
conseguenza di una sua condotta colposa, non sono qualificabili come malattia.
Infatti, l’asimmetria delle mammelle e la presenza di alcune protuberanze antiestetiche che rendevano evidente la presenza delle protesi ed il pessimo risultato generale conseguente all’utilizzo di una malaccorta tecnica operatoria, costituiscono senz’altro una fonte di danno risarcibile in sede civile ma non possono considerarsi malattia penalmente rilevante nel senso prima chiarito perché
quella che si è venuta a creare sul corpo di Tizia è una situazione consolidata di
«anormalità morfologica» che non solo non arreca alla donna nessun pregiudizio
funzionale ma, soprattutto, non va ad innescare un processo morboso evolutivo.
Alla luce di queste considerazioni, in riforma dell’impugnata sentenza, si
chiede l’assoluzione di Caio dal delitto contestato perché il fatto non sussiste.
B) Minimo pena; non menzione nel casellario giudiziale
In via del tutto gradata, in caso di mancato accoglimento del primo motivo
di appello, si chiede la rideterminazione della pena irrogata in primo grado che
appare eccessiva in relazione alle modalità della condotta concretamente posta
in essere dall’imputato.
Allo stesso modo, avuto riguardo ai criteri dettati dall’art. 133 c.p. e dai presupposti richiesti dall’art. 175 c.p., si ritiene che l’imputato possa usufruire del
beneficio della non menzione della condanna nel casellario giudiziale.
Lì …………Avv. ……………
Riferimenti normativi e giurisprudenziali
(V. amplius SIMONE, Codice Penale Commentato – C3, ed. 2013)
• art. 590 c.p.: Elemento oggettivo; Elemento soggettivo; Colpa medica; Colpa
professionale.
Appello. Procedimenti amministrativi
ed omissione di atti di ufficio
Quesito n. 14
Tizio è il presidente dell’Ordine dei Medici di Alfa a cui sono iscritti anche Caio
e Sempronio, due colleghi che hanno tra di loro un rapporto molto conflittuale.
Proprio a causa di questa conflittualità, Caio presenta a Tizio, nella sua qualità
di Presidente dell’Ordine, un esposto contro Sempronio, in cui lo accusa di aver
tenuto dei comportamenti contrari alla deontologia professionale e ne chiede la
sospensione.
Tizio, tuttavia, ritenendo tale azione strumentale e tentando di non alimentare le polemiche tra i due colleghi, non assume alcuna iniziativa, né comunica alcunché a Caio.
Quest’ultimo, nei giorni successivi presenta una serie di nuovi esposti contro Sempronio, sollecitando l’intervento di Tizio, il quale, ciò nonostante, continua a non
prendere provvedimenti ed a non fornire alcuna comunicazione al medico che a
lui aveva fatto ricorso.
Trascorsi più di 30 giorni, dinanzi all’inerzia di Tizio, Caio si reca in Procura e lo
denuncia per il reato di omissione di atti di ufficio.
Tratto a giudizio, all’esito del dibattimento di primo grado, in cui i fatti emergono
così come narrati, l’uomo viene condannato alla pena di mesi 8 di reclusione per
il delitto di cui all’art. 328 c.p.
Il candidato, assunte le vesti del legale dell’imputato, rediga l’atto di appello avverso
il provvedimento di cui sopra.
Istituti rilevanti
Per poter redigere un valido atto di appello avverso la sentenza emessa a carico di Tizio, è necessario individuare con precisione quali siano gli elementi
essenziali del reato di rifiuto o di omissione di atti di ufficio.
Si rammenta che l’art. 328 c.p., al primo comma, sanziona il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del
suo ufficio che deve essere compiuto senza ritardo per ragioni di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene o sanità.
Il secondo comma di tale disposizione, al di fuori dei casi disciplinati dal primo, punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che en-
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Quesito n. 14
tro 30 giorni dalla richiesta di chi ne abbia interesse non compie l’atto del suo
ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo.
Gli atti di cui all’art. 328 si possono suddividere in due categorie.
La prima comprende i cd. atti qualificati, che sono quelli motivati da ragioni di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene o sanità.
La seconda, invece, comprende gli atti non qualificati, che sono tutti gli altri atti amministrativi.
Gli atti qualificati, a loro volta, si distinguono in altre due categorie: atti qualificati che devono essere compiuti senza ritardo ed atti qualificati il cui compimento può essere ritardato.
Orbene, per gli atti qualificati che devono compiersi senza ritardo, il legislatore ha punito esclusivamente il loro rifiuto (art. 328, comma 1); per gli atti qualificati il cui compimento può essere ritardato e per tutti gli altri atti non qualificati, invece, si è punita l’omissione e la mancata esposizione delle ragioni del
loro ritardo (art. 328, comma 2).
Occorre precisare che il delitto di omissione di atti di ufficio, nella ipotesi di cui
al primo comma dell’art. 328 cod. pen., lede di norma solo l’interesse della pubblica
amministrazione al corretto esercizio delle pubbliche funzioni in vista del perseguimento di finalità pubbliche. Ciò non esclude in linea teorica che il pubblico interesse
possa coincidere anche con un interesse privatistico, ipotesi nella quale il reato assume natura plurioffensiva (Cass. VI, 4-2-2003, n. 5376 e Cass. VI, 29-7-2003, n. 32019).
Restano, tuttavia, estranee all’ambito di operatività della suddetta norma le
omissioni che si concretano nella mera violazione dei doveri d’ufficio senza rilevanza esterna (Cass. VI, 18-10-1994, n. 10729).
Per quanto riguarda l’elemento oggettivo della fattispecie prevista dal primo
comma della disposizione in esame, con il termine rifiuto si intende il diniego
di compiere un atto dovuto ed espressamente richiesto.
Si è posto il problema se in tale nozione potesse rientrare anche il cd. silenzio-assenso, che in diritto amministrativo è il mancato compimento dell’atto dovuto nei termini all’uopo fissati.
Autorevole dottrina (FIANDACA, MANNA, NANNUCCI), contrariamente a chi
offriva una interpretazione estensiva del termine rifiuto comprensivo anche del
ritardo o dell’omissione, alla luce dei principi di legalità e determinatezza della fattispecie penale, ritiene che, ai fini della punibilità, sia richiesto un vero
e proprio rifiuto da parte dell’incauto funzionario, magari anche tacito, ma, comunque, configurabile come vero e proprio rifiuto, non essendo sufficiente una
mera inerzia o il semplice ritardo, anche se indebiti.
La giurisprudenza, da parte sua, modificando il proprio precedente orientamento, non richiede che il rifiuto sia espresso in modo solenne o formale,
ma può essere espresso anche dalla silente inerzia del pubblico ufficiale, protratta senza giustificazione oltre i termini di comporto o addirittura di decadenza, nei casi in cui essa dipenda, per il privato, dal mancato compimento
dell’atto entro un termine (Cass. VI, 24-1-2004, n. 2510).
Appello. Procedimenti amministrativi ed omissione di atti di ufficio
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In ogni caso il reato si configura soltanto quando l’atto riveste carattere di indifferibilità e di doverosità (Cass. 5-5-1999, n. 5596).
Oltre che manifestato, in modo espresso o tacito, il rifiuto deve anche essere indebito, cioè non giustificato dalla legge o da una disposizione amministrativa o dall’assoluta impossibilità (Cass. 12-7-2000, n. 8117).
Ai fini della configurabilità del reato di rifiuto di atti di ufficio, poi, non basta che l’atto rientri in una delle categorie tipiche indicate dalla norma né che
sussistano le previste condizioni di urgenza, ma occorre che l’atto sia dovuto, e
dunque non rientri nell’ambito della discrezionalità del pubblico ufficiale (Cass.
IV, 18-5-2007, n. 19358).
Il reato di cui all’art. 328, comma primo, n. 1, c.p., poi, è un reato di pericolo che si perfeziona ogni qual volta venga denegato un atto non ritardabile, incidente su beni di valore primario tutelati dall’ordinamento, indipendentemente
dal nocumento che in concreto possa derivarne (Cass. VI, 19-9-2008, n. 38386).
Il delitto in esame, inoltre, rientra nella categoria dei reati istantanei, il cui
momento consumativo si realizza con il rifiuto o con l’omissione (Cass. VI, 153-2004, n. 12238).
Come già sottolineato in precedenza, la fattispecie prevista dal secondo comma dell’art. 328 ha ad oggetto gli atti non qualificati e gli atti qualificati che
possono essere ritardati.
La condotta punita è, in questo caso, l’omissione, e cioè il mancato compimento dell’atto dovuto.
La fattispecie in esame è diretta ad assicurare risposta alle aspettative del privato che formalmente inviti la pubblica amministrazione ad emettere un atto che
riguardi la sua sfera di interessi (Cass. VI, 21-1-1999, n. 797).
Perché tale omissione sia penalmente rilevante, però, è necessario che vi sia
una richiesta in forma scritta da parte dell’interessato, che siano decorsi 30 giorni dal momento in cui il pubblico ufficiale o l’incaricato del pubblico servizio
abbiano ricevuto la richiesta, e che, infine, il pubblico ufficiale o l’incaricato del
pubblico servizio non solo non abbia compiuto l’atto, ma non abbia neanche risposto per esporre le ragioni del ritardo, costituendo una non scusabile ignoranza della legge penale la non consapevolezza della necessità di una risposta scritta o l’eventuale oggettiva complessità della pratica (Cass. VI, 6-2-2004, n. 4907).
La facoltà di interpello del privato, cui corrisponde un dovere di rispondere o di attivarsi da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico
servizio, però, è riconosciuta esclusivamente al soggetto che abbia interesse al
compimento dell’atto.
Tale interesse non si identifica con quello generale al buon andamento della P.A., che riguarda tutti i consociati, ma in quello che fa capo a una situazione giuridica soggettiva su cui il provvedimento è destinato direttamente a incidere (Cass. VI, 29-5-2008, n. 21735).
Il legislatore ha, dunque, previsto un vero e proprio procedimento per la formazione dell’omissione, solo al termine del quale l’omissione stessa può dirsi
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Quesito n. 14
realizzata: anche la Suprema Corte, del resto, ha ribadito che, ai fini della consumazione del reato in esame, è necessario il concorso di due condotte omissive, la mancata adozione dell’atto entro trenta giorni dalla richiesta scritta della parte interessata e la mancata risposta sulle ragioni del ritardo (Cass. VI, 133-2003, n. 11877).
In applicazione di tale principio, ad esempio, è stato riconosciuto colpevole
del reato di cui all’art. 328, comma secondo, il sindaco che omette di rispondere o, comunque, di fornire congrue giustificazioni nel termine di trenta giorni,
a seguito della richiesta, avanzata da un dipendente comunale, di rimborso delle spese legali sostenute in un procedimento penale per reati connessi alla sua
funzione e dai quali è stato assolto (Cass. VI, 11-10-2007, n. 37542).
Il delitto di cui all’art. 328, comma secondo, c.p., secondo la giurisprudenza consolidata, va qualificato come reato, omissivo proprio e a consumazione
istantanea, e deve intendersi perfezionato con la scadenza del predetto termine
(Cass. VI, 3-7-2008, n. 27044).
Per la punibilità di entrambe le fattispecie di cui all’art. 328 c.p. è sufficiente il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di omettere, ritardare
o rifiutare l’atto che il P.U. sapeva di dover compiere.
La Suprema Corte ha, poi, specificato che è necessario che il pubblico ufficiale sia consapevole del suo contegno omissivo, nel senso che egli deve rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra jus; tale requisito di illiceità speciale delimita la rilevanza penale solamente a quelle forme di diniego
di adempimento che non trovano alcuna plausibile giustificazione alla stregua
delle norme che disciplinano il dovere di azione (Cass. VI, 9-8-2000, n. 8949; in
tal senso vedi anche Cass. 2-8-2007, n. 31669).
Nessuna rilevanza hanno, invece, i motivi che hanno spinto l’agente.
Per la dottrina tradizionale, in relazione all’ipotesi di cui al comma 1, non
è configurabile il tentativo, perché l’atto di rifiuto non può essere frazionabile.
Secondo ANTOLISEI, l’errore di diritto dovuto a buona fede sull’illiceità del
comportamento, e cioè sulla natura dell’atto come dovuto, escluderebbe il dolo
(nello stesso senso PAGLIARO).
La giurisprudenza di legittimità, però, si è sempre espressa in maniera contraria, ritenendo che l’errore dell’agente sulla norma extrapenale che disciplina
l’obbligo cui è soggetto il pubblico ufficiale o l’incaricato del pubblico servizio
si risolve in un errore sulla legge penale che, pertanto, ai sensi dell’art. 5 c.p.,
non scusa (Cass. VI, 6-2-2004, n. 4907).
Appello. Procedimenti amministrativi ed omissione di atti di ufficio
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Redazione dell’Atto
Ill.mo Sig. Presidente e sigg. giudici
corte di appello di
……………
R.G.N.R.
Dichiarazione di appello con motivi contestuali avverso la
sentenza n. ….… emessa in data ……. dal Tribunale di ……………. ……,
depositata il ….…, nei confronti di TIZIO, con la quale il predetto
veniva condannato alla pena di MESI 8 DI RECLUSIONE PER IL REATO
DI CUI ALL’ART.328 CODICE PENALE.
A) Assoluzione perché il fatto non sussiste O perché LO STESSO NON COSTITUISCE REATO
Con il presente atto di impugnazione si vuole censurare la decisione adottato
in primo grado dal Tribunale, che, nel condannare l’imputato, è incorso in una
errata valutazione giuridica dei fatti contestati.
In particolare, la prima argomentazione che si va a contestare è quella relativa alla sussistenza, dinanzi ai ripetuti esposti presentati, di un obbligo di attivazione (o di comunicazione a Caio) in capo a Tizio.
In tema di omissione di atti d’ufficio, infatti, la norma di cui al secondo comma
della disposizione in esame, prevede che la richiesta del privato, cui corrisponde
un dovere di rispondere o di attivarsi da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, rifletta un interesse personale e diretto alla emanazione di un atto o di un provvedimento identificabile in una posizione giuridica
soggettiva di diritto soggettivo o di interesse legittimo, con esclusione di qualsiasi situazione che attenga ad interessi di mero fatto (Cass. 4-5-2001, n. 18033).
Il dovere di risposta da parte del pubblico ufficiale, inoltre, la cui omissione
comporta la consumazione del reato, presuppone che sia iniziato un procedimento amministrativo con conseguente necessità della sua istruttoria e tempestiva definizione (Cass. 20-11-2001, n. 41645).
In altri termini, non tutte le richieste presentate dai privati sono idonee ad
attivare in capo alla P.A. il meccanismo di cui all’art. 328, secondo comma, del
codice penale, restando al di fuori di tale previsione tutte le richieste che vengono presentate per mero capriccio od irragionevole puntigliosità, sollecitando
una attività che la stessa P.A. ritiene superflua (Cass. 4-1-2012, n. 79).
Altra problematica, poi, è quella relativa sussistenza, questa volta in capo a
Caio, di una qualifica indispensabile che il privato che sollecita la P.A. deve rivestire per la configurabilità del reato per il quale è intervenuta condanna, e
cioè l’essere parte del procedimento amministrativo (vedi da ultimo Cass. 4-12012, n. 79).
Una cosa, infatti, è l’essere portatore di un interesse legittimo, come è il caso
di Caio, altra è l’essere a tutti gli effetti «parte» di un procedimento amministra-
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Quesito n. 14
tivo: qualità, quest’ultima, non ravvisabile nella posizione di Caio, vista la mancata instaurazione, nella fattispecie, di un procedimento amministrativo vero
e proprio.
Riportando queste brevi considerazioni alle risultanze dibattimentali, allora, non si potrà fare altro che ritenere, al contrario di quanto fatto dal Tribunale in sentenza, l’irrilevanza penale della condotta posta in essere da Tizio, per
una serie di considerazioni.
Tale affermazione deriva, in primis, dalla stessa natura della richiesta avanzata e della successiva valutazione fatta in merito da Tizio.
Ed invero, non bisogna dimenticare che Caio ha presentato gli esposti a carico di Sempronio soltanto per motivi strumentali e per ottenere la sospensione
di un collega con cui era in conflitto.
Ma c’è di più, infatti, rispetto al contenuto degli esposti deve sottolinearsi
come la condotta di Tizio non si possa considerare inerte, visto che lo stesso ha
valutato il contenuto degli esposti, decidendo di non intervenire per motivi di
opportunità (ossia non alimentare le polemiche tra i due colleghi), ritenendo
con ciò superflua ogni attività della P.A., senza peraltro che egli avesse un obbligo di instaurazione di un procedimento amministrativo dettato da qualche disposizione di legge.
Come conseguenza logica della precedente affermazione, va poi esclusa a carico dell’imputato, anche in astratto, la configurabilità del delitto di cui all’art. 328
c.p., per la mancanza in capo a Caio (presunta ed eventuale persona offesa) di
una qualità indispensabile e cioè l’essere parte di un procedimento amministrativo che, nel caso di specie, come più volte sottolineato, non è mai stato iniziato.
Sulla scorta di tutte le considerazioni di cui sopra, si chiede, in riforma dell’impugnata, l’assoluzione del Tizio perché il fatto non sussiste o perché lo stesso
non costituisce reato.
B) Minimo pena
In via del tutto gradata, laddove il primo motivo di appello non dovesse essere ritenuto degno di accoglimento, questo difensore chiede che la sanzione irrogata al Tizio con la sentenza di primo grado venga contenuta nell’ambito dei
minimi edittali o, comunque, rideterminata, in considerazione delle modalità
non allarmanti del fatto
Lì …………Avv. ……………
Riferimenti normativi e giurisprudenziali
(V. amplius SIMONE, Codice Penale Commentato – C3, ed. 2013)
• art. 328 c.p.