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Agens Quaderni
Quadrimestrale informativo di economia,
trasporti, lavoro Anno 7 n. 3 - Dicembre 2005
Iscrizione al Tribunale di Roma
Sezione Stampa e Informazione
n° 00149/99 del 7/4/1999
Proprietà
Agens – Agenzia Confederale
dei Trasporti e Servizi Connessi – quota 100%
Sede
Via Appia Pignatelli n. 5, Roma
Legale rappresentante
Vittorio Melissari
Editore
Agens
Direttore Responsabile
Vittorio Melissari
Responsabile scientifico
Sergio Maria Macciò
Progetto Grafico e impaginazione
Abilialibi Studio Roma
Tecnica diffusione: Stampa
c/o Tipografia Bellastampa
Via Collatina 41 Roma
Finito di stampare nel mese di Dicembre 2005
Il presente quaderno è stato realizzato con i contributi di:
Dott. Ernesto Albanese
Direttore Generale Coni Servizi
Prof. Francesco Alberoni
Sociologo
Ing. Beppe Carrella
Amministratore Delegato di TSF
Ing. Gianluigi De Carlo
Amministratore di Basis Brenner Tunnel BBT SE
Dott. Umberto Musetti
Direttore Risorse Umane Enav
Ing. Antonio Savini Nicci
Amministratore Delegato di TAV
Dott. Stefano Savino
Responsabile Relazioni Sindacali Gruppo FS
Dott. Pietro Spirito
Amministratore Delegato di Omnialogistica
Dott. Carlo Maurizio Stiatti
Direttore dell’Area Lavoro e Affari Generali dell’Unione Industriale di
Roma
Dott. Hermann Troger
Direttore Generale di un’azienda del settore automotive.
La prima parte del Quaderno è stata curata dal Dott. Massimo Bornengo,
dell’Area Relazioni Industriali di Agens.
Quadrimestrale
informativo
di economia ,
trasporti ,
lavoro
PREMESSA
di Vittorio Melissari
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PARTE PRIMA
IL RUOLO DEL CAPO E I RAPPORTI EMOTIVI INTERAZIENDALI
di Massimo Bornengo
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PARTE SECONDA
LA TRANSIZIONE DA ENTE PUBBLICO AD AZIENDA PRIVATA: IL CASO CONI SERVIZI
Ernesto Albanese
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BASTA UN SALUTO DEL PORTIERE PER CAPIRE SE UNA AZIENDA VA BENE
IL CAPO È SILENZIOSO? AVETE TRE MOTIVI PER PREOCCUPARVI
GRANDI E PICCOLI SABOTAGGI DIETRO GLI SBAGLI IN UFFICIO
Francesco Alberoni
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E TU CHE FACCIA SEI? LO SPIRITO DI CORPO CONTRAPPOSTO
AI PERSONALISMI, IN GIOCO C’È IL SUCCESSO AZIENDALE
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Beppe Carrella
INDIVIDUARE IL CAPO
Gianluigi De Carlo
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IL SISTEMA DI VALUTAZIONE
Umberto Musetti
DELLE COMPETENZE NELLA SOCIETÀ
COME E PERCHÉ MOTIVARE
Antonio Savini Nicci
I COLLABORATORI
ENAV
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UNA ESPERIENZA VISSUTA: CAPO STAZIONE E PADRE DI FAMIGLIA
Stefano Savino
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I RUOLI E GLI STRUMENTI
Pietro Spirito
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NEI PROCESSI MOTIVAZIONALI
IL GRUPPO DI LAVORO
Carlo Maurizio Stiatti
FIDUCIA: UN’EMOZIONE, UN RISCHIO O UN SEMPLICE
STRUMENTO DI GESTIONE?
126
LA
133
Hermann Troger
AUTORI
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uando in questa sede parliamo di “capi”, vogliamo proprio intendere i “capi servizio”, i “capi intermedi”, quelli
a diretto contatto con gli operatori (capi area, reparto,
commessa, di linea), che sono il cuore e l’anima dell’impresa: persone pratiche, immediate, schiette, concrete, abituate a risolvere
quotidianamente i numerosi e vari problemi di organizzazione, di
servizi, di gestione, ecc..
Nelle librerie si trovano diversi testi scritti da grandi manager, da
importanti psicologi del lavoro e da autorevoli professori universitari che trattano ed approfondiscono molteplici problematiche
collegate al ruolo del “capo” in azienda, spesso considerato solamente come manager o alto dirigente: professionisti/specialisti
che scrivono per altri professionisti, nella presunzione che i lettori conoscano già gli aspetti salienti che sono alla base dell’attività
del capo.
In questi testi raramente vengono approfonditi quegli elementi
comportamentali, caratteriali, emotivi e di costume che possono
sembrare marginali, ma che invece sono determinanti al fine di
tratteggiare l’affresco del ruolo del capo.
Nel nostro Paese, inoltre, anche il professionista delle “risorse
umane” è uno specialista che si dedica esclusivamente ad esaminare alcune caratteristiche specifiche del ruolo del capo.
Il lettore (e magari anche il capo intermedio) può avere difficoltà
a comprendere questo lavoro di analisi specialistica; nei testi sulle relazioni umane è più congeniale per lui un punto di osservazione più generale che gli consenta di individuare le grandi linee
o gli strumenti di interpretazione che facilitino il compito di afferrare lo sviluppo, le caratteristiche, i confini degli aspetti salienti
della sua attività.
Ed è proprio questo che abbiamo cercato di offrire: un’analisi del
ruolo del capo non in chiave tecnica ma alla portata di tutti, facile, pratica, pur trattando argomenti delicati e particolari quali l’autorità, i rapporti emotivi interpersonali, il conflitto, la cultura
aziendale, ecc..
I capi intermedi rappresentano il raccordo tra gli input forniti dalla direzione e le esigenze espresse dalla base, costituiscono pertanto una figura fondamentale di connessione per il successo
delle organizzazioni. È necessario che chi ricopre tale ruolo venga a sommare all’autorità del capo attribuitagli dall’organigram-
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VII
ma, l’autorevolezza del leader, riconosciutagli dai propri collaboratori.
Con l’introduzione nelle aziende della qualità totale, delle nuove
tecnologie, delle figure professionali sempre più specializzate,
delle strategie aziendali a breve termine, l’organizzazione aziendale deve avere, nella figura del capo, una persona flessibile, di
grande comunicazione, che sappia gestire i conflitti e ottimizzi la
comunicazione, coordinando efficacemente il team che gli è stato affidato, con particolare riguardo alla specificità della cultura
aziendale.
Il ruolo del capo non è più sostenuto esclusivamente dall’autorità
tecnica, ovvero solo dall’autorità di funzione, ma dalle capacità
interpersonali riconosciutegli dai suoi stessi collaboratori; il confronto “capo-subalterno” è un rapporto interpersonale retto da
delicati fattori emotivi di difficile gestione: il capo deve essere (o
diventare) leader della squadra che conduce.
Queste problematiche sono “il pane quotidiano” del capo che a
fronte di un’attività prevalentemente mirata ai risultati imposti dalla competizione propria dei mercati globalizzati, a volte è costretto a porle in secondo piano, quando invece, se fossero applicate e
vissute continuativamente, aiuterebbero ad acquisire quel valore
aggiunto che fa la differenza tra un “capo” e un “buon capo”.
Vittorio Melissari
VIII
IL RUOLO DEL CAPO E I RAPPORTI EMOTIVI INTERAZIENDALI
Massimo Bornengo
Le capacità e le competenze richieste alle figure dei capi intermedi da parte del mercato si sono modificate al mutare dello sviluppo economico, del progresso tecnologico e dell’organizzazione. Sino alla fine degli anni 60’ il ruolo del capo intermedio
era incentrato soprattutto sul semplice possesso delle competenze operative e tecniche, l’autorità era basata sull’esperienza e
sulla professionalità tecnica possedute dal capo intermedio.
Dagli anni 70’, a seguito dell’aumento delle turbolenze sociali
con la conseguente evoluzione del mercato, al capo intermedio
venivano richieste nuove capacità gestionali, non solo per condurre ed organizzare il lavoro dal punto di vista tecnico operativo, ma anche per gestire le evoluzioni socioeconomiche che
hanno caratterizzato il nostro paese fino agli anni 90’.
Il contesto lavorativo, l’ampliamento del mercato, le nuove tecnologie e la diffusa e generalizzata informazione hanno fortemente condizionato nel nuovo millennio i moderni scenari organizzativi nel mondo del lavoro; le ristrutturazioni, la mobilità,
l’appiattimento delle gerarchie manageriali, l’alta professionalità
richiesta a tutti i livelli impongono alla figura del capo intermedio ottime performance in diversi campi, nuovi stili relazionali e
comportamentali, tecniche gestionali che rispondano alle sfide
del continuo cambiamento organizzativo delle aziende.
La storia dello sviluppo economico ci ha rivelato quanto sia inefficace e controproducente la leadership retta sull’autoritarismo in
un mercato tecnologicamente avanzato, in un’economia proiettata nell’informatica e nei servizi, dove l’informazione e la conoscenza sono un bene alla portata di tutti; oggi il capo deve fare un
uso più cauto del potere affidatogli, promuovendo un atteggiamento empatico, di ascolto e totale coinvolgimento, sostenendo e
sviluppando le risorse umane affidategli.
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I capi intermedi sono il raccordo tra gli input forniti dalla direzione e le esigenze espresse dalla base, costituiscono ancora la
figura fondamentale per il successo delle organizzazioni. È necessario che chi ricopre tale ruolo venga a sommare l’autorità
del capo attribuitagli dall’organigramma e l’autorevolezza riconosciutagli dai collaboratori.
Il capo di oggi deve saper gestire le proprie emozioni, le proprie
ansie, motivare ed incentivare i collaboratori, accettare le sfide del
cambiamento con flessibilità; le sue principali armi sono una comunicazione aperta e costante, la capacità di gestire i conflitti e le
tensioni, l’autorità riconosciuta, mantenendo e curando i rapporti
emotivi sia con i collaboratori che con l’organizzazione.
La comunicazione
Comunicare vuol dire necessariamente “farsi capire e saper
ascoltare”.
Se un ordine, un rimprovero, un consiglio, un’idea – indipendentemente dal suo contenuto – non giunge chiaramente all’interlocutore, la comunicazione fallisce e si possono creare incomprensioni e tensioni.
La prima dote del bravo comunicatore è il saper ascoltare e questa
è una delle principali qualità che dovrebbe avere un “buon capo”.
Saper ascoltare vuol dire anche “avvicinarsi” ai collaboratori,
ascoltare non è mai una perdita di tempo: possiamo conoscere
meglio i collaboratori solo ascoltandoli e solo se li conosciamo
possiamo sovrintendere, coordinare, gestire ed organizzare al
meglio la loro attività.
Per capire il perché di un qualsiasi atteggiamento del collaboratore il capo deve, oltre che conoscere i propri collaboratori, “immedesimarsi” nella situazione in cui si trova il suo interlocutore,
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pertanto virtualmente deve sostituirsi nel ruolo per capire il perché degli atteggiamenti che dall’esterno possono risultare incomprensibili. Al neoassunto, ad esempio, dopo che il capo gli
ha spiegato la procedura da seguire, può succedere che non la
svolga correttamente, a causa della nuova situazione in cui il ragazzo si trova: paura del primo giorno, ambiente nuovo, rumori
nuovi, soggezione verso il capo/istruttore; è facile in questa situazione emotiva perdere qualche passaggio delle istruzioni,
della procedura.
Questo fa parte della comunicazione: se ti capisco ho una buona comunicazione, se mi immedesimo comprendo il tuo atteggiamento.
Ma questo può non essere sufficiente, il buon capo deve andare
oltre l’immedesimazione, bisogna anche conoscere e cercare di
capire le emozioni del nostro interlocutore, immedesimarci non
solo nel “ruolo” ma anche nelle “emozioni” del nostro interlocutore ovvero possedere empatia: la capacità di riconoscere le
emozioni altrui e farle proprie.
Saper ascoltare con pazienza e con empatia. Saper ascoltare
vuol dire non solo capire cosa dice il collaboratore, ma anche
“perché lo dice”, “cosa prova emotivamente”: un capo deve aver
la pazienza e saper ascoltare gli sfoghi, le arrabbiature, le lamentele, le confidenze e tutto ciò che serve per avere una buona relazione con i propri interlocutori.
L’interpretazione
L’interpretazione è la fase più delicata nella comunicazione, ogni
persona tende ad ascoltare ed interpretare alla luce dei propri valori personali, in base alle esperienze professionali e all’atteggiamento emotivo del momento; le persone interpretano i messaggi con i
propri canoni di riferimento, spesso distorcendone il contenuto.
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Il signor Tizio lavora in maniera insoddisfacente per l’azienda
• È inidoneo a quella mansione, afferma il sindacato
facendo emergere il problema di inquadramento professionale;
• Si stanca facilmente, sostiene il medico aziendale
facendo emergere il livello fisico;
• È un cattivo esempio, rileva il direttore del personale
facendo emergere il livello relazionale;
• Ha dei problemi interiori, conferma lo psicologo
facendo emergere il livello emotivo;
• Non produce, afferma l’imprenditore
facendo emergere l’aspetto economico.
Cinque deduzioni/interpretazioni corrette ovvero deviate dall’esperienza professionale.
Quando parliamo ricordiamo sempre che l’interlocutore, anche
il più aperto e flessibile, non “riceve” e quindi non “capisce”
esattamente il “concetto” che noi abbiamo voluto e crediamo di
avergli trasmesso. C’è sempre una “dose” di interpretazione che
svia la comunicazione.
Spesso il passaggio delle informazioni tra due interlocutori è deviato da alcuni fattori ed interpretato soggettivamente; gli errori
di comunicazione sopra evidenziati sono molto frequenti, accadono tutti i giorni nel mondo del lavoro, bisogna saperli individuare ed evitare.
Tra il capo e il collaboratore si aggiunge un’ulteriore causa che
influisce negativamente nella comunicazione: il rapporto di forza contrattuale.
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La comunicazione gerarchica: una comunicazione asimmetrica
Un ulteriore fattore deviante colpisce il corretto passaggio delle
informazioni nelle realtà aziendali ed è la comunicazione asimmetrica tra superiore e subalterno.
Tra il capo e il collaboratore c’è un rapporto di forza che si
estrinseca in una relazione di potere. Quando c’è l’emozione e
l’imbarazzo di interloquire con un capo, con quella soggezione
non voluta ma imposta dal “subcosciente”, il collaboratore cerca di mascherare e nascondere il suo stato emotivo che altro non
è che la manifestazione del potere contrattuale “asimmetrico” tra
capo e subalterno, che incide direttamente nella loro comunicazione.
Il subalterno ogni volta che parla con il capo ha ben presente la
sua debolezza contrattuale, mentre il “capo”, in buona fede, tende a non ricordarla sposando le ideologie “egualitarie” e “democratiche”. Questo rapporto asimmetrico è più evidente quando la forza contrattuale degli interlocutori è maggiore: il presidente della società con il fattorino; è meno evidente tra il capo
squadra e l’addetto, ma è sempre e comunque presente: il presidente può cambiare la vita ad un fattorino trasferendolo, promuovendolo o aumentando la retribuzione, ha certamente questo potere contrattuale; il capo squadra può concedere o meno
un permesso retribuito, affidare un lavoro più o meno gravoso,
far effettuare o meno del lavoro straordinario.
Sono certamente due tipi di rapporti diversi derivati non solo dal
potere contrattuale, più o meno incisivo, ma anche del rapporto
più amichevole e quindi meno formale e professionale tra capo
squadra e addetto al servizio rispetto a quello fra presidente e
fattorino; comunque, anche se in misura ridotta, la relazione
asimmetrica del potere è sempre presente.
Questa differenza incide direttamente nella comunicazione tra
due interlocutori che hanno un potere contrattuale diverso.
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Alcuni esempi:
• il capo tende a dimenticare le informazioni spiacevoli che lo
riguardano, come le informazioni spiacevoli che possono rimettere in discussione l’equilibrio che ha raggiunto negli anni
con i collaboratori e/o con l’organizzazione;
• il capo non vuole prendersi troppe responsabilità e pertanto
interpreta la comunicazione come una ulteriore problematica
e non certo come un’opportunità;
• quando il collaboratore ritiene che il capo farà fatica a capire
il concetto che vuole trasferirgli perché “lui” ha già le “sue
idee” e tenderà a giudicare l’informazione trasmessa in funzione alle “sue” idee;
• il capo ricorda più facilmente i problemi non risolti che quelli risolti dai propri collaboratori;
• quando l’informazione viene dalla base il capo tende a trascurarla mentre prende sempre in seria considerazione l’informazione proveniente dai superiori;
• il timore dell’inefficacia di informare il capo in quanto si ritiene che le decisioni siano già prese;
• l’inutilità di comunicare con il capo in quanto si ritiene che
abbia già i suoi canali informativi;
• il timore di parlare troppo con il capo, comunicandogli delle informazioni che potranno essere utilizzate non correttamente.
Sono queste critiche, osservazioni ed atteggiamenti che si rilevano frequentemente in azienda; sono questi tutti fattori che evidenziano il rapporto asimmetrico e sono altresì indici che rivelano una comunicazione scorretta tra capo e subalterno.
Questo aspetto va letto non solo nel singolo rapporto tra collaboratore e capo ma anche tra il capo e la organizzazione: le strutture gerarchiche aziendali presuppongono quasi sempre la presenza con-
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temporanea che il singolo lavoratore è a sua volta collaboratore e
capo, pertanto le critiche /osservazioni sopra esposte vanno lette ovviamente sia nel ruolo di collaboratore che nel ruolo di capo.
Tutto ciò è la prova della comunicazione asimmetrica tra capo e
collaboratore. Estremizzando questa “scorretta comunicazione”
sopra evidenziata possiamo arrivare ad affermare il completo isolamento del capo, il quale non vive più la realtà aziendale in quanto è poco e male informato dai collaboratori, che hanno timore di
lui e pertanto non gli riferiscono le cose spiacevoli o non comunicano in quanto ritenuto inutile e improduttivo passargli l’informazione.
Il capo crede invece di essere il primo a venire a conoscenza
delle novità aziendali, quando in realtà è il primo a conoscere
“formalmente” l’accaduto, ma certamente è tra gli ultimi a saperlo informalmente.
Uno dei esempi che possiamo richiamare è il danno causato in
reparto da un operatore: la notizia si attiva subito, ma rimane circoscritta ad un solo livello gerarchico (c.d. “voce di rotaia” utilizzando il gergo dei ferrovieri); solo di seguito, quando gli operatori dello stesso livello gerarchico sono a conoscenza dell’accaduto, viene informato il capo settore, il quale a sua volta
formalmente informa il direttore.
Esasperando il concetto possiamo affermare che i capi non sono
informati e se lo sono, lo sono comunque in ritardo e non in maniera corretta; più sale la scala gerarchica, più l’informazione arriva deformata e si fa rara, il vertice dell’azienda vive isolato e
staccato dalla realtà, dove il consiglio di amministrazione e i
consiglieri hanno il “compito”, a loro volta, di nascondere
l’informazione sgradevole al presidente e riportare solo quanto
“conviene” al portavoce. Questa situazione si verifica a tutti i livelli gerarchici, tra l’operaio e il suo diretto superiore, tra lo staff
dirigenziale e il direttore generale.
Nelle cene aziendali di Natale o nei rinfreschi di commiato di un
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collega, il più delle volte, finché è presente il “capo”, l’incontro
è formale, meno sincero, a volte noioso o addirittura imbarazzante per i prolungati silenzi.
Come si allontana il “capo” l’ambiente cambia, emotivamente
tutti sono più disinvolti e la comunicazione scorre informale: la
distanza tra l’incontro “formale” e “informale” è direttamente
proporzionale alla comunicazione asimmetrica tra capo e collaboratori. Più la comunicazione è asimmetrica, più la comunicazione è formale e maggiore è l’isolamento del capo.
È compito del singolo capo cercare l’informazione, creare dei
canali di flusso, stabilire una sua procedura, perché l’informazione non “sale“ la scala gerarchica da sola, ovvero sale solo in
maniera deformata per i fattori sopra richiamati. La procedura
informativa deve contenere però delle griglie di difesa e di smistamento o si rischia che il capo venga sommerso da informazioni “marginali” trasformandosi in un inquisitore ed assumendo
così in un atteggiamento patologico che blocca ancor di più il
flusso delle informazioni.
Altri esempi di carenza ed errata comunicazione, presente in
quasi ogni azienda, sono rilevabili dalle lamentele di alcuni capi quando sostengono di essere gli ultimi ad essere informati o
di conoscere gli avvenimenti dell’impresa solo con notizie provenienti dall’esterno dell’azienda.
In questi casi di disinformazione la colpa spesso è del capo che non
sa, o non vuole essere informato: si chiude nell’ufficio attendendo le
novità, le informazioni, i pettegolezzi della vita aziendale, ma nell’ufficio arrivano solamente le “note ufficiali”, le “comunicazioni di
servizio” e queste, quando sono rese pubbliche, sono già obsolete.
Dall’altra parte abbiamo il modello positivo del capo che comunica con tutti, che sa ascoltare, ha frequenti contatti con tutti i
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colleghi, lo possiamo definire “capo recettivo”; certamente è
informato, vive l’azienda e non si fa prendere in contropiede da
nessun avvenimento in quanto lo conosce per primo.
È un capo che cerca l’informazione, che ha strutturato una procedura, un flusso di informazioni. Quante volte davanti alla “macchinetta del caffè” si vengono a conoscere problemi personali, strategie aziendali, problematiche della produzione e quant’altro interessi la vita aziendale. Quante volte si trovano le soluzioni di alcuni
problemi o si apprendono informazioni, che altrimenti difficilmente potevano essere raccolte, davanti alla “macchinetta del caffè”.
La metacomunicazione
Importante è conoscere il valore dei gesti, degli atteggiamenti e
dei comportamenti che possono favorire o talvolta ostacolare la
comunicazione: il linguaggio non verbale viene infatti utilizzato
spesso come "codice di controllo" della comunicazione verbale.
La conoscenza e i limiti di questo linguaggio - c.d. la metacomunicazione - potrà affinare le proprie capacità di comunicazione.
L’uomo non può fare a meno, coscientemente o no, di comunicare con gli altri interagendo attraverso il comportamento: le
stesse parole dette di fronte a tutti i colleghi di lavoro hanno certamente una portata diversa se rivolte al collega in automobile,
mentre viene accompagnato a casa.
Viviamo attraverso il comportamento e ci esprimiamo attraverso
il rapporto con gli altri: siamo talmente in interazione che una
qualsiasi modificazione in ciascuno di noi comporta una modificazione in tutti gli altri.
La vita nell’azienda è formata anche da “dettagli quotidiani”, la
loro gestione è una evidente immagine del rapporto emotivo tra
il capo ed i collaboratori.
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La pausa mensa, il caffè in reparto o in ufficio, il saluto al mattino e quello serale, l’aperitivo a fine lavoro, sono tutti indici che
mettono in evidenza e fotografano il vero rapporto emotivo tra
capo e i suoi collaboratori; sono delle pause, dei momenti che
hanno la caratteristica di far sparire o dimenticare quella asimmetria della comunicazione gerarchica; si parla più informalmente e con minor pressione dei poteri “contrattuali” delle parti.
L’ambiente dove si svolge la comunicazione ha quindi un’importante influenza nella comunicazione stessa; è evidente che non è
lo stesso convocare qualcuno nel proprio ufficio o viceversa recarsi nel suo: l’ambiente fa parte della “metacomunicazione”.
Nella comunicazione interagiscono, oltre alle parole e al luogo,
anche l’aspetto fisico dei comunicatori: l’abbigliamento, le
espressioni del volto, la stretta di mano, la posizione del corpo
assunta. Tutti questi comportamenti non verbali hanno un significato solo nel contesto della comunicazione verbale a cui si accompagnano.
Tendenzialmente mentre si lavora e si comunica con i sottoposti
si sottovaluta il linguaggio non verbale; per contro si è più attenti
alla metacomunicazione quando si comunica con il capo. Una
ulteriore prova della comunicazione asimmetrica tra capo e collaboratori.
È importante invece avere la stessa attenzione, sia quando comunichiamo con un sottoposto sia con un superiore; quando si
parla con il diretto superiore tendiamo a ricordare ed analizzare
tutti i particolari della comunicazione verbale e della metacomunicazione, particolari che sono presi in poca considerazione
nella comunicazione con i subalterni (viene rilevato ed evidenziato come è vestito e di che umore è il presidente della società,
non viene mai notato il nuovo vestito della segretaria).
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L’azienda “vive, respira e sta insieme” grazie alla comunicazione; questa risulta essere un complesso sistema di messaggi che
tendono ad un rapporto costante ed interattivo fra l’azienda e i
suoi dipendenti.
La comunicazione interna fa da collante fra i differenti servizi
aziendali, fornendo gli elementi per l’orientamento e lo sviluppo
delle strategie aziendali: è il “veicolo” sul quale e con il quale si
raggiunge l’obiettivo aziendale.
Il capo intermedio è il fulcro del processo di comunicazione verso i dipendenti, è il capo che ha il “ruolo naturale di comunicatore”; egli riceve messaggi da numerose e diverse fonti, le filtra,
le elabora e le rinvia ai collaboratori; a sua volta riceve la retroazione (o feedback: il ritorno della comunicazione da parte
dei collaboratori) e una volta “filtrato” lo invia ai superiori gerarchici.
Si può affermare pertanto che il “respiro” dell’azienda è la comunicazione, mentre il capo è “l’apparato respiratorio”.
Spesso basta una comunicazione sbagliata, interpretata male, inviata alla persona sbagliata per far sorgere un “conflitto” in
azienda; ed ecco che il capo deve correre ai ripari per risolvere
il contrasto sorto; ma cos’è un conflitto aziendale, come si affronta, come si gestisce e si risolve? Proviamo ad esplorare questa fondamentale tema insito nel ruolo del capo.
Il conflitto
Il conflitto nelle aziende è causato spesso (1):
• dalla scarsa comunicazione;
• dalla carenza di risorse fornite dall’azienda;
• dai conflitti di interesse tra due o più servizi aziendali.
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Il capo utilizza gran parte del suo tempo nel risolvere conflitti.
Le aziende non si preoccupano di insegnare, o meglio indirizzare, i propri capi nella gestione dei conflitti. Eppure le tensioni
che provocano i conflitti in azienda hanno elevati costi organizzativi, economici e di rapporti emotivi interni.
Una teoria (4) afferma che il conflitto è “un turbamento emotivo
risultante dallo scontro di punti di vista contrastanti….”; questa
tensione emotiva la si può vivere con il subordinato, con un collega o con il superiore diretto.
In genere si vive il conflitto come un evento negativo, da evitare
il più possibile, ma vero è che il conflitto fa parte della specie
umana e pertanto è inevitabile.
Se è inevitabile si può cercare di trarne vantaggio imparando a
gestirlo e sfruttarlo come un processo creativo. (2)
Al conflitto si può reagire in due modi: in modo istintivo, quindi
non controllato, oppure in modo acquisito e pertanto con l’esperienza e/o l’apprendimento.
La reazione istintiva (o automatica) che può essere rabbia, paura,
fuga, aggressività ecc. è parte dell’essere umano e modificarla o
reprimerla non è facile, certamente la reazione può essere quanto
meno controllata. In particolar modo la rabbia. Questa ha una forza a volte incontrollabile, soprattutto se viene sempre repressa: la
collera fa arrivare inevitabilmente al punto di rottura.
Altre volte è meglio esprimere la propria rabbia nel momento
stesso in cui la proviamo, siamo certamente più ascoltati e più
convincenti per far comprendere la contrarietà.
Quindi non conviene sempre reprimere i nostri istintivi comportamenti.
Bisogna sapersi controllare, razionalizzare imparare a conosce-
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re e gestire le nostre emozioni nella gestione del conflitto.
Importante è sapere che possiamo utilizzare un’altra reazione,
che non è sempre migliore, essenziale è comprendere che abbiamo un’altra possibilità alla reazione istintiva, controllando le
emozioni; dobbiamo aver la capacità di dominare e riconoscere
le nostre emozioni: saper utilizzare anche in questo caso la nostra intelligenza emotiva.
Fondamentale quindi è conoscere il conflitto e saperlo gestire
per raggiungere il fine voluto.
Per conoscere il conflitto dobbiamo capire la sua natura, le cause, gli stili personali e per ultimo la gestione e i relativi orientamenti al conflitto.
I conflitti sul lavoro coinvolgono generalmente più persone, il
che rende tutto più complicato.
Alcune teorie individuano tre tipi di conflitto:
Tradizionale: risultato di scarsa comunicazione e/o mancanza
di fiducia; è da evitare ad ogni costo chiarendo
immediatamente le cause e le motivazioni;
Naturale:
inevitabile parte della crescita individuale (il
bambino a scuola ha un forte diverbio con un
compagno e questo fa parte della crescita, deve litigare per maturare e crescere): va gestito in positivo in quanto da qui nasce l’esperienza professionale, ognuno di noi da giovane ha affrontato situazioni di crisi con conflitti; le stesse situazioni
oggi, grazie all’esperienza acquisita, sapremmo
gestirle facilmente, velocemente e senza conflitti;
Potenziale:
utile all’esperienza interpersonale, tipico esempio
è quando vediamo due lavoratori che discutono
animatamente per la soluzione di un problema
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tecnico; in questo caso non dobbiamo intervenire
perché la soluzione che troveranno sarà quella
giusta, se la ricorderanno sempre e forse quel
conflitto produrrà innovative soluzioni. Questo tipo di conflitto incoraggia l’interesse, fa discutere
ed approfondire i problemi, è costruttivo, migliora il rapporto interpersonale, stimola la creatività,
migliora la qualità delle decisioni, sfida il pensiero collettivo dando origine a nuove idee.
Il capo deve saper riconoscere la natura del conflitto e deve essere anche consapevole che a volte le tre prospettive sopra descritte
possono coesistere in momenti diversi con lo stesso interlocutore:
un unico conflitto racchiude, in tempi diversi, diverse nature.
Le cause del conflitto
Diverse possono essere le cause del conflitto: nelle aziende troviamo quale principale causa le limitate risorse che l’azienda ci
fornisce per raggiungere un obiettivo, in altre parole la competitività: massimo risultato con minimo dispendio di energia, che si
traduce in azienda con poco tempo, poche risorse umane e macchinari al limite della sufficienza.
Altra causa è il “campanilismo” tra i reparti: nelle aziende metalmeccaniche troviamo i “Manutentori” fieri ed orgogliosi di essere componenti dell’unico reparto a saper soccorrere sempre e
prontamente la produzione, si considerano i migliori. Se l’atteggiamento non è patologico, bisogna viverlo come un fattore positivo l’attaccamento al reparto in cui si lavora, l’orgoglio di appartenere ad una squadra.
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Il rapporto tra servizi diretti ed indiretti - chiamati anche lavoratori di “linea “ e di “staff” - è causa frequente di conflitti aziendali: il “servizio qualità” sovente si scontra con la “produzione”
avendo approcci all’attività lavorativa e obiettivi diversi; inoltre
il giudizio del loro operato da parte del superiore può essere
profondamente diverso;
• da parte dell’ufficio qualità (staff, indiretti) l’approccio al lavoro è di analisi, studio e precisione;
• il reparto produzione lavora su tempi di consegna e quantità
prodotta (linea, diretti);
• obbiettivo della qualità è un prodotto/servizio finito che rasenta la perfezione;
• obiettivi ultimi del reparto produzione rimangono la quantità del
prodotto effettuato (naturalmente conforme) e i tempi di consegna.
Anche i tempi di realizzazione degli obiettivi sono diversi: gli indiretti, o lo “staff”, hanno scadenze a lungo termine; i “diretti” o
la “linea”, si confrontano giornalmente sul risultato ottenuto.
Il giudizio ed il riconoscimento della direzione aziendale dell’attività
svolta dal servizio qualità – tipico servizio indiretto - è nell’accuratezza del progetto svolto, nella dettagliata analisi del ciclo organizzativo del servizio, ecc.; di contro per i servizi diretti - quale ad esempio la produzione in officina – il giudizio della direzione aziendale
cade sempre su quantità prodotta, costo e tempi di realizzo.
Due servizi così distanti trovano facilmente cause di scontro.
La differenza tra “diretti - indiretti” è evidente ed eclatante tra il
servizio qualità e il reparto produzione, ma troviamo questa “differenza” anche all’interno di ciascun settore dell’azienda.
Tra due persone che prestano la loro attività in azienda una è
sempre più “diretta” o di “linea” e l’altra più “indiretta” o di
“staff”: in produzione l’addetto che carica l’impianto produttivo
è “più diretto” dell’addetto che scarica l’impianto ed imballa il
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prodotto. Il primo non si può permettere una pausa altrimenti
ferma la produzione; il secondo (generalmente) può sospendere
l’attività senza dirette ed immediate conseguenze. Nell’ufficio
paghe l’impiegato che inserisce i dati per lo sviluppo delle retribuzioni è “più diretto” dell’impiegato che gestisce i rapporti con
gli enti previdenziali ed assicurativi.
Di esempi se ne possono fare molteplici, quasi quanti sono i dipendenti dell’azienda; l’importante è che il “capo” riconosca
questa causa di conflitto per poterla gestire direttamente.
Altre cause di conflitto sono quelle personali, tra cui:
differenze di obiettivi: chi è proiettato soprattutto alla carriera,
chi alla soddisfazione personale nel lavoro;
differenze di valori: importante è solo l’immagine che viene attribuita al lavoratore dall’organizzazione, oppure importante è la
soddisfazione personale del lavoro svolto correttamente;
differenze di personalità: chi è più estroverso o chi più introverso, ecc..
Quale che sia la causa, è compito del capo saperla distinguere e
riconoscere per gestire le differenze e risolvere il conflitto. Per
individuare la causa il capo deve imparare a capire e conoscere
le emozioni delle persone, capire cosa provano e come le vivono, ancor di più immedesimarsi provando lo stesso sentimento:
essere empatici.
Il conflitto più pericoloso ed insidioso da affrontare senza indugi è il conflitto non palese, quello che “cova sotto la cenere”, che
ogni giorno monta e crea tensione e disagio fin tanto che non
“esplode” producendo fratture insanabili.
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La gestione del conflitto
Possiamo affermare che ci sono diversi modelli di comportamento che vengono adottati in caso di conflitto, e possiamo individuarne alcuni (3), tenendo sempre presente che questi a volte si possono sovrapporre in diversi modi.
Alcuni soggetti amano il conflitto in sé, sono dei perenni “lottatori”, parlano concitatamente, gridano, affermano sempre e comunque di aver ragione mantenendo la loro posizione; la loro
prima soddisfazione è sostenere il conflitto, il risultato raggiunto
va in secondo piano e pertanto accettano di buon grado, ma non
certo senza farla soffrire, l’eventuale sconfitta. Quelli che partono dal presupposto che “gli altri hanno sempre torto”, serbano
sempre rancore in una sconfitta perché radicalmente convinti
che loro avevano comunque ragione.
Abbiamo poi i “disinteressati”: a loro va tutto bene per il quieto
vivere, anche se il problema non viene risolto; sono soggetti pericolosi perché non affermano mai cosa pensano.
Abbiamo i “neutrali”: non prendono posizione, non risolvono
mai il conflitto perché non vi entrano.
Infine le persone che considerano il conflitto una opportunità:
sono i più rari, purtroppo; difendono con vigore la propria posizione, hanno una visione realistica e sanno ascoltare gli interlocutori; il loro fine è trovare la soluzione giusta e non aver ragione.
Saper riconoscere, utilizzando l’empatia, a quale “modello” appartiene il nostro interlocutore è molto importante e solitamente
aiuta a risolvere il conflitto.
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Non esiste l’approccio ideale per risolvere un conflitto, perché
ogni capo ha il suo stile preferito; importante è riconoscere la
personalità dell’interlocutore ed applicare nei suoi confronti
l’approccio più consono alla risoluzione del conflitto; conseguentemente saperlo applicare alla situazione concreta tenuto
conto della personalità dell’interlocutore.
Richiamiamo qui gli approcci più frequenti per risolvere i conflitti (2):
la competitività, in cui abbiamo un vincitore e un vinto, tipico
della cultura nord americana; il conflitto si risolve spesso con
l’autorità o la violenza (questo comporta, nella cultura mediterranea, sempre del rancore da parte del vinto, quindi il conflitto
continua, anche se non palese). Questo approccio si adotta
quando c’è necessità di un’azione rapida e decisa e il problema
è importante, non sono possibili altre soluzione e c’è l’autorità
per mettere in atto questa azione decisa;
la collaborazione, quando si cerca una soluzione reciprocamente utile che prenda in considerazione gli interessi di tutti, perché
il problema coinvolge interessi molto importanti per tutte le parti in causa;
la fuga, un approccio considerato da molti sbagliato: evito o mi
allontano fisicamente dalle persone con cui ho il conflitto. Al
collaboratore che il venerdì sera solleva un problema banale o
poco importante si può “fuggire” sapendo che lunedì mattina il
problema si sarà risolto da solo; la “fuga” è anche utile se c’è l’esigenza di raccogliere ulteriori informazioni sul conflitto in essere; lo stesso atteggiamento si utilizza quando bisogna far calmare l’interlocutore. La fuga, se usata con parsimonia e saggezza,
risolve diversi conflitti in azienda;
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l’accomodamento, che si può utilizzare se si sa di aver torto o se
i problemi degli altri sono più importanti dei nostri interessi;
l’accomodamento ci rende creditori, un domani può servire. Per
ultimo, pur sapendo di aver ragione, si può utilizzare l’accomodamento per insegnare ai collaboratori i loro errori;
il compromesso, che è l’arte del direttore del personale e del sindacato: le parti fanno importanti e reciproche concessioni. Si utilizza quando l’obiettivo è determinante e non si vuole giungere
ad una rottura, oppure quando le parti in conflitto hanno ugual
potere ma sono di parere opposto.
I compiti del capo
Saper chi è il diretto superiore, quanti e quali sono i collaboratori, quali sono i limiti tecnici organizzativi rispetto agli altri servizi aziendali, quali diritti/doveri ha nei confronti dei rappresentanti sindacali, quali responsabilità ha nei confronti degli enti
amministrativi ispettivi e sanitari esterni e qual è l’ambito delle
responsabilità: sono tutte questioni cui un capo intermedio dovrebbe saper rispondere prontamente.
In un’analisi più attenta vediamo invece che i “confini” ed i “limiti” del ruolo del capo non sono mai ben delineati e conseguentemente sono di difficile individuazione; gli esempi sono
numerosi: se il direttore generale contraddice un ordine del superiore diretto come deve comportarsi il capo intermedio? Le
nuove forme di lavoro quali il distacco, lo stage, la somministrazione, il lavoro a progetto si differenziano dal classico contratto
subordinato e i capi devono saper gestire in maniera differenziata questi peculiari rapporti; quanto possono interferire il servizio
qualità o il servizio sicurezza dell’azienda sull’attività del capo
intermedio, così come i “Rappresentanti Sindacali Unitari”
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(RSU) e gli enti amministrativi esterni quali “ASL” o “l’Ispettorato del lavoro”. A queste domande certamente non è sempre agevole rispondere.
Oggi è alquanto complesso determinare l’ambito di responsabilità delle mansioni all’interno dell’azienda. I confini ed i limiti
dei compiti a volte si accavallano con le mansioni e i compiti dei
colleghi; il tempo, le leggi, la tecnologia modificano continuamente la “linea di confine delle responsabilità” del capo intermedio.
Le organizzazioni aziendali hanno sempre più una struttura gerarchica appiattita e sempre meno piramidale; i rapporti e il flusso di informazioni non sono più, come 20 anni fa, verticali, dall’alto al basso nella scala gerarchica, ma sempre più orizzontali
e traversali.
Il capo deve confrontarsi non più solo con il diretto superiore e
il suo collaboratore ma interagisce in una organizzazione sempre più complessa e che varia nel tempo.
Il flusso di informazioni ed i rapporti interpersonali negli anni
70/80 scorrevano solo dall’alto al basso: il capo ordinava e i collaboratori eseguivano.
Nelle aziende di oggi il capo coordina e verifica la fattibilità di
un progetto emanando l’ordine ai subalterni specializzati; questi
eventualmente possono sollevare eccezioni e controindicazioni
tecniche ed applicative all’ordine che ”risale” al capo; quest’ultimo “rivede” il progetto e modifica l’ordine impartito.
La comunicazione pertanto dal basso ritorna verso l’alto nella
scala gerarchica piramidale.
Inoltre il flusso di informazioni è sempre più orizzontale nella
struttura organizzativa aziendale; qualsiasi capo prima di effettuare ogni operazione deve verificarne la fattibilità e quindi confrontarsi con i colleghi degli altri servizi: una modifica al servi-
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zio o al prodotto deve essere prima esaminata con la progettazione per la sua fattibilità, con il magazzino per le scorte, con
l’antifortunistica per il rispetto delle norme, con il servizio qualità per il controllo, con l’ufficio personale per le eventuali ore
lavorate in regime di straordinario…ecc. Risulta evidente, in uno
scenario così complesso ed interscambiabile, il dovere e la necessità, per ogni pedina dell’organizzazione aziendale, di avere
e mantenere un flusso continuo di comunicazione con tutta la
struttura.
Risulta pertanto sempre più arduo definire la mansione del capo
ovvero elencare i principali compiti e le conseguenti operazioni
di ogni compito.
Se proviamo a definire i principali compiti di un capo intermedio,
sorge subito il problema di individuare il criterio: se i compiti da
prendere in considerazione devono rispondere al criterio temporale, vediamo subito che il compito di coordinare i collaboratori è
il primo e il più importante; se il criterio è quello della responsabilità, ecco che può emergere quale compito più significativo il
rapporto settimanale che si effettua in breve tempo alla direzione;
se il criterio è quello della puntualità, abbiamo un ulteriore elenco di compiti.
Proviamo comunque teoricamente ad elencare cinque compiti
principali di un “capo intermedio”:
1 coordina e sovrintende l’attività di N collaboratori;
2 programma ed organizza il servizio o la produzione assegnata;
3 rispetta e fa rispettare le norme antinfortunistiche e della qualità;
4 dà il supporto tecnico ai collaboratori;
5 organizza la manutenzione ordinaria degli impianti.
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Se a questa teorica figura di capo intermedio vengono successivamente affidati tre giovani collaboratori, il suo principale compito cambia improvvisamente: la formazione dei neoassunti diventa il compito principale.
Se viene assegnato un servizio innovativo, uno dei compiti principali sarà il saper approcciarsi alle nuove tecnologie e nella
conseguente riorganizzazione del lavoro.
Definire mansione e relativi compiti non è facile ed una volta definito il criterio per identificare i compiti, questi possono essere
stravolti, nel breve periodo, da avvenimenti aziendali o extra
aziendali.
In questi ultimi anni i capi hanno vissuto le problematiche dell’antifortunistica con la legge n. 626 del 1994, le diverse procedure della qualità, i sistemi di manutenzione dei macchinari
T.M.P. (Total Maintenance Program)…. ecc.; tutti fattori che hanno modificato in maniera rilevante l’attività, le responsabilità e i
compiti dei capi produzione e/o servizio.
È evidente pertanto che le mansioni e i compiti sono soggetti a
cambiamenti continui dovuti non solo alle vicende aziendali (nuovi servizi, nuove tecnologie, diverse organizzazioni del lavoro …
ecc.) ma anche alle vicende legislative ed amministrative esterne.
Il mercato del lavoro richiede pertanto un capo flessibile, aperto
alle novità e disposto a modificare, nel breve periodo, la propria
attività. Deve saper gestire efficacemente il cambiamento. Si
chiede quella flessibilità ed adattabilità al nuovo, è lui il soggetto primario che deve saper portare avanti, proponendo positivamente e con entusiasmo, le nuove strategie aziendali e le modifiche richieste, o meglio imposte, all’azienda dal mercato.
Deve saper controllare le proprie emozioni, automotivandosi al
nuovo e motivando la squadra alle innovazioni, ai cambiamenti. Qual è, allora, il vero ruolo del capo intermedio?
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Ridefinizione del ruolo del capo
Fino a 20/30 anni fa il capo era, e doveva essere, autoritario: le
prestazioni professionali dei collaboratori erano, il più delle volte, di basso profilo, il livello culturale degli addetti e degli operatori era modesto, l’attività lavorativa era spesso ripetitiva e le
procedure aziendali erano rigorose e permettevano pochissima
discrezionalità ai lavoratori.
Il capo aveva, come già detto, l’autorità tecnica, era il più competente in azienda a svolgere l’attività dei collaboratori, aveva
quale compito principale la direzione ed il controllo della squadra affidatagli.
L’autorità del capo aveva inoltre un forte alleato: la minor forza
contrattuale del collaboratore timoroso di “perdere il posto”; inoltre spesso aveva una gestione del personale “diretta” in materia di
retribuzione, passaggio di livello, ferie e permessi, ecc..
Oggi le prestazioni professionali di basso profilo nel nostro paese stanno scomparendo, nelle aziende italiane è normale vedere
operatori che eseguono l’attività in piena autonomia, magari che
operano al computer per organizzare il servizio da offrire agli
utenti.
Il lavoratore nelle aziende tecnologicamente avanzate non è più
il soldato esecutore, sempre pronto ad ubbidire ed a correre senza chiedersi il perché; l’azienda ha bisogno sempre più di tecnici specializzati che sappiano condurre i servizi e le nuove tecnologie degli impianti.
Oggi gran parte dei collaboratori hanno un diploma di scuola superiore o una laurea e questi giovani reclamano il diritto di controllo sulle decisioni che li riguardano.
È loro dovere, in quanto rientra nel loro ruolo, evidenziare al proprio diretto superiore eventuali eccezioni se l’ordine ricevuto è ritenuto controproducente all’organizzazione e/o al servizio. Spesso il
capo non è tecnicamente aggiornato come il proprio collaboratore.
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Per ultimo i capi di oggi devono confrontarsi con una generazione di giovani che convivono a lungo con i genitori e pertanto non hanno più quel timore di perdere il posto, sono ragazzi
che solo oltre i trent’anni avranno il peso e la responsabilità di
una famiglia.
Abbiamo quindi una forza lavoro più istruita, conseguentemente con
aspettative di lavoro e di carriera diverse da quelle dei loro genitori;
desiderano un lavoro più interessante, che possa stimolare la creatività, l’apprendimento, il pensiero, lo sviluppo di nuove capacità.
I ragazzi che si affacciano oggi sul lavoro non cercano un “posto fisso” ma mirano alla carriera; non sono più disposti a sopportare, come i loro padri, lavori tediosi e ripetitivi (perché sono
culturalmente lontani da queste mansioni). Questa generazione
chiede maggior libertà nella sua attività, più indipendenza nel
ritmo e nel modo di lavorare, una maggior autonomia e responsabilità.
Conseguentemente l’autoritarismo non è più accettato dai giovani istruiti, lo stile vecchio di direzione autocratico ed accentratore non può che allontanare e demotivare questa nuova forza
lavoro.
Per i motivi sopra richiamati il rapporto capo-subalterno in questi anni si è sostanzialmente modificato, portando a una ridefinizione delle mansioni del capo, il quale ha visto diminuire la forza contrattuale derivante “dall’autorità tecnica”; l’autorità direzionale si è affievolita e conseguentemente c’è una forte
riduzione del ruolo di “ direzione e controllo”.
Il capo intermedio deve saper decentrare e delegare l’attività in
base alle singole competenze e professionalità dei collaboratori;
oggi possiamo pertanto suddividere in tre funzioni base il ruolo
del capo:
1 funzione tecnica: il capo deve fornire un servizio all’organizzazione svolgendo compiti necessari ma non indispensabili,
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deve lavorare all’interno ed insieme al gruppo che dirige; la sua
presenza è necessaria, ma non indispensabile: senza di lui l’attività ordinaria prosegue “da sola”, se ciò non fosse vorrebbe dire
che il capo non ha formato adeguatamente i propri collaboratori. Il capo è indispensabile solo a fronte di eventi straordinari (e
questi sono intrinsecamente rari! se no perdono la loro caratteristica) dove il potere di gestione e la conoscenza tecnica non può
essere sostituita dal collaboratore;
2 funzione di consulenza e formazione: abbiamo visto che il capo non ha più quella completa conoscenza tecnica per riuscire
a coprire qualsiasi evenienza produttiva. Oramai i collaboratori
sono sempre più “specializzati” nell’attività che svolgono, nel
servizio che offrono, in quanto attività sempre più complesse ed
articolate; il capo deve comunque supportare il gruppo che dirige con la sua capacità gestionale e la sua esperienza; quando
non è in grado di dare la consulenza diretta deve comunque dare risposte alle richieste dei collaboratori, attivandosi con supporti tecnici esterni: alla domanda di aiuto del collaboratore il
capo deve sempre rispondere, direttamente o indirettamente.
Il capo deve risolvere o far risolvere i problemi tempestivamente! Questo è ciò che, ovviamente, si aspetta il collaboratore. Ulteriore attività del capo è la formazione dei suoi collaboratori. È
lui che si deve far carico della formazione e dell’aggiornamento,
solo a lui spetta l’iniziativa, è il motore propositivo dell’addestramento formativo. A ben vedere conviene più al capo che all’azienda avere una squadra formata e tecnicamente preparata:
se il lavoro ordinario viene svolto tranquillamente dalla squadra
il capo può occuparsi di altre attività;
3 funzione di gestione - controllo mantenendo una certa uniformità all’interno del gruppo che dirige.
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Il capo coordina e sovrintende i propri collaboratori, deve cercare di formare un “gruppo di lavoro” o meglio un ”team” affiatato ed unito per perseguire gli obiettivi prefissati. È il capo che
deve motivare i propri collaboratori e creare clima di lavoro
ideale per il gruppo. Deve altresì saper fissare obiettivi, operare
scelte ed assumersi conseguentemente i rischi, deve essere sempre più la guida della squadra che gestisce: deve essere il leader
della squadra.
Per le aziende non sono più sufficienti i capi tecnicamente preparati, anzi questa caratteristica sarà sempre meno rilevante nella professionalità del capo, che in futuro dovrà (deve) “lavorare
di meno” e “orientare di più” (4).
Oggi il capo intermedio deve essere sempre più “leader” e dedicarsi meno all’attività di “management”: deve motivare, guidare
ed ispirare la squadra che gestisce, deve svolgere sempre più
l’attività di orientamento; questi sono atti motivazionali.
Per contro si riducono le attività gestionali di controllo, di pianificazione, di organizzazione, ... ecc.: gli atti esecutivi diventano
sempre meno determinanti.
Oggi le attività di orientamento (leadership), rispetto alle attività
gestionali (management) impegnano il capo intermedio in misura
superiore; questo rapporto cambia notevolmente in base alle dimensioni strutturali e contestuali dell’azienda: tipo di servizio offerto, livello della tecnologia applicata, livello culturale dei collaboratori, azienda con gerarchia più o meno centralizzata, limiti dimensionali, numero dei collaboratori da gestire… ecc. ma al
di là della tipologia dell’azienda la percentuale di lavoro che il
capo dedica all’attività di leader generalmente non è mai inferiore al 20%.
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Il micro e macro cosmo aziendale
Raramente una decisione, un ordine, una soluzione viene presa
da un solo soggetto. Abbiamo visto che le aziende sono sempre
più strutturate gerarchicamente come una piramide appiattita e i
vari servizi aziendali operano interagendo tra di loro.
A volte nelle aziende proviene dall’alto un ordine che appare incoerente, che si ritiene non essere il risultato di una logica argomentazione.
Dovere del capo è segnalare ai superiori che eseguire dette istruzioni potrebbe essere controproducente per l’azienda e conseguentemente per il servizio offerto ai clienti.
Se però l’ordine viene confermato, il capo deve eseguire l’ordine non condiviso senza far trapelare ai propri subordinati la sua
contrarietà a rischio di trasmettere ai sottoposti tutte le perplessità e di demotivare tutto il gruppo di lavoro.
L’argomentazione logica che giustifica questo comportamento passivo all’ordine ritenuto non corretto, risiede nella presenza-coesistenza del fattore “micro e macro cosmo” in cui lavoriamo, presente nelle aziende a tutti i livelli. Se non conosciuto e valutato,
questo fattore porta a forti tensioni interne; il concetto è semplice:
ogni capo ha una visibilità superiore, una concezione delle problematiche più ampia del suo sottoposto e pertanto conosce fattori che possono incidere su una decisione.
Detti fattori non sempre possono essere comunicati al sottoposto. Come sopra evidenziato un ordine il più delle volte è deciso e quindi condiviso da più persone a seguito di una dettagliata analisi della problematica, con la raccolta di tutti i dati a disposizione, seguendo una argomentazione logica ed emanando,
in ultimo, l’ordine da fare seguire ai sottoposti.
Il sottoposto non può, e a volte non deve, conoscere tutti i dettagli che hanno portato alla decisione.
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Quando la direzione aziendale, nonostante le segnalazioni dei
sottoposti, persegue una direttiva che appare non coerente e contro la logica aziendale, vuol dire semplicemente che dietro c’è un
“macro cosmo” che non è conosciuto e che non è visibile, né deve esserlo, dal “micro cosmo” dei sottoposti.
Non si può e non si deve giudicare se non si ha una visione completa di tutti i dettagli che hanno portato alla scelta della direttiva aziendale ritenuta non coerente, avendo fiducia nelle persone che si conoscono e nell’organizzazione in cui si opera.
L’autorità
Tutti i capi conoscono l’autorità, si confrontano e ci convivono
tutti i giorni; ma definirla non è semplice, è un concetto astratto,
proviamo ad analizzarlo per comprenderlo meglio.
L’autorità compete per vie gerarchiche, si esprime innanzitutto
nel potere di comandare: sei nominato capo e pertanto hai il potere di comandare, ma non è sempre detto che avrai obbedienza
dai sottoposti.
Per ottenere obbedienza si deve possedere l’autorevolezza e
questa deve ovviamente essere riconosciuta. L’autorevolezza è il
“potere soggettivo”, ovvero è la credibilità di chi dà l’ordine.
In quante aziende c’è un “capo” che di fatto non è capo, perché
viene scavalcato dai subordinati; nessun collaboratore chiede
consigli o indirizzi a questo “non capo”; quando dà un ordine i
collaboratori verificano la percorribilità dell’ordine impartito
con il collega più esperto o con un altro capo.
Sono casi dove si riscontra il “potere” attribuito dalle norme
aziendali ma non è riconosciuta “l’autorità” di comandare: si dice in questi casi che sono solo “capi sulla carta”.
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L’autorità in azienda presuppone il coraggio di prendere decisioni
e chi assume decisioni conseguentemente si accolla le relative responsabilità.
Un capo può perdere nel tempo l’autorevolezza nei confronti dei
collaboratori e colleghi se non possiede la forza morale – il coraggio - che mette in grado di prendere decisioni, di affrontare e
risolvere le difficoltà, con piena responsabilità.
I rapporti emotivi interaziendali
Il rapporto emotivo tra le persone è fondamentale, non fosse altro per
la sua stabilità e per la sua influenza sull’efficienza degli individui.
Le “ulcere da lavoro”, le “notti insonni”, le emozioni fisiche
passive quando si parla con il capo, sono il risultato dei cattivi
rapporti, o meglio dei rapporti emotivi a volte patologici, che il
lavoratore ha con il proprio “capo”; sono rapporti emotivi negativi che portano ad un’inefficienza che ricade sull’andamento dell’azienda.
La società in cui viviamo ha una cultura che vuole tutti razionali e che nasconde, o sottovaluta, il rapporto emotivo tra le persone. Nelle aziende le emozioni personali spesso sono considerate come un fastidio, uno sgradevole sottofondo che disturba il
funzionamento razionale dell’organizzazione; con un capo irritabile, freddo, ombroso, nessuno vuole lavorare e queste sono
emozioni, sono stati d’animo.
Se lo stato d’animo del capo è invece positivo, ottimista, pieno
di entusiasmo, aperto, tutto sarà più semplice per i collaboratori. Il rapporto emotivo è fondamentale in un gruppo di lavoro e
il capo deve sempre gestirlo con cura ed attenzione.
L’esistenza, e quindi l’importanza, del rapporto emotivo è raramente riconosciuta: nessun capo ammetterà mai di essere gelo-
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so di un proprio collaboratore, così come pochi subordinati ammetteranno di essere sedotti dal proprio capo;
I rapporti emotivi possono essere sia positivi che negativi; sono
positivi quei rapporti amichevoli, costruttivi, di stima tra capo e
collaboratore, sono più facili da identificare, sono accettati, voluti e riconosciuti dalle parti e quindi palesi.
Quelli negativi o peggio patologici sono invece nascosti e subdoli. Il lavoratore subalterno percepisce e riconosce più facilmente il rapporto emotivo negativo/patologico che ha con il proprio capo perché lo subisce e lo soffre.
Il capo, viceversa, raramente riconosce l’esistenza del rapporto emotivo patologico con i subalterni, attribuisce la colpa al collaboratore
se vede che questi vive il rapporto con disagio, comunque non se ne
preoccupa poiché non lo ritiene un suo problema: fa ricadere nella
personalità dei collaboratori la fonte del disagio.
Quando un capo sostiene di condurre una squadra che è composta da lavoratori che non hanno mai iniziative, non sono propositivi, non prendono autonomamente decisioni, non si assumono mai responsabilità, molto probabilmente ci troviamo di
fronte ad una figura di capo che opprime, non dà spazi e fiducia
ai collaboratori, accentra e controlla ogni attività.
È evidente in questo caso come il collaboratore non può esprimersi perché vive con sofferenza il rapporto con il capo: ha paura di manifestare le sue idee, teme le reazioni del proprio capo,
non riesce ad essere se stesso, ha paura di essere propositivo, vive con forte disagio il rapporto e questo lo porta a non riuscire
ad affermare la sua personalità.
La colpa ricade anche sul collaboratore perché teme a dismisura
il proprio capo, che certamente finisce per approfittare, coscientemente o meno, della sua posizione e forza contrattuale.
Vediamo ora di analizzare alcune delle forme patologiche dei
rapporti emotivi del capo insieme ai “modelli di direzione”, con
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l’avvertenza che a volte le forme patologiche sottodescritte nella realtà possono sovrapporsi e pertanto non è sempre facile individuarle e classificarle (5).
L’ossessione
Il capo “ossessivo” è certamente ansioso, deve controllare, verificare tutto, deve sapere (o meglio credere) che tutto sia sotto il suo
controllo, teme l’imprevisto, generalmente questo suo atteggiamento è da attribuirsi al fatto che a sua volta ha un capo ossessivo.
I subalterni vivono con disagio il rapporto che si instaura; si sentono, perché lo sono, controllati, non hanno autonomia, percepiscono la mancata fiducia del capo nei loro confronti, il quale
spesso applica una procedura interna rigorosa. A lungo andare i
lavoratori si disaffezionano al lavoro, non possono decidere nulla, non hanno alcuna discrezionalità e responsabilità. In questo
caso, come nei modelli di direzione che andiamo a descrivere di
seguito, il problema esiste quando un capo è “ossessivo” all’eccesso e non è consapevole di esserlo.
Può succedere che un capo consapevolmente decida di essere
“ossessivo” in maniera estrema per un determinato periodo a fronte, per esempio, di un nuovo e particolare lavoro. In questo caso
non ci troviamo davanti ad un comportamento patologico emotivo del capo, in quanto cosciente del comportamento estremo ma
temporaneo per affrontare e risolvere una determinata situazione.
La pedagogia
Quando il capo sostiene che i suoi collaboratori sono bravi ma
carenti professionalmente e pertanto non possono e non sanno
gestire le situazioni particolari, il capo non delega più di tanto e
li deve seguire continuamente ed attentamente nella loro attività.
Il rapporto qui è quasi paterno ma nel senso negativo: i figli crescono anche grazie al padre, ma in questo caso i collaboratori rimarranno sempre “immaturi”, non saranno mai all’altezza della
situazione; se c’è un fosso tra le conoscenze e le possibilità del
capo ed i suoi collaboratori, questo fosso il capo pedagogo lo
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rende sempre più profondo.
Il capo nella fattispecie non informa i suoi collaboratori perché ritenuti scarsi, perché non si fida, perché secondo lui non sono in
grado di affrontare altre problematiche oltre a quelle che lui ha originariamente affidate a loro.
La seduzione
Tipico negli uffici amministrativi: l’anziano capo ha di fronte il giovane neolaureato che gli chiede un chiarimento tecnico/normativo:
il capo cita al riguardo la norma e le relative dottrine, gli trasferisce
del materiale cartaceo sull’argomento e ricorda vagamente che un
caso analogo l’ha affrontato 20 anni prima e risolto così:…
Il giovane esce dall’ufficio frastornato: su 10.000 leggi che ci sono in Italia subito il “capo” ha individuato immediatamente la
norma specifica, il comma e la relativa dottrina; non solo! Ha
fornito del materiale che avrebbe trovato solo dopo una lunga ricerca in biblioteca. Ormai il danno è fatto, il giovane è sedotto!
Quando sentiamo affermare dai colleghi: “ho iniziato a lavorare
con il dott. Tizio: persona eccezionale, gran lavoratore, persona
amabile ed umana con una preparazione tecnica profonda e solida”; siamo di fronte quasi sempre al rapporto di “seduzione” :
è più facile sedurre un ragazzo senza esperienza, è più facile farsi sedurre alla prima esperienza di lavoro.
Così come è facile essere sedotti dall’unico capo avuto: non si
hanno confronti, paragoni. Quante volte sentiamo dire: “è il miglior capo che conosco, è bravissimo”!
Eppure alcuni capi gestiscono volutamente i collaboratori mostrandosi come persone eccezionali e riuscendo così ad ottenere
la massima disponibilità dai propri subalterni.
Tipico nelle alte direzioni di grandi aziende, dove la segretaria
del direttore generale si agita con affanno, con aria severa, riservata e dignitosa seguendo l’unico fine ultimo: soddisfare sempre,
comunque ed immediatamente le richieste sempre urgenti e importantissime del proprio capo. Generalmente queste signore so-
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no nubili, severe, perennemente presenti sul posto di lavoro,
senza amicizie all’interno, con un rapporto patologico inconscio
di seduzione sopra descritto.
Estremizando il concetto, o si è sedotti o il capo ti respinge violentemente; o accetti e riconosci il “capo formidabile” o sei
fuori.
La gelosia
Spesso i capi si lamentano delle forti responsabilità che devono
affrontare e criticano i subalterni che non vivono con sufficiente
presenza di spirito tutte le problematiche dell’ufficio, sono svogliati, non devono mai prendere decisioni e a fine lavoro rientrano a casa senza problemi.
Questa è una prima forma di gelosia: il capo si sente carico di
responsabilità e non vede nei subalterni il coinvolgimento al lavoro come vorrebbe, in fondo è geloso dei subalterni che “vivono senza problemi”; questo rapporto emotivo si traduce in genere in una esagerazione ed esaltazione dei difetti dei collaboratori: fanno il meno possibile, sono svogliati, hanno una vita facile,
non si rendono conto della fortuna che hanno a lavorare in questa situazione, ecc.. Da qui il passo per il disprezzo è breve.
La seconda forma di gelosia è più semplice da decifrare per il subalterno, mentre per il capo è impossibile vederla: quando il sottoposto è più bravo del capo stesso, professionalmente, nei rapporti umani interni, nell’inventiva sul lavoro, ecc. Il capo non
può e non sa riconoscere a se stesso che il collaboratore è migliore, conseguentemente vive questo rapporto con grande ansia
e con una intrinseca gelosia.
Quante volte in azienda si sente affermare che un lavoratore in
quella posizione è sacrificato; che potrebbe dare molto di più all’azienda; che il capo reparto lo limita nel lavoro. Siamo di fronte ad un rapporto patologico di gelosia.
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L’indifferenza
Generalmente questo rapporto emotivo patologico tra capo e
collaboratore sorge perché il capo ritiene non idoneo e non affidabile il sottoposto e nel tempo lo isola: non gli affida più incarichi di rilievo, lo emargina, diventa indifferente se il collaboratore lavori bene o male, il capo non lo premia né lo critica. Per
il collaboratore è una situazione molto difficile: non esistere agli
occhi degli altri è insopportabile.
Tutti i rapporti patologi emotivi sopra descritti sono stati estremizzati per meglio identificarli e dare una classificazione. Ogni persona
ha probabilmente, in parte, qualche caratteristica sopra delineata,
l’importante è che non sia totalizzante e quindi patologica: va bene
essere un po’ seduttori e un po’ ossessivi con alcuni o tutti i collaboratori, ma senza esagerare.
Questi approcci possono essere positivi quando le caratteristiche
sopra descritte sono portate anche all’estremo ma il capo è conscio di applicare, per un certo periodo, un rapporto emotivo patologico con il collaboratore al fine di “recuperarlo”. Rapporti
interpersonali gestiti con “violenza” o “ossessione” per limitati
periodi di tempo possono essere considerati un atteggiamento
positivo, patologico ma cosciente, voluto per un fine corretto.
I problemi vengono quando il rapporto emotivo patologico c’è
ed è inconscio: il capo non lo sa, ma tutti i suoi collaboratori ed
i colleghi sanno che lui è patologicamente “ossessivo” o “agressivo”.
Non è raro, anzi è frequente, che il rapporto “emotivo patologico inconscio” sia mantenuto dal capo nei confronti di un solo dipendente, provocando a quest’ultimo forti tensioni interne e unico a non accorgersene è, spesso, il capo stesso.
I motivi che fanno nascere un rapporto “emotivo patologico inconscio” sono innumerevoli e soggettivi; il problema è, come
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detto, che il capo stesso se ne renda conto.
Generalmente il capo “emotivo patologico inconscio” ha uno o
più rapporti patologici con un suo o più collaboratori:
• quante volte la direzione del personale ha allontanato un dipendente dal reparto perché altrimenti il capo lo avrebbe fatto
“morire”;
• quante volte nelle aziende un dipendente viene giudicato non
idoneo in un reparto ma a seguito di un trasferimento interno
il lavoratore è risultato essere più che bravo;
• quante volte vengono date le dimissioni con la motivazione
che non si riesce più a lavorare “con quel capo”;
• quante volte si incontra un collega durante il periodo delle ferie e ci sembra totalmente un’altra persona.
Questi esempi evidenziano tutti i casi in cui tra la “squadra”e il
“capo” c’è un rapporto emotivo scorretto: il capo deve saper
guardare anche “dentro” al proprio reparto, ufficio e servizio e
“saper vedere” i propri rapporti emotivi eventualmente scorretti.
A volte bisogna prima “fare autocritica” per capire di chi sia la colpa del rapporto emotivo scorretto.
Rammentiamo sempre che il livello di comunicazione, il tipo di
rapporto emotivo, il metodo d’approccio, il tipo di confronto, il
modo di interfacciarsi, il consigliarsi o confidarsi tra capo e collaboratore viene deciso e gestito solo e sempre dal capo.
È il capo a stabilire gli standard da seguire nel rapporto interpersonale.
È il capo a dire “diamoci del tu”, “andiamo a prendere un aperitivo”, “andiamo a parlarne a pranzo insieme”, “ti voglio confidare un segreto aziendale”, “niente formalità tra noi”…. ecc.
Pertanto se il rapporto interpersonale non funziona o peggio porta a forti tensioni, a stress, ad ansie, si deve innanzitutto ricordare
che il capo è l’unico che conduce il gioco tra le parti e che stabilisce le regole nel rapporto con i collaboratori.
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I lavoratori che vivono con ansia il rapporto con il proprio capo
hanno quale conseguenza il disagio e la demotivazione, con riduzione della produttività e creatività.
Il rapporto emotivo del capo con l’organizzazione
Nelle aziende si trova spesso una tipologia di capo che possiamo
definire “nostalgico”: 40 - 50 anni, demotivato, pessimista e sconsolato. Questi capi rimpiangono il passato o meglio l’azienda in
cui operavano ventanni prima; ricordano con piacere, e con nostalgia, i rapporti umani positivi e fraterni che avevano istaurato
con i colleghi e la posizione di forza che aveva l’azienda nel mercato in cui operava. I capi nostalgici sono restii ad accettare le novità e spesso criticano l’operato dell’attuale azienda, non rendendosi conto che il problema sono loro stessi: sono invecchiati.
L’uomo all’età di vent’anni è aperto a nuove esperienze, ricerca
sempre nuovi rapporti umani, è propositivo, curioso, ottimista ed
è interessato a tutte le novità che gli ruotano attorno. Con il passare degli anni diventa più intollerante, ha difficoltà nei nuovi rapporti con le altre persone, crede di aver visto e vissuto quasi tutto,
aumenta il pessimismo, perde la curiosità nel nuovo, lo stimolo
della ricerca e i problemi del quotidiano sono affrontati senza
emozioni positive.
Pertanto non è l’ambiente di lavoro o l’azienda che è cambiata, ma
soprattutto è il lavoratore che è cambiato, vivendo il rapporto con
i colleghi e con l’organizzazione in maniera diversa ovvero negativa. Conseguentemente i capi nostalgici si ancorano ai presunti allori del passato; questi lavoratori “invecchiati” generalmente disapprovano il nuovo sistema di organizzazione dell’azienda, rimpiangendo la vecchia organizzazione. Invece le aziende cambiano,
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adeguandosi e rispondendo alle esigenze del mercato: oggi le
aziende producono certamente con costi minori, con maggior sicurezza nel lavoro e con un indice di qualità superiore rispetto a
vent’anni fa; l’azienda di oggi opera in un mercato sempre più
aperto e concorrenziale, con una clientela sempre più esigente e
tutti i lavoratori, in particolar modo i capi intermedi, si devono adeguare all’inevitabile cambiamento continuo e costante che esige il
mercato.
I capi nostalgici, nonostante queste realtà inconfutabili, rimpiangono le “glorie” passate della vecchia azienda in cui operavano,
senza rendersi conto che quest’ultima oggi non potrebbe reggere il mercato.
Questi “capi” dovrebbero far emergere la forza, l’entusiasmo, il
coraggio, la motivazione, l’altruismo che possedevano; dovrebbero saper controllare e dominare le cause che liberano le emozioni, i sentimenti; aprirsi con i colleghi di lavoro, conoscerli e
comunicare con loro come facevano a 20 anni, anche se allora
non erano capi.
La “nostalgia” rende emotivamente apatici, demotivati, stanchi,
annoiati, non propositivi. Si rischia di perdere la consapevolezza del modo in cui le emozioni stanno danneggiando il lavoro,
l’organizzazione e il coordinamento.
La consapevolezza di riconoscere quanto le nostre emozioni influenzano ciò che facciamo è fondamentale nel mondo del lavoro; il capo deve pertanto saper riconoscere ed individuare le
emozioni che influenzano negativamente il modo di lavorare.
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La cultura aziendale
Ogni azienda ha il proprio “modo di fare”, il proprio “modo di
essere” che sono il risultato della dimensione strutturale/contestuale/storica dell’azienda.
Prendiamo per esempio un’azienda “A” che produce da 20 anni
lo stesso prodotto di basso contenuto tecnologico, con un numero limitato di clienti, gestita da anziani dirigenti. Questa
azienda ha una “cultura aziendale” e di organizzazione totalmente diversa - se non opposta - rispetto ad un’ azienda “B” che
modifica sostanzialmente il prodotto ogni anno ad alto contenuto
tecnologico con un numero elevato di clienti in continua evoluzione è diretta da giovani dirigenti.
L’attività del capo intermedio che opera nelle aziende “A” e “B”
comporta non solo un approccio al lavoro, all’organizzazione, alla
conduzione del personale totalmente diverso ma un “modo di essere capo” un “modo di fare” opposti o quanto meno molto diversi.
La centralizzazione, la gerarchia, la formalizzazione e la burocrazia sono, molto generalmente più marcate e pretese nell’azienda
“A”;
L’innovazione, la tecnologia, la flessibilità, l’autonomia e i rapporti informali sono più presenti e valorizzati nell’azienda “B”.
Il capo deve capire e comprendere, utilizzando la peculiarità caratteriale dell’empatia, ovvero la capacità di riconoscere le emozioni altrui e farle proprie, la “cultura aziendale” nell’azienda in
cui opera, facendola propria ed adeguandosi conseguentemente.
Ci sono pertanto nelle aziende norme non scritte ma implicite e presenti che vigono e che non si possono contrastare; bisogna solo capirle, riconoscerle, adeguarsi e conseguentemente farle proprie.
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Bisogna saper riconoscere e comprendere la cultura aziendale
prima ancora, se possibile, di iniziare a prestare l’attività: è compito del capo individuare il modo di essere e di fare dell’azienda e adeguarsi seguendo le norme non scritte.
Il capo che non comprende e non si adegua alla “cultura aziendale” viene nel tempo estromesso dall’organizzazione, perché
non si possono violare le regole cardine – non scritte - ma implicite che fanno parte del tessuto aziendale.
I dipendenti di un’azienda sono sì soggetti singoli che operano,
ma in un contesto di gruppo del quale non si possono ignorare
le regole.
Non si possono introdurre procedure burocratiche e totalmente
centralizzate in una azienda giovane, innovativa, all’avanguardia
nel settore in cui opera. Ugualmente non si può pretendere che i
dipendenti accettino e si adeguino in tempi brevi alle innovazioni
e alle nuove tecnologie nelle aziende mono prodotto, con una anzianità media dei lavoratori elevata.
Così come non si può impiantare in breve tempo una cultura di
“azienda privata” in un ente che per 40 anni è stato pubblico.
L’eventuale cambiamento della cultura aziendale può essere attuato solo attraverso un “processo emotivo” di persuasione che
richiede l’adesione e la partecipazione – con relativo coinvolgimento - dei dipendenti dell’azienda.
La nuova forza lavoro
Il dipendente tipico degli anni 70’ era di sesso maschile, con licenza media, padre di due o più bambini ed era l’unica fonte di
guadagno della famiglia.
Nell’ Italia di oggi i lavoratori sono generalmente diplomati,
quindi più istruiti, chiedono più autonomia, non cercano più il
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“posto fisso” e quando si prendono la responsabilità di una famiglia (magari procreando un solo figlio), non sono l’unica fonte di reddito della famiglia: le donne sono da diversi anni una
costante presenza nel mondo del lavoro.
Il rapporto capo/collaboratore negli anni 70’ si basava sulla forza
contrattuale determinata dall’esperienza e preparazione tecnica
marcatamente superiore nel capo (autorità tecnica) e dalla dipendenza del collaboratore verso l’azienda: lo stipendio era l’unica
fonte di sostentamento di una famiglia spesso numerosa.
Questo rapporto di forza contrattuale oggi è totalmente cambiato: spesso i collaboratori hanno una preparazione più specialistica del proprio capo, la supremazia riconosciuta al capo non
ha più come fonte “l’autorità tecnica” e non è supportata dalla
totale dipendenza economica del lavoratore; l’autorità del capo
è oggi innanzitutto quella del “leader” riconosciuta dai suoi collaboratori.
Eppure troviamo ancora nelle aziende dei capi che gestiscono,
coordinano e conducono il personale come 20/30 anni fa: non si
sono resi conto che la forza lavoro è cambiata, utilizzano ancora
i vecchi sistemi autoritari e direzionali per gestire il personale.
La direzione aziendale puntualmente individua questa tipologia
di capi dalle lamentele dello stesso personale, il quale è demotivato, non più creativo, chiede trasferimenti in altri reparti. L’azienda di fronte a questi “capi fuori dal tempo” o attende il loro
pensionamento, o li trasferisce in ruoli inoffensivi, dove non devono più gestire del personale.
Nel prossimo decennio probabilmente il capo dovrà gestire, nel
nostro Paese, un ulteriore cambiamento della forza lavoro che sarà
improntata probabilmente su quattro fattori, già oggi ben visibili:
• l’ingresso in Italia dei lavoratori extracomunitari, con la naturale conseguenza di gestire gruppi di lavoro sempre più multi
etnici;
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• la dimensione tecnica fra capi e collaboratori sarà sempre meno marcata: da una parte tutti avranno facile accesso all’informazione e dall’altra crescerà il livello culturale/specialistico
dei collaboratori; questi fattori porteranno alla possibilità che
tutti potranno esercitare un autocontrollo sul proprio operato
anziché farsi controllare;
• probabilmente ogni gruppo di lavoro avrà a breve più capi con
competenze diverse e necessarie per affrontare l’attività che la
squadra dovrà svolgere;
• per ultimo la maggior copertura da parte delle donne delle
funzioni di comando nelle aziende (i laureati nel 2004 nel nostro Paese sono di ugual numero tra maschi e femmine, il 24%
dei dirigenti in Italia oggi sono donne).
Un capo che non sa adeguarsi ai cambiamenti viene estromesso
dall’organizzazione.
Nelle società multi etniche certi preconcetti razziali non possono essere più “tollerati”, soprattutto nella funzione del capo il
quale deve essere sempre d’esempio e di guida per tutti nel gestire e sovrintendere i lavoratori nel principio basilare dell’uguaglianza.
Bisogna far accedere i propri collaboratori a tutte le informazioni necessarie per poter far eseguire il lavoro in maniera autonoma. I vecchi compartimenti stagni di conoscenza e sapere sono
oramai desueti e controproducenti, il binomio conoscenza/potere non esiste più, non è più attuabile: tutti oggi possono accedere a tutte le informazioni in breve tempo con o senza l’ausilio e
il permesso del proprio superiore.
Il capo deve essere pronto ad affrontare qualsiasi situazione: il
lavoro può modificarsi in breve tempo, i collaboratori sono intercambiabili, i servizi offerti e l’organizzazione sono in continua evoluzione; il capo deve avere quell’apertura mentale e
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quella flessibilità per affrontare e risolvere in maniera propositiva e positiva tutte le “novità” che il mercato impone all’azienda.
Per ultimo l’ingresso delle lavoratrici nei reparti e nelle posizioni di comando è una naturale evoluzione che la nostra società
sta sviluppando, per cui le troveremo sempre più nelle posizione direzionali nelle imprese.
Se un capo ha un ottimo curriculum scolastico, eccelle in capacità tecniche ed organizzative, ha un’intelligenza pronta e vivace, potrebbe avere tutte le carte in regola per avere successo e
carriera. Queste caratteristiche oggi non sono più sufficienti perché se lo stesso capo è anche irascibile, arrogante, incapace di
controllare le proprie emozioni e i rapporti con gli altri, certamente non potrà mai gestire e dirigere adeguatamente i propri
collaboratori, non sarà mai un “buon capo”.
L’organizzazione del lavoro all’interno delle aziende è in continua evoluzione, le caratteristiche della forza lavoro cambiano
repentinamente, le regole del lavoro conseguentemente si modificano, la direzione aziendale giudica i capi non solo perché
bravi tecnici, esperti e preparati, non solo perché colti ed intelligenti, ma soprattutto viene preso in considerazione il loro modo
di comportarsi con gli altri e il modo in cui il capo si è integrato nel tessuto aziendale ovvero nella cultura aziendale.
Al capo di oggi non è più richiesta solamente la preparazione tecnica ma sempre più la capacità di saper gestire il personale motivandolo; il capo deve far proprie le innovazione, adeguarsi repentinamente ai cambiamenti tecnici/organizzativi, aver un autocontrollo in
tutte le situazioni: deve lavorare controllando le proprie emozioni e
curando le relazioni con gli altri, gestendo i conflitti e i rapporti emotivi con i collaboratori.
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NOTE
(1) J. Spiegel C. Torres “Lavorare in team guida ufficiale del manager” Franco Angeli 1995 Milano;
(2) Charles P. Lickson “Come risolvere amichevolmente conflitti e controversie” Franco Angeli
1998 Milano;
(3) Jeffrey J. Fox “Come essere un grande capo” Sperling & Kupfer Editori 2002 Milano;
(4) D. Goleman, R.E. Boyatzis, A. McKee “Essere leader” Rizzoli 2002 Milano
(5) G. Desaunay “Come gestire intelligentemente i propri subordinati!” Franco Angeli 1990
Milano;
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PARTE SECONDA
LA TRANSIZIONE DA
Ernesto Albanese
ENTE PUBBLICO AD AZIENDA PRIVATA: IL CASO
CONI SERVIZI
BASTA UN SALUTO DEL PORTIERE PER CAPIRE SE UNA AZIENDA VA BENE - IL CAPO È
SILENZIOSO? AVETE TRE MOTIVI PER PREOCCUPARVI - GRANDI E PICCOLI SABOTAGGI
DIETRO GLI SBAGLI IN UFFICIO
Francesco Alberoni
E
TU CHE FACCIA SEI? LO SPIRITO DI CORPO CONTRAPPOSTO AI PERSONALISMI, IN
GIOCO C’È IL SUCCESSO AZIENDALE
Beppe Carrella
INDIVIDUARE IL CAPO
Gianluigi De Carlo
IL SISTEMA DI VALUTAZIONE
Umberto Musetti
DELLE COMPETENZE NELLA SOCIETÀ
COME E PERCHÉ MOTIVARE
Antonio Savini Nicci
I COLLABORATORI
UNA ESPERIENZA VISSUTA:
Stefano Savino
I RUOLI E GLI STRUMENTI
Pietro Spirito
ENAV
CAPO STAZIONE E PADRE DI FAMIGLIA
NEI PROCESSI MOTIVAZIONALI
IL GRUPPO DI LAVORO
Carlo Maurizio Stiatti
LA FIDUCIA: UN’EMOZIONE, UN RISCHIO O UN SEMPLICE STRUMENTO DI GESTIONE?
Hermann Troger
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LA TRANSIZIONE DA ENTE PUBBLICO AD AZIENDA PRIVATA:
IL CASO CONI SERVIZI
Ernesto Albanese
A partire dal 2003, il sistema sportivo italiano è stato al centro di
un radicale processo di trasformazione, reso necessario dalla crisi economica e finanziaria che aveva colpito il CONI a partire
dalla fine degli anni Novanta.
Il CONI, da sempre la massima istituzione sportiva del Paese, oltre al coordinamento delle Federazioni Sportive Nazionali, ha
svolto un’opera fondamentale in tutti i campi di attività legati allo sport: dalla promozione dell’attività di base alla preparazione
olimpica, dalla formazione dei tecnici alla medicina dello sport,
dalla ricerca scientifica alla progettazione e gestione di impianti
sportivi.
Attraverso una costante azione su tutto il territorio nazionale, il
CONI ha condotto lo sport italiano ai vertici dell’attività sportiva
nel mondo, come dimostrato dalla posizione che l’Italia ha storicamente occupato nel medagliere olimpico.
Il sistema sportivo nazionale si è sempre finanziato con una percentuale degli introiti del Totocalcio.
Tuttavia, a partire dal 1997, la concorrenza di altri giochi – come il Superenalotto – ha causato una profonda crisi del Totocalcio e, di conseguenza, un repentino calo degli introiti del Coni.
A metà del 2002 il Ministero dell’Economia, preoccupato per la
grave situazione finanziaria dell’Ente – ormai oberato da un indebitamento di circa 400 milioni di Euro -, ha costituito Coni
Servizi S.p.A., a cui ha conferito le attività, le passività e tutti i
2700 dipendenti del Coni.
L’obiettivo di Coni Servizi era quello di garantire lo svolgimento
dell’attività istituzionale dell’Ente originario, avviando nel frat-
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tempo un piano di ristrutturazione e di rilancio, nella consapevolezza che soluzioni alternative non erano percorribili pena il
fallimento economico dello sport italiano.
Quando nel giugno 2003 sono stato nominato Direttore Generale di Coni Servizi, l’obiettivo di risanare e riorganizzare il sistema sportivo del nostro Paese appariva a molti estremamente difficile.
Il funzionamento del Coni evidenziava infatti i problemi tipici di
un ente pubblico: obiettivi e responsabilità non chiare, attività
duplicate, organizzazione ridondante, gruppo manageriale non
in grado di attivare il cambiamento, scarsa informatizzazione dei
processi, mancanza di un sistema di controllo di gestione.
Proprio questo ultimo fattore, cioè l’indisponibilità di dati in grado di fornire una dimensione economica delle risorse ed delle
attività, è un difetto tipico della pubblica amministrazione. E
questo fa sì che il perseguimento dell’obiettivo “istituzionale”
prescinda in genere da valutazioni in merito all’efficienza dell’utilizzo delle risorse.
Ma su questo punto torneremo più avanti.
Prima di avviare il processo di risanamento, si rendeva necessario delineare una mission di Coni Servizi, al fine di identificare
le attività su cui costruire il nuovo assetto organizzativo.
Restava ovviamente in primo piano il ruolo strumentale rispetto
al CONI - ed indirettamente alle Federazioni Sportive - che diventava di fatto un “cliente” e che remunerava la Società attraverso un contratto di servizio.
Considerare il CONI un cliente sembrava a buona parte del management quasi irriverente, quasi come se il cliente rappresentasse qualcuno con cui contrapporsi e non invece la ragion stessa di esistere della Società.
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La nuova mission individuava inoltre le attività che avrebbero
potuto essere rivolte anche a soggetti – ossia clienti - esterni all’area tipica del mercato “captive” del Coni e delle Federazioni
Sportive; ciò al fine di generare nuove risorse.
Un esempio tipico era rappresentato dall’attività dell’Istituto di
Medicina dello Sport: da sempre riservato agli atleti di alto livello tale istituto avrebbe potuto contribuire al risanamento e alla
crescita economica.
Ed infatti l’Istituto è oggi aperto al pubblico e a tutti coloro che
intendano avvalersi delle competenze dello staff medico che
normalmente accompagna la delegazione italiana ai Giochi
olimpici.
Prendeva quindi forma un nuovo assetto organizzativo, costruito
su un presidio dedicato alle attività istituzionali del Coni e delle
Federazioni sportive e su altre tre unità di business: la gestione
di impianti sportivi di alto livello, l’attività di medicina e formazione e quella di consulenza nella progettazione e gestione di
impianti sportivi.
Ognuna delle unità organizzative aveva ben chiaro chi fosse il
cliente: la prima solo clienti istituzionali quali il CONI e le Federazioni, le altre anche un enorme mercato esterno cui offrire
le proprie esperienze e capacità.
Definite le aree di competenza delle singole unità, veniva varata una nuova organizzazione molto più snella di quella precedente.
Si poteva quindi dare inizio alla vera fase di ristrutturazione, attraverso:
• un piano di forte riduzione degli organici, attraverso incentivi al
pensionamento, mobilità e dismissione del ramo d’azienda dedicato alla gestione dei concorsi pronostici, passata per legge ai
Monopoli di Stato. Anche grazie ad un costruttivo rapporto con
le organizzazioni sindacali, nel giro di due anni l’organico del-
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la società è stato tagliato del 40%, da 2.650 a 1.750 unità;
• la stipula di nuovi contratti di lavoro per il personale, di tipo
privatistico, che hanno introdotto importanti novità quali ad
esempio l’abolizione della settimana su sei giorni lavorativi e
la modifica dell’orario di lavoro. Ma l’elemento più innovativo
dei nuovi contratti di lavoro è stato senza dubbio l’introduzione di un nuovo sistema di valutazione del personale collegato
a un premio individuale. Per la prima volta, tutto il personale
dell’azienda ha ricevuto dal proprio capo una valutazione su
una scheda da discutere nel corso di un colloquio gestionale.
Si è trattato spesso di un banco di prova molto impegnativo più
per il valutatore che per il valutato, visto che i previgenti sistemi di incentivazione premiavano indiscriminatamente la totalità del personale, banalizzandone evidentemente l’efficacia;
• un assessment di buona parte del personale – dai dirigenti al
personale di livello B – al fine di evidenziarne competenze ed
attitudini manageriali. La mancanza di un archivio delle risorse umane, prima confuso con l’anagrafica del personale, richiedeva infatti un approfondimento sulle effettive capacità di
tutti, al fine di valorizzare le risorse più meritevoli;
• il passaggio dalla contabilità pubblicistica – basata sul concetto di stanziamento – a quella economico-patrmoniale – basata sul concetto di budget. Oltre al totale ridisegno delle procedure contabili e l’addestramento di decine di persone dell’area
amministrativa, è stato inoltre introdotto il controllo di gestione, in grado di fornire ai responsabili delle unità organizzative
dati periodici sull’andamento dei ricavi e dei costi di propria
competenza. Si è trattato di una vera rivoluzione culturale:
ognuno dei dirigenti ha iniziato a confrontarsi con il valore
economico delle risorse che gestiva e contestualmente è stato
sensibilizzato su obiettivi misurabili di efficienza;
• una profonda rivisitazione dei processi di facility management
e di acquisto, attraverso l’outsourcing di alcuni servizi e
l’informatizzazione. A questo proposito, per porre rimedio al
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grave ritardo informatico dell’azienda, è stata costituita un’apposita società con Aci Informatica e BNL (Coninet), alla quale
è stata trasferita la piccola struttura informatica di Coni Servizi, che ne diventava a questo punto il principale cliente;
• in soli 12 mesi, oltre 1200 persone sono state addestrate all’utilizzo della posta elettronica e delle nuove procedure gestite
in modo telematico – ad esempio la richiesta di acquisto di
qualsiasi bene o servizio;
• è stato avviato un piano di razionalizzazione degli spazi, accorpando gli uffici e recuperando aree adibite ad archivi. Si è
potuto in questo modo dismettere una parte del patrimonio
immobiliare, i cui proventi, insieme al recupero di vecchi crediti, hanno consentito di ridurre drasticamente l’indebitamento. Oggi, i 400 milioni di euro iniziali sono stati ridotti a 125
milioni e, attraverso ulteriori operazioni di dismissione ancora
in corso, l’esposizione bancaria sarà azzerata tra pochi mesi;
• grazie ai forti risparmi di gestione – che solo per la riduzione
dell’organico ammontano ad oltre 40 milioni di euro annui - è
stato avviato un piano di investimenti selettivi sugli impianti di
preparazione di alto livello (Acqua Acetosa, Formia, Tirrenia e
Schio) e un ambizioso progetto di rilancio del Parco del Foro
Italico, principale asset della società. Questo progetto, di cui è
stata data ampia eco sugli organi di stampa, prevede la valorizzazione di una delle aree più affascinanti di Roma, ricca di
impianti sportivi – tra i quali lo stadio Olimpico – con investimenti di oltre 70 milioni di euro ed una ricaduta occupazionale di oltre 400 unità.
Conclusa la parte principale del processo di risanamento, adesso Coni Servizi è pronta per avviare una nuova fase: la sviluppo
nell’eccellenza.
Come detto in precedenza, un ingente piano di investimenti è
stato avviato negli impianti sportivi per gli atleti di alto livello e
nel Parco del Foro Italico.
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Questi investimenti sono finalizzati a trasformare queste strutture al fine di posizionarle ai massimi livelli nel panorama internazionale dell’impiantistica sportiva. Lo stesso obiettivo dovrà
essere perseguito nella parte immateriale del progetto, ricercando l’eccellenza nelle competenze professionali cui affidare la
gestione di queste strutture e la qualità del servizio offerto ai frequentatori.
Si dovrà lavorare molto sulla formazione specialistica e si dovranno forse fare altri innesti, ma di certo questo progetto non
sarà realizzabile se le risorse interne non faranno propria la “cultura del cliente” ed acquisiranno sensibilità di mettere le proprie
capacità a disposizione degli altri, siano essi clienti interni o
esterni.
Un esempio è stata la Scuola dello Sport, struttura da sempre dedicata alla formazione dei tecnici sportivi. Dallo scorso anno è
stata aperta al pubblico, ampliando il catalogo dei corsi a materie come il management dello sport o la gestione degli eventi
sportivi. Del resto, se le nostre persone sono state per anni in grado di formare i principali tecnici sportivi del paese, non si capisce perché non potessero adattare le proprie competenze alle
esigenze formative di chi vede nello sport anche uno sbocco
professionale.
La chiave per la ricerca dell’eccellenza è appunto quella di convincersi che ognuno di noi ha un cliente e che è necessario adattare le nostre competenze alla soddisfazione delle sue esigenze.
Sarà un processo lungo che richiederà molta formazione e molto dialogo. Ma prima ancora della formazione, ancora più importante sarà la capacità di responsabilizzare i capi, con obiettivi chiari ed strumenti affidabili di misurazione.
Un esempio concreto è il report che mensilmente arriva a tutti i responsabili sull’andamento dello straordinario e dello smaltimento
ferie arretrate dei propri collaboratori. Grazie a questo banale stru-
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mento, l’arretrato ferie è stato ridotto del 40% in pochi mesi.
Ho accolto con piacere l’invito degli autori di questo testo di
raccontare l’esperienza del cambiamento della “cultura aziendale” all’interno di Coni Servizi.
Il caso di Coni Servizi è, a mio avviso, una dimostrazione concreta di come ammodernare la pubblica amministrazione sia
un’impresa possibile, a condizione che si sappiano valorizzare
gli asset e le competenze professionali che esistono nei vari ministeri, enti o istituzioni. Il tutto sempre nel rispetto specifiche
delle finalità istituzionali.
Tra queste risorse vi è un prezioso patrimonio di competenze
professionali, consolidate negli anni, che aspettano di essere recuperate e valorizzate attraverso la chiarezza degli obiettivi, la
delega delle responsabilità ed efficaci sistemi di incentivazione.
Le organizzazioni sindacali, nel caso di Coni Servizi, hanno dimostrato di saper cogliere con straordinaria sensibilità e coraggio questa sfida, soprattutto se gli obiettivi vengono condivisi e
gli strumenti di gestione applicati con rigore e coerenza.
Il risanamento di Coni Servizi – premiato da Forum P.A. nell’aprile 2005 come miglior esempio di buona pubblica amministrazione – è stato realizzato grazie ad un’efficace combinazione tra competenze nuove e vecchie. L’innesto di poche risorse
manageriali ha consentito di stimolare il cambiamento di chi
già lavorava all’interno del vecchio CONI. È stato un passaggio
culturale non facile per tutti e chi non se l’è sentita ha preferito
lasciare la Società. Ma molti sono rimasti ed hanno saputo condividere il cambiamento e le nuove logiche di gestione d’impresa.
È stata fatta della formazione, ma soprattutto si è rafforzato il dialogo: il dialogo con i dirigenti, attraverso frequenti incontri con
il top management per condividere obiettivi e risultati, durante i
quali pressante è stato l’invito a sviluppare una comunicazione
“a cascata” verso i propri collaboratori; ma anche il dialogo con
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la base, attraverso un sito intranet e, per la prima volta nella storia del Coni, con una convention aperta a tutti i dipendenti nel
dicembre del 2004.
Il tutto è stato costruito giorno dopo giorno, lavorando sul cambiamento della cultura aziendale con il pieno coinvolgimento
dei vertici politici dell’Ente e del management, ma soprattutto
favorendo la trasmissione di valori quali la comunicazione, la
trasparenza ed il lavoro di squadra.
Questo ha permesso di rilanciare efficacemente lo sviluppo dell’azienda, di ridefinirne il posizionamento sul mercato, di offrire
al sistema sportivo Italiano servizi più moderni ed efficienti. E soprattutto più risorse finanziarie, dal momento che grazie ai risparmi fatti da Coni Servizi sui costi di funzionamento, l’Ente
Coni ha potuto destinare molte più risorse alle Federazioni Sportive e quindi allo sport. E questo era senza dubbio il suo principale obiettivo istituzionale.
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IL CAPO È SILENZIOSO?
AVETE TRE MOTIVI PER PREOCCUPARVI*
Francesco Alberoni (www.alberoni.it)
Ricordo che, a Trento, l’élite dirigente del movimento studentesco convocava l’assemblea all’ultimo momento, in modo che
tutti quelli che potevano fare opposizione non fossero informati e non riuscissero ad arrivare in tempo. Un meccanismo di manipolazione efficacissimo nei movimenti studenteschi, sindacali, anarchici e rivoluzionari che considerano l’assemblea il massimo della democrazia. In realtà l’assemblea spontanea, caotica
e senza regole rigorose di convocazione e di votazione consente il massimo arbitrio ai capi carismatici che riescono a far fare
agli altri quello che vogliono. Ma l’accorgimento di non fissare
le date per tagliare fuori gli oppositori viene talvolta usato anche nei consigli di amministrazione o nei Consigli di facoltà
universitari. Ci sono alcuni che mandano la comunicazione in
un ufficio dove il consigliere va solo raramente. Talvolta, lo inviano all’indirizzo sbagliato. Altre volte la lettera parte in ritardo così la colpa può essere data al cattivo funzionamento delle
poste. Infine, ai propri si telefona per assicurarsi che siano presenti e agli altri no.
Anche nel corso delle riunioni ci sono innumerevoli mezzi per
non dare le informazioni più importanti. Alcuni capi tengono
lunghi discorsi oscuri e vuoti, altri snocciolano elenchi di cifre
da cui non si capisce quasi nulla mentre le informazioni vere,
quelle che contano, se le dicono e le discutono fra di loro in privato, magari a casa propria o a cena.
Alcuni grandi dirigenti sostengono che tenere riservate le informazioni in modo da decidere da soli è l’unico metodo per evitare perdite di tempo, fuga di notizie e ottenere rapidi risultati.
* Articolo riportato, per gentile concessione, dal Corriere della sera del 7 febbraio 2005
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Non è vero. Tutti i grandi imprenditori che ho conosciuto, anche
quelliche, essendo i proprietari, potevano decidere senza consultarsi con nessuno, preferivano discutere a fondo i problemi
con i loro collaboratori, sentire il parere degli esperti, sfruttare la
creatività di chi lavora con loro. Sono giunto alla conclusione
che chi non agisce così è perché ha una opinione esagerata di se
stesso o perché ha qualcosa da nascondere.
Ci sono anche imprese in cui tutti i funzionari si tengono ben
stretto quanto sanno senza comunicarlo agli altri. Sembra che difendano un segreto di Stato. Ma la ragione è più semplice e più
squallida. Tacciono per avere potere sui propri colleghi e per fare i propri affari privati con enti, fornitori, politici. Vi sono anche
laboratori di ricerca in cui gli studiosi lavorano per conto proprio
e non si scambiano i risultati ottenuti. Lo fanno perché sono invidiosi l’uno dell’altro, o perché sono indifferenti al risultato finale. Sempre con effetti catastrofici, visto che la scienza progredisce solo come opera collettiva in cui ciascuno parte dalle scoperte dei colleghi.
Concludendo, quando vedete che non vi arrivano le informazioni per fare meglio, quando i dirigenti sono oscuri, quando incontrate gente che non sa discutere apertamente e lavorare insieme, siate diffidenti. Vuol dire che è all’opera uno di questi tre
fattori: o il capo è un megalomane dispotico, o la gente non è
motivata, o fa i propri interessi personali e non quelli dell’impresa.
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GRANDI E PICCOLI SABOTAGGI DIETRO GLI SBAGLI IN UFFICIO*
Freud ci ha insegnato che anche gli atti che noi consideriamo involontari, casuali, hanno sempre un significato, celano una intenzione. Gli esempi sono infiniti. C’è un tale che viene da voi
per mostrarvi dei suoi progetti ma, quando apre la cartella per
prenderli, si accorge di averli dimenticati a casa. Aveva veramente voglia di mostrarveli o preferiva inconsciamente non farlo? C’è la donna che, tutte le volte che riceve una certa conoscente, sbaglia mettendo nel caffè il sale anziché lo zucchero,
oppure rovescia la caffettiera. Freud direbbe che non ama le sue
visite. Un altro, proprio pochi giorni prima di sposarsi un giorno
scivola salendo sull’automobile e in seguito cade e si rompe una
gamba. È veramente convinto del matrimonio? Insomma osservando gli sbagli, le dimenticanze, le gaffes di una persona dobbiamo sempre domandarci quale intenzione inconscia, nascosta, hanno dietro. A maggior ragione dovremmo porci questa
stessa domanda nelle aziende. Una infinità di sbagli, documenti dimenticati, affari andati a male, ritardi nell’ottenere i permessi, mancanza di comunicazione fra gli uffici, errori grossolani
delle segreterie non dipendono dal caso, e nemmeno dalla mancanza di disposizioni precise, ma da conflitti fra persone, dal
tentativo di mettere in cattiva luce un concorrente, di ostacolarne la carriera, da rancori, gelosie, invidie, ripicche, da grandi e
piccoli sabotaggi.
Di solito non si parla di queste cose nei libri di organizzazione
aziendale, non se ne parla nei corsi di management dove l’efficienza dell’impresa sembra dipendere da raffinati calcoli economici. Mentre invece l’impresa è fatta da esseri umani con le loro ambizioni, le loro speranze, le loro paure, i loro interessi, i loro amori e i loro odi.
In quell’ufficio una delle due segretarie è nervosa, irritabile, fa
* Articolo riportato, per gentile concessione, dal Corriere della sera del 20 aprile 2002
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continuamente errori. Il capo naturalmente la rimprovera e pensa di promuovere la collega. Ma nessuno dice che quello stesso
capo fa la corte all’altra e non perde occasione per valorizzarla.
E perché quel vecchio dirigente non critica il progetto sballato
presentato dal nuovo assunto? Perché sa che costui è protetto da
un potente direttore. Così preferisce lasciargli fare un errore
grossolano in modo che non costituisca più un pericolo per la
sua carriera.
In quell’altra azienda il computer del direttore generale è sempre guasto, e le sue pratiche svaniscono. La sfortuna, il caso?
Nient’affatto. È il direttore amministrativo su cui lui ha fatto fare
una inchiesta che cerca di sabotargli in ogni modo il lavoro. Così un documento urgente non arriva in tempo, un altro si ferma
sotto una pila di scartoffie nell’ufficio di un ministero dove lavora un amico compiacente. Spesso nelle grandi imprese ci sono
coalizioni di dirigenti in lotta fra di loro per la scalata al potere
e un gruppo arriva a far andar male una delicata operazione finanziaria pur di mettere l’altro fuori gioco.
Sono queste le principali cause degli errori, delle inefficienze
nelle relazioni aziendali. Ed anche delle sofferenze, perché chi
ci va di mezzo è sempre la povera gente, i bravi funzionari che
cercano di fare il proprio lavoro. Per questo è così importante
che il capo sia pulito, onesto, e sappia capire a fondo gli esseri
umani. L’arte del buon comando è prima di tutto un’arte di conoscere gli uomini. Capire i propri clienti, intuire le mosse dei
concorrenti, apprezzare i collaboratori che valgono e diffidare di
chi mente.
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BASTA IL SALUTO DEL PORTIERE PER CAPIRE SE UNA
AZIENDA VA BENE*
Sono incredibili le differenze di efficienza e di qualità della vita
che troviamo fra una impresa e un’altra, fra un ufficio e un altro.
E questo tanto nel pubblico come nel privato. Non è vero che il
pubblico sia sempre inefficiente e il privato sempre efficiente. È
più difficile rendere efficiente il pubblico perché è più invischiato, più intrappolato da un sistema legislativo prodotto da successive stratificazioni di norme malfatte. Per cui chi si sforza di
fornire un servizio buono e in modo rapido lo può fare solo aggiungendovi qualcosa di suo, un supplemento di umanità, di responsabilità.
Noi tutti abbiamo conosciuto medici e infermieri che dedicano
la loro vita all’ospedale, ai pazienti, con sensibilità, con cura,
con amore. A volte mi domando se molti nostri servizi pubblici
e in particolare la sanità non riescano a funzionare solo perché
esistono queste persone che aggiungono al lavoro una carica
umana, una generosità che nessun contratto di lavoro, nessun regolamento può chiedere o imporre.
Ma queste qualità umane possono essere facilitate, alimentate
con una buona organizzazione, una buona direzione. O, al contrario, ostacolate, avvilite, spente. Quante cose possiamo capire
anche solo passando per la portineria di una impresa o di un ente, guardando l’arredamento degli uffici, osservando le facce, gli
occhi dei dipendenti, chiedendo qualcosa agli sportelli o alle segretarie. Queste immagini vi raccontano qual è lo spirito che
anima l’organizzazione, come la gente vi vive e lavora, vi dicono se soffre o è contenta.
Pensate, per un istante, alla Ferrari. Solo guardando i suoi tecnici alla televisione sentiamo che ci troviamo di fronte a un gruppo unito, che lavora con entusiasmo. Certo, avranno anche loro
dei problemi, delle rivalità, dei momenti di sconforto.
* Articolo riportato, per gentile concessione, dal Corriere della sera del 25 marzo 2002
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Ma, nel complesso, esprimono uno spirito positivo. In altri casi,
invece, vi accorgete subito che quella gente è spaventata, inquieta, che le cose vanno male, che la direzione è incapace e
nevrotica. Oppure che è stanca, annoiata, che non le importa
niente di niente.
A volte lo scoprite già solo telefonando, già dal modo in cui ti
guarda il portiere, già da come ti risponde la segretaria, dalla
faccia e dal modo di parlare dell’assistente del direttore. Senti il
disinteresse, l’indifferenza dell’individuo, il disfacimento dell’istituzione. Date retta a queste impressioni. Quei mobili, quegli
sguardi, quei gesti casuali vi danno una fotografia impietosa della realtà infinitamente più vera di tutti i dépliant pubblicitari, di
tutti i discorsi dei dirigenti. Mai niente sarà più prezioso di questa impressione. Essa vi comunica l’anima o la malattia segreta
dell’istituzione. E tutti i grandi manager vi confermeranno che i
libri contabili finiscono solo per confermare l’intuizione originaria.
Poi capita anche, in queste strutture inaridite, di trovare, qua e
là, un ufficio in cui la segretaria ha disposto le poltroncine in
modo aggraziato, ha raccolto i libri o i raccoglitori colorati
creando un angolo accogliente, con qualche pianta, qualche fiore e vi riceve in modo sollecito, vi risponde con un sorriso, con
gli occhi luminosi anche se è occupatissima.
Allora vuol dire che lì c’è uno sprazzo di vita, di umanità sopravvissuto all’opera di desertificazione operata da dirigenti incapaci, dalla pseudorazionalità di amministratori senz’anima.
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E TU CHE FACCIA SEI?
LO SPIRITO DI CORPO CONTRAPPOSTO AI PERSONALISMI,
IN GIOCO C’È IL SUCCESSO AZIENDALE
Beppe Carrella
Because It’s a bittersweet symphony this life
Trying to make ends meet, trying to find some money then you
die
You Know I can change, I can change, I can Change
But I’m here in my mould, I am here in my mould
And I’m million different people from one day to the next
(Perchè questa vita è una sinfonia dolce amara
Cerchi di far combaciar tutto, cerchi di tirar su un po’ di soldi e
poi muori
Sai posso cambiare, posso cambiare, posso cambiare
Ma sono qui nella mia muffa, sono qui nella mia muffa
Ma IO sono un milione di persone diverse da un giorno all’altro)
Tratto da “Bittersweet symphony” di THE VERVE
Spesso sei alla ricerca di un filo conduttore, di una cornice per
esprimere in maniera adeguata i pensieri che si accavallano nella mente e poi.. Poi d’improvviso una canzone che hai sentito
milioni di volte, che fa parte del rumore di fondo della tua giornata ti fa scoprire un approccio diverso. Potere dell’arte, potere
degli artisti. E allora pensi di aver trovato il filo giusto e vedi con
occhi nuovi e ascolti con spirito diverso quel testo che ti era
sfuggito. E quello che era rumore di fondo trova una strada diversa, trova una sua differente collocazione. La musica, le parole, lo stato d’animo, le nuove conoscenze acquisite!? Che importa, hai imparato e messo assieme in maniera diversa pezzi
della tua vita, pezzi della tua cultura, pezzi dei tuoi pensieri. E
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soprattutto hai voglia di condividerlo con gli altri, collaboratori,
amici…
Le persone e le organizzazioni non possono pensare di progredire senza immaginare soluzioni creative nei momenti di cambiamento, altrimenti è naturale che diventino tese
e ansiose. E quando siamo ansiosi il nostro livello di creatività
può crollare a zero. I discorsi, le provocazioni, le rassicurazioni,
le minacce poco servono se all’interno del gruppo non c’è fiducia. In tempi difficili come questi percorsi dall’ansia, la gente
vuol vedere facce oneste in tutti i campi. Anche e soprattutto nelle imprese. Ci si sente rassicurati solo dalla competenza, dall’impegno e dalla serietà.
Noi, siamo di volta in volta milioni di persone diverse pur continuando a mantenere l’integrità del singolo individuo e in situazioni di ansia, rispolveriamo uno dei “milioni” di personaggi
(...but I’m million different people from one day to the next) che
siamo non per interesse del gruppo, ma per interesse del singolo (trying to make ends meet). In pratica presentiamo la “faccia”
che ci fa più comodo crogiolandoci in una marmellata di pensieri (but I’m here in my mould..) e non la faccia che permette a
tutti di progredire. Meglio ammuffire tutti assieme che tentare di
individuare e mettere in comune un sogno; in effetti stiamo affermando la logica della nostra sopravvivenza (to find some money). Ma, per fortuna, nessuno può restare veramente se stesso
senza cambiare, nessuno può conservare il sapere senza imparare continuamente, nessuno può ripetere senza inventare. Nessuno ha imparato qualcosa una volta per tutte. Neanche la propria lingua madre, figuriamoci tutto il resto. Anzi, con il resto è
peggio o è meglio se… (I’m here in my mould).
Sicuramente la ferocia della concorrenza getta molti di noi lavoratori in preda ad un’ansia simile a quella del malcapitato che ritroviamo nelle vignette del cannibale cha mette a bollire la sua
preda. Questo accade principalmente perché il metodo più rapi-
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do ed efficace utilizzato dalle aziende per migliorare la redditività è quasi sempre la riduzione del personale. Con quale credibilità quando per anni i lavoratori si sono sentiti ripetere: “Il nostro valore aziendale è costituito dalle nostre persone”?
Allora, maggiormente, l’ansia diviene assillante non intravedendo una via d’uscita, una miracolosa strada da percorrere per
mettersi in salvo, soprattutto non avendo più fiducia. Si diventa
pessimisti ed il pessimista è fondamentalmente un pigro. Un pigro in attesa (...then you die). Non vuole fare sforzi per adattarsi
al nuovo, non vuole mettersi in gioco per portare il suo contributo personale, la sua esperienza, il suo talento represso per
contribuire a ridurre l’ansia collettiva. Anzi, diventa profeta di
sventura. Pretende valore dagli altri, ma non dà valore a se stesso perdendo così la stima degli altri e la fiducia necessaria per
fare squadra.
E allora?
Allora diventa fondamentale il ruolo del ‘capo’ e a poco servono le chiacchiere se non si è capaci di guidare senza imporsi, di
creare situazioni “buone” per sé e per gli altri. Le aziende che
vanno bene sono soltanto quelle in cui il leader è riuscito a creare un grande spirito di corpo, in cui TUTTI vogliono affermare
l’azienda, farla crescere e renderla duratura. Questo significa soprattutto perfezionare la capacità di sacrificare gli interessi personali in vista di vantaggi più ampi e più duraturi per il gruppo.
Pensare per un po’ e realizzare; realizzare e avere nuovi obiettivi e nuovi sogni e… cercando di volta in volta la strada migliore
e la persona migliore (del milione che abita dentro di noi- but
I’m million different people from one day to the next) da mettere a disposizione degli altri sia per raggiungere gli obiettivi comuni sia per l’affermazione del nostro talento e della nostra dignità di uomini e professionisti. Perché I can change, I can change, I can Change. Dipende da noi. Solo avendo la forza di
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correre da soli e contemporaneamente con gli altri incontro alla
realtà del quotidiano, accettandone fino in fondo il durissimo
esame, noi possiamo pensare di ridurre il rischio del futuro e
portare a casa la “lupa”! (because it’s a bittersweet symphony
this life).
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INDIVIDUARE IL CAPO
Gianluigi De Carlo
In questo testo sono messi in luce alcuni aspetti caratteriali del
“capo” che sembrano un dettaglio, invece sono il nocciolo duro, il fascino del ruolo del “capo”.
La competenza, l’autorità, il potere bastano per avere un capo,
per avere un leader c’è bisogno di autorevolezza, quel riconoscimento spontaneo che gli altri ti riconoscono.
Ritengo che una delle qualità più importanti per un leader sia il
coraggio. La capacità di affrontare apertamente i problemi, i
conflitti, le difficoltà, il rapporto con gli altri, assumendo le responsabilità delle proprie azioni.
Molto spesso però capita di trovare dirigenti onesti, capaci, corretti che di coraggio ne hanno poco e la paura di essere responsabili li porta ad evitare tutto ciò che è rischioso, lasciando ad
altri l’incombenza.
Un capo se sa essere anche un leader, continuamente ricerca
nuove possibilità, si informa, ascolta le opinioni degli altri, progetta e avvia l’esecuzione di nuove attività.
Un vero leader è consapevole che il suo compito è di esplorare
nuove strade e individuata la meta, la condivide con i collaboratori, ne spiega la strategia stimolandoli a realizzarla, dando
ognuno il meglio di sé e favorendo lo sviluppo della creatività e
dell’iniziativa, e spingendoli ad andare avanti.
Il vero leader ama il contatto umano. Si confronta, dice ciò che
pensa, ascolta gli altri, le loro obiezioni e sa rispondere argomentando, convincendo e se deve prendere una decisione ri-
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guardo ad un suo dipendente, lo chiama, gli spiega chiaramente
il motivo della sua scelta nel quadro della strategia complessiva
e chiede la sua collaborazione.
Un leader così non si trova facilmente, e non è facile da formare perché molte delle qualità di un vero leader sono intrinseche,
non si possono acquisire (o ce l’hai o non ce l’hai). La formazione in azienda è necessaria, ma ogni processo di formazione
specifica al lavoro presuppone il possesso di una strumentazione culturale fatta di competenze sia generali che specificatamente professionali.
Infine, desidero fare un breve richiamo, senza ricorrere a lunghe
dissertazioni, a ciò che rappresenta l’area cognitiva “sapere” e
“saper fare”, e quella non cognitiva “saper essere” e “saper divenire”, in sostanza cioè, della capacità di azione e reazione, in
diversi contesti di vita e di lavoro, e delle potenzialità e disponibilità al cambiamento.
Se la lettura può aiutare un capo ad essere migliore, questo non
posso dirlo e quindi non posso scriverlo, ma posso avanzare delle ipotesi anche relative ad un fatto concreto accaduto in un’azienda pubblica che aveva la necessità di individuare un capo
per un settore strategico delle sue attività.
Proverò perciò a definire un percorso per l’individuazione di un
capo in stretta relazione agli obiettivi aziendali da perseguire,
snaturando, forse, in qualche considerazione, ciò che in via teorica sarebbe stato necessario seguire.
In questa società, l’amministratore sta cercando di individuare una
persona a cui affidare il ruolo di capo nel settore della geologia.
La società ha circa 40 dipendenti, tutti con alto livello di scolarizzazione e, tranne alcuni, hanno una medio-bassa esperienza
lavorativa.
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I cinque geologi che lavorano in questa società, hanno ognuno
una specifica esperienza nella disciplina geologica, ma nell’ultimo anno si sono riscontrate alcune difficoltà di carattere organizzativo, produttivo, conflittuale e comportamentale.
In sostanza i geologi non avevano sviluppato una buona capacità colloquiale e di confronto interno e, soprattutto, ognuno agiva per proprio conto ed erano in perenne conflitto.
Si rendeva necessaria una decisione che riportasse serenità nel
gruppo e soprattutto era indispensabile rispettare il programma
di lavoro affidato al settore geologia.
L’amministratore ha iniziato così una procedura per l’individuazione del “capo”.
La procedura prevedeva una serie di colloqui bilaterali in cui venivano affrontati problemi di natura personale, problemi strettamente legati al settore specifico di appartenenza e problemi
comportamentali e relazionali.
I cinque soggetti esaminati non hanno compiuto dei passi decisivi nella direzione auspicata dall’amministratore; l’auspicio era
che, qualora fosse stato centrate l’obiettivo, si sarebbero avute
indicazioni certe, circa, il naturale capo della Geologia.
Centrare l’obiettivo voleva dire dimostrare coraggio, capacità di
affrontare i problemi e risolverli in tempi rapidi, assumersi delle
responsabilità, dialogare con gli altri, avere quella naturale predisposizione al lavoro di gruppo.
Tutto ciò non è accaduto, quindi l’amministratore ha dovuto indicare un “capo”, che in una situazione naturale, probabilmente, avrebbe incontrato difficoltà a diventarlo.
Quale scelta è stata compiuta, e perché proprio quella? Cosa ha
spinto l’amministratore a scegliere x e non y?
L’esperienza poteva essere un criterio valido per valutare i 5 geologi, ma come abbiamo detto prima, la loro esperienza non era
elevata e si limitava ad ambiti diversi all’interno dell’ampia di-
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sciplina della geologia. Sono stati, allora, valutati principalmente i seguenti aspetti.
Esperienza: non eccessivamente sviluppata.
Problem solving: capacità di affrontare e risolvere i problemi. Un
anno di lavoro in società non era servito a valutare la capacità di
problem solving di nessuno di loro.
Assunzione di responsabilità: alcuni di loro se le assumevano
solo se condivise con altri, in sostanza in un livello che potremmo definire di corresponsabilità.
Predisposizione al lavoro di gruppo: forse la geologia è una disciplina incapace di mettere in relazione e sta di fatto che dei 5
solo uno aveva una limitata predisposizione al lavoro di gruppo,
ma tale caratteristica non è servita per la nomina.
Capacità relazionali: Il geologo con una discreta capacità di relazionare era lo stesso che aveva una limitata predisposizione al
lavoro di gruppo, ma anche in questo caso niente nomina.
La domanda che a questo punto ci si pone è: cosa ha spinto
l’amministratore a scegliere x invece di y?
La fiducia, la fidelizzazione alla società del geologo prescelto.
Potremmo definirla una scelta aziendale che va contro ogni logica di mercato, anche se questa azienda ha scarsi riferimenti di
mercato? Difficile, sia confermare che smentire.
Le scelte a volte sono condizionate da rapporti personali esterni
alla società, non dovute al merito e neppure al bisogno, ma soltanto dalla fiducia che si è instaurata fra l’amministratore ed il
capo scelto, una fiducia nata da un rapporto generato dallo sviluppo di un alto livello di fidelizzazione del prescelto che, quest’ultimo, presumibilmente, con il tempo riuscirà a permeare a
sua volta, anche verso gli altri collaboratori.
Il merito dovrebbe sempre caratterizzare la motivazione di una
scelta, ma spesso accade il contrario. Gli uomini non sono delle macchine programmate alle quali puoi chiedere di fare qua-
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lunque cosa, gli uomini provano emozioni, a volte non sanno
controllarle e provocano conflitti, creando a loro volta caos e, in
casi estremi e destrutturati, come quello descritto, colui che meglio si identifica nell’obiettivo aziendale è sicuramente quello
che meglio potrà interpretare il ruolo del capo poiché, sicuramente, rappresenterà per gli altri una guida verso un rischio ridotto di errore, attraverso una corretta interpretazione dell’azienda in cui opera.
L’intelligenza emotiva non è in ognuno di noi, e quello che può
essere un surrogato (la formazione) non sarà in grado di colmare la differenza tra naturale e artificiale, potrà al massimo riempire un “vuoto” e non sempre, per un’azienda, disporre di un
elemento ad altissime prestazioni significa conseguire con certezza il proprio scopo sociale, ma spesso, un elemento di buona
qualità che riesce a sviluppare doti di lealtà e generare così fiducia in ciò che compie, sia tra i colleghi che verso il vertice della società, ha maggiore probabilità di essere premiato e contribuire concretamente al successo dell’azienda.
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IL SISTEMA DI VALUTAZIONE DELLE COMPETENZE NELLA
SOCIETÀ ENAV
Umberto Musetti
La società Enav, in cui presto l’attività di Responsabile delle Risorse Umane, è la società italiana che fornisce il servizio di controllo del traffico aereo e gli altri servizi essenziali per la navigazione, negli spazi aerei e negli aeroporti civili nazionali. Enav è
stata protagonista di un percorso evolutivo che l’ha vista trasformarsi in Ente Pubblico Economico alla metà degli anni ’90 e poi
in Società per Azioni alla fine del 2000. La cultura aziendale ha
una connotazione molto particolare,difficilmente riscontrabile in
altre aziende italiane, frutto della specifica storia dell’azienda,
della forte presenza delle organizzazioni sindacali, e soprattutto
della elevata tecnologia applicata e della alta professionalità delle risorse.
In particolare:
• l’attività del controllo del traffico aereo era una componente
dell’aeronautica militare e solo dal 1982 la struttura è stata
smilitarizzata;
• l’azienda è stata storicamente caratterizzata all’interno da una
elevata conflittualità sindacale anche in relazione al forte potere contrattuale: uno sciopero di poche ore in una singola sede, da parte di pochi controllori di volo, blocca l’attività aerea
in gran parte del territorio nazionale;
• la specifica ed alta professionalità dei controllori di volo;
e soprattutto : l’obiettivo istituzionale di garantire la sicurezza
per i circa 2 milioni di voli annualmente assistiti in applicazione
degli standard internazionali.
Nell’ambito di un più generale processo di cambiamento delle
strategie aziendali, ed in particolare delle politiche di gestione
delle risorse umane, è emerso come necessaria leva gestionale
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intervenire sui sistemi di valutazione delle risorse allo stato non
attuati, da una parte per le esperienze negative delle valutazioni
nel periodo in cui l’ ente era parte dell’apparato militare italiano, dall’altra a causa di un sindacato molto pervasivo e presente in tutti i settori dell’azienda che, come del resto in molte altre
organizzazioni italiane, non gradisce un sistema di valutazione
meritocratico.
D’altra parte il particolare servizio reso da Enav, il controllo del
traffico aereo, non può per definizione essere valutato secondo
metodi e schemi tradizionali: la valutazione della professionalità
del controllore del traffico aereo è rigorosamente certificata in
fase di prima abilitazione all’esercizio dell’attività e continuamente aggiornata, in ottemperanza alle normative nazionali ed
internazionali fissate a garanzia della sicurezza del volo.
Ed è proprio la figura dei “controllori del traffico aereo” la professionalità di base della società; sono loro che forniscono i servizi primari di Enav, sono loro le figure di “front line” che costituiscono il “serbatoio” principale delle competenze tecnico-professionali.
A fronte di questa particolare situazione, la Funzione Sviluppo
risorse, in totale sintonia con il management operativo ed i vertici dell’ Enav, ha istituito un “sistema di valutazione della competenze” (SVC): valutare le competenze possedute ed espresse
dai controllori di volo per indirizzare i conseguenti piani di sviluppo ed orientare la politica delle risorse umane dell’azienda,
in particolare con il fine di attuare piani formativi, percorsi di
carriera ed incentivi retributivi.
Come Funzione del Personale non vogliamo e non possiamo valutare la professionalità “applicata “, vogliamo valutare il “potenziale” del controllore di volo: chi è più adatto a coprire i ruoli di maggior responsabilità? quali percorsi formativi bisogna at-
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tuare? quali incentivi bisogna istituire? sono queste le problematiche che il “sistema di valutazione della competenze” (SVC) deve aiutare a risolvere.
Le competenze costituiscono una risorsa indispensabile per il
buon funzionamento della azienda e il primo passo, per poter
valutare le potenzialità dei singoli addetti, consiste nella “mappatura” delle competenze: questa è stata realizzata oltre che dalle Risorse Umane ENAV da una società di consulenza esterna e
dal Management della azienda.
Il sistema di valutazione della competenze (SVC) è stato strutturato in tre fasi:
• architettura del processo di gestione delle competenze;
• schede delle competenze attese per ogni ruolo da valutare;
• valutazione delle competenze possedute e indicazione dei
piani di sviluppo.
Architettura del processo di gestione delle competenze
Come detto il fine primario del SVC è valutare la potenzialità,
dei controllori di volo, per un accrescimento delle posizioni e
dei ruoli nell’azienda seguendo dei percorsi di carriera; è pertanto necessario che il sistema faccia riferimento ad un prototipo di percorso di carriera e, di conseguenza a “ruoli formali” che
devono essere presenti in tutte le strutture operative.
Abbiamo pertanto nell’analisi preliminare delineato i 4 “ruoli
formali” con il fine di una “standardizzazione dei percorsi di
carriera”:
controllore
1-2 livelli
di volo
di coordinamento
Responsabile di staff
Responsabile di struttura
tecnica o professionale
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Schede delle competenze attese
La seconda fase è stata incentrata nella predisposizione delle
competenze attese per ogni ruolo da valutare: quali competenze
e quali indicatori da utilizzare per la loro valutazione.
Delineare e definire le competenze necessarie al ruolo, una
struttura della mappa delle competenze, conseguentemente una
metrica della valutazione.
La “mappa delle competenze” comprende una serie di indicatori suddivisi in stili manageriali e comportamentali e competenze
tecnico-professionali, per esempio sono stati individuati:
Stili manageriali e comportamentali Competenze tecnico-professionali
Decision making
Normative di settore
Leadership
Controllo di gestione
Orientamento ai risultati
Manutenzione impianti
Orientamento al cliente
Processi oprativi
Negoziazione
Relazioni sindacali/industriali
Comunicazione
Gestione delle risorse umane
Imprenditività
Acquisti
Valutazione delle competenze possedute e indicazione dei piani di sviluppo
Per ogni ruolo da valutare è stata definita una specifica scheda di
valutazione delle competenze che comprende:
• le principali competenze necessarie per l’esercizio del ruolo;
e
• per ciascuna competenza alcuni indicatori idonei per valutarne il possesso da parte del titolare del ruolo.
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Ogni competenza viene così valutata attraverso indicatori individuati che mostrano il risultato derivante dal possesso delle
competenze.
Le schede di valutazione delle competenze, compilate dal “valutatore”, sono state predisposte anche con il fine di rendere il
più agevole possibile l’attività di valutazione: schede di semplice e veloce compilazione.
Nella scheda sono inseriti gli indicatori su cui deve basarsi la valutazione del potenziale.
Il valutatore deve applicare una valutazione pentametrica basando il proprio giudizio su:
• L’Attività o il prodotto/servizio è nettamente e costantemente
superiore allo standard e non presenta alcun punto di debolezza. Ha caratteristiche di eccellenza tecnica, è realizzato in
totale autonomia e risponde pienamente alle attese dei “clienti” esterni/interni.
• L’attività o il prodotto/servizio supera in modo significativo lo
standard. Risponde in modo soddisfacente alle attese dei
“clienti” esterni/interni e presenta caratteristiche tecniche comunque superiori alla norma.
• L’attività o il prodotto/servizio è in linea con lo standard, con
alcune oscillazioni al di sopra e/o al di sotto. La prestazione risulta sufficiente, soddisfa i requisiti minimi attesi dai “clienti”
esterni/interni.
• Per quanto in alcuni casi raggiunga la sufficienza, in genere
l’attività o il prodotto/servizio è di livello inferiore allo standard. Richiede sollecitazioni da parte del diretto superiore e/o
dei “clienti” esterni/interni.
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• Nel complesso, l’attività o il prodotto/sevizio non è soddisfacente e, quindi, necessita di significative azioni di sviluppo.
Esempio di scheda di valutazione
(ruolo : Acquisti)
indicatori =servizi
Budget del settore assegnato;
Beni e servizi secondo la tipologia e gli standard stabiliti dalle
procedure di acquisto (tempi, qualità, contratti quadro);
Controllo di avanzamento degli ordini acquisto emessi;
Analisi del mercato dei fornitori;
Selezione e gestione del pacco fornitori;
Piani di sviluppo per il personale (bisogni formativi, piani di carriera, job rotation, ecc.).
Il valutatore, ad ognuno di questi prodotti/servizi, deve assegnare la valutazione pentametrica sopra descritta: possiamo quindi
rilevare il gap tra le competenze possedute e le competenze attese, andando poi ad indicare gli eventuali interventi da attuare
per migliorare il livello delle competenze possedute.
Gli interventi che l’azienda può attuare possono essere diversi e
molteplici anche su un singolo caso, possono essere altresì di
volta in volta individuati per soddisfare al meglio la singola esigenza.
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Gli interventi di miglioramento delineati sono:
• team di progetto;
• job rotation;
• training on the job;
• formazione specialistica;
• formazione manageriale;
• aggiornamento tecnico.
Per ultimo è stato attuato un programma informatico ad hoc, così come è stato predisposto e tarato tutto il “sistema di valutazione della competenze” sulle peculiarità di Enav, per poter riconvertire automaticamente la valutazione dei servizi
interni/esterni in una valutazione delle competenze possedute.
Possiamo quindi sintetizzare il processo di valutazione:
I valutatori fornisco-
Il programma informatico ri-
I valutatori propongono
no un giudizio sui
converte la valutazione dei
piani di miglioramento
servizi interni/esterni
servizi in una valutazione
delle competenze
delle competenze
Il “sistema di valutazione della competenze” così progettato ed
attuato “paga” dei punti di forza e di debolezza, così come tutti
i sistemi di valutazione.
Il basso tasso di obsolescenza del sistema, la possibilità di valutare a 360 gradi, l’oggettività della valutazione e la ricaduta in
termini di customer orientation sono certamente i punti di forza
del SVC.
L’impegno iniziale della predisposizione del sistema e la creazione del programma informatico sono i punti critici; dai risultati attesi del SVC l’azienda avrà certamente un ritorno importan-
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te sotto tutti i punti di vista che renderanno insignificanti i “punti deboli” del sistema.
Per ultimo voglio richiamare all’attenzione che qualsiasi progetto di valutazione, anche se progettato ad hoc per una azienda,
seguendo tutti gli aspetti e le soluzioni tecniche possibili, ottimizzandolo sotto tutti gli aspetti, non potrà mai essere applicato
in azienda se non c’è il totale coinvolgimento dei capi.
Senza il coinvolgimento dei capi il sistema di valutazione potrà
“vivere” una o due stagioni dopodiché andrà nel dimenticatoio
o, altrimenti, sarà utilizzato solo “formalmente” e quindi fittiziamente, la vera valutazione sarà effettuata in altre sedi con sistemi non oggettivi, non trasparenti e quindi non equi.
Quando diciamo coinvolgimento non dobbiamo intendere informare e formare i capi al nuovo sistema di valutazione e quindi
farlo applicare cercando di ottenere una accettazione solo formale, ma bensì dobbiamo avere la totale e sincera condivisione
al progetto di valutazione.
Sono soprattutto i capi valutatori che fanno vivere e crescere, ottimizzandolo, il sistema di valutazione e devono essere loro i
primi a credere nel sistema stesso.
E se sono i capi che applicano materialmente il sistema di valutazione è logico chiedere a loro eventuali modifiche, suggerimenti, migliorie al sistema stesso.
Solo così possiamo essere sicuri che il sistema di valutazione
possa continuare a “vivere” e trovare una seria applicazione;l’alternativa, in cui sono cadute molte aziende, è la non attuazione
del sistema: si perde tempo, soldi e soprattutto la credibilità della funzione del personale.
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COME E PERCHÈ MOTIVARE I COLLABORATORI
Antonio Savini Nicci
Intervista all’Ing. Savini Nicci
La figura del capo intermedio assume un’importanza fondamentale per il successo ed il benessere delle organizzazioni.
Questa figura rappresenta uno snodo delicato dei flussi produttivi, decisionali e comunicativi ed abbina alla necessità di possedere alte competenze specialistiche la capacità di motivare e responsabilizzare i collaboratori.
La sua azione si concretizza nel ricercare e il collegamento fra
azione richiesta ai collaboratori e le necessità dell’impresa, stabilendo priorità e verificando il rapporto di coerenza fra livello
strategico ed operativo.
Attraverso la relazione che instaura con i livelli superiori, il capo intermedio riceve indirizzi e obiettivi e restituisce risultati: la
capacità di gestire correttamente questa relazione è la componente fondamentale della sua professionalità e gli consente di
capire l’organizzazione, agire in coerenza e dare un contribuito
positivo.
I capi intermedi sono i principali responsabili della traduzione
delle politiche e delle strategie dell’impresa in termini operativi
e della relativa gestione delle risorse necessarie.
Questo aspetto delle loro responsabilità assume un’importanza
maggiore in situazioni in cui è più difficile tracciare linee dettagliate di comportamento a livello operativo.
Contesti complessi in continuo cambiamento impongono all’azienda capacità di adattamento e un alto livello di proattività che
si concretizza attraverso la capacità delle risorse di anticipare i
problemi e rispondere prontamente e coerentemente.
Questo, in sintesi, è il pensiero sul ruolo del capo intermedio e
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la sua influenza sulla motivazione dei dipendenti, dell’ Ing. A.
Savini Nicci, Amministratore Delegato di TAV S.p.A. – Treno Alta Velocità, società di scopo di RFI, per la progettazione e la costruzione delle linee ferroviarie veloci.
Una lunga e ricca esperienza nel ruolo che lo ha portato a cambiare azienda e situazione lavorativa numerose volte, gli ha permesso di costruire un percorso professionale in continua crescita e, a fronte di un costante sviluppo, di gestire livelli di complessità e responsabilità sempre maggiori.
Considerato il suo background di ingegnere chimico, le attività
da lui svolte come capo intermedio sono state principalmente incentrate sulla gestione efficace delle diverse fasi di progetto e
hanno comportato lo sviluppo di relazioni con i collaboratori
basate sulla fiducia reciproca e mirate alla diffusione della responsabilità.
Nei suoi primi incarichi nel ruolo di capo intermedio, è stato
chiamato a gestire un gruppo di persone impegnate nella progettazione di impianti petrolchimici; in gruppi piccoli si lavora
essenzialmente allo stesso livello di responsabilità e la gerarchia
è dettata soprattutto dalla competenza tecnico specialistica del
capo rispetto agli altri componenti il team di progetto.
Nelle esperienze successive, come responsabile anche della realizzazione di progetti, si è trovato a gestire una maggiore complessità legata al coordinamento di un gruppo più ampio di collaboratori e all’assunzione della responsabilità diretta sui risultati. In questi contesti diventa cruciale per il capo intermedio,
accanto alla competenza specialistica, la capacità di trovare un
giusto equilibrio fra assunzione diretta di responsabilità e capacità di delega, in un’ottica volta al coinvolgimento dei collaboratori.
Pertanto dall’analisi dell’esperienza di Savini Nicci come capo
intermedio sono state individuate le seguenti caratteristiche necessarie a svolgere questo ruolo:
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•Possedere approfondite competenze tecnico-specialistiche che
permettono ai collaboratori di riconoscere una leadership sui
contenuti
• Possedere un metodo per il controllo sulle risorse e sui risultati
• Possedere capacità di creare e gestire la squadra, attraverso la
delega di responsabilità
Le conoscenze specialistiche e le capacità manageriali del capo
intermedio
La competenza specialistica del capo intermedio, costruita on
the job e fortemente orientata al problem solving, pone le basi
del processo di leadership. I collaboratori, riconoscendo l’esperienza ed il sapere tecnico del capo, stabiliscono un rapporto di
fiducia che innalza la motivazione.
Ne consegue che un capo intermedio competente dà riposte
puntuali sui processi lavorativi e diventa modello di riferimento
tecnico professionale. Il rapporto capo intermedio – collaboratore, in un processo di leadership basato sui contenuti diviene così occasione di sviluppo, nel breve periodo, a livello delle singola risorsa e, nel lungo periodo, per tutta l’organizzazione.
Il passaggio dalla leadership tecnica alla leadership strategica è
il concetto chiave su cui si declina la differenza fra il ruolo di capo intermedio ed i ruoli di vertice, capace di fornire orientamenti e strategie attraverso l’acquisizione di metodi.
Il capo intermedio sviluppa la sua professionalità attraverso l’esperienza ed il continuo aggiornamento. Giunge ad acquisire
competenze di livello alto, quali la consapevolezza dei processi
logici di decision making e problem solving e pone in essere
comportamenti gestionali funzionali all’organizzazione. Tali requisiti accrescono la capacità di governare le risorse e controllare i risultati; costituiscono, inoltre, la base per l’acquisizione di
metodi di lavoro efficaci e al contempo permettono al capo intermedio uno sviluppo di carriera.
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Affinché le azioni messe in atto si realizzino e contribuiscano alla motivazione e allo sviluppo dei collaboratori è necessario acquisire quello che Savini Nicci definisce un “metodo”.
Un approccio sistemico alle problematiche della gestione aziendale che si nutra di una visione “alta” del processo e si svincoli
dalla vista sistematica vincoli/opportunità che caratterizza le responsabilità attribuite al capo intermedio.
Nel concetto di metodo si concentra la ricerca di un equilibrio
tra l’approccio operativo tipico del capo intermedio e l’orientamento strategico che deve comunque possedere al fine di migliorare processi, sistematizzare soluzioni, contribuendo allo
sviluppo organizzativo in senso più ampio.
A tal proposito Savini Nicci, ricorrendo direttamente alla sua
esperienza personale, riferisce che il metodo da lui acquisito nel
passato ruolo del “capo squadra” gli permette oggi di approcciare ai processi in maniera critica, fissando al termine di ogni
esperienza i momenti positivi e negativi sia a livello del singolo
sia a livello del gruppo.
Acquisire un metodo, che apporti benefici all’organizzazione, in
termini di flessibilità e risposta al cambiamento, è la vera sfida
del ruolo del capo intermedio, che deve svincolarsi da un’ottica
di controllo ed entrare in una prospettiva di governo del processo e delle risorse, trasmettendo ai propri collaboratori valori ed
obiettivi dell’organizzazione.
Motivare i collaboratori attraverso la delega di responsabilità
La visione ampia del capo intermedio fornisce al collaboratore
indicazioni utili per orientarsi e ne allarga, in maniera graduale
ed in base al ruolo, l’ambito di autonomia e responsabilità aumentandone la motivazione.
La consapevolezza di un orientamento comune accresce il senso di appartenenza e favorisce la coesione.
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Secondo Savini Nicci, il coinvolgimento è una leva fondamentale per agire sulla motivazione: la risorsa si deve sentire parte del
processo a qualunque livello sia, non solo contribuendo per la
parte di propria competenza, ma avendo anche una visione chiara di tutto il processo. La squadra non deve lavorare per compartimenti stagni; ognuno, per essere motivato, deve comprendere l’importanza del proprio contributo nella realizzazione dell’obiettivo comune.
Quando detto vale principalmente per il capo intermedio stesso,
la cui motivazione dipende dalla capacità dell’organizzazione di
chiarirgli gli obiettivi ed il peso del suo apporto per il loro raggiungimento. Se, raccogliendo anche il contributo della squadra
e dei vertici aziendali, si affina questo delicato meccanismo organizzativo della delega come fonte di coinvolgimento, si contribuisce a motivare le persone e a vivere la responsabilità in maniera positiva.
Delegare vuol dire distribuire compiti e responsabilità fra sé e gli
altri, equilibrando il carico. Quando il collaboratore ha un alto
grado di maturità, cioè è coinvolto, consapevole degli obiettivi e
conosce il processo, il meccanismo della delega apporta benefici a livello dell’intera organizzazione. Non è marginale sottolineare che il meccanismo di coinvolgimento per essere reale fonte di motivazione deve essere vissuto in termini positivi, cioè come frutto di una responsabilità diffusa e della fiducia reciproca
fra capo e collaboratore.
Il capo intermedio delega in quanto responsabile dell’organizzazione del lavoro e dei risultati attesi e in relazione alla necessità
di sviluppare i propri collaboratori attraverso il coinvolgimento
nella soluzione dei problemi ed interviene affiancandoli in momenti di difficoltà e garantendo loro un costante e continuo aggiornamento del patrimonio di professionalità. Lo sviluppo della
risorsa e la sua formazione rappresentano uno strumento prezioso nella gestione delle persone.
In tale ottica particolare attenzione va prestata agli aspetti rela-
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zionali in quanto fortemente legati sia allo sviluppo che alla motivazione.
Savini Nicci afferma infatti che non si può vivere il “dentro l’ufficio/fuori l’ufficio” come una dicotomia e se ciò avviene rappresenta un limite.
Chi è responsabile di una persona ne diviene il principale punto
di riferimento, in quanto ne indirizza le attività e ne favorisce la
crescita con il proprio stile lavorativo e ne influenza fortemente
la motivazione in quanto, accanto alle tradizionali leve motivazionali assumono un’importanza sempre maggiore i cosiddetti
fattori soft.
L’assunzione di responsabilità, l’aggiornamento e la formazione,
le nuove sfide e occasioni di crescita professionale, rivestono,
oggi più che in passato, un’importanza chiave, in particolare per
le organizzazioni dov’è presente una elevata percentuale di professional che deve interpretare il proprio ruolo in modo attivo e
con capacità decisionali.
In un mercato sempre più competitivo, dove l’investimento in capitale umano rappresenta la vera fonte di sviluppo per le azienda, la motivazione del dipendente è, quindi, sempre più svincolata dal mero fattore economico e richiede, per complessità ed
importanza, la massima cura da parte dell’organizzazione.
Importante infine la capacità di dare feedback chiari e costanti
sul lavoro e la possibilità di riceverne; il dialogo diviene, così,
fonte di motivazione quando è componente della cultura aziendale oltre che prassi consolidata nel rapporto capo collaboratore e condizione necessaria ad efficientare i processi produttivi.
Il ruolo del capo intermedio è lo snodo dei flussi di comunicazione che caratterizzano i processi lavorativi: indirizzano i collaboratori e traducono dati ed informazioni in conoscenza utile
e capitalizzabile per tutta l’azienda.
In conclusione, l’idea che sintetizza il pensiero di Savini Nicci è
che un capo intermedio che interpreta al meglio il suo ruolo, avvantaggia da una parte l’organizzazione, rendendola più flessi-
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bile ed efficace, e dall’altra le risorse che si sentono così più motivate e coinvolte in quanto maggiormente consapevoli dell’importanza del proprio contributo per il funzionamento dell’azienda nel suo insieme.
La ricetta di Savini Nicci per essere un buon capo intermedio prevede essenzialmente un mix di competenze specialistiche di alto
livello e capacità gestionali, ma non trascura, in un’ottica di sviluppo, la necessità di acquisire capacità manageriali. Il ruolo del
capo intermedio rappresenta per le risorse che lo ricoprono il vero banco di prova per disegnare il proprio sentiero di carriera.
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UNA ESPERIENZA VISSUTA:
CAPO STAZIONE E PADRE DI FAMIGLIA
Stefano Savino
Accettando l’invito dell’autore a dare il mio contributo a questo
lavoro ho ritenuto che il modo migliore per farlo fosse quello di
testimoniare, attraverso esperienze realmente vissute, quanto importante sia il ruolo del Capo intermedio in un’azienda, raccontando di mio padre, Capostazione Titolare in una stazioncina
della linea Bari-Taranto negli anni ‘60.
Abitavamo proprio sulla stazione, e lì ho vissuto tutta la mia infanzia e gran parte della mia adolescenza.
Anche se piccola, in quella stazioncina si concentravano quasi
tutte le attività tipiche del mondo ferroviario: oltre a quelle tipiche del “movimento” che consentivano e regolavano la circolazione dei treni, c’era la sede di un Tronco Lavori (chi conosce il
settore sa che si tratta della manutenzione della sede ferroviaria,
cioè delle rotaie) e di una squadra IE (la manutenzione di tutti gli
apparati elettrici e di segnalamento che venivano governati da
quella stazioncina). Inoltre, disponeva di un piccolo scalo merci
nel quale si effettuavano operazioni di manovra, carico e scarico dei carri che, all’epoca, rappresentavano una discreta parte
dell’attività commerciale della piccola stazioncina.
Era, insomma, una piccola fabbrica, circa una ventina di persone in tutto o poco più, che funzionava però come una grande famiglia, una di quelle famiglie patriarcali che c’erano una volta (e
quando io ero piccolo ce n’erano ancora) nelle quali il capofamiglia (in questo caso il Capostazione Titolare) era il punto di riferimento per tutta la famiglia, competente e austero ma comprensivo, che esigeva il rispetto delle regole ma che era pronto a
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farsi in quattro per la famiglia ove qualcuno dei suoi componenti ne avesse avuto bisogno. E la famiglia tutta traeva beneficio da
questo comportamento che oltre a rappresentare esempio al
quale ispirarsi, dava fiducia, costituiva un punto di riferimento
certo a cui aggrapparsi nei momenti di difficoltà.
Mio padre era così!
Ricordo quanto fosse meticoloso nell’aggiornarsi quando nuove
disposizioni regolamentari o amministrative arrivavano dalla direzione aziendale: lo faceva di solito a casa, dopo il lavoro, per
essere pronto nei giorni successivi a spiegare e far comprendere
le nuove regole agli atri operatori; quanto fosse esigente nel richiedere che nella piccola stazioncina tutto fosse in ordine, ogni
cosa al suo posto pronta ad essere immediatamente individuabile ed utilizzabile quando le esigenze del servizio lo avessero richiesto: quanto tempo dedicasse al lavoro, anche e soprattutto al
di fuori di quello ordinario previsto dai turni di presenziamento,
per il senso di responsabilità che il ruolo esigeva.
Ricordo la sua severità nei miei confronti e nei confronti di mio
fratello, il rigoroso esigere del rispetto delle regole che nei comportamenti in famiglia e fuori dalla famiglia lui aveva dettato.
Oppure, ricordo anche quando - e per me allora appariva inspiegabile - stava lì ad ascoltare, con silenziosa partecipazione,
le istanze del povero Manovale che - avendo un piccolo orto con
il quale integrava il fabbisogno alimentare della famiglia - si lamentava degli effetti disastrosi che una grandinata aveva avuto
sul suo raccolto e poi, dandogli una pacca sulla spalla, lo tirava
su di morale dicendogli che se avesse avuto bisogno poteva contare su di lui.
Ecco, sul lavoro appariva - almeno a me - più tollerante che in
casa. Certo mi ricordo delle volte in cui si inalberava perché venivano commessi degli errori, ma subito dopo era lì pronto a
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consolare chi aveva sbagliato argomentando che quell’errore gli
sarebbe servito a non commetterne altri, a stare più attento, ad
approfondire di più le norme, i regolamenti e le procedure che
regolavano il proprio lavoro, offrendo sempre la sua disponibilità
ed il suo aiuto negli approfondimenti.
Di questa sua disponibilità gli veniva dato atto da tutti, tant’è che
in quel nucleo di persone - pur nelle diversità e con le peculiarità caratteriali dei singoli - si era instaurato un clima di rapporti improntato a solidarietà e fiducia reciproca, che quasi lo faceva confondere con quello naturale che si crea in un ambiente familiare.
Da questa esperienza emergono chiaramente, a mio avviso, quali devono essere gli elementi di comportamento e caratteriali che
devono pervadere l’operato di un Capo intermedio, soprattutto
oggi nelle moderne aziende di servizi nelle quali, più che in altre realtà industriali, la qualità dei comportamenti è fattore essenziale per garantire qualità ed efficienza dei servizi offerti alla
clientela.
La competenza, la capacità di comunicare, il saper ascoltare, il
coinvolgimento dei collaboratori nella ricerca delle soluzioni sono gli elementi fondamentali.
Sapere e saper fare bene il proprio lavoro, avere la capacità di
diffondere la conoscenza tra i propri collaboratori, essere sempre
disponibile ad ascoltare le lamentele, le osservazioni, i suggerimenti, le istanze personale e dare delle risposte oppure mostrare
comprensione sono elementi essenziali, per far crescere nel Capo intermedio il ruolo del “leader”, di colui che attraverso l’autorevolezza determinata dal riconoscimento dei collaboratori della
sua competenza e della sua capacità di comprensione e di dare
risposte, instaura quel clima di fiducia necessario perché un grup-
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po lavori bene. Far sentire i propri collaboratori attori in prima
persona nell’organizzazione e nello svolgimento del proprio lavoro, coinvolgendoli nella scelta delle decisioni operative facendo leva sulla loro esperienza e sulle loro capacità è garanzia di
maggiore efficienza e qualità del prodotto realizzato.
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MOTIVAZIONE COLLETTIVA NELLE ORGANIZZAZIONI
INDUSTRIALI
Pietro Spirito
Capitolo 1
1. Fare squadra per competere
1.1 Comprendere i cambiamenti del paradigma industriale
1.2 Condividere il progetto d’impresa
1.3 Partecipare come persone attivamente al progetto
1.4 Costruire un progetto condiviso
1.5 I processi per la motivazione collettiva nelle organizzazioni
1.6 La formazione della identità strategica dell’impresa
1.7 La costruzione del piano
1.8 La formazione del budget
1.9 I momenti di controllo
1.1 Comprendere i cambiamenti del paradigma industriale
Mobilitare le energie delle risorse umane presenti in una organizzazione, per conseguire obiettivi di consolidamento e di sviluppo dell’impresa, è una delle leve principali per assicurare un
successo di medio e lungo termine alle aziende. Le imprese sono organizzazioni fondate essenzialmente sulla capacità di
orientare i comportamenti individuali al perseguimento di un fine collettivo, che è la generazione di un prodotto o di un servizio capace di essere accolto positivamente dal mercato, determinando un profitto per il soggetto che è responsabile della sua
produzione o erogazione.
Il passaggio dall’economia fordista, fondata sulla produzione
standardizzata di massa, all’economia post-fordista dei nostri
giorni, in cui la creatività costituisce fattore primario per preservare la competitività, aderendo alle continue trasformazioni del-
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la domanda, sta richiedendo alle organizzazioni di puntare sempre più sulla motivazione del personale.
Nel passaggio dalla centralità dei beni materiali a quella dei beni immateriali per acquisire e consolidare un vantaggio competitivo, si mettono in discussione radicalmente i principi gerarchici tradizionali del capitalismo industriale: “Un tempo, il potere
derivava dall’avere i mezzi di produzione, oggi il potere è determinato dal possesso dei mezzi di ideazione” 1.
La capacità di liberare le energie individuali di ogni singolo
componente di una organizzazione, innestando queste energie
in uno sforzo di squadra per raggiungere traguardi di sviluppo,
costituisce la frontiera alla quale devono tendere le imprese che
vogliano affrontare con successo le sfide del nostro tempo.
Questa necessità è resa ancor più evidente dalla crescente competitività che emerge dai Paesi di nuova industrializzazione, i
quali si affacciano sui mercati internazionali con vantaggi concorrenziali irraggiungibili sui parametri tradizionali dell’economia fordista. È sforzo vano quello di tentare di resistere alla competizione asiatica esclusivamente in termini di costo del lavoro o
di produttività fisica dei fattori.
Chi non riesce a cambiare radicalmente il proprio posizionamento competitivo, puntando sulla innovazione, sulla creatività,
sul valore aggiunto, resta inchiodato ad inseguire - in una rincorsa sconfitta in partenza - continue ristrutturazioni tendenti a
comprimere i costi di produzione, a rinviare investimenti per lo
sviluppo, ad impoverire progressivamente la linfa vitale della organizzazione.
Eppure, nonostante fioriscano studi, convegni e consulenze sulle tecniche per sviluppare la motivazione, sono molte le imprese nelle quali non si riesce a raggiungere risultati convincenti su
questo fronte. Scrive Corinne Maier, in un recente libretto che ha
avuto molta eco in Francia ed in Italia: “È chiaro che quando ci
si domanda quale possa essere il modo per stimolare i dipen-
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denti, vuol dire che c’è un diffuso e pernicioso menefreghismo
lavorativo” 2.
La scarsa adesione dei dipendenti ai progetti ed ai disegni delle
aziende, che genera come conseguenza un impegno meno intenso nel perseguimento degli obiettivi industriali, è il frutto di
una stagione, nelle società a capitalismo avanzato, nella quale al
centro delle azioni delle imprese è stata posta la ristrutturazione
e la riduzione dei costi, a partire innanzitutto dal costo del lavoro. In questi stessi anni, mentre si praticava la ristrutturazione
continua, si predicava la partecipazione dei dipendenti come valore primario, per gestire i processi aziendali secondo principi di
qualità e per generare valore aggiunto ed innovazione.
Se però i dipendenti si avvertono prevalentemente come un costo, e non come una risorsa strategica, diventa poi difficile attivare processi motivazionali che siano capaci di convogliare le
energie dei dipendenti al di là dell’adempimento, più o meno solerte, dei doveri in senso stretto dettati dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
In uno scenario di azienda focalizzata sulla ristrutturazione, le
energie delle persone sono catalizzate verso uno sforzo che mira all’obiettivo della salvaguardia del proprio destino individuale, messo in discussione dalla incertezza sul futuro del posto di
lavoro, piuttosto che non al successo della azienda.
Si lavora schiacciati dalla logica di breve termine, e nessuno – né
i singoli dipendenti né la organizzazione aziendale nel suo insieme – investe in programmi e progetti di medio e lungo termine, i soli, spesso, ad essere capaci di conseguire reali risultati di
discontinuità e di successo.
La precarizzazione del lavoro è stata particolarmente avvertita
soprattutto perché si veniva da una stagione, lontana non più di
qualche decennio, nella quale i dipendenti avevano conquistato
un insieme corposo di diritti; a questa fase, nella quale il fattore
lavoro si era fortemente irrigidito, è seguita una reazione di segno eguale e contrario. “Il rischio implicito nell’andamento dei
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corsi azionari e delle strategie intese a massimizzarli è stato trasferito in misura elevata dalle imprese ai lavoratori. Di là dai costi economici, i costi umani e sociali della precarietà si riassumono per milioni di persone, compresi molti giovanissimi che
sperimentano in proprio la precarietà dopo averla vissuta per decenni in famiglia, nella difficoltà di progettarsi un’esistenza dignitosa” 3.
L’elevata flessibilità del lavoro non contribuisce certamente a costruire un legame di identità con l’organizzazione, e, se da un lato restituisce all’impresa il vantaggio di un costo del lavoro flessibile - e tendenzialmente in diminuzione sul totale dei costi di
produzione -, dall’altro riduce la capacità di canalizzare le energie umane al perseguimento di obiettivi di sviluppo dell’azienda
nel medio e lungo periodo.
La massimizzazione della creazione del valore nel breve periodo produce la minimizzazione dei fattori alla base dei processi
motivazionali, fondamentali per la crescita equilibrata della organizzazione. Le conseguenze critiche di questo capitalismo
orientato solo alle performances borsistiche di brevissimo periodo sono sotto gli occhi di tutti.
Scrive Laurence E. Mitchell: “Un management con orizzonti di
breve termine è un management irresponsabile: porta a licenziamenti, chiusura di impianti, lavoratori alienati, prodotti insicuri,
un ambiente inquinato e investimenti troppo scarsi in formazione e ricerca e sviluppo” 4.
L’affermazione di dosi massicce di flessibilità di ingresso e permanenza sul mercato del lavoro, che si sono notevolmente diffuse, ha ridotto fortemente il senso di appartenenza alla organizzazione, elemento che invece ha costituito uno dei punti cardine attorno ai quali è stata costruita la società capitalistica delle
fabbriche tradizionali di tipo fordista.
In assenza di una identificazione con il progetto dell’impresa, ed
in presenza di un elevato turn-over delle risorse, che rimangono
tempi ridotti all’interno della stessa organizzazione, è molto dif-
100
ficile strutturare processi che siano in grado di fare leva sulla motivazione degli individui e sul senso di appartenenza ad una
squadra e ad una organizzazione.
Accanto a questo mutamento genetico del capitalismo industriale, sempre più orientato ai risultati di breve termine e sempre
meno capace di costruire organizzazioni stabili che guardano al
medio e lungo periodo, si è determinato un indebolimento nelle
strutture portanti della cultura della fabbrica. Le organizzazioni
operaie, sotto il peso della ristrutturazione, si sono indebolite ed
hanno perso la propria capacità di stimolare l’innovazione da
parte delle direzioni delle imprese.
D’altra parte, la ristrutturazione industriale, che in una fase iniziale – negli anni settanta e negli anni ottanta – ha riguardato essenzialmente i colletti blu, si è poi progressivamente estesa –
nell’ultimo decennio del secolo appena trascorso - anche ai colletti bianchi, agli impiegati ed ai quadri, che storicamente nelle
aziende hanno rappresentato il collante principale nella formazione della cultura d’impresa.
Sempre nel libro prima menzionato di Corinne Maier si legge:
“Secondo un recente sondaggio dell’IFOR (Istituto Francese di
Opinione Pubblica), il 17% dei quadri è attivamente disimpegnato sul lavoro, il che significa che ha adottato un atteggiamento così poco costruttivo da sfiorare il sabotaggio” 5.
E non bisogna nemmeno stupirsi se si delineano forme moderne
di “luddismo” nei quadri delle aziende, che, in pochi anni, da forza trainante della organizzazione, si sono ritrovati oggetto delle ristrutturazioni, dopo averle guidate e persino rese possibili 6.
Inoltre, si sono ridotti gli investimenti in ricerca e sviluppo da
parte delle stesse imprese, sempre più orientate ad inseguire la
logica del profitto di breve periodo degli azionisti. Sono così diminuiti anche i luoghi della produzione di cultura industriale. I
centri studi sono diventati un lusso che pochi si permettono, i
centri di ricerca vengono progressivamente sforbiciati e ridotti a
vita di stenti da budget che guardano alla redditività trimestrale,
101
e che inevitabilmente finanziano con il contagocce progetti destinati a redditività futura. Il pensiero industriale si è impoverito,
e si è ormai accartocciato attorno alla ricerca di competitività
basata quasi esclusivamente sulla riduzione dei costi di produzione.
Le aziende delle economie occidentali si trovano quindi strette
dentro una trappola dalla quale non riescono sempre ad uscire:
da un lato hanno bisogno di mobilitare le energie e le risorse
creative dei propri dipendenti, per vincere la competizione del
nostro tempo, e dall’altro, proprio per vincere questa competizione, sono tentate di considerare i propri dipendenti non una risorsa, ma un costo, anzi uno dei primi costi da ristrutturare per
migliorare gli indici di competitività.
Questa trappola è stata generalmente superata dalle aziende utilizzando simultaneamente la retorica della motivazione e la pratica della ristrutturazione. Da un lato non si sono lesinate iniziative sul coinvolgimento motivazionale, sulle tecniche di MBO,
sulla mobilitazione delle energie dei dipendenti; dall’altro, però,
all’inseguimento di una competitività che richiedeva risultati di
breve termine, non si è trovata strada migliore che quella di puntare sulla riduzione del costo del lavoro, sulle ristrutturazioni
continue, prima limitate ai colletti blu, poi sempre più proiettate anche a ridurre i costi delle strutture indirette, e quindi orientate a ridimensionare la forza, numerica e culturale, dei colletti
bianchi. Non è in questo modo che si pongono le premesse per
costruire un sistema di funzionamento aziendale basato sulla
motivazione e sul coinvolgimento dei dipendenti.
1.2 Condividere il progetto d’impresa
È difficile esprimere la propria creatività e fare leva sulla propria
motivazione, se non si comprende e condivide il progetto al quale si sta lavorando. Nella società fordista questo fattore di partecipazione emotiva era meno necessario. Si stava alla catena di
montaggio, si era parte di un ingranaggio più complesso, ci si
102
misurava con l’adempimento di una componente assolutamente
parziale dello sforzo collettivo. Ciascuno era tassello di un puzzle composto di milioni di componenti.
La responsabilità del disegno complessivo era nelle mani degli
ingegneri della produzione, e le singole unità produttive, a partire dall’operaio alla catena di montaggio, erano responsabili solo del conseguimento di obiettivi quantitativi di produzione, misurati sulla base di tecniche funzionali alla massimizzazione della produttività complessiva della organizzazione.
La decomposizione della fabbrica tradizionale e la crescita della società dei servizi impone a ciascun lavoratore una competenza ed un contenuto di conoscenza maggiore, sia sulla singola operazione alla quale è chiamato a cooperare, sia sull’intero
ciclo di produzione della propria azienda.
Il puzzle si compone e si decompone continuamente, e ciascuno di noi è chiamato a dare un senso compiuto ad un disegno i
cui contorni rischiano di essere messi in discussione dalle trasformazioni imposte dalla concorrenza e dal mercato.
E allora, con la trasformazione del paradigma industriale, diventa indispensabile condividere, o quanto meno comprendere, il
progetto di impresa, perché all’interno del percorso che l’organizzazione deve compiere ciascun dipendente possa trovare la
propria collocazione, anche sotto il profilo della motivazione indispensabile per fare ricorso alle proprie migliori energie, alle
quali inevitabilmente l’organizzazione aziendale deve fare appello, per vincere per davvero la competizione.
Senza una convinzione collettiva della organizzazione sulla sua
capacità effettiva di perseguire gli obiettivi propri del piano, sarà
davvero difficile operare nella direzione indicata dal piano stesso. In quel contesto, saranno davvero poco producenti gli appelli alla mobilitazione delle energie individuali, e persino piani incentivanti estremamente attraenti dal punto di vista finanziario
sortiranno effetti ben poco visibili sul progresso dell’organizzazione.
103
Tradizionalmente, nel capitalismo delle ciminiere il percorso andava dalla ideazione alla attuazione, con una focalizzazione
particolarmente orientata al controllo dei processi. Oggi, nel capitalismo della conoscenza, i processi sono circolari, e l’ideazione costituisce il fattore principale non solo per la costituzione dell’impresa, ma anche per la continua revisione dei percorsi di attuazione.
Insomma, mentre prima si strutturavano processi che andavano
linearmente dalla definizione della missione, alla costruzione
del piano, alla formazione del budget ed alla attuazione dei programmi, oggi l’interazione tra processi di ideazione e processi di
attuazione è molto più stretta, con una accelerazione dei tempi
che non lascia sedimentare negli anni le stesse leve competitive,
ma anzi costringe ad una continua revisione delle condizioni
nelle quali le industrie concorrono sul mercato, per effetto sia
delle trasformazioni nelle caratteristiche della domanda sia dei
cambiamenti indotti dalla struttura dell’offerta.
Nelle aziende, tradizionalmente il piano di impresa è stato uno
strumento di interlocuzione con la comunità degli stakeholders
esterni all’impresa: era lo strumento con il quale il management ha comunicato ed interloquito con gli azionisti, la comunità finanziaria, le istituzioni, i sindacati, l’opinione pubblica.
Alla fine, ma proprio alla fine di questo percorso di comunicazione, veniva anche la diffusione dei contenuti del piano ai dipendenti.
Ed in genere, si trattava di road show molto meno attesi dal management stesso; erano sostanzialmente “bagni di folla”, con una
comunicazione unidirezionale dalla direzione ai dipendenti, e
con l’obiettivo di veicolare alcuni messaggi di fondo sulle necessità dell’azienda nel medio periodo. Essere presenti a questi appuntamenti era un fatto di prestigio per i dipendenti (non tutti in
genere erano invitati), ma poi la cosa finiva lì. L’azienda continuava in genere a vivere indipendentemente dai messaggi che venivano veicolati nel corso di questi appuntamenti periodici.
104
Il piano aziendale non era sempre vissuto come strumento di
orientamento degli sforzi individuali e collettivi della organizzazione. Spesso era un rito necessario per dialogare più con il
mondo esterno che con il versante interno dell’azienda. Spettava poi ai sacerdoti della pianificazione aziendale il compito di
ricucire le distanze che si venivano a formare tra l’evoluzione
della realtà aziendale e ciò che era stato stabilito nel processo di
pianificazione.
Ora, questo modo tradizionale di concepire, costruire e comunicare il progetto aziendale non risponde più alle necessità del
nostro tempo. È cresciuta l’esigenza di dare un senso alla propria
presenza nella organizzazione aziendale; oggi i dipendenti, per
poter esprimere il proprio apporto fino in fondo, richiedono di
capirne il perché e le finalità. E poi i lavoratori, i capi intermedi
e lo stesso management, misurano la coerenza tra il disegno
tracciato ed i comportamenti dell’impresa, soprattutto della direzione di impresa.
Cresce un atteggiamento “laico” nei confronti dell’azienda, anche perché è diventato laico lo stesso mondo del lavoro, nel quale comincia a diventare caso minoritario quello di un lavoratore
che esaurisce la propria attività all’interno di una sola organizzazione, dall’assunzione alla pensione.
Il progetto dell’impresa è dunque la carta d’identità del processo motivazionale all’interno della organizzazione. Non è diminuita l’importanza del piano aziendale come strumento per la
interlocuzione del management con gli stakeholders esterni all’impresa; è invece certamente aumentata l’influenza del piano
come strumento per il coinvolgimento dei dipendenti.
Le aziende che riescono a comunicare correttamente ai propri
dipendenti gli obiettivi di medio termine, inserendoli all’interno
di un progetto condiviso sullo sviluppo dell’impresa, riescono
meglio a mobilitarne le energie per conseguire effettivamente i
traguardi che la pianificazione ha fissato.
Comunicare gli obiettivi di piano non significa però soltanto vei-
105
colare ai dipendenti i contenuti in qualche convention, cosa che
ormai è entrata a far parte delle ritualità aziendali da diverso
tempo a questa parte. Significa piuttosto assegnare alle diverse
strutture e funzioni dell’impresa chiari obiettivi di medio termine, definendo i compiti di ciascuno all’interno di una strategia
più ampia con un orizzonte non più solo schiacciato sul brevissimo termine, e sui risultati di budget.
È in questo modo che si incide sulla cultura della organizzazione, responsabilizzandola sul percorso di trasformazione che le
aziende sono chiamate ad operare in una fase di radicale revisione dei meccanismi competitivi. Compito estremamente delicato è quello di fondere l’apporto della cultura tradizionale dell’impresa, che non deve essere perduto, con la necessaria trasformazione culturale imposta dai cambiamenti del mercato e
con i gradi di innovazione necessari per mantenere e sviluppare
il proprio posizionamento competitivo. I piani aziendali, e spesso non ce ne si rende conto, sono gli strumenti nei quali si accumula e si veicola la cultura dell’impresa.
Il processo di costruzione del piano, proprio per questa ragione,
dovrebbe essere un momento di profonda riflessione dell’azienda su se stessa; in molti casi, invece, la costruzione del piano rimane appannaggio di alcuni specialisti, talora interni alla organizzazione, altre volte, sempre più spesso, esterni, come nelle
grandi aziende accade con società di consulenza che sono diventate vere e proprie vestali della pianificazione, il cui obiettivo primario è quello di dimostrare le insufficienze delle funzioni aziendali, non foss’altro che per motivare i propri futuri budget in altre commesse.
Spesso, nelle aziende che devono effettuare radicali processi di
riorganizzazione e di posizionamento competitivo, si corre il rischio di buttare a mare il bambino con l’acqua sporca. Ci si lamenta della arretratezza culturale, fattore alla quale viene attribuita la causa dominante del declino, si punta tutto sull’innovazione e sulla discontinuità, con l’effetto di generare una reazione
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di rigetto che emargina anche gli aspetti positivi della vecchia
cultura aziendale, senza creare d’altra parte una radicata cultura della innovazione e della discontinuità. Si perdono così le radici tradizionali della identità aziendale, e non si costruiscono
nuove radici.
Scrive Corinne Maier: “La cultura di impresa è molto utile al management quando le cose vanno bene, perché favorisce lo sviluppo di un sentimento di identità e di appartenenza, mentre
quando le cose vanno male è percepita come un arcaismo che
ostacola ogni cambiamento” 7. È invece proprio quando le cose
vanno male che bisogna fare leva sulle culture, sia sulla cultura
tradizionale della organizzazione, di cui bisogna salvaguardare
la radice sana, sia sulla cultura innovativa che deve essere trapiantata nella organizzazione, per generare nuova linfa capace
di ridare vita ed ossigeno anche alla cultura tradizionale.
L’impresa nella quale si ripudia la cultura tradizionale e si trapianta una cultura pre-confezionata buona per tutte le stagioni si
trova così priva di riferimenti e di identità, consegnata spesso a
parole d’ordine trapiantate in malo modo da società di consulenza che replicano modelli culturali necessariamente generalisti, provando ad adattarli, senza molto sforzo, alla singola realtà
aziendale.
Nasce in questi casi un estraniamento dei dipendenti rispetto
agli obiettivi dell’impresa, che è causa primaria di riduzione del
tasso di motivazione. Come potrò mai mettere a disposizione le
mie migliori energie all’interno di una organizzazione che nega
la mia cultura tradizionale, e che nel contempo cerca di trapiantare all’interno della mia azienda una cultura che sento
estranea ed ostile?
Quando si crea tra il management ed i dipendenti una frattura
culturale, dovuta in molti casi alla mancata comprensione della
necessità di coinvolgere i dipendenti nella analisi e nella possibile terapia necessaria in quella fase storia alla azienda, diventa
assolutamente più difficile poi costruire una piattaforma condi-
107
visa capace di orientare i comportamenti dell’azienda in una direzione positiva.
I danni di questa frattura sono radicali, ed a volta insanabili, soprattutto perché generano un ritardo nella attuazione dei programmi necessari, in una fase invece nella quale la tempestività
significa a volte rischio di mancata sopravvivenza dell’impresa.
“In un periodo in cui le organizzazioni si trovano a confrontarsi
con la necessità di cambiare in modo radicale, di solito i leader
faticano non solo a far capire le nuove idee a chi deve effettivamente realizzare il cambiamento, ma hanno anche difficoltà ad
implementare le ipotesi di lavoro in modo rapido e deciso” 8.
1.3 Partecipare come persone attivamente al progetto
Se si condivide il fatto che il piano d’impresa è un momento essenziale nel processo di motivazione e di mobilitazione delle
energie dei dipendenti, allora diventa inevitabile che la costruzione stessa del piano sia un processo collettivo, nel quale dovrebbero essere coinvolte le migliori energie dell’azienda, per
esprimere un progetto in grado di parlare alla testa ed al cuore
dei dipendenti, prima ancora che agli analisti finanziari, agli investitori o ai rappresentanti sindacali.
Non si vuole sostenere ovviamente che il piano d’impresa sia il
documento conclusivo di una assemblea studentesca, nella quale tutti parlano e tutti vogliono poi, nella stesura conclusiva, ritrovare qualche frammento delle proprie convinzioni. Ma non è
nemmeno gestibile una situazione nella quale il piano d’impresa diventa la costruzione retorica necessaria ad ingentilire o impreziosire, secondo il linguaggio aziendale, le idee pre-concette
del management, come pure accade in molti casi.
Gruppi di progetto ed analisti esperti dell’azienda sono insomma
necessari per costruire un telaio di piano che sia espressione efficace della cultura e delle idee della organizzazione. Attorno alle consapevolezze ed alle elaborazioni interne dell’azienda si
possono poi costruire apporti anche innovativi e di discontinuità,
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che si debbono però in ogni caso misurare con le idee ed i progetti presenti nella impresa.
Operare altrimenti significare correre il rischio che il piano resti
solo un documento retorico buono per interloquire per qualche
tempo con il mondo esterno, ma che poi diventi progressivamente uno dei tanti “pezzi di carta” destinati a non lasciare alcuna traccia nella storia dell’azienda, salvo che a riempire le colonne di analisi degli scostamenti tra piano e budget, uno dei tormentoni che caratterizzano le discussioni nei comitati di
direzione delle imprese.
Quando gli scostamenti saranno di dimensioni eclatanti, comincerà allora una accanita “caccia alla streghe”, per cercare a ritroso la paternità del piano stesso. A quel punto si scoprirà che
nessuno rivendicherà più la paternità del piano, e della madre
non si troverà più traccia. Nelle organizzazioni incallite, che
non imparano dai propri errori, ricomincerà una nuova stagione
di pianificazione, con gli stessi difetti della precedente. La coazione a ripetere è una delle malattie più frequenti nelle aziende.
Quando invece il piano nasce da una riflessione collettiva della
organizzazione su se stessa e sul suo futuro, caratterizzata dal
coinvolgimento nel processo di costruzione delle risorse migliori riconosciute come competenti presenti all’interno, allora è più
probabile che l’intera azienda si senta poi mobilitata a raggiungere i risultati indicati dal piano, per quanto difficili essi siano.
Vale un principio generale sui meccanismi della motivazione:
quando siamo noi stessi che ci fissiamo un obiettivo, allora è più
probabile che ci metteremo il massimo dell’impegno per raggiungere il traguardo fissato. Se invece il traguardo viene fissato
da un soggetto terzo, senza che ci sia condivisione sulla rilevanza dell’obiettivo da conseguire, allora diventa più difficile che si
mobilitino tutte le energie disponibili nel perseguimento del risultato.
Se poi l’obiettivo è stato fissato da soggetti terzi, e magari oltretutto da persone che non riteniamo nemmeno competenti sotto
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il profilo tecnico (come capita spesso ai consulenti di direzione
che saltano di azienda in azienda e di settore in settore), allora
si corre persino il rischio che, pur di impallinare un progetto che
risulta estraneo alla nostra cultura ed alla nostra sensibilità, invece di mobilitare energie positive per raggiungere traguardi difficili, si possono piuttosto catalizzare, magari inconsapevolmente, energie negative pur di dimostrare che il piano era solo una
astratta costruzione intellettuale incapace di generare valore per
l’azienda.
Sentirsi parte di un progetto è quindi componente primaria per
attivare comportamenti motivazionali di medio periodo in una
parte maggioritaria dei dipendenti di una organizzazione. Certo,
non basta solo la comprensione e la condivisione di un progetto
ad attivare le energie ed a canalizzarle nella direzione voluta
dalla organizzazione. Serve poi assegnare obiettivi specifici,
coerenti con l’obiettivo comune, a ciascun settore ed a ciascun
dipendente dell’impresa, creando un sistema di incentivi coerente, efficace e misurabile.
1.4 Costruire un progetto condiviso
Abbiamo visto in precedenza che i fattori della motivazione collettiva costituiscono una leva prioritaria per attivare, all’interno
della organizzazione, quel processo di mobilitazione positiva
delle energie dei dipendenti che costituisce elemento essenziale
per differenziare le aziende di successo, nelle quali la partecipazione è elemento vitale per la crescita, dalle aziende in crisi,
nelle quali i dipendenti si limitano a svolgere le proprie mansioni cercando di minimizzare il proprio sforzo ed il proprio coinvolgimento emotivo.
Costruire un progetto condiviso significa definire una identità di
impresa chiara, una missione focalizzata articolata per obiettivi
comunicati con trasparenza, momenti di misurazione capaci di
premiare i più meritevoli. L’identità e la missione non valgono
una volta per sempre. Sono elementi costitutivi di una impresa
110
che devono essere messi costantemente in discussione ed in riesame, soprattutto in una situazione del mercato caratterizzata da
una elevata turbolenza, da continue trasformazioni (anche di carattere tecnologico), da una instabilità della domanda che modifica costantemente i propri bisogni.
Nei passati decenni, le imprese di successo erano roccaforti immutabili, i cui presupposti vincenti erano stati costruiti nella storia passata, ed era necessaria solo una manutenzione ordinaria
sulle tecniche di produzione o sui canali di commercializzazione per mantenere un posizionamento forte sul mercato. Da diverso tempo a questa parte, non è più così. Il paradigma si è sostanzialmente ribaltato.
Le aziende che sono rimaste ferme a preservare esclusivamente
i propri punti di forza che derivavano dalla storia hanno assistito ad un inesorabile declino, iniziato con segnali flebili e poi improvvisamente accelerato, quando sono venuti meno i presupposti di fondo che costituivano barriera all’entrata rispetto ai
concorrenti.
La necessità di rendere mutevole nel tempo la missione e l’identità dell’impresa accresce il bisogno di partecipazione dei dipendenti alla formazione della stessa identità. Nelle stagioni, ormai non più ripetibili, nelle quali identità e missione erano stabili, bastava effettivamente un efficace meccanismo di
comunicazione interna per fare in modo che i dipendenti potessero assorbire i valori dell’organizzazione, essendone poi coinvolti come protagonisti.
Ora, invece, è necessario rileggere costantemente l’evoluzione
dell’impresa, contestualizzarne continuamente l’azione rispetto
alle trasformazioni della domanda e dell’offerta, rispondere in
tempi celeri ai mutamenti che si rendono indispensabili per poter assicurare continuità e crescita alla organizzazione.
Adattare dinamicamente identità e missione dell’impresa è possibile se l’intera organizzazione riesce a vivere la propria trasformazione in sintonia con le evoluzioni richieste dal mondo
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esterno che ne condiziona fortemente il destino. La sola comunicazione interna non farebbe in tempo a trasmettere alla organizzazione aziendale gli aggiustamenti che si rendono indispensabili per sopravvivere e per crescere; quando essa avrebbe difatti raggiunto il suo obiettivo, intanto si sarebbe già determinata
intanto la necessità di un messaggio nuovo da veicolare ai dipendenti. È per questa ragione che spesso la comunicazione interna diventa oggi nelle aziende una funzione che genera maggiore frustrazione; essa rincorre con affanno, e spesso con ritardo, i messaggi ed i contenuti che rischiano continuamente di
risultare desueti. Gli stessi dipendenti, che sono oggetto solo di
comunicazione interna, spesso si ritrovano ad essere spaesati e
non capiscono più, nella congerie di messaggi contraddittori che
li raggiungono, quali siano effettivamente i comportamenti, i valori e gli obiettivi che l’azienda si propone di raggiungere. Usando le parole di Jack Welch, CEO della General Electric, “dimenticatevi della concorrenza esterna quando il vostro peggior nemico è la comunicazione interna” 9.
Insomma, la velocità delle trasformazioni travolge i meccanismi
tradizionali con i quali si operava all’interno delle imprese per
coinvolgere i dipendenti e per attivarne le energie motivazionali. Nella società digitale l’interattività dei messaggi diventa una
strada obbligata.
Le imprese, tradizionalmente abituate ad una comunicazione
dei tipo “one way”, con il management che diffonde a quadri e
dipendenti strategia e missione, obiettivi e strumenti, entrano in
crisi, dal momento che non riescono a dotarsi di tecniche adeguate a coinvolgere i dipendenti nel complesso processo di formulazione e riformulazione continua dei piani che diventa strada obbligata per reggere i processi di trasformazione in corso.
Vivere l’instabilità sistematica delle trasformazioni necessarie,
mutando pelle in tempo utile per sopravvivere a stagioni a geometria variabile, richiede però di mettere in discussione alcuni
dei capisaldi di fondo sui quali si basano ancora le regole della
112
organizzazione. Tra questi la gerarchia e l’obbedienza.
L’azienda resta un luogo nel quale è indispensabile la disciplina,
per conseguire obiettivi, per gestire in modo ordinato i processi
industriali. Questa disciplina deve essere però sempre più fondata sull’autorevolezza dei capi, e non solo sul loro potere gerarchico. Non sempre è così.
“La verità è che l’impresa, un tempo solo una macchina per fare
soldi, è ormai prima di tutto una macchina per fare obbedire …
Per cui ci sia annoia terribilmente, impantanati nella routine, tra
riunioni, dirigenti meschini, un’organizzazione pesante ed appesantita, una lingua-slogan e menzogne a non finire … Insomma
l’impresa è un universo grigio e noioso in cui l’aria è irrespirabile” 10.
Una azienda nella quale il management passa il suo tempo a farsi obbedire, e non a costruire meccanismi partecipativi fondati
su una leadership riconosciuta perché autorevole e capace di
portare valore alla organizzazione nel suo insieme, è una azienda destinata ad essere sconfitta dal mercato, perché non rivolge
le sue energie alla costruzione creativa di processi innovativi.
Perseguire la costruzione di un progetto condiviso, e fondare la
leadership sull’autorevolezza e non sull’autorità, costituiscono
presupposti essenziali per generare un clima positivo all’interno
dell’impresa, per attivare le energie creative in grado di produrre anticorpi aziendali che combattano la coazione a ripetere,
uno degli errori principali che si possano compiere in una società vorticosamente orientata alla trasformazione continua.
L’autorevolezza della leadership non consiste solo nella sua
competenza gestionale (che pure è indispensabile), ma anche
nella sua capacità di attualizzare i valori dell’organizzazione,
confermando, consolidando o trasformando l’identità strategica
dell’impresa.
113
Capitolo 2
I processi per la motivazione collettiva nelle organizzazioni
2.1 La formazione della identità strategica dell’impresa
2.2 La costruzione del piano
2.3 La formazione del budget
2.4 I momenti di controllo
2.1 La formazione della identità strategica dell’impresa
L’identità strategica di una impresa è equivalente ai principi fondamentali di una carta costituzionale per un sistema politico. Essa individua le ragioni fondanti in base alle quali quella organizzazione si propone di operare, per realizzare un prodotto o
per erogare un servizio.
Come accade anche ai principi fondamentali delle carte costituzionali dei Paesi democratici, la definizione di tale identità è alla base della nascita di quella comunità, ed una revisione dei
principi fondamentali è operazione altamente delicata, che richiede momenti formali di revisione o eventi straordinari di discontinuità che ne impongano la trasformazione.
Definire, o manutenere, la missione e l’identità strategica di una
impresa è compito primario del top management. Su questo
fronte si gioca l’efficacia e la credibilità di un gruppo dirigente.
“Definire la mission è una responsabilità esclusiva del top management. La mission non si può e non si deve delegare a nessuno, se non a coloro che sono chiamati personalmente a risponderne” 11.
Nel caso delle aziende, l’identità strategica affonda quindi le radici profondamente nella storia, spesso nella fase iniziale di fondazione della organizzazione stessa. Capita talora che il management si proponga di modificare radicalmente, fino a stravolgerla, l’identità strategica dell’impresa, per rispondere ad una
discontinuità dettata dall’ambiente competitivo o per superare
una crisi di competitività dell’azienda.
Se tale processo non è gestito con particolare attenzione e deli-
114
catezza, emergono poi, in fase di attuazione dei conseguenti
piani, profondi gap in termini di risorse culturali, tecnologiche
ed organizzative, che rischiano di determinare un rigetto della
nuova identità che il management ha tentato di imporre.
Ovviamente, ciò non significa che non si possa, o talora non si
debba, mettere in profonda discussione l’identità strategica stessa della impresa. Però, se si vuole poi fare in modo che il processo di cambiamento sia interiorizzato e vissuto positivamente
dalla organizzazione nel suo insieme, bisogna accompagnarlo
da un lavoro preparatorio molto accurato per verificare che l’intero corpo dell’impresa sia poi pronto a vivere la trasformazione
con la consapevolezza derivante da una modificazione profonda del modo d’essere stesso dell’azienda12.
La partecipazione motivazionale alla vita dell’impresa è connessa anche ad una adesione sostanziale alla identità strategica che
l’azienda stessa trasmette ai propri dipendenti. Una azienda dotata di una forte identità strategica è capace di veicolare maggiormente capacità attrattiva di attenzione e di risorse motivazionali da parte dei propri dipendenti.
Anche per aprire nuovi orizzonti motivazionali si sta consolidando negli anni recenti la linea della responsabilità sociale dell’impresa, con la quale si intende una estensione di perimetro
per la definizione dell’identità aziendale, non più solo limitata
all’oggetto sociale focalizzato sulla produzione di un bene o sulla erogazione di un servizio, ma anche orientato a salvaguardare gli interessi della comunità, interna ed esterna, nella quale
l’impresa stessa opera. “Perché l’azienda attragga soggetti non
troppo stupidi e ne faccia impiegati produttivi,è necessario che
essa dimostri di apportare un contributo alla società nel suo insieme, e di non avere come unico scopo il guadagno” 13.
Ma il solo fatto che si sia diffusa la teoria della responsabilità sociale di impresa, ci deve indurre a chiederci se questa non sia an-
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che la reazione, ancora in corso, ad una stagione recente nella
quale i comportamenti delle aziende non siano stati, al contrario,
socialmente irresponsabili, mirati solo ad una logica di profitto di
breve termine, senza tenere in alcuna considerazioni le ricadute
sociali di tali scelte e spesso agendo ai confini, o oltre, della legalità.
Luciano Gallino, come scrive nel suo recente volume “L’impresa irresponsabile” afferma che l’emersione di questi comportamenti, che hanno generato una forte discontinuità nei modelli di
funzionamento del capitalismo, in particolare in quello americano, trova la sua origine in una ricerca - da parte degli azionisti di una maggiore valorizzazione del proprio investimento nell’impresa, per controbilanciare la tendenza, emersa nel corso dei
decenni precedenti, ad una compressione del tasso di profitto.
“La proliferazione di imprese irresponsabili, divenuta più evidente dalla fine degli anni ’90 in poi, ha avuto tra le sue cause
prime la reazione dei proprietari alla severa riduzione dei profitti che si è verificata tra la metà degli anni ’60 e gli anni ’80 in
tutti i Paesi avanzati” 14.
La risposta alla crisi di profitti del capitalismo industriale tradizionale è stata l’emersione di un nuovo modello di funzionamento, che Luciano Gallino definisce il capitalismo manageriale azionario, fondato sulla massimizzazione del valore dell’impresa nel breve periodo, mediante azioni tese da un lato a
comprimere i costi di produzione, senza costruire lo sviluppo
dell’impresa in una prospettiva di medio e lungo termine, e dall’altro a privilegiare la componente finanziaria dell’impresa a
danno della componente industriale.
Le azioni aziendali sono state così orientate ad assicurare capital gains slegati dal consolidamento dell’impresa in uno scenario
di medio periodo. Si sono così ridimensionati gli investimenti a
redditività differita e si sono adottati comportamenti “tattici” tesi
a concentrare le energie su risultati di corto raggio immediatamente misurabili in termini di aumento del corso azionario del
116
titolo aziendale.
Invece di coltivare il campo con la perseveranza del contadino
che ogni giorno opera in attesa dei risultati del raccolto, si è preferito cogliere frutti acerbi, spesso anche utilizzando fertilizzanti chimici, che nel breve danno l’impressione di migliorare la
produttività del raccolto, ma che poi, nel lungo periodo, peggiorano la qualità del raccolto stesso.
2.2 La costruzione del piano
Nella costruzione, e nella periodica revisione, del piano di impresa la partecipazione dei dipendenti costituisce un fattore costituente per radicare la motivazione nel perseguimento degli
obiettivi di consolidamento e sviluppo dell’azienda.
Se il piano di impresa è invece solo calato dall’alto, senza tenere in conto le convinzioni, i valori e le opinioni presenti nella organizzazione, si rischia di disegnare un astratto paniere di obiettivi, che saranno percepiti come elementi estranei all’azienda.
Di conseguenza la partecipazione emotiva al conseguimento dei
risultati da parte dei dipendenti sarà a tasso ridotto rispetto alle potenzialità. Più in generale, anche al di là del coinvolgimento dei dipendenti nella concezione e nella implementazione dei piani
aziendali, c’è da sottolineare che il capitalismo tradizionale non intendeva mobilitare il cervello dei propri dipendenti, ma si limitava
spesso a condizionarne ed a controllarne la produttività fisica.
Con l’affermazione di un modello di capitalismo basato sulla
conoscenza, si sono ribaltati i valori necessari alla affermazione
competitiva, ma non sempre si sono trasformati i modelli di gestione manageriale. Il capitale umano presente nelle organizzazioni costituisce un potenziale formidabile per lo sviluppo delle
aziende, se ci si ricorda di ricorrervi per davvero. “Nel corso di
un work-out, un operaio di mezza età specializzato nell’assemblaggio di frigoriferi ha parlato a nome di migliaia di colleghi e
mi ha detto: “Sono 25 anni che mi pagate per le mie mani quando avreste potuto avere anche il mio cervello, gratis” 15.
117
È però vero che il processo per la costruzione del piano presenta difficoltà tecniche tali da non favorire la strutturazione di percorsi partecipativi ad ampio spettro in tutte le fasi del processo
stesso. Se è certo che vanno preservati gli aspetti tecnici della
pianificazione, che sono in possesso degli specialisti di tale attività, è indispensabile, se si vuole che poi il piano sia una piattaforma condivisa di impegno per la intera organizzazione, che
la visione alla base del piano, e le sue scelte fondamentali, siano trasmesse e discusse nella organizzazione prima della conclusione del processo stesso.
Operare in tal senso significa accettare, da parte del management, anche il rischio di un confronto con le opinioni, o anche
con i pregiudizi, presenti nel corpo della organizzazione aziendale. Insomma, si tratta di accettare di passare dalla comunicazione interna intesa come strumento “celebrativo”, o come momento di pura divulgazione, alla comunicazione interna come
strumento per accrescere il grado di partecipazione effettiva alla
elaborazione del pensiero e delle azioni che sono alla base di
qualsiasi piano di impresa.
Insomma, la pianificazione strategica resta un’attività “topdown”, ma richiede comunque momenti intermedi di confronto
e di condivisione con il corpo complessivo della impresa, momenti che possono essere utile feedback anche per adattare meglio il profilo della pianificazione che sarà adottata al livello di
consapevolezza presente nella organizzazione.
Se invece si procede – come accade nella maggior parte dei casi - in modo diverso, veicolando i contenuti del piano ai dipendenti solo al termine del processo, si potrà al massimo ottenere
la diffusione della consapevolezza sulle scelte adottate, ma ben
difficilmente si genererà una condivisione tale da moltiplicare le
energie che ciascun componente della organizzazione potrebbe
dedicare al perseguimento degli obiettivi.
Una tecnica che potrebbe rilevarsi utile per utilizzare la pianificazione strategica come strumento di attivazione della motiva-
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zione all’interno dell’impresa è quella di istituire momenti di
confronto e di discussione che consentano – almeno ai quadri rilevanti dell’azienda – di acquisire maggiore consapevolezza sui
fattori critici dello scenario nel quale si colloca l’impresa in una
determinata fase storica, sulle possibili alternative di azione, sulle ragioni che condizionano la scelta del profilo di pianificazione, sugli strumenti che vengono messi in campo per perseguire
gli obiettivi scelti.
Se si opera secondo tali principi, la pianificazione strategica diventa la piattaforma programmatica non solo del management, e
del ristretto gruppo di persone che hanno in mano le leve fondamentali del processo decisionale, ma anche di un esteso gruppo interno all’impresa, con l’effetto di accrescere, nella stessa organizzazione, il coinvolgimento attivo nel perseguimento dei risultati posti a base del piano. Richard Normann, studioso di
organizzazione aziendale recentemente scomparso, sottolineava
la rilevanza di interpretare il processo di pianificazione come
una costruzione che metteva assieme “una squadra attorno ad
un tema”, “a team around the theme”. E così interpreta la strategia Jack Welch: “La strategia consiste nell’identificare la chiave
del vantaggio competitivo e nel definire una direzione generica
dedicandovi le persone giuste, e poi mettendole all’opera con
un’enfasi costante sul miglioramento continuo” 16.
Costruire un piano strategico significa sempre più coinvolgere
tutte le componenti dell’organizzazione in un processo condiviso nel quale ciascuno si sente protagonista di un ruolo, più o meno importante, nel conseguimento di un risultato collettivo. Insomma, il manager diventa in qualche modo un affabulatore capace di costruire storie convincenti in grado di suscitare
partecipazione e coinvolgimento. Se la storia contiene in sé anche elementi capaci di generare valore per il mercato, allora si
possono creare le condizioni per il successo.
“La narrazione è in effetti il cuore delle attività più importanti di
ogni azienda moderna, così come è il centro di tutto quello che
119
facciamo in pubblico ed in privato. La capacità di raccontare la
storia giusta al momento giusto si sta configurando come uno
skill fondamentale del leader che voglia affrontare – ottenendo
buoni risultati – il caotico mondo del XXI secolo” 17.
Insomma, la pianificazione non è più il terreno degli iniziati della strategia, che hanno il compito di “vestire” il pensiero manageriale dei vertici aziendali in linguaggio elegante e con stilemi
coerenti con il lessico ortodosso della comunità, ma diventa lo
strumento dello stesso vertice aziendale, il quale cerca di orientare, attraverso il percorso della pianificazione, i comportamenti della intera organizzazione verso obiettivi che siano coerenti
con la mission e con l’evoluzione dello scenario competitivo.
2.3 La formazione del budget
Dal piano strategico, che abbraccia un arco temporale di medio
termine, si passa poi al budget, che traccia gli obiettivi e le azioni di breve periodo. Anche in questo caso, come in quello della
pianificazione di medio termine, le imprese non riescono a perdere il vizio di far calare i budget dall’alto, senza confrontarsi con
i vincoli e con le resistenze che sono presenti nella organizzazione, e che tali restano anche dopo l’approvazione di un budget
che non è stato interiorizzato dalle persone che poi dovranno
porre in essere le azioni per poter raggiungere gli obiettivi.
Veniamo con il budget ad un punto estremamente rilevante per
costruire uno strumento efficace ed effettivo di motivazione all’interno delle aziende. Il budget fissa gli obiettivi quantitativi
per l’intera organizzazione aziendale nello scenario annuale, e
può essere tradotto in un set coerente di sotto-obiettivi che possono essere assegnati alle diverse strutture aziendali, ed anche
alle singole persone all’interno di ciascuna struttura.
Non per tutti è possibile, soprattutto nelle grandi imprese, tradurre il budget direttamente in obiettivi individuali coerenti con
l’obiettivo collettivo; per le strutture di staff, che non generano
direttamente attività produttiva, si tratta spesso di articolare an-
120
che obiettivi di tipo qualitativo che vadano nella stessa direzione voluta dagli indicatori quantitativi.
Il budget, inteso come set di obiettivi coerenti per raggiungere
un risultato ritenuto vitale per l’azienda, rischia di essere a volte
conservativo, altre volte irraggiungibile. L’uno o l’altro caso sono
pietre tombali per la motivazione. Quando il budget è conservativo, non si mobilitano le energie delle persone in modo trainante, in quanto l’organizzazione traguarda un risultato ampiamente a portata dell’azienda. Non si richiede, per tale ragione,
un impegno adeguato ai dipendenti, i quali rischiano di perdere
ulteriore capacità di concentrazione sugli obiettivi, se ritengono
che le cose possano andare avanti anche senza la mobilitazione
delle migliori energie a disposizione nella organizzazione.
Quando invece il budget è irraggiungibile, palesemente distante
dalla portata effettiva della capacità aziendale, si genera una reazione di tipo opposto: per quale ragione devo mettere in campo
le mie energie se tanto l’azienda si aspetta da me, e da tutti noi,
un risultato che non saremo mai in grado di perseguire ?
Insomma, il budget sta tra Scilla e Cariddi, e deve riuscire ad
esprimere il giusto equilibrio, quello che con il gergo aziendale
si può definire “budget sfidante ma credibile”. Capire il giusto
grado di ambizione che il budget deve contenere per poter essere sfidante, senza però risultare irraggiungibile, è uno degli esercizi manageriali di maggiore complessità, e di più elevato impatto sulle sorti dell’azienda anche nel medio periodo.
È allora opportuno che il budget sia organizzato come un processo “bottom up”, nel quale le diverse strutture aziendali possano esprimere il proprio punto di vista sulle ricadute quantitative delle azioni coerenti con lo scenario di pianificazione strategica, assumendo impegni che le stesse strutture ritengono
adeguate alle proprie capacità attuative ed alla evoluzione dello
scenario esterno.
Il processo di budget si avvia con la “budget letter” del Vertice,
nella quale sono fissati gli obiettivi di riferimento attesi dal ma-
121
nagement e nella quale sono richiamati gi elementi di coerenza
tra la formazione del budget ed il processo di pianificazione di
medio termine. Segue la fase di costruzione dal basso, nella quale è fondamentale che siano articolate con estrema chiarezza le
azioni che le diverse strutture intendono mettere in atto per raggiungere, nel breve termine, i risultati attesi.
Se però il management si accorge, nella fase di rilascio dei risultati quantitativi del budget, che le strutture tendono a proporre soluzioni conservative, per poter poi dimostrare di raggiungere con facilità gli obiettivi assegnati, allora è necessario intervenire con un processo iterativo per migliorare le performance
attese, in modo tale che il budget contenga sempre un elemento
di sfida e di difficoltà che è necessario per attivare la spinta motivazionale necessaria per attivare le energie degli individui, e
della organizzazione nel suo insieme.
Il momento del budget è anche l’occasione per manutenere il
piano di impresa, verificando eventuali scostamenti, che, nel caso siano rilevanti, richiedono di adattare lo scenario di piano alle trasformazioni che intanto si siano determinate. Insomma, la
pianificazione di breve e di medio termine è lo strumento con il
quale l’azienda si dota di una “road map”, con la quale si possa
indicare il percorso da seguire, le azioni da intraprendere, le sinergie da generare tra le diverse strutture dell’azienda per perseguire gli obiettivi di consolidamento e sviluppo dell’impresa.
2.4 I momenti di controllo
Se la pianificazione è la “road map”, il controllo è il “check up”
necessario per monitorare lo stato di salute e il grado di coerenza tra obiettivi e risultati. Anche nella fase del controllo si possono attivare enzimi fondamentali per consolidare il livello di
motivazione presente in una organizzazione, oppure si possono
generare comportamenti che mineranno la capacità dell’impresa
di liberare le migliori energie della organizzazione.
Se il controllo è orientato a valutare il grado di efficacia delle
122
azioni, ed a proporre soluzioni correttive per tornare lungo il
sentiero indicato dalla pianificazione, allora si attiva un circolo
virtuoso. Le persone trovano in questo modo conferma nella motivazione al raggiungimento degli obiettivi, ed anche strumenti
correttivi in grado di orientare al meglio le proprie energie al servizio del progetto comune.
Se invece il momento del controllo serve o a trovare il capro
espiatorio interno all’impresa o a trovare giustificazioni nello
scenario esterno per gli scostamenti negativi che si sono intanto
determinati, allora si tradurrà in uno di quei stanchi riti che servono al più per correggere le gerarchie di potere interne alla
azienda, senza un volano di efficacia per la crescita effettiva della cultura della organizzazione.
Un atteggiamento giustificazionista o inquisitorio nella fase del
controllo indurrà le persone ad analizzare gli scostamenti dal
piano o dal budget non con la necessaria lucidità che serve ad
individuare le idonee azioni correttive, ma con l’astuzia che serve a proteggere il proprio operato.
Torna anche nel processo di controllo la centralità del coinvolgimento e della partecipazione, in un percorso di analisi sulle
azioni intraprese che deve essere sereno, scevro da pregiudizi,
orientato alla comprensione dei fattori critici ai quali deve essere dedicata maggiore focalizzazione per migliorare le performance dell’impresa.
“Quando i controlli interni di un’azienda cominciano a fallire, i
suoi giorni sono sicuramente contati come quelli di un grande
mammifero cacciatore cui si affievoliscano olfatto o udito. E più
è grande, più velocemente terminerà il carburante per i suoi bisogni metabolici quotidiani” 18.
I momenti di controllo sono quindi indispensabili per la vitalità
di una organizzazione, ma il tipo di cultura di controllo che è
presente nell’impresa non è neutrale, ed è anzi un indicatore rivelatore della presenza o meno di uno stimolo effettivo verso la
motivazione dei dipendenti.
123
Se l’azienda ha costruito una cultura del controllo come strumento attivo di monitoraggio delle azioni di piano, allora gradualmente il controllo effettivo non sarà più solo limitato ai momenti istituzionali nei quali questa attività si svolge nell’impresa
(secondo scadenza temporali che ciascuna organizzazione fissa,
su base semestrale, trimestrale o mensile), ma diventerà un abito mentale dell’intera azienda. E così, i Comitati di Direzione, o
i singoli gruppi di progetto, nelle loro riunioni periodiche, dedicheranno una parte delle proprie energie a controllare lo stato di
attuazione delle azioni decise, stabilendo anche le azioni correttive ritenute idonee a massimizzare il risultato per l’impresa.
Se invece il controllo continua ad alimentare meccanismi di scarico delle responsabilità o ricerca continua di alibi esterni per il
mancato conseguimento degli obiettivi, vuol dire che l’azienda
sarà destinata a reiterare i suoi errori, non solo nella fase di analisi dei problemi, che inevitabilmente non sarà scevra da pregiudizi, ma anche nella fase della implementazione delle soluzioni,
in quanto i comportamenti dei singoli saranno orientati a minimizzare l’assunzione diretta di rischi e di responsabilità, per evitare di finire nelle trappole di un meccanismo di controllo aziendale focalizzato più sulla caccia alle streghe che non sulla soluzione concreta dei problemi.
Controllare diventa quindi, nella migliore accezione del termine,
un modo stesso di operare, e non un’attività a valle della attuazione per verificare ciò che di sbagliato hanno fatto i nostri colleghi. Se resta necessario in qualche misura conservare momenti formali di controllo che siano separati dalla gestione, è però
fondamentale che si diffonda una cultura del controllo come capacità analitica delle criticità e come continua revisione dei processi. Controllare significa quindi mettere continuamente in discussione quello che si fa, il modo con il quale lo si fa, l’interazione che si determina con il contesto interno ed esterno.
Come in tutte le attività che abbiamo finora analizzato, esercitare il controllo significa attivare energie positive, tenere desto lo
124
spirito critico, stimolare la capacità di innovazione e di pensiero
laterale. Insomma, significa impegnarsi molto, mettere sul piatto
le proprie migliori energie per una causa comune. Per ottenere
questo dalle persone che lavorano in una organizzazione, si tratta di investire tempo nel fornire motivazioni e spiegazioni adeguate che diano ragioni sufficienti ad investire risorse che poi sono il motore indispensabile per consentire alle aziende di raggiungere gli obiettivi che si prefiggono.
“Le persone sono disposte a compiere sacrifici se ne capiscono
il motivo. Comunicate, in ogni modo possibile, perché è necessario sopportare rinunce e ridefinire i propri interessi. La gente
ha bisogno di sapere che il gioco vale la candela” 19.
NOTE
1 Domenico De Masi, “Dalla produzione dei beni alla creazione di idee”, in Next, n. 21, 2005, pp.
30-31
2 Corinne Maier, “Buongiorno pigrizia. Come sopravvivere in azienda lavorando il meno possibile”,
Bompiani, 2005, p. 16
3 Luciano Gallino, “L’impresa irresponsabile”, Einaudi, 2005, p.160.
4 Laurence E. Mitchell, “Corporate irresponsibility. America’s Newest Export”, Yale University Press,
New Haven, 2001, p. 32.
5 Corinne Maier, op. cit., p. 15
6 Si pensi a quello che è accaduto ai quadri della FIAT, passati - in poco meno di un decennio - dalla dal protagonismo della marcia dei 40.000 a Torino, con la quale si è resa possibile la ristrutturazione operaia, alla emarginazione di un ruolo progressivamente coinvolto nelle ristrutturazioni che
hanno riguardato anche loro in un contesto di industria declinante.
7 Corinne Maier, op.cit., pp. 73-74
8 Stephen Denning, “Scoiattoli SpA. Storie di noci e di leadership”, Etas, 2005, p. 42
9 Jack Welch, “Vincere!”, Etas, 2005, p. 14
10 Corinne Maier, op.cit., p.6
11 Jack Welch, “Vincere!”, Etas, 2005, p. 6
12 In un momento molto difficile nella evoluzione di Omnia Logistica, società di cui sono amministratore delegato, si è determinata la necessità di modificare fortemente l’identità dell’impresa, chiudendo un settore di attività (il collettame) e concentrando l’azienda in un settore specifico (la logistica
ferroviaria). Questo processo è stato realizzato con successo perché tutti i dipendenti dell’azienda,
attraverso un processo di comunicazione ed anche mediante una trattativa con le organizzazioni sindacali che si è svolta con il massimo grado di trasparenza, si sono resi conto che si trattava di una
scelta inevitabile per garantire la continuità dell’impresa e per costruire un futuro possibile, anche a
costo di una ristrutturazione che implicava inizialmente perdita di posti di lavoro.
13 Corinne Maier, op. cit., p.120.
14 Luciano Gallino, op. cit., p. 91.
15 Jack Welch, “Vincere!”, Etas, 2005, p.40.
16 Jack Welch, “Vincere!”, Etas, 2005, p. 140.
17 Stephen Denning, “Scoiattoli SpA. Storie di noci e di leadership”, Etas, 2005, p.10.
18 Paul Seabright, “In compagnia degli estranei”, Codice Edizioni, 2005, p. 232.
19 RDM, “Motivare la squadra”, Etas, 2005, p. 40.
125
IL LAVORO DI GRUPPO
Carlo Maurizio Stiatti
È compito del capo formare ed indirizzare il gruppo di lavoro, è
lui che coordinando i propri collaboratori, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, decide quando e se formare un gruppo di
lavoro; conseguentemente deve far parte del suo bagaglio professionale conoscere tutte le caratteristiche del “lavoro di gruppo”.
Il “lavoro di gruppo” è una modalità di lavoro fondamentale anche tra le attività che vengono svolte nelle associazioni datoriali, ma prima di entrare nella disamina di questa metodologia di
lavoro è necessario fare il distinguo tra le diverse tipologie dei
“lavori di gruppo”.
Il “comitato” è il gruppo di lavoro più diffuso, è generalmente
costituto per scopi specifici con il fine di analizzare, precisare ed
indirizzare.
Lo “staff meeting” è un’occasione di incontro a periodicità ravvicinata dove il capo informa i diretti collaboratori delle strategie e degli obiettivi. Nello staff meeting avviene l’effettivo scambio di proposte e informazioni e sono assunte importanti decisioni politico/operative.
Le c.d. “task force” sono attivate per risolvere velocemente una
problematica importante, sono solitamente composte da funzionari che vengono temporaneamente distolti dalla loro normale
attività; generalmente la task force riveste un carattere operativo:
oltre ad individuare la soluzione ha anche il compito di metterla in pratica.
Nelle aziende di produzione possono trovarsi i “gruppi di mi-
126
glioramento del processo”, diffusi soprattutto negli anni ‘80, costituiti da tecnici con il fine di migliorare la qualità o di incrementare la produttività con lo studio o l’attuazione di processi
che possono riguardare tutti i reparti e le funzioni aziendali.
La metodologia di gruppo di lavoro più avanzata, più moderna,
con un forte coinvolgimento emotivo dei partecipanti è senz’altro il “team” dove un gruppo di persone con gli stessi obiettivi
ed in modo interdipendente lavora per raggiungere il fine con
uno sforzo comune e coordinato. Il team ha quale caratteristica
il superamento degli individualismi: tutto il gruppo è proiettato
verso il fine aziendale. Ogni singolo membro del team si impegna verso il gruppo, le decisioni sono prese per consenso, i conflitti interni sono utilizzati per sviluppare la creatività del gruppo
e si cercano soluzioni ottimali.
Il team, a differenza delle altre metodologie di lavoro di gruppo,
ha una sua fisionomia autonoma, non costituita semplicisticamente dalla somma delle personalità dei singoli componenti, ma
formata dalle capacità e dalle professionalità di ciascuno di essi
in collaborazione sinergica.
Se ogni gruppo di lavoro riuscisse a superare al proprio interno
gli individualismi personali si costituirebbe, forse anche inconsapevolmente, un team; per individualismi sono da intendersi
tutti gli atteggiamenti negativi che ostacolano il lavoro di gruppo, tutto ciò che allontana e ritarda il fine che si vuole raggiungere:
• l’egoismo: l’anteporre i propri interessi a quelli del gruppo;
• la prevaricazione: cercare di guadagnare posizioni all’interno
del gruppo, portare avanti la propria idea con ostinazione, interrompere i colleghi, parlare troppo, sminuire l’attività degli
altri, ecc.;
• l’ostracismo all’attività del gruppo: deviando l’oggetto della discussione, portando nuovi ed estranei problemi al gruppo, non
aver individuato chiaramente l’obiettivo ultimo del team.
127
Questi fattori negativi, con gli eventuali ostacoli al lavoro di
gruppo, dovrebbero essere subito individuati, affrontati ed eliminati dal capo cioè dal “leader”, nel team infatti entra in gioco la
figura del “”leader”: non sempre il più alto in grado nella scala
gerarchica è il capo del gruppo di lavoro; il più delle volte il leader viene naturalmente e informalmente individuato tra i componenti del team stesso in base alla competenza tecnica e gestionale che l’obiettivo del team necessita raggiungere. Anche in
questo caso il più alto in grado del team dovrebbe superare e
“sacrificare” la sua posizione gerarchica, a favore del gruppo di
lavoro, ecco come il capo si pone quale fattore aggregante e non
disgregante, accettando di buon grado l’individuazione del leader: tutti dovrebbero lavorare con il solo fine di far raggiungere
al team l’obiettivo assecondando e superando i propri individualismi.
Questo è il motivo del successo del gruppo di lavoro: superare
gli individualismi a favore del risultato: questa regola base del
team deve essere non solo “accettata”, bensì “condivisa” da tutti i partecipanti, solo così si riesce a costituire un “team” che lavora all’unisono verso il risultato; la non condivisione è un motivo per cui spesso la metodologia di lavoro in “team” fallisce
nonostante la volontà dei vertici aziendali. Non si può “ordinare” la costituzione di un team se, come detto, tutti i partecipanti al team stesso non sono consapevoli e condividono la volontà
di essere parte del gruppo di lavoro.
Sono semplici e poche le regole base per far funzionare bene il
gruppo di lavoro, anche se spesso ci si accorge che queste ovvie
norme sono dimenticate o si perdono di vista durante l’attività
del gruppo di lavoro; le principali regole base del lavoro di gruppo sono:
la prima, che può sembrare banale ed ovvio, è il motivo per cui
si forma il gruppo di lavoro; qual è il suo fine ultimo? L’obiettivo
del gruppo di lavoro deve essere chiaro, raggiungibile e fatto
128
proprio da tutti i componenti, va sempre tenuto presente ed ogni
attività, decisione, impegno del gruppo, deve essere proiettato
verso lo scopo finale senza divagazioni inutili. Quante volte nei
gruppi di lavoro si inizia ad affrontare una problematica e successivamente questa viene superata da altre questioni che magari non erano neanche all’ordine del giorno: si affrontano altre situazioni e la questione, inizialmente ritenuta fondamentale, viene del tutto esautorata. Questo può avvenire per diverse cause:
l’obiettivo non era primario, alcuni membri del gruppo hanno
volutamente deviato il fine, non sono ancora maturi i tempi per
affrontare e risolvere la problematica …. ecc.. È evidente, pertanto, quanto sia importante saper individuare bene il fine ultimo del lavoro di gruppo e tenerlo sempre “vivo” sul tavolo di discussione; un espediente semplice ma efficace per evitare il rischio di perdere l’obiettivo è predisporre l’ordine del giorno
prefissando l’ora di inizio e di fine del gruppo di lavoro.
Importante è anche saper scegliere i partecipanti al gruppo di lavoro: se occorre superare gli individualismi bisogna saper individuare le persone che sono in grado di affrontare questo salto di
qualità nella propria attività: spesso nei gruppi di lavoro per alcuni partecipanti è importante affermare le proprie capacità,
l’autorità, la professionalità e tutti questi piccoli egoismi incidono solo negativamente sul lavoro di gruppo: il fine deve essere
comune a tutti, lo si può raggiungere solo insieme con la collaborazione e la sinergia di tutti.
Perché a volte irrompono nei team questi individualismi, che sono fattori negativi al raggiungimento dell’obiettivo, anche se la
scelta dei partecipanti è stata curata con particolare attenzione?
Il capo che ha formato il gruppo di lavoro non deve nascondersi facilmente dietro al pretesto: “i partecipanti non sono maturi
per questa metodologia di lavoro”; il più delle volte la colpa del
fallimento del team sta proprio nell’atteggiamento del capo: nel
team i partecipanti non devono mai avere la sensazione di essere giudicati in base al contributo che danno nel raggiungere l’o-
129
biettivo; non bisogna e non si può giudicare negativamente se
uno o più membri non ha dato un apporto determinante al raggiungimento dell’obiettivo. L’unico fattore rilevante è che il gruppo di lavoro ha raggiunto il fine prefissato, è solo il gruppo che
ha vinto con l’insieme dell’attività di tutti al di là dell’apporto
più o meno prezioso dell’ uno o dell’altro partecipante.
Spesso l’individualismo, quale fattore negativo nel team, emerge
proprio perché i componenti del gruppo hanno la sensazione, e
quindi il timore, di essere giudicati per il contributo dato al lavoro di gruppo e pertanto cercano di esaltare le proprie caratteristiche professionali, cadendo inevitabilmente negli individualismi che danneggiano ed allontanano l’obiettivo del team.
Altro fattore determinante del buon funzionamento del gruppo
di lavoro è la comunicazione e l’informazione: tutti i partecipanti devono conoscere ed essere consapevoli dell’obiettivo da
raggiungere, devono avere o essere in grado di raccogliere tutte
le informazioni necessarie senza alcun limite. È dovere del capo
gruppo, o meglio del leader, dare un’informazione semplice e
corretta e mettere a disposizione tutte le informazioni necessarie: quest’ultime non devono solo essere recepite, ma ogni componente del gruppo deve far proprie tutte le comunicazioni ricevute per essere così parte attiva del team; solo una persona ben
informata può trovare soluzioni ottimali; inoltre se le informazioni sono complete ed esaurienti viene stimolata la creatività e
si possono così raccogliere nuove idee, a volte basta non conoscere un dettaglio del problema, che le eventuali soluzioni proposte sono inopportune ed irrealizzabili.
Due fattori emotivi incidono profondamente nel lavoro di gruppo: sono la “fiducia” e la “stima” tra i partecipanti. Se ci sono vera, sincera fiducia e profonda stima tra i membri del gruppo di
lavoro si può essere certi che gli eventuali individualismi saranno subito superati così come saranno superati i conflitti interni al
gruppo.
130
Queste poche e semplici “regole” sono le basi con cui si può
“costruire” un gruppo di lavoro e farlo sviluppare e crescere a livello di “team” per raggiungere in maniera ottimale il fine prefissato; bisogna ovviamente saper mantenere e coltivare queste
poche regole ed è compito del capo saper gestire o meglio prevenire eventuali fattori distorsivi al gruppo di lavoro.
Nel costituendo “team” il momento più delicato si verifica nel
passaggio tra “gruppo di lavoro” e “team”, infatti le interazioni
ed i ruoli tra i componenti all’interno del gruppo non sono delineati, pertanto ogni membro, del nascente team, tende ad agire
da osservatore anche per capire cosa ci si aspetta da lui. Segue
necessariamente un processo di “maturazione” del team dove si
sviluppa in ogni singolo componente la consapevolezza dei bisogni, dei problemi e delle necessità che l’obiettivo richiede al
gruppo di lavoro. Solo di seguito vengono identificati i ruoli dei
singoli ed è in questa fase che si “rivela” ed “emerge” in maniera naturale ed informale il leader del team.
Nelle associazioni datoriali i funzionari delle relazioni sindacali
possiedono una alta professionalità e ciò comporta, ovviamente,
un’importante autonomia ed un’ampia discrezionalità nell’attività del singolo; nonostante questa autonomia, esiste all’interno
del gruppo di lavoro un sistema di informazione che scorre velocemente in maniera sia informale che costante, sono così tutti
in grado di conoscere l’andamento dei servizi che ognuno offre
agli associati.
Questo sistema informale di comunicazione interna ha fatto
emergere, forse senza volerlo, un gruppo di lavoro particolare:
un “team continuo” dove ognuno è costantemente informato
dell’attività degli altri colleghi; le decisioni importanti sono prese consapevolmente con l’apporto costruttivo di tutti dopo una
consultazione, che per l’appunto è informale e veloce, aggiungendo a questo un rapporto di fiducia e stima reciproca, si ottiene il “team continuo”.
Nell’attività associativa c’è un’altra importante metodologia di
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“lavoro di gruppo”: ogni volta che un’azienda associata chiede
l’assistenza al tavolo per le relazioni industriali, si forma un particolare “team ” tra la struttura associativa ed i rappresentati dell’azienda a cui si offre assistenza;
Questo gruppo di lavoro si forma in brevissimo tempo: l’azienda
viene in associazione, illustra la problematica e indica l’obiettivo che vorrebbe raggiungere; le problematiche possono provenire dall’azienda ovvero sorte su necessità di questa: nuova organizzazione del lavoro, riduzione di costi, ecc.; oppure determinate dai rappresentanti dei lavoratori quali ad esempio nuove
richieste economiche.
La struttura associativa, dove interviene anche il responsabile del
servizio in base alla portata della problematica, analizza il problema sotto il profilo giuridico e sindacale, consigliando ed indirizzando l’azienda, su come affrontare e risolvere gli eventuali conflitti con i rappresentati dei lavoratori.
Questo gruppo di lavoro così costituito ha un obiettivo chiaro,
determinato e raggiungibile, i partecipanti assecondano i loro individualismi per il fine del gruppo, la comunicazione e l’informazione scorrono velocemente all’interno senza formalismi, per
ultimo, il rapporto associativo tra azienda e struttura datoriale –
non paragonabile con quello che tra cliente e fornitore - implica
certamente un rapporto di fiducia e rispetto all’interno del gruppo di lavoro. Forse non si è in presenza di un vero e proprio
“team” ma certamente questo particolare gruppo di lavoro, tra
azienda ed associazione, ne possiede gran parte delle caratteristiche.
132
LA FIDUCIA: UN’EMOZIONE, UN RISCHIO O UN SEMPLICE
STRUMENTO DI GESTIONE?
Hermann Troger
Una nuova moda
Non vi è dubbio che da alcuni anni la fiducia sia considerata un
argomento di moda quando si tratta di gestione del personale. In
questo periodo di approfondito dibattito sui diversi stili di gestione, la fiducia viene trattata come elemento essenziale per un
efficace rapporto fra partner nel modo del lavoro.
Appare strano che ciò si verifichi quasi in contemporanea con il
succedersi di vari scandali legati ai tradizionali sistemi di controllo dell’economia (come ad esempio quelli verificatisi nelle
società di revisione). A questo riguardo è opportuno sottolineare
che la discussione non è più sostenuta dai soli moralisti ma anche dal management, dai consulenti e dagli economisti i quali
sono soliti sostenere le proprie posizioni sulla base del solo calcolo del rapporto costi/benefici. Per quale motivo?
Per la semplice ragione che i tradizionali sistemi di gestione e di
controllo sembrano ormai essere sempre più carenti: ciò vale sia
per il libero mercato sia per le diverse forme di organizzazione
aziendale così come per i complessi regolamenti e ordinamenti
di servizio della pubblica amministrazione e dalle aziende no
profit.
Quando i collaboratori devono attendere per un tempo sempre
più lungo le decisioni dei responsabili di reparto a loro volta
sempre più sovraccaricati, quando le regole devono essere interpretate in modo flessibile e l’infrazione delle procedure diventa
una regola, quando i mercati si fanno sempre più complessi e i
partner commerciali non possono più rispettare tutti i dettagli
contrattuali, avvertiamo la mancanza di un meccanismo di controllo che possa riempire questa lacuna.
133
La fiducia può essere una risposta a tale carenza sia nelle relazioni private che in quelle di business: anche i manager più severi si ricordano improvvisamente dell’importanza della fiducia,
finora solo essenzialmente vissuta nel mondo del privato e pochissimo considerata dal mondo del business.
… e i suoi limiti
Occorre comunque porsi la domanda del perché i processi gestionali e amministrativi basati sulla fiducia non siano più numerosi. E ancora, perché i dipendenti, al loro primo giorno di lavoro, ricevono l’ordine di servizio stampato e devono adeguarsi
ad una rigida gerarchia? Perché poi un numero crescente di avvocati deve elaborare contratti sempre più complicati, allo scopo di proteggersi da ogni possibile circostanza?
La risposta va ricercata nei due principali punti deboli della fiducia: la sua difficile costruzione e la sua fragilità. Sebbene la fiducia sia alla base di ogni processo sociale ragionevole e funzionale, nella letteratura scientifica non esiste praticamente nulla a riguardo e non sono disponibili norme di comportamento da
apprendere.
La costituzione di un rapporto di fiducia è difficile e può essere
complicata dai pregiudizi, dalle esperienze negative e dall’insicurezza. Ad esempio l’apprendista, al primo incontro con il direttore del personale, è insicuro e prudente. I suoi pensieri sono:
“Vuole mettere in evidenza le mie debolezze”, “Quale secondo
fine implica la sua frase?”, “Basta non dire niente di falso”.
La fiducia tra le persone, poi, si costruisce lentamente. Possiamo
offrire agli altri (e attenderci ricambiato) uno sguardo amichevole o un gesto cordiale contribuendo così a creare la base di un
rapporto di fiducia: anche nel caso in cui il direttore compia un
grande sforzo nel concedere molta fiducia alla segretaria, il suo
sforzo potrà essere efficace soltanto nella misura in cui anche la
segretaria concederà la propria fiducia al proprio superiore.
134
La seconda difficoltà, come già detto, consiste nella fragilità della fiducia. Spesso è sufficiente il minimo sospetto di abuso per
rovinare un rapporto costruito con tanta fatica. È sufficiente che
il direttore del personale nasconda un dettaglio importante ai
rappresentanti sindacali (per considerazioni tattiche o per una
svista), per danneggiare in modo permanente il loro rapporto.
Fiducia nel “sistema”
Di fronte a questa fragilità e alla complessità di un rapporto di fiducia, non c’è da meravigliarsi che, al giorno d’oggi, ancora
molti manager prediligano i rapporti d’affari freddi e privi di
emozioni: ne conseguono certamente meno problemi e quindi
fanno risparmiare tempo ed energia. Anche nella vita di tutti i
giorni si tende quasi sempre a evitare il coinvolgimento in rapporti personali complicati. Possiamo partecipare a un safari in
Kenya oppure a una crociera nei Caraibi senza essere costretti a
coinvolgere vecchie conoscenze oppure senza dover stabilire faticosi contatti con la guida o con i compagni di viaggio. Oppure, provate ad immaginare se, prima di acquistare del pesce, doveste guadagnarvi faticosamente la fiducia della venditrice elargendo complimenti e costruendo un’amicizia calorosa allo
scopo di riceverlo fresco.
La collaborazione all’interno di un reparto sarebbe impensabile
se per ogni piccolezza il responsabile dovesse prima ottenere la
fiducia dei suoi collaboratori. Il sociologo Niklas Luhmann parla di “fiducia nel sistema” per descrivere il caso del direttore di
reparto che, in virtù della sua posizione gerarchica, può prendere le mosse da una posizione di conformità generalizzata. In
questo caso l’oggetto della fiducia non è una persona, bensì un
fattore di potere (denaro, posizione gerarchica). Questo tipo di
rapporto ha ben poco a che fare con la nozione romantica di fiducia tra le persone.
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Fiducia nelle persone
Detto questo, torniamo a quanto menzionato in precedenza, ovvero al recupero della fiducia come base e garanzia dei rapporti funzionali nella vita quotidiana.
Di che cosa dobbiamo tenere conto quando intendiamo costruire delle posizioni di fiducia? Il motivo per cui non esistono ancora ricette né trattati scientifici su questo tema dipende dal fatto che le risposte sono tanto banali quanto paradossali: ognuno
conosce la regola (presupponendo un minimo di sensibilità) per
ottenere la fiducia del proprio partner in affari o collaboratore.
Non sono richieste (fortunatamente) competenze o capacità specifiche per dare o ricevere fiducia!
Paradossalmente vi sono dirigenti che, pur avendo successo,
sembrano sbagliare tutto in termini di motivazione, stile di gestione e cultura imprenditoriale. Ciò dimostra che gli aspetti centrali non sono la tanto declamata motivazione o lo stile di gestione partecipativo, come neppure la cosiddetta “intelligenza
emotiva”, bensì la questione relativa alla fiducia verso i superiori da parte dei collaboratori: posso avere fiducia anche in un capo antipatico, autoritario e ingiusto, se costui è in grado di fare
uscire l’impresa dalla crisi, salvando il mio posto di lavoro (Fredmund Malik, guru svizzero del management).
Consigli pratici
Come posso creare delle situazioni di fiducia? Ecco, di seguito,
alcune regole basate soprattutto sulle esperienze personali dell’autore:
innanzitutto occorre definire il “tipo di rapporto”. Prima di attendersi o di investire fiducia in un rapporto, è opportuno infatti
chiedersi di quale tipo di relazione si tratti: una relazione familiare irrevocabile o una temporanea società d’interessi. Un rap-
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porto familiare richiede sostanzialmente un maggiore credito di
fiducia e di indulgenza, ma anche di simpatia, rispetto al rapporto tra imprenditore e revisore dei conti. Un rapporto basato
sul raggiungimento di un obiettivo, come ad esempio accade tra
i collaboratori di un progetto, non può essere paragonato alla “fiducia strategica” tra organizzazioni sindacali e associazioni imprenditoriali.
Successivamente occorre prendere in esame le condizioni di base. Ciascun partner del rapporto deve avere la possibilità di dimostrare la propria affidabilità, ma anche la facoltà di poter sanzionare eventuali violazione della relazione basata sulla fiducia.
Anche il fattore tempo è rilevante, sebbene abbia perso molto
del suo significato nel contesto della vita frenetica, della mobilità e della tecnologia di oggigiorno. Inoltre, deve essere possibile prevedere una certa durata del rapporto: nei legami a breve
termine non vale la pena fare un investimento analogo a quello
di un rapporto fiduciario, potrebbe addirittura valere la pena ricorrere a un po’ di astuzia e furberia per il proprio tornaconto.
Il primo passo. La fiducia si basa sulla reciprocità ma ognuno di
noi deve fare il primo passo. Quando iniziai, molti anni fa, come direttore del personale in una grossa impresa, le ammonizioni da parte dell’associazione imprenditoriale, dei colleghi e dei
superiori di fronte alle rappresentanze sindacali erano frequenti:
“stai in guardia e non fidarti di nessuno di loro”, “questo conflitto latente lo potrai vincere solo con durezza e forte risoluzione”.
Per farla breve, applicai proprio la strategia contraria: offrii agli
“avversari” la mia fiducia, senza alcuna restrizione. Questi, sorpresi per il mio passo, a loro completamente nuovo, ricambiarono la mia offerta. Il risultato fu una lunga collaborazione, corretta e piena di fiducia anche in situazioni di conflitto.
Accettazione del rischio della delusione. Naturalmente questa
137
strategia da me seguita avrebbe potuto essere soggetta anche a
dei “fiaschi”. I rappresentanti sindacali avrebbero potuto approfittare della mia “malleabilità” e agire ancora di più contro gli interessi dell’impresa. Avevo accettato questo rischio con molta
consapevolezza. Se avessero reagito in modo diverso dal previsto, ne sarei stato deluso ma non impreparato. Offrire la propria
fiducia significa accettare dei rischi. Il fare affidamento sulla sola parola data e non su contratti, regolamenti o cose simili, richiede coraggio, fiducia in sé e sensibilità.
Comunque non bisogna equiparare l’accettazione consapevole
del rischio alla cecità e/o all’ingenuità. Naturalmente la mia disponibilità mostrata alle rappresentanze sindacali fu accompagnata da una comunicazione sulle conseguenze a cui avrebbe
portato un eventuale abuso della mia fiducia. E, naturalmente,
avevo integrato dei meccanismi di controllo adeguati. Qui arriviamo probabilmente agli aspetti più interessanti della discussione. Ritengo che sia sbagliata la solita citazione “avere fiducia è
bene, controllare è meglio” attribuita a Lenin. Quest’ultimo difatti sosteneva che : “avere fiducia è bene, avere fiducia con un controllo è meglio”. Sono del parere che la cosiddetta “cultura della
fiducia” debba essere accompagnata da un sistema di controllo
chiaramente definito. Il controllo non deve essere visto come il
contrario della fiducia, bensì come una sua integrazione o, talvolta, addirittura come una condizione del rapporto di fiducia.
In un rapporto di fiducia esiste anche un altro aspetto essenziale del controllo: è necessario che entrambi i partner siano consapevoli che qualsiasi abuso della fiducia possa essere immediatamente scoperto. Per restare all’esempio delle rappresentanze
sindacali, io ero sempre nella condizione di venire a conoscenza delle azioni scorrette della mia controparte, cosa di cui loro
erano perfettamente consapevoli.
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Demistificazione della fiducia e esclusione della parte emotiva.
Ovviamente la fiducia è un sentimento e a volte i sentimenti sono molto importanti e opportuni nei rapporti. Raramente tuttavia
sono il fondamento di un rapporto d’affari, tanto più se contrassegnato da conflitti e contrasti di interesse. Secondo Malik la fiducia nasce da un comportamento coerente, deciso e da quella
che potremmo descrivere ordinariamente come “integrità interiore”. In ultima istanza, dietro a questa espressione carica di significato, si nasconde un principio semplicissimo: essere sinceri, agire in maniera coerente rispetto alle proprie affermazioni e
mantenere le promesse fatte.
Conclusione
Per concludere si può quindi sostenere che la fiducia non debba
essere vista come un fenomeno emotivo ma come elemento (razionale) che rende possibile in primis ogni forma di gestione e di
collaborazione efficace ed efficiente. Quando un dirigente capisce come ottenere e mantenere la fiducia dei suoi collaboratori,
colleghi e superiori, tutto il resto passa in subordine. In tal modo, infatti, egli avrà conquistato una solida posizione manageriale e gli saranno più facilmente tollerati i normali errori quotidiani che potranno verificarsi a livello di gestione, comportamento e motivazione.
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AUTORI
Ernesto Albanese, 41 anni, napoletano, laureato in Scienze Politiche, Master in direzione aziendale, ha lavorato in Alitalia nell’Area Commerciale e Marketing (1987-1997), è stato Amministratore Delegato di Eurofly, Seat Pagine Gialle di una delle start-up nell’area internet, Atahotels (Gruppo Ligresti). Dal giugno 2003 è
Direttore Generale di Coni Servizi e si è occupato del risanamento economico e finanziario del CONI.
Francesco Alberoni, nato a Piacenza il 1929, laureato in Medicina a Pavia con tesi sulla psicologia della testimonianza. Unanimemente riconosciuto come eminente sociologo e scrittore, ha
prodotto un vero rinnovamento della saggistica italiana con il suo
libro “Innamoramento e amore”, con la sua rubrica sul Corriere
della sera ha scritto inoltre diversi libri sulle relazioni umane nelle imprese e sui rapporti di potere, “Pubblico e privato” 1987, “Gli
invidiosi” 1991, “L’Ottimismo” del 1994 con uno straordinario
successo internazionale, “Abbiate Coraggio” 1998, “La Speranza”
2001, “L’arte del comando” 2002, ultimo “Sesso e Amore” 2005.
Massimo Bornengo, laureato in Giurisprudenza a Firenze, dopo
un’esperienza in una grande azienda navalmeccanica nell’area
del personale e in diverse strutture associative territoriali e nazionali dal 2003 è in Agens nell’Area delle Relazioni Industriali;
ha svolto docenza in numerosi corsi sulla gestione del personale, autore di diversi articoli su riviste specializzate di diritto del
lavoro e del libro “Anatomia della negoziazione sindacale”
2001.
Beppe Carrella, docente presso l’Università Cattolica del Sacro
Cuore di Milano fino al ’98 e Visiting professor presso Massachusetts Institute of Technology di Boston dal ’95 al ’99, ha ricoperto
importanti ruoli nelle divisioni ICT di aziende quali Price Wa-
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terhouse, Gruppo Fininvest, EMI Music/Virgin, B2Biscom. Dal
2002 è Amministratore Delegato di TSF SpA, la società del Gruppo Finsiel leader per l’informatica dei trasporti. È autore di diversi libri: “L’officina neurale”, “Sistemi informativi”, “La bottega del
caos”, “E-commerce tra mercato e diritto”.
Gianluigi De Carlo, nato a Montebelluna nel 1955, si laurea in
Ingegneria Civile Trasporti nel 1979 presso l’Università degli studi di Roma e conseguente abilitazione alla professione di Ingegnere nel 1980. Nel 1982 entra nelle Ferrovie dello Stato in qualità di Responsabile della 2^ Sezione Esercizio della Direzione
Compartimentale Movimento di Venezia; nel 1991 viene nominato dirigente e sviluppa nella Sede Centrale attività di progettazione pianificazione degli investimenti e successivamente di realizzazione degli stessi. Dal 2003 è Amministratore della Società
Europea di diritto Austriaco “Galleria di Base del Brennero Brenner Basis Tunnel BBT SE” partecipata pariteticamente dall’Italia e dall’Austria.
Umberto Musetti, attualmente responsabile della “Funzione Politiche delle Risorse Umane e Relazioni Industriali” di ENAV
s.p.a. Da oltre venticinque anni opera nell’ambito della direzione del personale di imprese industriali e di servizi; in particolare dopo una prima esperienza nel campo della formazione e dello sviluppo risorse nel Gruppo ENI ha sempre esercitato responsabilità complessive di direzione del personale presso imprese
industriali e di servizi, quali l’Honeywell Information System Italia, Alitalia, presso aziende finanziarie e creditizie, quali l’Istituto Mobiliare Italiano, San Paolo Imi s.p.a., San Paolo Imi Wealth
Management.
Antonio Savini Nicci, nasce a Roma nel ‘45 dove nel ‘72 si laurea in Ingegneria Chimica. A partire dal ‘73 lavora prima come
Ingegnere di processo per la progettazione di grandi impianti pe-
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troliferi e petrolchimici; quindi opera nella gestione della realizzazione di grandi impianti industriali in società leader nel settore e nello sviluppo della rete di distribuzione di società petrolifere. Dal gennaio ‘99 è Amministratore Delegato della TAV dove
inizia la sua attività nel ’93 come Direttore Generale.
Stefano Savino, nelle Ferrovie dal giugno del 1976. Assunto come Segretario Amministrativo a Trieste è sempre stato nell’area
del personale. Dirigente nella Direzione Relazioni Industriali
della Direzione Generale di Gruppo per le Risorse Umane di
Ferrovie dello Stato S.p.A., prima come Responsabile dell’Unità
Costo del Lavoro e, dall’aprile del 1998, come Responsabile dell’Unità Rapporti Sindacali e Associativi.
Pietro Spirito, nato a Maddaloni (CE) nel 1962. Laureato in
Scienze Politiche presso l’Università Federico II di Napoli. Master post-laurea con borsa di studio sulla gestione delle imprese
di servizi presso l’Unioncamere. È autore di diversi articoli su riviste specializzate sui temi della integrazione europea, della politica industriale, della evoluzione del sistema ferroviario. Da novembre del 2001, è Amministratore Delegato di Omnia Express
S.p.A. e di Omnia Logistica S.p.A., due società del gruppo Ferrovie dello Stato che operano nel settore della logistica e del trasporto merci; è anche responsabile della filiera Pubblica Amministrazione di Trenitalia Logistica.
Carlo Maurizio Stiatti, laureato in Giurisprudenza, dopo un’esperienza nell’ambito dell’Ufficio del Personale della Ciba Viscosa è attualmente Direttore dell’Area Lavoro e Affari Generali
dell’Unione Industriale di Roma, componente della Commissione Regionale per l’Impiego, Vice presidente del Comitato Provinciale INPS, Componente della Delegazione Imprenditoriale
nei rinnovi dei contratti di lavoro in Confindustria e Componente del Comitato Tecnico Sindacale.
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Hermann Troger, nato nel 1967, lauree in Economia e Commercio ed in Filosofia, già docente alla Libera Università di Bolzano,
“Corso personale ed Organizzazione” (2000-2003), già Direttore Personale e Organizzazione di un gruppo multinazionale nel
settore automotive è oggi il Direttore Generale di un’azienda nel
settore automotive di oltre 1.000 dipendenti.
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