La Repubblica di Berlino e l`impero Nella

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La Repubblica di Berlino e l’impero
(maggio-giugno 2006)
Nella Germania federale del dopoguerra, le riflessioni sulla
politica mondiale in una prospettiva storica – distinte dall’autocompiacimento liberal-normativo – sono state una rarità. Neppure l’arroganza che per un certo periodo ha seguito la riunificazione, favorendo la secessione in Slovenia e in
Croazia, è riuscita a far ripartire e ad aggiornare, nelle università e nei circoli politici, il complesso e provocatorio discorso germanico-prussiano sulla Machtpolitik. La tesi secondo cui «l’argomento migliore è il potere» e il suo corrispettivo geopolitico, fondato sul multilateralismo atlantico
teorizzato da Hans-Dietrich Genscher e su una sua politica
estera attenta anzitutto alle questioni economiche, erano
troppo radicate. A quanto pare, la ricomparsa degli aerei della Luftwaffe nei cieli balcanici a fianco a fianco di quelli della NATO nei bombardamenti in Iugoslavia ha solo provocato un altro ciclo di celebrazioni kantiane. Nonostante ciò, un
* Prima di diventare ricercatore del dipartimento di relazioni internazionali all’Università del Sussex, ha rivestito lo stesso ruolo alla Swansea
University, in Galles. In precedenza aveva studiato al Center for Social
Theory and Comparative History dell’Università della California. È
autore di The Myth of 1648: Class, Geopolitics and the Making of Modern International Relations (2003).
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limite fu superato. Dopo tre anni di guerra in Iraq, che
Schröder e Fisher disapprovarono in pubblico ma appoggiarono in segreto, Herfried Münkler nel suo saggio Imperien –
accolto nella Germania Federale da un successo commerciale e da critiche lusinghiere – ha infranto i tabù, sorvolando,
senza però ripudiarle, sulle considerazioni etiche al fine di
compiere un’indagine comparativa della «logica transtorica
dell’impero».
L’autore di questo emblematico studio sui cambiamenti
intellettuali e politici in atto nella Germania di fine secolo ha
iniziato la carriera all’Università di Francoforte dove, negli
anni Settanta e Ottanta, prevalevano le simpatie a sinistra.
Specializzato in storia delle idee, è stato allievo, assistente e
collaboratore di Iring Fetscher, autore di vari studi sul socialismo e curatore delle opere di Marx. In seguito, anche
Münkler è diventato membro permanente del comitato redazionale di MEGA (Marx-Engels-Gesamtausgabe) che prevede la pubblicazione in 114 volumi dell’opera omnia di
Marx ed Engels. Sviluppando la tesi di laurea su Machiavelli, Münkler ha scritto per la libera docenza un saggio sulla
nascita del concetto di ragion di Stato nell’Europa moderna,
e in seguito ha curato con altri una storia delle idee politiche
in cinque volumi. L’interesse per Clausewitz e Schmitt è all’origine dei suoi studi sulla sociologia militare della guerra,
sul terrorismo e sulla guerriglia partigiana. Direttore per
molti anni della «Politische Viertljahresschrift», la più importante rivista tedesca di scienze politiche, Münkler fa ora
parte dell’Accademia delle Scienze di Berlino-Brandeburgo
e occupa la cattedra di Teoria politica alla Humboldt di Berlino, ottenuta nel 1992 dopo le purghe politiche che avevano
colpito i rappresentanti del vecchio regime nella più presti286
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giosa università dell’ex Germania Est. In passato opinionista
della «Tageszeitung» – quotidiano berlinese radicale di sinistra, benché poco graffiante –, Münkler è oggi lodato da
«Die Zeit» e apprezzato dal ministro degli Esteri tedesco,
che nel 2004 ha presentato Imperien alla Conferenza degli
Ambasciatori definendolo un prezioso «promemoria».
In questo studio di sociologia e storia comparata degli imperi, Münkler si propone di individuare le caratteristiche e le
dinamiche principali dell’impero, sintetizzandole in un idealtipo al fine di spiegare gli attuali progetti americani e le conseguenti reazioni europee. Sebbene non voluminoso, Imperien copre un vasto campo, che comprende gli imperi nomadi delle steppe dell’Asia centrale e, passando per le Hochkulturen, l’impero greco, persiano, romano, cinese e i successivi imperi ottomano, portoghese, olandese, spagnolo,
francese, russo, britannico e sovietico. È chiaro che Münkler
non ha tanto interesse a trarre lezioni dalle esperienze passate, bensì a scoprire in esse delle costanti che per lo più operano indipendentemente dalla volontà dei protagonisti. Al
centro dell’attenzione c’è la «concretezza politica», non
l’«accortezza politica». Più che la politica dell’impero, contano i suoi imperativi. «Un approccio che indaga la logica
dell’impero e i suoi imperativi attribuisce poca importanza
all’influenza e alle decisioni degli attori, ma cerca piuttosto di
identificare le strutture e le premesse che ne definiscono lo
spazio di manovra.»
Quali sono allora per Münkler le componenti essenziali
dell’impero? Se, secondo l’interpretazione classica, gli Stati
si definiscono in base alla sovranità, al territorio e all’omogeneità della popolazione – tutti fattori che producono relazioni internazionali reciproche e (in linea di principio) giuridi287
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camente paritarie –, gli imperi non ne sono soltanto la versione più ampia ma similmente delimitata nel pluriuniverso
geopolitico. Gli imperi sono qualcosa di diverso: sono sistemi di governo circondati da comunità politiche (clienti o satelliti) subordinate e di minore estensione, soggette a un intervento costante e al controllo politico diretto o indiretto.
Inoltre, all’interno degli imperi, l’integrazione amministrativa e giuridica fra il centro e la periferia è sempre disomogenea e decrescente, mentre le zone di frontiera sono semiaperte, in movimento, e tendono a lasciar uscire le persone selezionando viceversa l’ingresso. Nella fase iniziale della formazione dell’impero non è riconoscibile una vera e propria
strategia – la tesi di John Robert Seeley secondo cui l’impero
britannico sarebbe stato fondato «in un accesso di irrazionalità» è accolta in genere con entusiasmo. Le dinamiche imperiali non sono determinate dall’impatto del centro sulla
periferia, ma dalla loro interazione. Gli imperi si fondano
sulla potenza militare e sul potere economico, ma hanno anche bisogno di legittimarsi promettendo una pace duratura,
prosperità, civiltà, liberi mercati, democrazia e rispetto dei
diritti umani. La loro missione è più un impegno vincolante
che un’ideologia in senso classico. Non è né un insieme di
menzogne né una forma di inganno, ma una promessa che limita il dominio imperiale e al contempo considera barbaro
chi vi si oppone. Se la forza di attrazione non ha successo, si
può dichiarare una guerra giusta criminalizzando il nemico e
imponendo un nuovo ordine giuridico internazionale – lo iustus hostis diventa uno Stato canaglia. All’interno, la missione consiste nel chiamare a raccolta la popolazione metropolitana, spiegando e legittimando i sacrifici fiscali e militari.
Se l’impero, afferma Münkler, oltre a ingrandirsi mira
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anche ad arricchirsi deve avere non solo una vasta estensione spaziale ma anche una notevole durata temporale. Ma
soprattutto, dopo che la fase carismatica iniziale si è esaurita, deve essere capace di una rigenerazione transgenerazionale. Da questo punto di vista – ovviamente per gli scopi
che ci siamo prefissati – l’esperienza napoleonica, bismarkiana e nazista (e ancor più quella giapponese) escono
di scena. Infatti, per essere veri, gli imperi devono aver attraversato almeno un ciclo di crescita e declino, oltre a una
nuova fase ascendente. Sotto il profilo spaziale, gli imperi
tendono a coincidere con i loro «mondi» in quanto la coesistenza di diversi imperi e il riconoscimento reciproco sono una contraddizione in termini che porta inevitabilmente
al conflitto. Fanno eccezione gli «imperi paralleli», ossia
quelli che pur coesistendo non entrano in contatto fra loro
a causa della lontananza geografica, come è accaduto all’impero romano e a quello Han in Cina. Storicamente però
l’impero tende a estendersi spazialmente in tutto il globo (e
quindi a includere lo spazio esterno), e ciò vale anche per il
modello americano che pure, per la sua natura informale,
ha un carattere transglobale. Benché Münkler ammetta che
in teoria possa esistere un terzo tipo di comunità politica,
nella quale chi conquista l’egemonia sugli altri attori si propone come primus inter pares, di fatto la sua classificazione
delle comunità politiche si esaurisce nel fondamentale dualismo Stato-impero.
Quali sono gli imperativi caratteristici del dominio imperiale? Nella loro sfera d’influenza, gli imperi sono obbligati a
intervenire politicamente e militarmente per mantenere credibilità e prestigio e, in ultima analisi, potere e influenza. In questo caso la neutralità non è un’opzione. Nel Dialogo dei melii
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e degli ateniesi, Tucidide spiega le ragioni per cui gli Stati satelliti devono essere coinvolti nel progetto imperiale comune e
subordinati ad esso. Gli abitanti di Melo non potevano tenersi fuori dal conflitto fra Atene e Sparta; per usare un’espressione più recente «chi non è con noi è contro di noi». Dal canto loro, i rapporti fra imperi sono dominati dalla continua
competizione geopolitica volta a stabilire le relative posizioni e
dalla spinta alla gerarchizzazione determinata dalle esigenze
del potere politico. Tale spinta è causa anche di una serie di
guerre asimmetriche – spesso per procura – contro potenze
periferiche minori. Le guerre di supremazia fra imperi hanno
lo scopo di dimostrare ai rivali prestigio e capacità di colpire,
e finiscono per decidere le sorti dell’ordine mondiale.
Se fino a questo punto Münkler, nella sua costruzione
teorica, fa un racconto semirealistico dei campi di forza geopolitici, nel capitolo centrale ritorna a occuparsi della politica interna che governa il ciclo degli imperi. Dopo aver citato
le opere politiche di Polibio e di Machiavelli, fa riferimento
alle quattro fonti del potere di Michael Mann (ideologica,
economica, militare e politica) e al concetto di «soglia augustea» di Michael Doyle, per respingere sia i modelli economicisti sia quelli uni-ciclici dell’ascesa e del declino degli imperi, e opta per un’interpretazione dei ritmi variabili di ascesa e declino che prenda in considerazione più fattori e più cicli. Tra questi ultimi due cardini teorici, il secondo ha incontrato un maggiore consenso del primo. Nell’interpretazione
di Doyle, l’epoca augustea è caratterizzata da una serie di importanti riforme costituzionali e morali – fra cui la transizione, completata da Ottaviano, dal governo repubblicano decentrato a quello autoritario centralizzato – comuni agli imperi nel momento in cui, conclusa la fase di espansione mili290
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tare, danno inizio a un lungo periodo di consolidamento socio-politico e di ordine imperiale.
Superata la fase iniziale, lo sfruttamento millitare delle
periferie da parte del centro si trasforma in una condizione
omogenea di pace civilizzata: i tributi arbitrari dei proconsoli vengono sottoposti alle regole del fisco imperiale; i popoli
conquistati non sono più discriminati politicamente ma ottengono la cittadinanza romana; e la prosperità si diffonde
grazie a ingenti investimenti e a progetti infrastrutturali. La
conversione, operata con successo da Ottaviano, di una potenza militare in potenza politica – una rivoluzione burocratica realizzata da un’élite incorruttibile – ha trasformato l’imperialismo aggressivo della repubblica romana in un magnanimo imperium romanum, mitigato dalla nuova ideologia
della pax romana. L’impero ha conosciuto così un secolo di
stabilità e gloria. Solo dopo Traiano ha iniziato a declinare,
nonostante le riforme di Diocleziano, Costantino e Teodosio
ne abbiamo rallentato, interrotto e sporadicamente perfino
annullato la crisi. Münkler conclude che «le comunità politiche attraversano vari cicli di ascesa e di declino, e che il numero dei cicli e la permanenza di un impero all’apice del ciclo dipendono soprattutto dalla capacità e dalla saggezza dei
capi politici». L’affermazione è sorprendente in quanto in totale contraddizione con quello che è stato sostenuto all’inizio
sul primato delle condizioni strutturali e sulla scarsa incidenza dell’elemento politico. Né, del resto, è accompagnata
da un commento chiarificatore.
Dopo aver preso in esame l’ascesa e il consolidamento degli imperi, Münkler passa ad analizzare la logica del declino,
abbandonando l’approccio strutturalista e optando per il più
dinamico modello di azione e reazione. Se non si distruggo291
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no in guerre fra loro, gli imperi rischiano di ingrandirsi troppo e di doversi assumere troppi impegni – uno squilibrio fra
aspirazioni e risorse che Clausewitz aveva già individuato notando che il succedersi delle campagne militari fa sì che i costi dell’offensiva finiscano per superare i benefici che ne derivano. Di solito l’espansione prolungata richiede il ritiro
delle truppe da regioni economicamente e politicamente meno importanti. Se in questo caso il ragionamento di Münkler
è ineccepibile benché meccanicistico, con maggiore originalità egli analizza le strategie asimmetriche messe in atto dalle
forze antimperiali. Facendo coincidere le loro insurrezioni
con i conflitti per l’egemonia, i movimenti di liberazione nazionale possono usare in modo strumentale le rivalità fra gli
imperi. Un esempio è quello della Serbia che, non avendo ottemperato alla richiesta dell’impero austro-ungarico, nel
1914 scatenò la guerra fra la Triplice Alleanza e la Triplice Intesa. La lotta partigiana è un metodo altrettanto diffuso e
non meno efficace – evitare le battaglie campali, e rifiutare di
arrendersi, far seguire una lunga guerra di logoramento tra le
forze d’occupazione e quelle clandestine sferrando attacchi a
bassa intensità ma ad alto impatto distruttivo – di cui sono
esempio la guerriglia antinapoleonica spagnola, la resistenza
antinazista jugoslava, le lotte anticoloniali in Algeria, Vietnam, Afghanistan e in altri Paesi. Secondo Kissinger, i partigiani vincono quando non perdono, mentre la forze convenzionali perdono quando non vincono.
Ma la guerra partigiana non ha più ragione di essere.
L’impero da formale diventa informale. In questo caso la forma più efficace di lotta antimperiale è il terrorismo – una
nuova e creativa forma di tattica e strategia contro un nemico la cui forza risiede nei flussi di capitale e nella capacità di
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esercitare una sorveglianza e un controllo tecnologico-militare a largo raggio. Poiché il potere imperiale è fisicamente assente nelle zone che controlla, i terroristi devono andare a
colpire gli obiettivi civili nel cuore stesso dell’impero, come
è accaduto l’11 settembre. Questa è la principale differenza
fra la guerra partigiana e il terrorismo, che hanno tuttavia
uno scopo comune: delegittimare le promesse – di sicurezza,
prosperità, progresso e legalità – fatte dall’impero alla periferia. L’attuale terrorismo transnazionale è la negazione stessa del discorso imperiale nel cuore del territorio metropolitano, perché ne mina la legittimità egemonica in patria mettendo a nudo i limiti dei suoi fini politici e costringendo l’impero a reazioni sproporzionate: il rafforzamento della sicurezza interna, il disprezzo della legge internazionale, la riduzione degli alleati a vassalli, il dilagare della violenza, e a coronamento di tutto questo l’aumento dei prezzi e delle tasse.
Un’altra differenza fra il terrorismo contemporaneo e la
guerra partigiana del secolo scorso è l’alleanza di quest’ultima con il marxismo, in quanto programma politico-economico di sviluppo nazionale alternativo al capitalismo. L’attuale terrorismo internazionale si basa invece su un antimperialismo esistenziale, che è una versione radicale della politica dell’identità e ruota attorno alla religione, all’etnia e alla
cultura, senza porsi minimamente l’obiettivo di raggiungere
e superare le economie di mercato. L’attentatore suicida è
simbolo di questo cambiamento, che rende impossibile qualsiasi forma di compromesso e coesistenza. Il fine del terrorismo transnazionale non è la liberazione, ma la distruzione.
Strategia e tattica sono tutt’uno: la guerra diventa totale. Gli
sforzi che gli Stati antimperialisti compiono per dotarsi di armamenti nucleari hanno lo scopo di creare di nuovo un mag293
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giore equilibrio fra le risorse strategiche che consenta loro di
difendersi dalle provocazioni dell’impero. I trattati di non
proliferazione rappresentano una forma di controstrategia
che l’impero mette in atto per conservare il suo cruciale primato tecnologico-militare, soprattutto quando essi sono accompagnati da garanzie di sicurezza per i suoi clienti. Se i
trattati non hanno successo, esistono solo due opzioni: vietare o prevenire la proliferazione delle armi nucleari. La Corea
del Nord è un esempio di immunità; l’Iraq di divieto alla
proliferazione; e l’Iran sta passando dalla seconda situazione
alla prima.
In Imperien Münkler si propone esplicitamente di descrivere un modello transtorico di impero. Il sottotitolo del saggio è: La logica del dominio mondiale – dall’antica Roma agli
Stati Uniti. Ma questo modello che l’autore costruisce in modo accurato e sistematico – specificandone le caratteristiche,
gli imperativi, le dinamiche e le minacce – non regge se confrontato con gli esempi storici. Tutti gli imperi hanno varcato la soglia di Augusto? Non tutti. Non lo hanno fatto la Spagna degli Asburgo né la Russia degli zar né la Cina dei Qin.
Tutti gli imperi hanno portato la pace e la prosperità nella
periferia? Non tutti. Non lo hanno fatto gli imperi nomadi
come quello di Gengis Khan né quello dei conquistadores
spagnoli e solo molto sporadicamente l’impero britannico.
Tutti gli imperi si sono inevitabilmente scontrati fra loro per
conquistare l’egemonia? Non tutti. Non si sono scontrati
l’impero americano e britannico, e neppure quello americano e sovietico. Dalla concatenazione concettuale emerge che
una serie variegata e specifica di cause circoscrive e determina la raison d’empire di ogni potere imperiale. In altre parole, ciò che in realtà spiega il varco della soglia di Augusto – il
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ciclo imperiale, la missione ideologica, la gestione dei rapporti centro-periferia, l’incidenza delle guerre egemoniche,
l’inizio del declino – sono le molteplici situazioni interne ed
esterne, storicamente uniche, che condizionano le politiche
dell’ordine imperiale.
Così Münkler, al pari di chiunque cerchi di trarre concetti universali da idealtipi sociologici, è costretto, per ridurre la
distanza fra astrazione e realtà concreta, a fare continue concessioni, riconoscere delle eccezioni e ritrattare quanto ha
detto, introducendo al contempo una serie di sottotipi (imperi terrestri contro imperi marinari, commerciali contro militari, formali contro informali) che sono a loro volta suscettibili
di ulteriori distinzioni. Infatti, mentre il suo saggio intende dimostrare che esiste una «logica» dell’impero onnipresente, in
realtà rivela a più riprese la presenza di differenze fondamentali nei modelli di sviluppo e nelle politiche estere dei casi che
prende in esame. Sono queste differenze storiche che obbligano Münkler a rinunciare gradualmente e tacitamente all’analisi universale che si è proposto di fare con Imperien e a optare per commenti prudenti su questa o quella esperienza
contingente. In linea di principio, una strategia intellettuale
che analizzi alcuni imperi storici per individuarne tratti comuni ed elaborare una teoria ragionevolmente coerente e abbastanza precisa che consenta di distinguere gli imperi da altre organizzazioni politiche può avere un certo valore euristico. Ma non è possibile servirsene nel caso di esperienze imperiali diverse. Teoria e storia sono fra loro lontanissime. In
ultima analisi, il concetto di impero elaborato da Münkler si
sfalda nel corso del libro trasformandosi in un contenitore semantico vuoto con scarsa incidenza analitica. Ma cos’altro ci
si può aspettare da uno studio che spazia lungo diversi mil295
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lenni? Dopotutto perché degli imperi disomogenei per dimensioni, dinamiche socio-economiche, istituzioni, sistema di
valori, livello di civiltà, organizzazione militare e collocazione
geopolitica dovrebbero conformarsi a un unico modello?
Perché nel comportamento degli imperi dovrebbe esserci una
sola razionalità – una sola «logica imperiale»?
Infatti non c’è. A venirci proposta, di fatto, non è che una
serie di analogie. Uno studio di sociologia e di storia comparata richiede la spiegazione delle specificità e dei cambiamenti. Ciò significa forse rinunciare alle teorizzazioni a favore di una pura registrazione fenomenologica? Niente affatto.
Per renderci conto del perché, dobbiamo solo osservare l’approssimativa distinzione che Münkler compie tra gli imperi
informali (privi di controllo territoriale e politico) basati sui
flussi commerciali, e gli imperi formali (politico-militari) basati sulla conquista del territorio. Questa dicotomia non viene mai chiarita attraverso una distinzione categorica fra imperi capitalistici e non, una distinzione che non può rientrare nella tipologia di Münkler, dato che egli, invece di indagare la genesi e la dinamica sociale degli imperi, preferisce avventurarsi in un’analisi politico-sociologica del dominio accompagnata dai canonici riferimenti a Mann. Quanto questo
atteggiamento sia sbagliato lo si può capire dal modo in cui
sono messi a confronto gli imperi – come quello assiro e
quello mongolo – che si riproducono estorcendo i beni eccedenti grazie al dominio politico e militare, e gli imperi il cui
fondamentale meccanismo di sfruttamento si basa sugli
scambi e sul commercio:
L’espansione militare, che dà luogo al dominio su un territorio, è politicamente organizzata e ruota attorno a un sovra296
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no o a un’élite politico-militare che, dirigendo e organizzando le operazioni militari, creano le condizioni perché l’espansione abbia successo. L’espansione commerciale invece
può essere realizzata da soggetti privati, che spesso sono società commerciali… Questo tipo di espansione non dà origine a un dominio territorialmente circoscritto ma, unendo
zone diverse, consente di controllare un’area composita, collegata da reti commerciali funzionali agli scambi.
Secondo questa tesi, il sistema commerciale portoghese,
quello olandese, britannico e americano sono varianti minori
degli imperi commerciali, ben diversi dagli imperi territoriali
che si fondano sulla potenza militare. Tuttavia, a un esame più
approfondito, la distinzione fra imperi pubblici e privati, militari e commerciali, territoriali e non territoriali, basati sul
dominio terrestre e marittimo, non regge. Infatti, nonostante
l’impero commerciale portoghese, olandese e britannico ai loro inizi fossero in gran parte governati da compagnie semiprivate, si trattava pur sempre di compagnie privilegiate che
dipendevano direttamente dalla protezione politica e dalla
potenza militare della Corona (che vendeva loro le licenze)
anche in caso di capitale misto olandese-britannico. Le «società pubblico-private» – cui partecipava anche la Corona –
hanno creato gli esclusivi imperi commerciali d’oltremare in
cui le regole del commercio venivano fissate dal potere politico. Ma, per monopolizzare particolari traffici e rotte, occorreva proteggere le reti commerciali con accordi diplomatici e
con mezzi militari – convogli, navi da guerra e mercantili –, e
in diversi continenti ciò ha fatto nascere nel contempo vari
imperi costieri. In questo scenario, la rivalità degli imperi nel
comune intento di ottenere il monopolio dei commerci in al297
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cune regioni ha dato luogo ad aspri conflitti navali. Il mare
non era aperto, ma chiuso. Questa forma di commercio precapitalistico e la concorrenza geopolitica che ne conseguiva
poggiavano sulla potenza politico-militare della madrepatria
la quale, tramite l’esclusione politica e la regolamentazione
della concorrenza, cercava di salvaguardare la differenza di
prezzo fra mercati collegati ma non integrati fra loro. Il sistema garantiva così ingenti profitti in quanto consentiva di
comprare merce a basso prezzo e di rivenderla ad alto prezzo. Allo stesso modo, era impossibile realizzare, nelle innumerevoli basi commerciali dell’impero, un livellamento a lungo termine dei tassi di profitto. Per questo motivo, non esisteva un mercato globale e neppure i prezzi erano uniformi.
In altre parole, questi circuiti politicizzati di scambio hanno
creato alcuni imperi formali, benché le potenze relativamente
deboli, come quella olandese o quella portoghese, abbiano
spesso dovuto limitare le proprie ambizioni al controllo dei
porti e delle basi commerciali strategiche, rinunciando ad annettere i territori interni e a fondare mini-imperi.
Questa costellazione sarebbe stata sostituita dall’imperialismo del libero commercio piuttosto che dal commercio
tout court, accompagnato dal contemporaneo sviluppo, all’inizio della Gran Bretagna moderna, di un sistema produttivo di tipo capitalistico che aveva le sue forme di sovranità e
una diversa dinamica imperiale. Tale forma di sovranità si è
diffusa nell’Europa del XIX secolo. Sebbene non includesse
la proprietà del territorio, conteneva già una logica transterritoriale che si esprimeva nei flussi di capitale che varcavano
facilmente le frontiere. In quel periodo, le attività della società civile negli Stati capitalisti oltrepassavano i confini territoriali. Il commercio fra Paesi capitalisti assunse così una
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forma non direttamente basata sull’accumulazione geopolitica e sulla rivalità fra imperi, bensì sulla concorrenza tra
soggetti privati in un mercato globale. Grazie alla loro natura trasversale, gli scambi capitalistici e la concorrenza generalizzata possono, in linea di principio, lasciare intatti i territori politici – a sovranità multipla. Infatti, spesso è questa
la precondizione necessaria alla nascita di Stati ufficialmente indipendenti, nella periferia postcoloniale dell’impero
informale. Poiché Münkler non ha nessuna idea della complessità del capitalismo (che vede unicamente sotto il profilo commerciale), non ha neppure nessuna idea delle sue origini, il che lo porta a includere esperienze molto diverse di
sfruttamento delle zone costiere in un’unica categoria, quella degli imperi commerciali.
Simili riflessioni non dovrebbero sostituire un idealtipo
strutturalista, basato sulla logica dell’impero, con un’altra –
la logica del capitalismo. Infatti, anche la distinzione fra imperi non capitalisti e imperi capitalisti non è assoluta, perché
questi ultimi hanno adottato strategie finalizzate all’acquisizione del territorio – che è la dimensione geopolitica delle loro più ampie strategie di espansione – contrarie a qualsiasi
logica di impero informale. Un esame sommario della storia
delle relazioni internazionali basta a rivelare che esiste una
vasta gamma di configurazioni diverse fra territorialità e Stati capitalisti. Numerosi esempi storici dimostrano come i rapporti fra Stati capitalisti e progetti di occupazione del territorio possano essere estremamente differenti tra loro. A questo proposito, è sufficiente menzionare il sistema commerciale liberista formatosi grazie alla pax britannica e il «nuovo
imperialismo» di Salisbury e Chamberlain, con le sue oscillazioni fra impero «formale» e «informale»; lo spazio vitale
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della Geopolitik tedesca concepito in termini di espansione
territoriale e di autarchia economica; il progetto giapponese
di creare «un grande sfera di prosperità comune nell’Asia
Orientale»; l’ordine mondiale liberista appoggiato nel dopoguerra dagli Stati Uniti (ma multilaterale); e l’attuale integrazione europea. Ritenere che queste fluttuazioni storiche siano aberrazioni di un legame «normale» fra capitalismo e sistema statale classico significa abbracciare la tesi strutturalista di un ordine internazionale sostanzialmente stabile. In
realtà, gli Stati capitalisti hanno adottato differenti «strategie
di occupazione del territorio», che vanno dalla concessione
agli Stati subalterni della totale indipendenza giuridica – passando per progetti semiegemonici come l’Unione Europea –
a sistemi di controllo diretto volti a conquistare uno «spazio
vitale» o a creare un «impero formale». Per capire queste diverse strategie di espansione spaziale, conviene adottare una
prospettiva focalizzata sugli attori, che metta in evidenza le
varie politiche territoriali più che la logica dell’impero o
quella del capitale.
Conclusa l’analisi storico-concettuale, Münkler dedica
l’ultimo capitolo di Imperien all’esame delle sue implicazioni
nella congiuntura attuale. A che punto siamo oggi rispetto alla soglia di Augusto? Come si accorda la particolare interpretazione della storia proposta da Münkler con le sue considerazioni sulla costellazione geopolitica che tiene legati il
blocco USA e quello europeo? Münkler rifiuta la tesi secondo cui stiamo assistendo alla fine dell’epoca imperiale (sostenuta anche dal suo mentore Michael Mann) e alla nascita di un
nuovo ordine globale di «governance» (annunciato da Ulrich
Beck e da Jürgen Habermas) di probabile ispirazione umanistica – concetti ribaditi dopo la fine della guerra fredda da
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innumerevoli osservatori –, e ricorda piuttosto il destino dei
territori postimperiali, citando in proposito Il secolo breve di
Eric J. Hobsbawm. Lo smantellamento dell’impero asburgico e di quello ottomano e l’assetto territoriale dell’Unione
Sovietica stabilito a Versailles e Brest-Litovsk non sono riusciti a creare un ordine postimperiale stabile nell’Europa
orientale e sud-orientale. L’autodeterminazione nazionale si
è rivelata un ideale irrealizzabile e, a seguito del declino britannico e dell’isolazionismo americano, ha determinato una
nuova imposizione dell’ordine imperiale – con Molotov e
Ribbentrop che si stringono la mano a Mosca. Il patto fra
Hitler e Stalin ha fatto sì che la geopolitica sconfiggesse l’ideologia.
Dinamiche simili si sono ripresentate nei cicli postcoloniali e postsovietici della storia più recente. Gli Stati nati dalla decolonizzazione erano funzionali alla guerra fredda, perché continuavano a dipendere dal sostegno imperiale diretto attraverso la divisione bipolare del mondo. Il periodo successivo alla guerra fredda ha evidenziato che questi Stati – in
Africa, in Medio ed Estremo Oriente, nel Caucaso, in Asia
centrale, nel Centro e Sud America e in regioni dell’Asia
sud-orientale – erano creazioni difettose che necessitavano
ancora dell’azione stabilizzante dell’impero. Gli Stati nati
dopo la dissoluzione dell’URSS, non integrati negli imperi o
puntellati da potenze imperiali – Unione Europea, Russia,
USA – sono sprofondati nella categoria dei «fallimenti». La
condizione postimperiale si regge su un paradosso: è necessario che una potenza imperiale garantisca la stabilità e l’ordine finché i nuovi Stati non si rafforzano e diventano indipendenti – è «l’imperialismo dell’antimperialismo» di cui ha
parlato Niall Ferguson. Nella sua analisi del XX secolo,
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Hobsbawn insiste sulla sanguinosa dialettica fra l’ordine imperiale e le molteplici forme di Stato. Si potrebbe perfino dire che i sistemi statali, o quello che viene erroneamente definito il «sistema westfaliano», siano nella storia mondiale
più un’eccezione che una regola. Per essere ancor più precisi: i sistemi statali vivono a spese dei garanti imperiali.
Dati questi precedenti storici, l’attuale unilateralismo della politica di potere degli Stati Uniti si colloca all’interno della logica imperiale. Non è espressione di una rivoluzione
neoconservatrice dell’Amministrazione USA, ma il risultato
di imperativi transtorici dell’impero, dovuti non tanto alla
belligeranza soggettiva del centro quanto alle richieste oggettive di una periferia in sfacelo. Ma nella trama appare un
nuovo colpo di scena. Münkler individua infatti un dilemma
proprio nel cuore della politica estera USA. Badando a usare
il condizionale, scrive:
Gli Stati Uniti si considererebbero essenzialmente i garanti dei
crescenti rapporti economici fra l’Europa, l’America e l’Asia
orientale, assumendo il ruolo di un «ipotetico capitalista totale» (ideeller Gesamtkapitalist)… il cui dovere principale consisterebbe nel garantire l’ordine legale di questo spazio economico, di prevenirne la concorrenza militare, di determinare la
stabilità della moneta e dei cambi, di mantenere la supremazia
tecnologica sull’ambiente circostante e di offrire sicurezza
contro le minacce esterne. In breve, dovrebbero eseguire tutti
i compiti che si sono assunti nel varcare la soglia di Augusto.
La difficoltà attuale però sta nel fatto che questo compito è contraddetto da un altro che, secondo molti influenti
commentatori e politici americani, non è meno impellente: la
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diffusione della democrazia e il rispetto dei diritti umani negli angoli più remoti della terra. La missione imperiale, in linea di principio senza confini, è in contrasto con l’interesse
di un impero a tre zone che non è regolato dall’ultraimperialismo ma supervisionato dall’iperimpero. Prudentemente,
Münkler suggerisce che un impegno messianico a favore dei
diritti umani costituisce forse un «lusso morale» che potrebbe negare la logica imperiale. «Una politica intelligente trascurerebbe i problemi globali e mirerebbe a rendere sicuro
l’impero erigendo “frontiere contro la barbarie”.» Ma ovviamente le cose non sono così semplici. Quando sono in gioco
le risorse strategiche, la logica imperiale prevede che si organizzino interventi militari di grande portata fuori dalla madrepatria. Tallone d’Achille dell’impero USA è il petrolio
che, essendo vitale per il suo sviluppo economico, merita più
di una spedizione nel Golfo:
Gli interventi militari per difendere e controllare i rifornimenti di petrolio sono razionali e rientrano nella logica di un impero che mira alla prosperità economica; gli interventi che
vengono organizzati per porre fine a guerre civili all’estero e
costruire una nazione sono irrazionali.
Ma in questo discorso c’è un qualcosa che non quadra. Se
la missione dell’impero consiste nel portare pace, prosperità,
libertà e civiltà, qualcuno potrebbe sollevare obiezioni sul
fatto che, nell’era della democrazia e della globalizzazione
mediatica, l’impero persegua unicamente il proprio interesse. Quando negli Stati Uniti una fonte autonoma di potere,
ad esempio l’esercito, raggiunge l’apice, un’altra fonte autonoma, ad esempio la forza di persuasione ideologica basata
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«sulle promesse», si indebolisce. Secondo Münkler, il pericolo maggiore per l’America non è l’espansione eccessiva ma
«il sovraccarico morale».
Tutto ciò presume ovviamente che gli Stati Uniti abbiano
varcato la «soglia di Augusto». Ma lo hanno fatto davvero? In
proposito Münkler è evasivo. Infatti, quando parla dei giorni
nostri, appare chiaro che il concetto è controproducente e superfluo. Se si suppone che la soglia non sia stata ancora varcata, occorre rimettere in discussione la convinzione secondo
cui quello degli USA sarebbe un imperium politico pacificato,
poiché la persistenza di operazioni militari «fuori dal territorio», condotte da quello che rimane un governo democraticorepubblicano, è in contraddizione con la logica dell’oltre-soglia – ossia il consolidamento interno dell’impero. D’altro
canto, se si suppone che la soglia sia stata varcata, allora occorre dimostrare che l’Europa e l’Asia orientale sono incorporate o incluse nell’impero americano, e che negli Stati Uniti si è verificata una sorta di passaggio dal governo democratico-repubblicano a un governo imperiale autoritario. Non è
neppure facile riconoscere nella politica estera USA successiva alla guerra fredda una gran coerenza, dato che i cambiamenti di linea politica e le «dichiarazioni di intenti» proliferano. I governi americani sono passati dal «dominio ad ampio
raggio» per mezzo dell’«egemonia USA» alla «difesa dei diritti umani» e alla «diffusione della democrazia», dalla «controproliferazione» ai cambi di regime, dalla «guerra al terrorismo» alla «costruzione della nazione». Il fatto evidente è che
Washington non è Roma e Bush non è Augusto, e neppure –
fanfaronate liberal a parte – Nerone o Caligola. Le contraddizioni di Münkler a questo proposito non nascono solo dal
fatto che egli ha collocato forzatamente una complessa con304
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giuntura politica nel letto di Procuste di una logica imperiale
da lui immaginata, ma anche dalla stupefacente omissione di
un’ampia analisi geostrategica delle forze internazionali. Sull’ascesa della Cina e, in grado minore, sulla ri-affermazione
della Russia e dell’India, Münkler non dice niente.
Come dobbiamo interpretare Imperien? Sotto il profilo
intellettuale, potrebbe sembrare a prima vista uno di quei
saggi storico-sociologici su Stato e potere – quindi anche sull’impero – propri della tradizione tedesca dalla quale sono
nate le grandi opere di Otto Hintze e Max Weber. Ma sebbene Münkler, per la sua visione dell’impero, ricordi il primo
e per i riferimenti agli idealtipi richiami alla memoria il secondo, si tratta di somiglianze superficiali. Egli infatti è del
tutto privo della profondità con cui Hintze analizza e mette
a confronto i legami tra feudalesimo, religione e impero, e
della passione con cui Weber ricerca una razionalità nella
storia del mondo. Schmitt e Clausewitz sono presenze assenti, mentre il rinascimento neorankiano della storiografia tedesca passa quasi inosservato. Come gran parte dei suoi colleghi, Münkler mostra maggior interesse per il mondo anglosassone. Nonostante ciò, rispetto alle principali opere storiografiche americane sull’argomento, Imperien rappresenta un
contributo di scarsa importanza.
All’inizio dell’opera, Münkler afferma: «Se facciamo una
distinzione fra teorie sull’impero e teorie sull’imperialismo,
possiamo tralasciare l’impostazione normativo-valutativa comune a quasi tutte le teorie sull’imperialismo e optare per un
approccio più analitico-descrittivo che permette di cogliere
gli imperativi alla base dell’azione imperiale.» La prima parte di questa osservazione consente di capire meglio il fine di
Imperien. Münkler, se non altro per il suo passato, è un
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profondo conoscitore delle moderne teorie sull’imperialismo
marxiste e non marxiste. Ma sono queste teorie che egli vuole allontanare dalla logica dell’impero. L’imperialismo porta
con sé un fardello di implicazioni troppo pesante: genocidio,
razzismo, guerre civili, deportazioni di massa, divisioni, saccheggi, espropriazioni, schiavitù, stupri, epidemie, carestie, e
via dicendo. Anche le tensioni fra le «dichiarazioni di intenti» e la realtà imperiale richiederebbero di essere analizzate
con una attenzione di cui in Imperien non si trova traccia.
Ciò non significa tuttavia che Münkler rinunci all’impostazione normativo-valutativa come dice di voler fare. Egli si limita piuttosto a capovolgere i valori, finendo con l’offrire un
altro contributo alla produzione letteraria volta a riabilitare
l’impero.
Qual è perciò il messaggio politico di Imperien? Sostanzialmente, che si è ormai conclusa l’epoca del sistema classico degli Stati, basato sulla sovranità territoriale, sulla reciprocità diplomatica e sulla simmetria politica, in passato
modello di ordine mondiale. L’attuale spinta imperiale della politica estera USA non dipende solo dalla tendenza storica delle dinamiche cicliche degli imperi, ma è il mezzo necessario, e auspicabile, per rendere stabile l’ordine mondiale minacciato da una gran quantità di intrusi – terroristi,
emigrati e Stati in sfacelo. Dal canto suo, l’Unione Europea
deve diventare un subimpero, incentrato sull’asse BerlinoParigi in attesa che nel prossimo futuro si affianchi – almeno così spera Münkler – un’altra città cruciale: Londra. A
tal fine, l’Europa deve creare al suo interno un sistema più
funzionale e gerarchico, trasformare le proprie frontiere in
aree flessibili di diritti non fissi ma differenziati, attuare una
politica estera e una strategia di difesa comune, e dotarsi di
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una forza d’urto per intervenire, se necessario, a Est o a
Sud-est. Il premio in palio è la conquista di un posto al sole – da ottenere non lottando ma collaborando con l’America sovrana.
Da queste considerazioni emerge che l’apparente neutralità sui valori espressa da Münkler, il quale sostiene la necessità di partire dai fatti storici oggettivi per elaborare
concetti scientifici, scompare per ricomparire sotto forma
di un manuale di istruzioni politico-normative che prevede
la nascita di un imperialismo tedesco-europeo aggiornato al
XXI secolo. Weber non avrebbe avuto scrupoli nel fare propria una simile diplomazia tanto aggressiva, ma il suo codice intellettuale non gli avrebbe consentito di nascondere le
considerazioni etiche dietro la facciata dell’analisi scientifica. In fin dei conti, la ricetta geopolitica di Münkler non discende da un’analisi storica, ma da semplici osservazioni
conformi alle opportunità del momento che fanno perno su
una politica per l’impero piuttosto che su un concetto di
impero. La riabilitazione dell’impero nel mondo anglosassone avviene in toni più appassionati, e ne sono esempio
scrittori come Ferguson e Kaplan che hanno entusiasticamente difeso e descritto l’imperium americano. Ma anche
l’Europa oggi produce i suoi apologeti, secondo i quali occorre che il Vecchio Mondo dia vita a un impero subalterno in omaggio al padrone assoluto e globale del Nuovo
Mondo. Queste voci non sono più marginali. Il principale
teorico della missione imperiale dell’Europa è Robert Cooper, in passato consigliere per la sicurezza di Tony Blair a
Downing Street, di Romano Prodi a Bruxelles e ora consigliere di Javier Solana. Münkler presenta una versione tedesca – o addirittura berlinese – della stessa tesi. Mutatis
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mutandis, si potrebbe paragonare il suo progetto a quello di
Carl Schmitt che alla fine degli anni Trenta aveva cercato di
ricuperare credito con i suoi scritti sui Grossraumordnungen
conformi agli interessi del regime nazista. Nella nuova
Unione Europea ci sarà ampio spazio per questo genere di
esercizi.
(Recensione del libro di Herfried Münkler,
Imperien: Die Logik der Weltherrschaft – wom Alten Rom
bis zu den Vereinigten Staaten, Rowohlt, Berlin 2005.)
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