tesi dottorato Turchi

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tesi dottorato Turchi
ABSTRACT
L’iperaldosteronismo primario (PA) è una patologia caratterizzata da ipertensione
arteriosa e da una serie di complicanze che coinvolgono cuore, vasi, rene e
metabolismo. I meccanismi patogenetici che sottendono la relazione tra PA e lo
sviluppo delle sue complicanze non sono ancora noti e il tessuto adiposo potrebbe avere
un ruolo chiave. Lo scopo del lavoro è stato: 1) valutare il rischio cardiovascolare
(CVR) secondo le Linee Guida ESH-ESC su 102 pazienti affetti da PA alla diagnosi e
dopo terapia, confrontandolo con 132 ipertesi essenziali (EH) di pari età, sesso e durata
di malattia; 2) studiare l’espressione di geni coinvolti nel metabolismo glico-lipidico e
nell’infiammazione nel tessuto adiposo omentale di pazienti con adenoma aldosterone
secernente (APA) sottoposti a surrenectomia. Per lo studio clinico, oltre al grado di
ipertensione, abbiamo valutato l’assetto lipidico, la glicemia a digiuno e dopo carico, la
circonferenza vita, la funzionalità renale, la familiarità, il fumo, le comordità ed
eseguito ecocardiogramma e ecodoppler vasi epiaortici. Per lo studio molecolare
abbiamo effettuato un'analisi microarray seguita poi da real time-PCR su adipe di 16
pazienti con APA e di 10 pazienti con adenoma surrenalico non-iperfunzionante, per
quantificare l’espressione di alcuni geni selezionati (esochinasi 1, IL-1R1, IL-6,
colesterolo-25-idrossilasi, lipoprotein lipasi, omentina, visfatina). Il CVR è risultato
essere più elevato nei PA rispetto agli EH per la presenza di più elevati valori pressori,
maggiore prevalenza di iperglicemia, sindrome metabolica, abitudine tabagica e
ipertrofia ventricolare sinistra. Dopo terapia, il CVR si è ridotto in entrambe le
popolazioni ed è diventato sovrapponibile tra PA ed EH, nonostante i PA presentassero
valori di pressione arteriosa più alti, grazie ad una riduzione di alcuni fattori di rischio
ed una parziale regressione del danno d’organo. E’ stata inoltre rilevata un’aumentata
espressione del gene dell’interleuchina 6, una citochina proinfiammatoria coinvolta
nello sviluppo di insulino-resistenza e di patologie vascolari, a livello del tessuto
adiposo omentale di pazienti con APA, che potrebbe, almeno in parte, contribuire alla
patogenesi della sindrome cardiometabolica e all’elevato rischio cardiovascolare che
caratterizza questi soggetti.
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INTRODUZIONE
IPERALDOSTERONISMO PRIMARIO
L’iperaldosteronismo primario (PA) rappresenta la forma più comune di ipertensione
arteriosa endocrina e si caratterizza per una produzione surrenalica inappropriatamente
elevata di aldosterone, svincolata dal sistema renina-angiotensina-aldosterone. Tale
ipersecrezione di aldosterone determina ipertensione arteriosa, ritenzione di sodio,
soppressione della renina plasmatica, escrezione di potassio, in alcuni casi ipokaliemia e
una serie di potenziali complicanze a livello cardiaco, vascolare, metabolico e renale
(1).
1. PREVALENZA
Seppure rimane ancora aperto il dibattito su quale sia la reale prevalenza di tale
patologia come dimostrato dai numerosi articoli pubblicati a riguardo (2-6),
l’iperaldosteronismo primario rappresenta la forma più comune di ipertensione arteriosa
secondaria con una prevalenza variabile dal 5 al 20% a seconda delle casistiche
considerate (7-10). In passato si riteneva che costituisse meno dell’1% delle forme di
ipertensione arteriosa ma l’introduzione del rapporto aldosterone/attività reninica
plasmatica come test di screening da parte di Hiramatsu ha consentito di porre diagnosi
di iperaldosteronismo primario anche in pazienti normokaliemici e con livelli di
aldosterone nei limiti di norma ma inappropriati rispetto ai valori di renina, modificando
radicalmente i precedenti dati di prevalenza (11). Nel 2006 è stato pubblicato il primo
ampio studio prospettico multicentrico disegnato con la finalità di definire la prevalenza
di tale patologia, il Primary Aldosteronism Prevalence in Hypertensives (PAPY) study.
Lo studio è stato condotto in Italia su 1125 ipertesi di nuova diagnosi afferenti in centri
specialistici per l’ipertensione arteriosa e ha evidenziato una prevalenza di 11,2% (10).
In questa casistica, ma il dato si conferma anche in altri studi (12), la proporzione di
pazienti
con
PA
dell’ipertensione
incrementa
(Fig. 1).
significativamente
all’aumentare
della
gravità
Inoltre, questo studio conferma che l’ipokaliemia non
rappresenta una condizione sine qua non per la diagnosi, infatti, la percentuale di
ipokaliemia nei pazienti con PA è risultata ridotta, pari al 48% negli adenomi
producenti aldosterone (APA) e al 17% nell’iperaldosteronismo idiopatico (IHA) come
mostrato in Fig.2.
2
Fig.1 Prevalenza di APA, IHA e PH nei diversi gradi di ipertensione
(PH=ipertensione essenziale)
Fig. 2 Percentuale di pazienti con ipokaliemia negli ipertesi essenziali, negli APA e
negli IHA
Una recentissima review della letteratura corrente pubblicata online a dicembre 2011 su
Hormone and Metabolic Research (13) conferma un’elevata prevalenza di PA nei
pazienti afferenti nei centri specialistici, pari al 9,5%. Considerando invece, i pochi dati
provenienti dalla primary care, la prevalenza sembrerebbe essere più bassa 4,3%.
2. CLASSIFICAZIONE
L’iperaldosteronismo primario viene classificato in diversi sottotipi:
1. Iperplasia surrenalica bilaterale
a) micronodulare
b) macronodulare
2. Adenoma producente aldosterone
3
3. Iperplasia surrenalica primaria unilaterale
4. Carcinoma surrenalico producente aldosterone
5. Iperaldosteronismo familiare tipo I (FH-I)
6. Iperaldosteronismo familiare tipo II (FH-II)
7. Iperaldosteronismo familiare tipo III (FH-III)
8. Carcinoma o adenoma ectopico producente aldosterone
La prevalenza dei vari sottotipi e la stessa classificazione subisce continue
modificazioni legate sia alle metodiche diagnostiche che si sono succedute nel tempo ed
alla selezione dei pazienti da sottoporre a screening sia alle sempre maggiori
conoscenze nell’ambito delle forme familiari.
Le forme più frequenti sono l’adenoma secernente aldosterone (APA) e l’iperplasia
surrenalica bilaterale o iperaldosteronismo idiopatico (IHA). Anche in questo caso la
percentuale varia a seconda delle indagini utilizzate nella diagnosi di sottotipo. Nello
studio PAPY è stato infatti dimostrato come l’impiego del cateterismo delle vene
surrenali ne inverta completamente la prevalenza (10).
Ad oggi poco si conosce circa la patogenesi molecolare o genetica dell’adenoma anche
se importanti scoperte sono state effettuate negli ultimi anni.
Tra i possibili geni coinvolti ricordiamo il gene CYP11B2 (14), l’HERG nella variante
897T (15); mutazioni al cromosoma 11q13 potrebbero interessare geni coinvolti
nell’origine degli APA (16) così come l’iperespressione dell’IGF2, le alterazioni del
locus 11p15, le mutazioni del gene TP53, l’attivazione della via della Wnt beta catenina
(17). Rossi e colleghi (18) analizzando il profilo di espressione genetica di un gruppo di
APA hanno riscontrato due diversi sottogruppi: uno presentava una sovra espressione
di CYP11B2, CAMK-1, 11-betaidrossilasi, 3-beta-idrossisteroido deidrogenasi e
21idrossilasi e ridotta espressione di CAMK-IIB e l’altro con un profilo opposto. Il
gruppo con ridotta CYP11B2 era caratterizzato da una maggiore durata di ipertensione e
ridotto tasso di cura. Ma riguardo la genetica, i dati più interessanti e innovativi sono
quelli pubblicati da Choi e colleghi su Science nel 2011 (19).
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E’ noto che nelle cellule glomerulari surrenali normali, il potenziale di membrana è
strettamente controllato dall’attività dei canali del potassio (K+). Le cellule hanno
un’elevata conduttanza a riposo per il K+ che induce un potenziale di membrana
altamente negativo per cui la cellula è iperpolarizzata (Fig. 3 A). In presenza di
angiotensina II (AngII) o di un aumento del K+ extracellulare, i canali del K+ si
chiudono, la membrana si depolarizza, si attivano i canali del Ca2+ voltaggio dipendenti
e il conseguente incremento del Ca2+ intracellulare aumenta l’espressione degli enzimi
coinvolti nella biosintesi dell’aldosterone e attiva il segnale per l’aumentata
proliferazione cellulare (Fig.3 B). Choi et al. hanno dimostrato per la prima volta in
APA umani, due mutazioni somatiche ricorrenti del gene KCNJ5 che alterano la
selettività del canale del K+ della cellula glomerulare surrenale. Ben il 40% degli APA
analizzati mostrava almeno una delle due mutazioni identificate (L168R e G151R).
Studi elettrofisiologici hanno dimostrato che i canali con mutazione KCNJ5 conducono
sodio (Na+) piuttosto che K+ determinando un aumentato anomalo ingresso di Na+
all’interno della cellula con conseguente depolarizzazione cronica della membrana,
responsabile di una costitutiva ipersecrezione di aldosterone e della proliferazione
cellulare autonoma delle cellule della glomerulosa (Fig.3 C).
Fig. 3 Meccanismi molecolari alla base dell’iperaldosteronismo Mendeliano e non.
Le forme familiari di iperaldosteronismo sono senza dubbio più rare ma in base ai più
recenti studi sono probabilmente sottostimate (20), per questo le stesse linee-guida
dell'Endocrine Society (21) suggeriscono di sottoporre a screening tutti i familiari
ipertesi dei pazienti con PA.
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Tre sono le forme di iperaldosteronismo familiare descritte: tipo I (FH-I), tipo II (FH-II)
e tipo III (FH-III). La forma di FH-1, nota con l’acronimo GRA (glucocorticoid
remediable aldosteronism) è la forma più frequente di ipertensione monogenica e viene
trasmessa con modalità autosomica dominante. Le manifestazioni cliniche sono
estremamente variabili, da gravi quadri di ipertensione ad insorgenza in età infantile
sino ad un quadro di normotensione in età adulta (22) ma spesso le famiglie con FH-1
presentano una maggiore morbidità e mortalità per eventi cerebrovascolari, in
particolare per stroke emorragico e per rottura di aneurismi intracranici (23,24). Il
difetto genetico alla base del GRA è la formazione di un gene chimerico risultato di una
ricombinazione tra il gene dell’aldosterone sintetasi (Cyp11B2) e della steroido 11βidrossilasi (Cyp11B1), geni localizzati nel cr. 8, adiacenti ed omologhi al 95% (25).
Questo determina una fusione della sequenza regolatoria della 11β-idrossilasi alla
sequenza codificante dell’attività enzimatica dell’aldosterone sintetasi. L’attività
dell’aldosterone sintetasi, che catalizza l’ossidazione del C-18 dei nuclei steroidei e che
normalmente è confinata alla zona surrenalica glomerulosa, viene espressa nella zona
fasciculata ed diventa sotto controllo non più del sistema RAAS ma dell’ACTH. Per
tale motivo, il trattamento farmacologico mirato del GRA si basa sull’utilizzo di
glucocorticoidi a basso dosaggio (desametazone, prednisone o l’idrocortisone) (26). Dal
punto di vista biochimico, i pazienti con FH-1 presentano elevati livelli di steroidi ibridi
(18 OH- e 18 oxo-cortisolo), soppressione della renina e livelli di aldosterone soppressi
dopo test di soppressione con desametasone ma per la diagnosi è necessaria l’evidenza
mediante long-range PCR del gene chimerico (27). Oltre alla forma classica appena
descritta, è stato appena pubblicato (gennaio 2012) dal gruppo di Fardella un lavoro
(28) che descrive in un’ampia famiglia sudamericana una nuova presentazione del gene
chimerico CYP11B1/CYP11B2 caratterizzata da un pattern di segregazione genica
atipica e da lati livelli di 18idrossicortisolo ma da una bassa prevalenza di
iperaldosteronismo. In particolare, la maggior parte dei pazienti pediatrici presentavano
un iperaldosteronismo mentre la maggior parte dei soggetti mutati adulti presentavano
normali livelli dia aldosterone e renina.
La FH-II è una forma familiare di PA non sopprimibile con glucocorticoidi,
fenotipicamente indistinguibile dal PA sporadico. Le basi molecolari di questa forma
non sono al momento note sebbene è stato identificato un linkage con la regione
cromosomica 7p22 in alcune ma non in tutte le famiglie con FH-II. Nel 2000, è stato
6
descritto per la prima volta in un’ampia famiglia australiana (29), in seguito identici
aplotipi del 7p22 di questa famiglia sono stati descritti in una seconda famiglia
australiana e in una del Sud America (30) e ll’inizio del 2008 anche in due famiglie
italiane con FH-II (31).
La forma di FH-III è stata descritta per la prima volta nel 2008 Lifton, Geller e colleghi
(32) in una famiglia con una severa forma di ipertensione arteriosa ad insorgenza
precoce non responsiva ai glucocorticoidi, elevati livelli steroidi ibridi (18-oxocortisolo
e 18-OHcortisolo) che paradossalmente aumentavano dopo steroidi e severa iperplasia
surrenalica. La causa genetica del FH-III è stata identificata nel 2011 (19). In questo
caso però, nonostante la mutazione risultava a carico del gene KCNJ5 dei canali del
potassio come descritta negli adenomi sporadici, la mutazione descritta da Choi e
colleghi risultava diversa (T158A). Un recentissimo studio europeo mirato alla ricerca
di mutazioni KCNJ5 in famiglie con FH non GRA (33) ha permesso di identificare una
nuova mutazione germinale (G151E) in 2 soggetti con PA provenienti da una famiglia
italiana e 3 mutazioni somatiche in APA (T158A) precedentemente descritta come
mutazione germinale associata a FH-III e G151R e L168R, entrambe descritte come
mutazioni somatiche in APA. Il fenotipo della famiglia con mutazione G151E era molto
più modesto di quelle della famiglia americana precedentemente descritta sia in termini
clinici che biochimici. I pazienti con mutazioni somatiche KCNJ5 mostravano un
fenotipo indistinguibile dalle forme sporadiche di APA.
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3. ITER DIAGNOSTICO
3.1 Chi sottoporre a screening?
Le ultime linee guida dell’Endocrine Society per la diagnosi e il trattamento dei pazienti
con iperaldosteronismo primario (21), in accordo con gran parte della letteratura
raccomandano la ricerca dell’iperaldosteronismo nelle categorie di pazienti con
relativamente elevata prevalenza di PA:
Ipertensione di stadio 2 (>160-179/100-109 mmHg) e stadio 4 (>180/110
mmHg) secondo Joint National Commission
Ipertensione resistente
Ipertensione e ipokaliemia spontanea o indotta da diuretici
Ipertensione con incidentaloma surrenalico
Ipertensione e storia familiare di ipertensione ad insorgenza precoce o accidenti
cerebrovascolari in età giovane (<40 anni)
Alcuni ricercatori e le stesse linee guida giapponesi per la diagnosi e terapia del PA (34)
suggeriscono che lo screening venga esteso a tutti gli ipertesi di nuova diagnosi. Tale
approccio pur avendo un suo razionale data la relativa elevata prevalenza della patologia
negli ipertesi richiederebbe un notevole incremento della spesa sanitaria. Altri,
considerando il link tra PA e sindrome metabolica, diabete, sleep apnea ostruttiva e più
elevati tassi di eventi cardio- e cerebrovascolari, propongono di estendere lo screening
anche anche ad altre popolazioni che verosimilmente presentano un’elevata prevalenza
di PA (35).
3.2 Test di screening
Il rapporto attività reninica plasmatica/aldosterone rappresenta il miglior test di
screening nel sospetto di iperaldosteronismo primario (21, 36). Per ottenere una buona
sensibilità tale misurazione necessita di specifiche condizioni: il prelievo deve essere
effettuato al mattino, deve essere prima corretta l’eventuale ipokaliemia, il paziente
deve essere in ortostatismo da almeno due ore, consumare una dieta senza restrizione di
sodio e deve sospendere almeno 2-6 settimane prima le terapie che possa interferire con
il dosaggio (21, 36-39). Nella tabella sottostante sono riportati gli effetti di farmaci e
8
diverse condizioni cliniche sul dosaggio di aldosterone, attività plasmatica reninica e sul
loro rapporto.
Tab.1 Fattori che influenzano dosaggio ARR con possibili falsi + e Fattori
Effetti su Aldo
Effetti su PRA
Effetti su ARR
Farmaci
Β bloccanti
(FP)
Agonisti centrali α2
(FP)
FANS
(FP)
Diuretici disperdenti K+
(FN)
Diuretici risparmiatori K+
(FN)
ACE inibitori
(FN)
ARBs
(FN)
Ca+ antagonisti
(FP)
Inibitori della renina
(FN)
Livelli di potassio
Ipokaliemia
(FN)
Infusione di potassio
(FP)
Introito salino
Restrizione di sodio
(FN)
Infusione di sodio
(FP)
Età avanzata
(FP)
Altre condizioni
Insufficienza renale
(FP)
Pseudoipoaldosteronismo tipo 2
(FP)
Gravidanza
(FN)
Ipertensione nefrovascolare
(FN)
Ipertensione maligna
(FN)
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Farmaci antiipertensivi che hanno un effetto minimo su ARR che quindi possono essere
somministrati durante lo screening sono gli α bloccanti (doxazosina, prazosina e
terazosina), i calcio antagonisti non diidropiridinici (verapamil) e l’idralazina. Non vi è
invece accordo su quale sia il cut off con maggiore sensibilità, per cui i dati presenti in
letteratura sono molto disomogenei (range tra 20 e 100) ma i principali gruppi utilizzano
valori compresi tra 20 e 40 (21,10,39,40). Mancano inoltre protocolli diagnostici
standardizzati e uniformemente condivisi per il dosaggio di ARR, in particolare per la
PRA. Negli ultimi anni, data la maggiore diffusione e il costo minore, si sta diffondendo
l’uso della renina attiva diretta in sostituzione della PRA. Seppure l’esperienza è ancora
limitata, una recente analisi in un numeroso sottogruppo di pazienti dello studio PAPY
(41) ha confermato che il rapporto aldosterone/renina valutato mediante dosaggio della
renina diretta rappresenta una valida alternativa, non differendo in maniera significativa
dall’accuratezza diagnostica assicurata dal dosaggio della PRA, in accordo con piccoli
precedenti studi (42, 43).
Va ricordato che alcuni gruppi richiedono in aggiunta ad un elevato ARR, aumentati
livelli di aldosterone (in genere >15 ng/dl), ma in contrasto con questa indicazione,
diversi studi hanno descritto livelli di aldosterone al di sotto di questi valori in pazienti
con diagnosi confermata di iperaldosteronismo primario.
3.3 Test di conferma
Tutti i pazienti che presentano ARR positivo devono poi essere sottoposti ad un test di
conferma. La letteratura corrente non ha ancora identificato in maniera chiara quale test
rappresenti il gold standard per cui le linee guida dell’Endocrine Society (21) lasciano
aperta la possibilità di utilizzare uno dei seguenti 4 test: carico salino orale, infusione
salina endovenosa, test di soppressione con fludrocortisone e il test al captopril.
Il carico salino intravenoso consiste nell’infusione di 2l di soluzione di cloruro di
sodio allo 0.9% per 4h al termine del quale viene dosato l’aldosterone: livelli maggiori
di 5ng/dl sono diagnostici di PA. Livelli inferiori a 5ng/dl escludono la presenza di IP,
valori superiori a 10 ng/dl consentono una diagnosi certa, livelli tra 5 e 10 ng/dl
rappresentano una zona di grigio per cui la diagnosi dipende dal centro di riferimento
(21, 39, 44); nella nostra clinica utilizziamo come cut-off per la diagnosi 7 ng/ml (39).
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Il carico salino orale si effettua facendo ingerire al paziente almeno 300 mmol di sodio
per 3 giorni: durante l’ultimo giorno viene effettuata la raccolta delle urine delle 24 h
per misurare l’escrezione di sodio e di aldosterone. Il test si considera positivo se
l’escrezione urinaria di aldosterone supera i 12 µg/dl con una concentrazione sodica
superiore a 200 mmol nelle urine delle 24 h. Si raccomanda uno stretto monitoraggio
stretto della kaliemia dato che una dieta ricca di sale può aumentare di molto la
escrezione di potassio (21).
Il test di soppressione con fludrocortisone si effettua somministrando per quattro
giorni fludrocortisone (0.1 mg ogni 6 ore) con supplementi di KCl e NaCl. Il quarto
giorno alle ore 7 si effettua prelievo per cortisolo, alle ore 10 per aldosterone
plasmatico, PRA e cortisolo: se i livelli di aldosterone sono maggiori di 6 ng/dl con una
PRA minore di 1.0 ng/ml/h, livelli di K+ normali e il valore del cortisolo dosato alle ore
10 del mattino è inferiore o uguale a quello delle ore 7 allora il test si considera positivo
(21, 45, 46). Tale esame mostra una buona sensibilità e specificità ma è particolarmente
complesso.
Il test al captopril consiste nella somministrazione di 25-50 mg di captopril e
successiva misurazione a 1-2 ore di PRA, aldosterone e cortisolo. L’aldosterone
plasmatico viene normalmente soppresso dall’ACE inibitore (>30%), se rimane elevato
(in genere si utilizza > 30 ng/dl) è possibile porre diagnosi di iperaldosteronismo
primario. Va però ricordato che questo test può avere falsi positivi e negativi, in
particolare negli IHA dove in alcuni casi l’aldosterone potrebbe ridursi dopo captopril
(21, 39, 47-49). Tale esame trova indicazione soprattutto nei pazienti con insufficienza
cardiaca e renale dove un sovraccarico di sale potrebbe comportare elevati rischi per il
paziente (38).
Nel nostro centro, considerando la fattibilità del test e analizzando le curve ROC in
riferimento ai nostri pazienti, come test di conferma viene utilizzato il carico salino
endovenoso e viene posta diagnosi di iperaldosteronismo primario se l’aldosterone è
superiore a 7 ng/dl (39)
3.4 Diagnosi di sottotipo
Una volta posta diagnosi di iperaldosteronismo primario, è fondamentale identificarne il
sottotipo dato che l’approccio terapeutico è differente nelle diverse forme.
11
Tutti i pazienti devono essere sottoposti ad un esame di tipo morfologico e le linee
guida raccomandano l’utilizzo della TC, possibilmente ad alta risoluzione e a strato
sottile (2-3 mm), la RMN infatti non offre vantaggi, è più costosa e ha una risoluzione
spaziale inferiore alla TC (21). Anche la TC presenta però delle limitazioni: non è
sufficientemente sensibile per identificare eventuali microadenomi e non consente in
caso di riscontro di un nodulo una distinzione di tipo funzionale tra APA, incidentaloma
e iperplasia macronodulare. Numerosi studi hanno infatti dimostrato che l’impiego del
solo esame morfologico nella diagnostica differenziale comporta un’elevata percentuale
di errori diagnostici e di conseguenza errate indicazioni terapeutiche, con il rischio di
inviare pazienti ad interventi chirurgici inutili o viceversa alla terapia medica a vita
mentre sarebbero potenzialmente guaribili con una surrenectomia (50-53).
Per tali ragioni, il cateterismo delle vene surrenaliche (AVS) costituisce l’indagine
gold standard nella diagnosi di sottotipo con una sensibilità pari al 95% e una specificità
del 100%. L’esame consiste nel prelievo selettivo a livello delle vene surrenaliche per
cortisolo e aldosterone. Tali valori vengono poi confrontati con i dati rilevati a livello
delle vena cava inferiore (IVC) per verificare l’effettivo incannulamento surrenalico e
per valutare la presenza di un’ipersecrezione di aldosterone mono o bilaterale. La
metodica è tecnicamente difficile per ragioni di tipo morfologico, in particolare a destra
dove la vena è più piccola e corta, presenta più frequentemente varianti anatomiche e
sbocca direttamente nella IVC (Fig.4), ma il tasso di successo dell’esame migliora
progressivamente con l’aumentare dell’esperienza del radiologo interventista (51,
52,54). Per semplificare tale procedura, è stato proposto il dosaggio del cortisolo nel
corso dello stesso sampling per poter verificare la selettività del prelievo ed
eventualmente ripetere il campionamento. Questa metodica sembra consentire un
aumento del tasso di successo dell’AVS (55,56)
Fig. 4 Vascolarizzazione surrenalica
Surrene sinistro
Surrene destro
VCI
Vena surrenalica sinistra
Vena surrenalica destra
Vena renale destra
12
Vena renale sinistra
Non esiste al momento un protocollo standard per eseguire l’AVS. A seconda dei centri
l’esame può essere effettuato in maniera sequenziale, simultanea con o senza stimolo
con CRH, in infusione continua o somministrata con bolo. Alcuni gruppi utilizzano la
stimolazione con la corticotropina per minimizzare le fluttuazione stress indotte durante
AVS sequenziale, per massimizzare il gradiente del cortisolo vena surrenalica-IVC e la
secrezione di aldosterone da parte degli APA (51, 57). Alcuni gruppi hanno però
dimostrato un mancato miglioramento diagnostico con la somministrazione di CRH,
anzi in alcuni casi potrebbe essere un fattore confondente perché l’ormone potrebbe
stimolare la ghiandola non adenomatosa maggiormente di quella con APA (58). Va
ricordato che non si utilizza la stimolazione, l’esame deve essere effettuato al mattino
tra le 8 e le 11 per minimizzare il ritmo circadiano degli steroidi.
Molto dibattuta è anche la questione dei cut-off sia per quanto riguardo la verifica
dell’effettivo incannulamento delle vene surrenali che la lateralizzazione della
secrezione. Se il catetere è correttamente posizionato in vena surrenalica il rapporto
cortisolo della vena surrenalica risulta maggiore del cortisolo misurato in IVC con cut
off che variano a seconda della metodologia e del centro. I valori minimi variano da
>1.1 inizialmente proposto dal gruppo di Rossi (59) ma considerato ormai dalla maggior
parte troppo permissivo, a >2 (7) fino a >4 utilizzato dalla Mayo Clinic dopo CRH (51).
Per la diagnosi di lateralizzazione si utilizza il rapporto tra i due lati dei livelli di
aldosterone
corretti
per
il
cortisolo
(aldosterone/cortisolodi
un
lato
/
aldosterone/cortisolo dell’altro lato). In questo caso il valore soglia per definire una
secrezione monolaterale varia da 2 a 5 (7, 50, 51, 59). Confrontando i diversi criteri
utilizzati è evidente che criteri più permissivi consentono un maggior tasso di successo
dell’AVS in termini di incannulamento ma spesso determinano diagnosi non corrette
per tale motivo andrebbero utilizzati i criteri più restrittivi o almeno i cosidetti criteri
“intermedi” (60).
Nonostante la difficoltà e le ancora controverse tecniche di procedura, il cateterismo
venoso surrenalico andrebbe eseguito in tutti i pazienti con PA per definirne il sottotipo,
a meno che non ci sia una controindicazione all’intervento chirurgico o una mancata
volontà da parte del soggetto perché in questi casi la terapia è comunque di tipo medico.
La scintigrafia con 131Iodio colesterolo consente uno studio funzionale delle ghiandole
surrenali che ma è attualmente poco utilizzata nella diagnostica del PA perché la sua
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sensibilità dipende dalla grandezza della massa surrenalica e l’uptake del tracciante è
scarso per adenomi inferiore al centimetro (61).
Recentemente è stato proposto da un gruppo inglese in alternativa all’AVS un nuovo
esame strumentale: la
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C-Metomidate Positron Emission Tomography (PET)-TC
che in una casistica di 39 pazienti con APA e 5 adenomi non ipersecernenti ha
dimostrata una sensibilità e specificità paragonabile a quella del cateterismo selettivo
surrenalico (62).
Un altro esame proposto nella diagnosi di sottotipo del PA è il dosaggio del 18idrossicorticosterone (s18OHB) e dei cosidetti “steroidi ibridi”: il 18-idrossicortisolo
(18OHF) e il 18-oxocortisolo (18oxoF). Il s18OHB è un precursore intermedio nella
sintesi dell’aldosterone con bassa affinità per il recettore dei mineralocorticoidi, che
origina dalla conversione del corticosterone. Gli steroidi ibridi hanno caratteristiche
strutturali sia del cortisolo che dell’aldosterone e sono entrambi prodotti
dall’aldosterone sintetasi a partire dall’11-deossicortisolo e il 18OHF anche dalla 11βidrossilasi. Elevati livelli di 18OHB sono stati descritti negli APA (63) e più alte
concentrazioni sieriche di 18OHF sono state rilevate nei pazienti con PA rispetto ai
pazienti con ipertensione essenziale o i normali (64). L’utilità della valutazione di questi
ormoni è stata confermata da uno studio appena pubblicato online sul JCEM (65). In
particolare il dosaggio del 18OHF urinario si è dimostrato il parametro più vantaggioso
nella diagnosi differenziale tra APA e IHA. Seppure esiste un’area grigia in cui è
indispensabile proseguire con i test di conferma e successivo AVS; in pazienti con
ARR>40, valori bassi di 18OHF urinario (gli autori suggeriscono <130 µg/die)
escludono la presenza di APA senza necessità di ulteriori esami, mentre livelli elevati
(valore suggerito <150 µg/die) sono fortemente indicativi di APA per cui senza ulteriori
esami ormonali, se questi dati venissero confermati si potrebbero evitare ulteriori test
ormonali e procedere direttamente con valutazione morfologico ed eventualmente AVS.
Indipendentemente dalla diagnosi di sottotipo, nei pazienti con PA diagnosticato prima
dei 20 anni di età e in coloro che hanno una storia familiare di iperaldosteronismo
primario o eventi cerebrovascolari in età giovane, viene suggerita un test di tipi genetico
per escludere una forma familiare di PA (21).
14
Fig. 5 Algoritmo per lo screening, conferma, diagnosi di sottotipo e terapia del PA (
modificato da 23)
Pazienti con elevato rischi di PA
+
PA improbabile
-
Utilizzare ARR come test di screening
+
Effettuare un test di conferma
PA improbabile
-
(carico salino endovenoso o orale
o test fludrocortisone o al captopril)
TC surrenalica
Chirurgia desiderata
AVS
Chirurgia non desiderata
Bilaterale
Unilaterale
Surrenectomia
laparoscopica
Terapia medica con antagonisti del MR
15
4. COMPLICANZE DELL’IPERALDOSTERONISMO PRIMARIO
In passato l’iperaldosteronismo primario veniva considerato una forma benigna di
ipertensione arteriosa con alterazioni legate unicamente al rialzo pressorio e alla
ritenzione idrosalina. Recentemente invece una notevole mole di lavori sperimentali e
clinici ha dimostrato che questa patologia si accompagna ad una serie di complicanze a
livello cardiaco, vascolare, renale e metabolico (1).
Fig. 6 Effetti sistemici dell’aldosterone (Sowers JR et al. Ann Intern Med
2009;2;150(11):776-83)
La maggior parte degli effetti deleteri dell’aldosterone sono mediati dal recettore dei
mineralocorticoidi responsabile degli effetti genomici di questo ormone ma è stato
dimostrato che nella genesi delle complicanze intervengono anche vie non genomiche
in parte mediate dall’attivazione del MR in parte indipendenti da esso, come
rappresentato in figura.
16
Fig. 7 Effetti genomici e non genomici dell’aldosterone
4.1 COMPLICANZE CARDIOVASCOLARI
Una possibile correlazione tra aldosterone e patologie cardiovascolari è stata riportata
fin dai primi anni novanta. Il Cooperative North Scandinavian Enalapril Study
(CONSENSUS) ha rilevato una correlazione tra livelli di aldosterone plasmatico e tasso
di mortalità in pazienti con scompenso cardiaco congestizio (66). Duprez e colleghi
hanno descritto una significativa correlazione tra aldosterone massa ventricolare sinistra
in pazienti ipertesi non trattati, lievi-moderati (67). Studi clinici recenti hanno inoltre
dimostrato che, indipendentemente dai livelli di aldosterone, l’impiego di farmaci
antagonisti del MR consentono una protezione cardiaca. Nello studio RALES
(Randomized Aldactone Evaluation Study), lo spironolattone aggiunto alla terapia
convenzionale riduce la mortalità nei pazienti con scompenso cardiaco (68). Nello
studio EPHESUS (Eplerenon Post-Acute Myocardial Infarction Heart Failure Efficacy
and Survival Study) l’eplerenone riduce il tasso di mortalità in pazienti con
insufficienza cardiaca dopo infarto del miocardio (69). Infine nello studio 4E l’aggiunta
di eplerenone all’enalapril risultava maggiormente efficace nel far regredire l’ipertrofia
ventricolare sinistra (70). Numerosi studi dimostrano che anche nell’iperaldosteronismo
primario tale ormone oltre a determinare ipertensione arteriosa, aumento del volume
plasmatico e ritenzione di sodio, contribuisce in maniera diretta nella genesi del danno
cardiovascolare (71, 72).
17
I meccanismi ipotizzati sono molteplici e le conseguenze a livello clinico includono sia
alterazioni di tipo anatomico (ipertrofia, fibrosi e infiammazione) sia di tipo funzionale
(disfunzione diastolica e sistolica e aritmie) che si traducono in un aumentato tasso di
eventi cardio-cerebrovascolari.
Ipertrofia cardiaca
E’ ormai noto che pazienti con iperaldosteronismo primario presentano indici di massa
cardiaca più elevati rispetto a pazienti con ipertensione essenziale a parità di livelli di
pressione arteriosa (73, 74) ed anche in assenza di ipertrofia ventricolare vera e propria
la massa ventricolare sinistra risulta inappropriata (75) a conferma di un’azione
specifica dell’ormone aldilà dei suoi effetti emodinamici. A sostegno di questa tesi vi
sono numerosi lavori sperimentali. A livello cardiaco è stata evidenziata la presenza sia
di MR che di 11βHSD2 nell’uomo per cui l’aldosterone potrebbe svolgere la sua azione
a questo livello anche con meccanismi genomici (76). In modelli animali, l’esposizione
di cardiomiociti all’ormone determina un aumento della corrente del calcio che viene
inibito dallo spironolattone ad indicare che questo meccanismo richiede una sintesi
proteica e che è mediato dai recettori dei mineralcorticoidi (77). L’aumento del calcio
intracellulare potrebbe causare ipertrofia cardiaca attraverso un’iper-espressione della
calcineurina, una fosfatasi proteica calcio/calmodulina dipendente, che defosforila il
fattore di trascrizione NFAT3 (nuclear factor of activated T cells 3) un fattore nucleare
che, interagendo con GATA4, un altro fattore di trascrizione, attiva la trascrizione di
geni che sono normalmente richiesti per la crescita del cuore fetale. L’aldosterone
inoltre, sembra incrementare l’mRNA e l’attività della calcineurina, la cui inibizione
invece, sembra prevenire l’ipertrofia cardiaca (78).
Va ricordato inoltre che esistono sempre più dati a conferma di uno stretto link tra
eccesso di aldosterone e dieta ad alto contenuto di sodio nella patogenesi del danno
d’organo. Nei vari studi presenti in letteratura l’associazione tra livelli di aldosterone e
LVMI così come tra eccesso di sale e LVMI non sempre è stata rilevata. Diversi studi
sperimentali su animali hanno dimostrato fin dagli anni 90 che solo in presenza di una
dieta ipersodica l’aldosterone è in grado di determinare i suoi effetti deleteri (79-81).
Nell’uomo, nei pazienti ipertesi è stata evidenziata una correlazione tra proteinuria e
introito di sodio solo in pazienti con eccesso di aldosterone e non nei soggetti con livelli
di aldosterone normale, a parità di valori pressori (82). Inoltre, du Cailar e colleghi in un
gruppo di ipertesi hanno rilevato che la LVMI progressivamente aumentava
18
all’aumentare dell’escrezione urinaria di sodio ma solo nei pazienti con elevati livelli di
aldosterone (83). Analogamente lo studio recentemente pubblicato dal gruppo di
Stowasser mostra che solo nei pazienti affetti da iperaldosteroniso primario e non negli
ipertesi essenziali, l’escrezione urinaria di sodio è correlata in maniera indipendente con
la massa ventricolare sinistra e gli spessori di parete (84).
Se questi studi dovessero essere confermati, una dieta a basso contenuto di sodio
potrebbe contribuire nei pazienti con PA a ridurre il rischio cardiovascolare e viceversa
pazienti ipertesi con livelli di aldosterone tendenzialmente elavati come per esempio
negli obesi o con eccessivo introito di sodio potrebbero beneficiare di una terapia
precoce con antagonista del recettore dei mineralocorticoidi (85).
Fibrosi miocardica
La fibrosi miocardica costituisce una delle conseguenze più importanti dell’azione
dell’aldosterone a livello cardiaco, interessa entrambi i ventricoli, gli atri e l’avventizia
dell’arteria polmonare (86, 87), a differenza della fibrosi indotta dall’ipertensione
arteriosa essenziale, che riguarda unicamente il ventricolo sinistro. Il pattern di fibrosi è
sia di tipo reattivo, e in questo caso coinvolge gli spazi perivascolari o interstiziali, sia
di tipo riparativo, come risposta tissutale alla necrosi dei cardiomiociti.
L’accumulo di matrice extracellulare e la conseguente fibrosi dipende dall’equilibrio tra
sintesi e degradazione delle molecole di matrice quali collagene e proteoglicani.
In modelli sperimentali, infondendo aldosterone, si assiste ad una aumentata
proliferazione dei fibroblasti, che costituiscono le cellule non miocitiche maggiormente
rappresentate nel cuore (più del 90%), e ad un incremento di produzione di collagene
(88). Negli animali l’infusione di aldosterone, associata ad un elevato introito di sale,
determina un aumento intracardiaco dei livelli di mRNA del procollagene di tipo I e III
(89), con conseguente aumento della sintesi di questi tipi di collagene, deposizione di
matrice extracellulare e sviluppo di fibrosi cardiaca. In modelli animali, la
somministrazione di antagonisti dei recettori dei mineralcorticoidi (MR) e’ in grado di
prevenire la fibrosi miocardica (90), anche in assenza di effetti sui valori pressori, a
dimostrazione quindi dell’importanza dell’azione umorale e non emodinamica svolta
dall’aldosterone. Molti sono i mediatori intracellulari studiati e potenzialmente implicati
della patogenesi: l’attivazione della Kirsten Ras (Ki-Ras) e dei suoi effettori (la cascata
MAPK1/2), inibiti dallo spironolattone, ma non dagli antagonisti dei glucocorticoidi
19
(90), il potassio, il calcio, l’endotelina (91), la bradichinina (92) e una possibile
interazione aldosterone-angiotensina II. (74).
Danno vascolare
Studi animali in vivo ed in colture cellulari in vitro hanno dimostrato che l’aldosterone
e/o l’attivazione del MR determina stress ossidativo ed infiammazione a livello
vascolare (93-95). Modelli sperimentali dimostrano come l’ecceso di aldosterone,
associato ad un elevato introito salino, sia in grado di favorire l’adesione dei leucociti
alle cellule endoteliali (96, 97) e indurre severe lesioni infiammatorie, caratterizzate da
infiltrato di monociti e macrofagi sia a livello coronarico dove comportano
modificazioni ischemiche e necrotiche focali (98) sia a livello renale e in generale
perivascolare (99). Oltre all’infiltrato leucocitario l’aldosterone determina un
incremento dell’espressione di osteopontina, MCP-1, IL-6, IL-1β, fattori che poi
stimolano l’espressione di fattori profibrotici quali il PAI-1 e TGFβ, attraverso
meccanismo MR dipendente. Inoltre, il trattamento cronico con aldosterone e sale
aumenta l’espressione della NADPH ossidasi (95, 96, 99), enzima che catalizza la
formazione dell’anione superossido il quale poi reagisce con l’ossido nitrico per
formare il perossinitrito. I radicali dell’ossigeno che ne derivano alimentano il processo
infiammatorio e, ossidando le lipoproteine LDL, contribuiscono alla genesi del danno
endoteliale e aterosclerosi (100-102).
Fig. 8 Meccanismi di induzione di infiammazione e di fibrosi da parte
dell’aldosterone (Ref. 95)
20
In definitiva tutti questi effetti sono mediati da azioni genomiche e non genomiche. Gli
effetti genomici includono: aumento della sintesi proteica, infiammazione e fibrosi.
Effetti non genomici sui vasi includono: incremento della fosforilzione della tirosina,
attivazione
dell’inositolo
fosfato,
aumento
dello
scambio
sodio/idrogeno
e
alcalinizzazione delle cellule muscolari lisce vasali. Alcuni di tali effetti sono
parzialmente mediati dall’attivazione dell’enzima 11βidrossisteroido deidrogenasi di
tipo 2 (103), mentre altri effetti sono mediati dall’interazione dell’aldosterone con
fattori di crescita come ad esempio l’Angiotensina II (104). Recenti studi sperimentali
hanno dimostrato infatti, non soltanto la capacità di produrre aldosterone da parte delle
cellule endoteliali, ma anche la presenza di MR e di canali epiteliali del sodio a questo
livello (103). Riguardo però l’espressione genica delle cellule progenitrici endoteliali
indotta dall’eccesso di aldosterone esistono dati contrastanti (105, 106). Nel loro
insieme, a livello sistemico, il risultato delle modificazioni vasali consiste in un
incremento delle resistenze periferiche ed in un aumentato rischio di aterosclerosi e
trombosi.
Clinicamente, nei pazienti con iperaldosteronismo primario rispetto ai pazienti con
ipertensione arteriosa essenziale, maggiori risultano lo spessore mio-intimale, il
rapporto tunica media/lume e il segnale backscatter, marker di fibrosi (107-109).
Analogamente a quanto si rileva per il danno cardiaco, la stifness arteriosa migliora
dopo terapia (110, 111).
Disfunzione autonomica ed aritmie
L’aldosterone e’ in grado di abbassare la soglia per lo sviluppo di aritmie cardiache e di
morte cardiaca improvvisa in pazienti con scompenso cardiaco ischemico e non
ischemico (112). Questo sembra essere correlato alle alterazioni sistoliche e diastoliche,
alle modificazioni delle concentrazioni ioniche (K+ e Mg2+) e alla capacità
dell’aldosterone di potenziare l’azione delle catecolamine e della sensibilità dei
barorecettori.
Gli effetti elettrofisiologici dell’aldosterone potrebbero spiegare la correlazione tra un
eccesso di questo steroide e l’attività ectopica ventricolare, soprattutto in virtù della nota
azione kaliuretica, anche se è stato dimostrato un meccanismo diretto dell’aldosterone a
livello cardiaco nel causare instabilità elettrica.
In modelli sperimentali, quest’ormone aumenta l’ingresso di sodio all’interno delle
cellule miocardiche attraverso l’attivazione di un cotrasportatore Na+-K+-2Cl-(113), di
21
conseguenza si assiste ad un aumento del volume cellulare, ad un effetto inotropo
positivo e ad un’alterazione della compliance cardiaca e del rilasciamento del ventricolo
sinistro. In aggiunta, l’eccesso di aldosterone diminuisce l’affinità del sodio
intracellulare per la pompa Na+/K+ del sarcolemma, senza modificare la concentrazione
di quest’ultima nel miocardio; l’inibizione di tale pompa porta ad un’attivazione di
importanti geni correlati alla crescita, pertanto l’aldosterone potrebbe contribuire al
rimodellamento cardiaco anche attraverso questo meccanismo.
Un
altro
ione
che
sembra
giustificare
l’aumentato
rischio
di
aritmie
nell’iperaldosteronismo primario è il magnesio (114): la riduzione di questo ione che si
può associare all’iperaldosteronismo, favorisce l’insorgenza di ectopia ventricolare.
L’aumento della concentrazione del calcio intracellulare, oltre a mediare la fibrosi,
sembra agire nello stesso senso (115).
Di notevole importanza per il potenziale aritmico appare inoltre l’equilibro tra il sistema
nervoso parasimpatico e simpatico, avendo quest’ultimo capacità aritmogene. Numerosi
studi su modelli animali hanno dimostrato che l’aldosterone agisce anche a livello del
sistema nervoso centrale aumentando l’attività del sistema nervoso simpatico (116-119).
Recentemenete per la prima volta anche nell’uomo, Kontak e colleghi mediante studi
elettrofisiologici hanno dimostrato un’iperattività del sistema nervoso simpatico negli
APA rispetto agli EH ed ai controlli e la sua reversibilità dopo surrenectomia (120)
L’effetto sul sistema nervoso simpatico si ripercuote anche a livello cardiaco, con una
riduzione dell’intervallo RR ed un allungamento dell’intervallo QT favorendo la
comparsa di morte cardiaca improvvisa. Maule e colleghi in uno studio clinico di
confronto tra pazienti con PA e ipertesi essenziali a bassa renina (121) hanno
evidenziato che il QT corretto risultava essere maggiore nel gruppo con PA e lo stesso
gruppo recentemente ha dimostrato che la terapia con spironolattone o la surrenectomia
è in grado di normalizzare tale parametro (122).
Scompenso cardiaco congestizio
Le alterazioni della composizione e della geometria del miocardio indotte
dall’aldosterone, l’aumento del contenuto di collagene interstiziale e l’ipertrofia
ventricolare determinano rigidità miocardica, e compromissione della funzione
diastolica e sistolica. Le alterazioni della composizione e della geometria del miocardio
indotte dall’aldosterone determinano una lieve compromissione della performance
cardiaca. Studi condotti su pazienti con iperaldosteronismo primario e secondario
22
mostrano una correlazione diretta tra alterato riempimento ventricolare sinistro ed
alterazioni strutturali miocardiche secondarie all’eccesso di aldosterone (123). La
presenza di fibrosi cardiaca, associata ad ipertrofia ventricolare sinistra, con
conseguente disfunzione sisto-diastolica, giustificano l’evoluzione verso un quadro di
insufficienza cardiaca manifesta e quindi lo scompenso cardiaco congestizio, aggravato
anche dall’espansione di volume secondaria alla ritenzione idrosalina aldosteroneindotta.
Studi clinici su pazienti con iperaldosteronismo primario
Negli ultimi anni sono apparsi in letteratura alcuni interessanti studi clinici mirati alla
valutazione degli eventi cardiovascolari nei pazienti con iperaldosteronismo primario.
Nel 2005 per la prima volta Milliez e colleghi hanno comparato il tasso di eventi
cardiovascolari di pazienti con APA e IHA con pazienti con ipertensione essenziale
paragonabili per età, sesso e valori pressori in un ampio studio retrospettivo casocontrollo. Gli autori non hanno riscontrato differenze tra i due sottotipi di PA, ma hanno
osservato una percentuale statisticamente più elevata di stroke (12,9% contro 3,4%), di
infarto del miocardio (4% versus 0,6%), e di fibrillazione atriale (7,3% contro 0,6%) nei
pazienti con PA rispetto agli ipertesi essenziali (124). Negli anni successivi alla luce di
questi dati sono stati effettuati alcuni studi di outcome cardiaco in pazienti con PA
sottoposti a terapia medica e chirurgica. Nel 2007 il nostro gruppo in uno studio
longitudinale a lungo termine (125) ha dimostrato una regressione dell’ipertrofia
ventricolare sinistra, in particolare si riscontrava una riduzione della massa ventricolare
sinistra e del setto interventricolare in pazienti con APA sottoposti ad intervento
chirurgico dopo un follow up medio di 34 mesi e nessuna differenza veniva riscontrata
tra pazienti guariti e quelli che rimanevano ipertesi. Nei pazienti con IHA in terapia
medica dopo un periodo di osservazione medio pari a 55 mesi si è assistito ad un
miglioramento dei parametri cardiaci ma la differenza non è risultata statisticamente
significativa. La mancanza di significatività potrebbe essere legata sia alla lunga durata
di ipertensione tale da rendere almeno in parte irreversibile il danno d’organo sia
all’eterogeneità dei trattamenti medici in questo gruppo di pazienti. Si potrebbe però
speculare che gli antagonisti MR possono bloccare solo l’azione genomica
dell’aldosterone mediata dal suo recettore e non gli effetti non genomici. Lo stesso anno
Catena e colleghi (126) hanno invece riscontrato in uno studio di follow up a 6,4 anni
una significativa riduzione della massa ventricolare sinistra nei pazienti con PA sia
23
sottoposti a surrenectomia sia a terapia medica, anche se nel primo anno di osservazione
la riduzione della massa cardiaca era evidente solo per gli APA. E’ interessante notare
come in entrambi gli studi i livelli di aldosterone correlano direttamente con la massa
ventricolare sinistra, a suggerire un ruolo indipendente di questo ormone sulle
alterazioni cardiache. La presenza di un elevato tasso di eventi cardiovascolari alla
diagnosi nei pazienti con iperaldosteronismo primario è stata riscontrata anche in un
altro studio del gruppo di Sechi (127). La prevalenza di patologie cardiovascolari era
maggiore nei pazienti con PA rispetto ad ipertesi di pari età, sesso, severità e durata
stimata di ipertensione. In questo studio, i pazienti con PA presentavano una probabilità
5 volte maggiore degli EH di avere un’aritmia sostenuta, una probabilità 4,4 volte
maggiore di un precedente evento cerebrovascolare e una probabilità 2,8 maggiore di
avere una malattia cardiovascolare. Seguendo in maniera prospettica tali pazienti, gli
autori hanno osservato che l’incidenza di eventi nei pazienti con PA dopo terapia non
differiva in maniera significativa da quella degli ipertesi essenziali. Inoltre le curve di
Kaplan-Meier risultavano sovrapponibili nei pazienti trattati con surrenectomia o con
spironalattone. Le variabili invece che risultavano predittori di un outcome migliore
erano l’età giovane e la ridotta durata di malattia.
Anche i dati provenenti dal registro tedesco dei Conn confermano un’elevata
comorbidità cerebro- e cardiovascolare. In questa casistica è stato inoltre riscontrata una
maggior prevalenza di eventi cardiovascolari, in particolare l’angina pectoris e
insufficienza cardiaca nei pazienti che presentavano ipokaliemia (128).
Possiamo quindi concludere che i pazienti con PA presentano complicanze
cardiovascolari maggiori rispetto agli ipertesi essenziali ma una terapia mirata a
contrastare gli effetti dell’aldosterone consente un miglioramento sia in termini
morfologici cardiaci con regressione dell’ipertrofia ventricolare sinistra sia in termini
clinici con una riduzione dell’incidenza di eventi cardiovascolari, soprattutto se la
diagnosi viene posta precocemente.
24
4.2 COMPLICANZE METABOLICHE
Conn stesso per la prima volta descrissero un’aumentata incidenza di intolleranza
glucidica nei pazienti con iperaldosteronismo primario (129) suggerendo un possibile
effetto negativo dell’eccesso di aldosterone sul metabolismo glucidico e sull’azione
dell’insulina. In accordo con successivi reports, nel 2000, The expert Comittee on the
Diagnosis and Classification of Diabetes Mellitus ha inserito l’iperaldosteronismo
primario tra le possibili cause di diabete (130). Dall’altro lato, l’iperaldosteronismo
primario sembra essere comune nei pazienti con diabete con ipertensione resistente, uno
studio recente riporta una prevalenza del 14% e per questo suggerisce di sottoporre a
screening per PA tutti i diabetici con ipertensione di difficile controllo (131). Negli anni
gli studi hanno è però fornito risultati controversi per cui ancora oggi la reale prevalenza
di complicanze metaboliche nei pazienti con PA non è ben chiara. Il gruppo di Sindelka
ha evidenziato utilizzando la metodica del clamp euglicemico livelli di insulinoresistenza maggiori in un piccolo gruppo di pazienti con PA rispetto a un gruppo di
controllo e che la sensibilità all’insulina migliorava dopo intervento chirurgico nei
pazienti con APA, mentre rimaneva invariata negli IHA in terapia medica (132).
Widimisky e colleghi hanno confermato la presenza di insulino-resistenza (133, 134)
nei PA ma non hanno però trovato differenze significative tra PA e ipertesi essenziali in
termini di diabete o ridotta tolleranza glucidica (135). In contrasto, i dati del registro
tedesco dei Conn (136) mostrano un’elevata prevalenza di diabete mellito nei PA
rispetto agli EH (23 vs 10%). Un altro recente studio è stato effettuato sulla sensibilità
insulinica in un’ampia casistica di pazienti con PA confrontati con ipertesi essenziali e
normotesi (137). Gli autori hanno riscontrato una maggiore insulino-resistenza nei PA,
testimoniati da elevati homeostasis model assessment (HOMA) index e ridotti QUICKI
e tassi di clearance del glucosio durante clamp euglicemico iperinsulinemico, rispetto a
soggetti normotesi di pari età, sesso e BMI, mentre la risposta al carico orale di glucosio
risultava incrementata ad indicare che la secrezione insulinica pancreatica non era
alterata. Sorprendentemente, la sensibilità insulinica risultava maggiore nei pazienti con
PA rispetto agli EH. Sono stati poi valutati gli outcome metabolici dopo trattamento e,
al contrario delle osservazioni di Sindelka, nei pazienti con PA sia la terapia medica che
chirurgica determinavano un miglioramento degli indici di sensibilità insulinica.
L’effetto negativo dell’aldosterone è stato confermato anche dal nostro gruppo. In un
25
recente studio di follow up, abbiamo evidenziato che la terapia chirurgica nei pazienti
con APA consentiva una riduzione significativa dei livelli di glicemia e insulina dopo
curva da carico orale di glucosio nei pazienti con IHA trattati farmacologicamente si è
assistito invece ad una stabilizzazione del profilo glucidico, nonostante l’aumento del
BMI al follow up. Il mancato miglioramento in questi ultimi supporta l’ipotesi che la
persistenza di elevati livelli circolanti di aldosterone possa esercitare effetti negativi
attraverso vie non genomiche anche in presenza degli antagonisti del recettore dei
mineralocorticoidi. In questo studio inoltre è stata osservata anche un’interessante
correlazione tra HOMA index e livelli di aldosterone sia negli APA che negli IHA, a
sostegno dell’ipotesi di un’azione diretta di questo ormone sull’omeostasi glucidica.
L’eccesso di aldosterone è risultato essere associato anche alla sindrome metabolica
(SM). Fallo e colleghi (138) hanno per primi osservato una maggiore prevalenza di SM
nei pazienti con PA rispetto ai pazienti con EH (41 vs 29,6%). In particolare hanno
riscontrato più frequentemente alterazioni del metabolismo glucidico: la proporzione dei
pazienti che assumeva farmaci ipoglicemizzanti all’inizio dello studio e le nuove
diagnosi di diabete o di iperglicemia erano maggiori nei PA mentre la prevalenza degli
altri parametri della sindrome metabolica erano sovrapponibili nei due gruppi. Risultati
simili sono stati pubblicati dal nostro gruppo, nella nostra casistica la prevalenza di SM
risulatava pari a 45% nei PA e 30% negli EH (139).
Oltre alla presenza di insulino-resistenza nei pazienti con PA è stata anche descritta un
possibile alterata secrezione pancreatica di insulina. Shimamoto e collaboratori,
confrontando le concentrazioni plasmatiche di glucosio e la risposta insulinica dopo
curva da carico di glucosio (OGTT) in un piccolo numero di pazienti affetti da
iperaldosteronismo primario e in soggetti normotesi (140), hanno mostrato livelli di
glucosio più alti e una risposta insulinica più bassa nei pazienti con PA rispetto ai
controlli ed un ripristino della normale funzionalità pancreatica dopo intervento di
surrenectomia. Analogamente, Mosso e colleghi hanno rilevato ridotti livelli di HOMA
beta cellulare index e di C-peptide in pazienti con PA rispetto ad EH (141).
In accordo con tali rilievi, a livello sperimentale era stato precedentemente dimostrato
un’azione inibitoria diretta sul rilascio di insulina glucosio-indotto da parte
dell’aldosterone in colture di isole di Langherans di ratto (142).
Un potenziale ruolo patogenetico dell’aldosterone nello sviluppo di alterazioni
metaboliche è stato ipotizzato anche nell’ipertensione essenziale. In particolare, una
26
correlazione positiva è stata descritta tra questo ormone e glicemia plasmatica, insulina,
C-peptide e HOMA index nei soggetti bianchi (143) e tra aldosterone e circonferenza
vita, colesterolo totale, trigliceridi, insulina e HOMA index nei neri (144). Così come è
stata rilevata un’associazione aldosterone-sindrome metabolica in diverse popolazioni
(145,146).
I meccanismi che sottendono tali osservazioni cliniche sono però tuttora poco noti.
Carranza e colleghi hanno evidenziato una riduzione dei livelli del recettore per
l’insulina nel tessuto adiposo di un pazienti con PA (147).
Studi in vitro su colture cellulari promonocitiche U-937 hanno evidenziato che la
somministrazione di dosi fisiologiche di aldosterone determina una riduzione dei livelli
di mRNA del recettore umano dell’insulina, del legame e della risposa insulinica (148).
Gli stessi autori inoltre hanno evidenziato che tale inibizione della risposta insulinica è
mediata da una down regulation del recettore dei mineralcorticoidi (149).
L’ipokaliemia è stata proposta come possibile link tra disordini metabolici e
iperaldosteronismo primario. Un studio datato aveva dimostrato che la riduzione di
questo ione era in grado di alterare la secrezione pancreatica di insulina, mentre l’azione
dell’insulina e l’insulino-sensibilità non sembra esserne influenzata (150). Negli studi
clinici però alcuni hanno rilevato una correlazione positiva tra ipopotassemia e
alterazioni metaboliche (125, 151), altri invece non hanno confermato tale correlazione,
per cui l’esatto contributo dell’ipokaliemia alle alterazioni metaboliche nel PA rimane
ignoto.
E’ possibile inoltre, che modificazioni indotte dall’aldosterone quali l’aumentata sintesi
di collagene e la fibrosi vadano a coinvolgere sia il pancreas interferendo
potenzialmente con la produzione e secrezione dell’insulina, sia i tessuti periferici target
dell’azione insulinica come fegato, tessuto adiposo e muscolo alterando così
lasensibilità all’insulina stessa (152).
Un altro dei meccanismi proposti nella patogenesi del danno metabolico da
iperaldosteronismo coinvolge l’organo adiposo ed in particolare le adipokine da esso
prodotte. Una di queste è la leptina (153, 154). La sua concentrazione tende ad essere
soppressa in presenza di iperaldosteronismo mentre il trattamento, farmacologico o
chirurgico, determina, attraverso meccanismi non ancora noti, un aumento della
proteina, che sembra correlarsi ad un miglioramento della sensibilità insulinica.
27
Analogamente, Krauss e colleghi hanno rilevato negli adipociti bruni dei ratti che
l’aldosterone induce in maniera dose-dipendente un ridotto uptake di glucosio associato
ad una riduzione dell’uncoupling-protein-1 (UCP-1) ed a un incremento di citokine
proinfiammatorie quali leptina e MCP-1 (155).
Recenti studi hanno valutato anche possibili correlazioni tra iperaldosteronismo e
adiponectina, un’adipochina secreta dal tessuto adiposo sia viscerale che sottocutaneo.
Tale proteina favorisce i processi lipolitici con conseguente riduzione dei livelli di acidi
grassi liberi e del glucosio plasmatico, ha un’azione insulino-sensibilizzante e
antiaterogena dovute all’ inibizione delle molecole di adesione, alla riduzione
dell’uptake delle LDL ossidate da parte dell’endotelio e all’inibizione della migrazione
e proliferazione delle cellule muscolari lisce. I suoi livelli sono ridotti in presenza di
obesità e sindrome metabolica (156). In un recente studio, Fallo e colleghi hanno
riscontrato una maggiore insulino-resistenza, confermando i dati del nostro gruppo, e
livelli di adiponectina ridotti in pazienti con PA confrontati con ipertesi a bassa renina,
con una relazione inversa tra tale adipochina e l’HOMA index (157).
In aggiunta, Iacobellis e colleghi hanno rilevato elevati livelli di resistina, un’adipokina
associata all’infiammazione e all’insulino-resistenza, indipendentemente dalla presenza
di sindrome metabolica (158).
Altri dati suggeriscono un coinvolgimento dell’infiammazione e dello stress ossidativo.
Nei ratti TG(mREn2), caratterizzati da insulino-resistenza, il blocco dei MR mediante
spironolattone migliora l’uptake di glucosio insulino-dipendente a livello del muscolo
scheletrico, fenomeno mediato dalla riduzione dell’attività della NADPH ossidasi e
delle specie reattive dell’ossigeno (ROS) (159, 160).
In contrasto invece con i dati presentati, recentementemente Urbanet e colleghi (161)
non hanno rilevato una diversa espressione genica di fattori implicati nel signaling
insulinico o di fattori infiammatori (PPAR-γ, recettore insulinico, GLUT-4, IRS-1 e 2,
leptina, adiponectina, IL-6, MCP-1, 11βHSD1,
11βHSD2 e recettore dei
glucocorticoidi).
Possiamo quindi concludere che, seppure non vi siano dati chiari sulla prevalenza delle
alterazioni glucidiche e i meccanismi patogenetici proposti sono vari, sembra ormai
evidente che l’eccesso di aldosterone comporti una serie di alterazioni di tipo
metabolico che potrebbero contribuire all’aumentata incidenza di eventi cardiovascolari
28
nei pazienti con iperaldosteronismo primario ma con una terapia mirata è possibile far
regredire o comunque impedire la progressione di tali complicanze.
Interazioni tessuto adiposo-surrene
E’ ormai noto che il tessuto adiposo non costituisce unicamente un deposito di energia
ma rappresenta un organo endocrino a tutti gli effetti in grado di produrre diversi
ormoni ed una serie di proteine chiamate adipochine (156, 162). Molti sono i lavori che
riguardano i glucocorticoidi e il sistema renina angiotensina, poche invece sono le
conoscenze riguardo all’interazione tra adipe e aldosterone ma tra questi due sistemi
sembra esistere un vero e proprio crosstalk (163).
Studi di adipogenesi hanno dimostrato che l’aldosterone, così come il cortisolo, induce
adipogenesi (164), entrambi i tipi di tessuto adiposo sia bruno che bianco infatti,
esprimono il recettore dei mineralocorticoidi e questo può essere attivato
dall’aldosterone durante la differenziazione in adipocita (165, 166). Nel 2007, Caprio e
colleghi (167) hanno dimostrato l’importante effetto proadipogenico di questo ormone:
l’aldosterone induce una conversione di cellule 3T3-L1 in adipociti e una
differenziazione delle cellule 3T3-F442A in un maniera dose e tempo dipendente.
Questi effetti risultano essere mediati da un’attivazione del MR e sono associati ad
un’induzione dell’espressione dell’mRNA dei PPARγ. In questo studio, anche i
glucocorticoidi determinavano un’induzione dell’adipogenesi ma se introdotti solo nelle
fasi iniziali della differenziazione cellulare, nel passaggio da preadipociti ad adipociti
invece inibiscono la maturazione finale. Altra osservazione particolarmente interessante
è il ruolo centrale del MR nel mediare l’effetto dei glucocorticoidi sul tessuto adiposo.
Infatti solo mediante downregulation del MR e non del recettore dei glucocorticoidi si
ottiene l’inibizione della conversione adiposa delle cellule 3T3-L1. Recentemente lo
stesso gruppo (168) ha dimostrato che il blocco selettivo del MR mediante drospirenone
determina un effetto antiadipogenico mediante una riduzione dell’espressione dei
PPAR-γ, suggerendo una possibile nuova opzione terapeutica per l’obesità e le relative
sequele metaboliche.
Inoltre, diversi studi clinici hanno riportato un’associazione tra alti livelli di aldosterone
e aumento della massa grassa (169, 170), soprattutto nelle donne (171) e mostrano che
la perdita di peso si accompagna ad una caduta dei livelli di aldosterone (172). Anche i
dati raccolti all’interno dello studio PAPY (169) hanno dimostrato come il BMI si
29
correla con i livelli di aldosterone indipendentemente da età, sesso e introito di sale con
la dieta, in particolare nei pazienti sovrappeso e obesi con ipertensione arteriosa
essenziale. Se è vero che l’aldosterone esplica i suoi effetti anche a livello del tessuto
adiposo come abbiamo in precedenza visto in alcuni studi sperimentali riducendo i
livelli dei recettori per l’insulina e l’effettiva risposta all’insulina (147,149) è stato
recentemente dimostrato anche l’effeto al contrario. Co-incubando il medium di crescita
di adipociti con cellule surrenali, Ehrhart-Bornstein e colleghi (173) hanno ottenuto una
stimolazione della steroidogenesi in particolare dell’aldosterone, accompagnata da
un’aumentata espressione di proteine di regolazione acuta della steroidogenesi (StAR).
Tale stimolazione era indipendente dall’angiotensina II e non era mediata da leptina,
adiponectina, IL-6 e TNF-α. Dati che sono stati confermati anche nel ratto da Nagase
(174). Schinner inoltre ha dimostrato che prodotti secreti dagli adipociti umani non
ancora ben identificati contengono molecole di segnale Wnt in grado di attivare le
classiche via di segnale Wnt delle cellule corticosurrenali e mediare la trascrizione
genica delle StAR (175). Sempre il gruppo di Ehrhart-Bornstein ha dimostrato che le
lipoproteine a bassa densità, che costituiscono la fonte principale di colesterolo per la
steroidogenesi, se ossidate come spesso si osserva nelle patologie metaboliche, sono in
grado di attivare la via ERK e quindi la sintesi di aldosterone in maniera maggiore e più
prolungata (176-178) Una sintesi locale di aldosterone de novo dal colesterolo a livello
del tessuto adiposo non è invece possibile, studi infatti con PCR real-time mostrano
un’assenza dell’enzima aldosterone sinteteasi così come della 11βidrossilasi e della
17αidrossilasi (179).
Fig. 9 Rappresentazione schematica degli effetti dell’aldosterone sul metabolismo
30
4.3 COMPLICANZE RENALI
L’ipertensione arteriosa rappresenta uno dei maggiori fattori di rischio per la comparsa
e la progressione del danno renale. Recenti studi clinici hanno evidenziato che pazienti
con PA sono caratterizzati da un più precoce ed evidente danno renale rispetto agli
ipertesi essenziali. Una relazione tra livelli plasmatici di aldosterone e deterioramento
renale è stata riscontrata primariamente in pazienti con insufficienza renale avanzata e
trial clinici condotti in pazienti con nefropatia diabetica e insufficienza renale cronica
hanno suggerito un effetto benefico degli antagonisti dell’aldosterone sull’escrezione
urinaria di proteine (180-182). Nei pazienti con PA pochi sono gli studi di outcome
renale. In particolare, l’analisi della funzionalità renale di un ampio campione di
pazienti dello studio PAPY ha dimostrato che i pazienti con PA presentavano una
maggiore
prevalenza
di
microalbuminuria
rispetto
agli
ipertesi
essenziali,
indipendentemente dai valori pressori (183). Ribstein seguendo un gruppo di 25 APA
sottoposti a surrenectomia con un follow up di 6 mesi ha evidenziato una riduzione
dell’albuminuria più marcata nei pazienti con PA rispetto agli ipertesi essenziali in
terapia medica con associato però un declino del filtrato glomerulare, mentre negli
ipertesi essenziali la riduzione della proteinuria non era accompagnata a modificazioni
del filtrato né del flusso plasmatico effettivo renale (184). Tale evidenza è stata poi
confermata da Sechi e colleghi in un ampio studio prospettico di follow up a lungo
termine (185). L’iperfiltrazione glomerulare e l’elevata escrezione di albumina presenti
alla valutazione basale di pazienti con PA si riduceva in maniera significativa sia dopo
trattamento medico negli IHA che chirurgico negli APA e tale benefico effetto
terapeutico si verificava nei primi mesi e persiste come tale a lungo termine senza
ulteriori modificazione dell’albuminuria. Tale miglioramento della funzione renale
risultava più evidente nei PA rispetto ad ipertesi essenziali di pari età, sesso, BMI e
durata di ipertensione ed indipendentemente dai valori pressori raggiunti. Recentemente
anche il gruppo di studio Taiwanese TAIPAI ha confermato, sia mediante uno studio
prospettico (186) sia mediante una metanalisi degli studi finora pubblicati (187), che
l’iperfiltrazione
glomerulare
relativa
rappresenta
una
caratteristica
tipica
dell’iperaldosteronismo primario aldilà dell’effetto puramente pressorio e gli autori
suggeriscono che tale quadro potrebbe occultare un possibile danno renale. Unico
rilievo contrastante con questi dati della letteratura proviene da uno studio retrospettivo
estrapolato dal registro tedesco di Conn. Gli autori infatti osservavano basalmente livelli
31
più elevati di creatinina e valori di filtrato glomerulare più bassi nei pazienti con PA
rispetto agli EH e non responsivi al trattamento, anzi sia dopo chirurgia che in terapia
con spironolattone la creatinina tendeva ad aumentare e il filtrato glomerulare a
scendere ulteriormente (188).
I meccanismi patologici coinvolti nella genesi del danno renale proposti sono vari. La
reversibilità, almeno parziale, del danno suggerisce la presenza di alterazioni di tipo
funzionale piuttosto che morfologiche. E’ possibile ipotizzare che l’eccesso di
aldosterone induca un’iperfiltrazione come meccanismo di adattamento dinamico
all’aumentato riassorbimento di sodio e all’espansione di volume e di conseguenza
all’aumento della perfusione renale. La persistenza però di microalbuminuria in una
percentuale consistente di pazienti seppure “guariti” dall’iperaldosteronismo e tornati
normotesi, suggerisce una potenziale coesistenza di un danno di tipo strutturale in parte
mediato dall’ipertensione ma in parte anche dagli effetti diretti dell’aldosterone.
Un’altra interessante osservazione è l’elevata prevalenza nei pazienti con PA di cisti
renali con percentuali variabili tra il 23 e il 44% a seconda delle casistiche esaminate e
tende ad essere più frequenti nei pazienti con APA (189). Il loro sviluppo sembra essere
correlato con la gravità dell’ipokaliemia e dell’ipertensione e la loro progressione
sembra essere arrestata sia dalla terapia medica che chirurgica (190). Addirittura uno
studio dimostra che il numero di farmaci antiipertensivi necessari è maggiore ed i valori
pressori meno controllati dopo terapia nei pazienti con cisti renali, per cui in questo
lavoro la presenza di cisti sembrerebbe un marker di danno renale secondario e uno dei
possibili predittori della risposta al trattamento (190).
32
4.4 ALTRE COMORDITA’ E QUALITA’ DI VITA
Sleep apnea
Numerosi dati della letteratura suggeriscono la presenza di una correlazione tra
aldosterone e sindrome delle apnee ostruttive notturne (OSAS).
Diversi autori hanno dimostrato che l’aldosterone è positivamente correlato con la sleep
apnea nei pazienti con ipertensione arteriosa resistente (191,192). In un interessante
studio di intervento è stato dimostrato che l’impiego di antagonisti del MR è in grado di
ridurre la severità dell’OSAS (193). Viceversa l’utilizzo continuo di area a pressione
positiva come trattamento della sleep apnea è in grado di ridurre dopo 3 mesi i livelli di
aldosterone. Recentemente, un gruppo americano ha per la prima volta valutato in
un’ampia popolazione di diversa orgine etnica, la prevalenza della sleep apnea in
soggetti ipertesi con e senza ipealdosteronismo (194). Gli autori hanno rilevato una
prevalenza di OSAS doppia nei soggetti con iperaldosteronismo rispetto ai restanti
ipertesi con un odds ratio significativo anche dopo correzione per i noti fattori di rischio
di questa patologia.
Iperparatiroidismo
Un altro capitolo che sta destando sempre maggiore interesse è l’associazione
iperaldosteronismo e iperparatiroidismo.
Alcuni lavori hanno dimostrato che l’aldosterone è in grado di modificare l’omeostasi
minerale incrementando la perdita renale ed intestinaledi calcio e magnesio (195-198) e
questo a sua volta potrebbe stimolare la secrezione di paratormone (PTH), che oltre a
svolgere un ruolo fondamentale nel metabolismo del calcio e dell’osso, è ormai un ben
noto fattore di rischio cardiovascolare. In particolare studi sperimentali sui ratti (195196) hanno mostrato che l’eccesso di aldosterone si accompagna ad un
iperparatiroidismo secondario, reversibile con trattamento antagonista dei MR,
viceversa in colture cellulari adrenocorticali animali e umane, il PTH induce in maniera
dose dipendente un incremento della secrezione di cortisolo e aldosterone (199-201),
suggerendo quindi un reciproco rapporto di causa-effetto tra iperaldosteronismo e
iperparatiroidismo. Nell’ultimo periodo oltre a segnalazione di casi clinici sporadici,
sono sati effettuati anche studi clinici a riguardo. Dati provenienti dal GECOH Study
appena pubblicato dimostrano, seppure in un piccolo campione, che i livelli di PTH
risultano più elevati nei pazienti con PA rispetto agli ipertesi essenziali a parità di
33
concentrazione di vitamnia D e che il trattamento medico o chirurgico consente di
riportare tali livelli alla normalità (202). Stesso dato su una casistica più ampia è stato
rilevato dal gruppo di Rossi (203).
Depressione e alterazioni psicologiche
In letteratura sono riportati diversi casi di associazione tra iperaldosteronismo primario
e depressione (204-206). Inoltre Sonino e colleghi hanno recentemente pubblicato due
lavori in cui sono stati studiati due diversi piccoli gruppi di pazienti con PA di nuova
diagnosi ed entrambi hanno dimostrato che i pazienti con PA sono caratterizzati,
rispetto agli ipertesi essenziali e a controlli normotesi, da più elevati livelli di stress,
maggiore frequenza di disturbi d’ansia e depressione (207, 208). Anche a livello
sperimentale è stato dimostrato che la somministrazione cronica di aldosterone nel ratto
determina un effetto ansiogeno sul comportamento (209) e, viceversa che l’eplerenone,
bloccando in maniera selettiva il recettore dei mineralcorticoidi, ha un effetto ansiolitico
(210). I meccanismi patogenetici alla base di questa potenziale relazione sono ancora
ignoti e diverse sono le ipotesi formulate a riguardo. Alcuni autori hanno evidenziato
che l’aldosterone nel ratto è in grado di stimolare citokine pro infiammatorie a livello
centrale (211) come il TNF-α la cui somministrazione a livello sperimentale induce
sintomi depressivi. Sempre nel ratto, Hlavacova e colleghi hanno evidenziato che lo
stato anedonico indotto dalla terapia con aldosterone era determinato da un’alterata
espressione di geni coinvolti nell’infiammazione, nell’attività del glutamato e nel
rimodellamento sinaptico e neuronale (212). Altri suggeriscono che sia la ritenzione
idrosalina ad incrementare i livelli di ansia e irritabilità (213, 214), altri ancora
propongono l’ipokaliema e i suoi sintomi come causa dei disturbi psicologici (215).
Ulteriori studi sono però necessari sia per comprendere l’entità e le possibili
implicazioni cliniche di tali osservazione sia per chiarificarne i meccanismi.
Qualità della vita
Considerando che l’iperaldosteronismo primario è una patologia caratterizzata da
numerose complicanze, il gruppo australiano di Stowasser è andato a valutare la qualità
di vita in questi pazienti e l’effetto della terapia chirurgica e farmacologica (215, 216).
In entrambi i sottotipi di PA, gli indicatori di qualità di vita sono risultati statisticamente
ridotti rispetto alla popolazione generale, sia in termini di funzione fisica, che di
limitazione lavorativa legata a problemi di salute, percezione dello stato di salute e
34
vitalità. Nei pazienti con PA monolaterale, la surrenectomia dopo 3 mesi consentiva un
miglioramento fino alla normalizzazione di tali indici e un mantenimento degli stessi a 6
mesi. Nei pazienti con IHA la terapia medica con spironolattone e/o amiloride
determinava anch’essa un miglioramento ma solo dopo 6 mesi, non a tre mesi. Inoltre
confrontando i due gruppi dopo 3 mesi, negli IHA, gli indici di qualità di vita
risultavano essere più bassi in 5 diversi domini e anche dopo 6 mesi persisteva
maggiore limitazione lavorativa legata a problemi emotivi rispetto agli APA. Per cui è
possibile concludere che l’intevento chirurgico consente un miglioramento degli indici
di qualità di vita rispetto alla terapia farmacologica.
35
5. VALUTAZIONE DEL RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE
Non esistono studi in merito alla valutazione del rischio cardiovascolare nei pazienti
con PA. Pertanto pur essendo una sindrome complessa in cui l’ipertensione arteriosa
rappresenta soltanto uno degli aspetti clinici, la stratificazione del rischio più completa
che può essere applicata in questi pazienti e che prende in considerazioni danno
d’organo e comorbidità, è la stessa utilizzata in tutte le forme di ipertensione arteriosa.
Classificazione del grado di ipertensione arteriosa
Considerando i livelli di pressione arteriosa ambulatoriale, è possibile effettuare una
prima stratificazione dei pazienti con PA definendo il grado di ipertensione.
Le attuali linee guida sulla diagnosi e trattamento dell’ipertensione arteriosa pubblicate
dalla Società Europea di Ipertensione Arteriosa (ESH) e dalla Società Europea di
Cardiologia (ESC) nel 2007 (217) e il documento di aggiornamento delle stesse
pubblicato nel 2010 hanno confermato la classificazione dei livelli di pressione arteriosa
proposti per la prima volta nel 2003 (Tab.2).
Tab. 2 Definizione e classificazione dei livelli di pressione arteriosa in mmHg
36
Valutazione del rischio cardiovascolare
In passato, i valori pressori sono stati considerati il principale parametro per valutare la
necessità e il tipo di intervento terapeutico nei pazienti con ipertensione arteriosa.
Recentemente invece, una mole sempre maggiore di studi clinici e le stesse linee guida
hanno enfatizzato l’importanza di effettuare nel paziente iperteso una stratificazione del
rischio cardiovascolare globale alla diagnosi ma anche nel follow up per valutare in
maniera completa l’efficacia della terapia. Solo una piccola percentuale di soggetti con
ipertensione, sia essa essenziale che secondaria, presenta un incremento pressorio
isolato, nella maggior parte dei casi si associano altri fattori di rischio o comorbidità che
determinano un impatto sul profilo di rischio cardiovascolare globale di tipo
esponenziale e non puramente additivo (218-220). Analogamente, la presenza di danno
d’organo subclinico modifica la prognosi in maniera sostanziale. Alterazioni
asintomatiche del sistema cardiovascolare e renale rappresentano stadi intermedi
cruciali nel continuum che collega l’ipertensione e i vari fattori di rischio con gli eventi
cardiovascolari fatali e non. Pertanto la presenza di ipertrofia ventricolare sinistra
elettrocardiografica ed ecocardiografica, una placca o un ispessimento della parete
vascolare carotidea, un incremento della rigidità arteriosa, un ridotto filtrato
glomerulare, una microalbuminuria o proteinuria incrementano notevolmente il rischio
cardiovascolare globale. Risulta quindi di fondamentale importanza che tutti i pazienti
ipertesi vengano classificati non solo sulla base del grado di ipertensione arteriosa ma
anche valutando la presenza di altri fattori di rischio, di danno d’organo e di malattie
concomitanti, calcolando quindi il rischio globale del soggetto cioè il suo rischio
assoluto di complicanze cardiovascolari a 10 anni.
Numerose sono le tabelle o i modelli matematici proposti dalle diverse società
scientifiche per classificare il rischio globale, ciascuna caratterizzata da limiti e
vantaggi. Alcune delle stime si basano sullo studio Framingham (221) ma va ricordato
che tale data-base può essere applicato solo ad alcune popolazioni europee,
considerando l’eterogeneità degli eventi cardiovascolari nei diversi Paesi. Un’altra
importante classificazione è stata messa a punto nell’ambito del progetto SCORE (222)
nella quale la suddivisione dei Paesi Europei in due gruppi ad alto e basso rischio
consente la sua applicazione in diverse nazioni. Le Linee Guida ESH/ESC del 2007 e
37
l’aggiornamento del 2009 hanno mantenuto la classificazione in “rischio nella norma”,
aggiuntivo “basso”, “moderato”, “elevato” e “molto elevato” del 2003.
Tab. 3 Stratificazione del rischio cardiovascolare in categorie
Le principali variabili prese in considerazione (Tab.4) includono i tradizionali fattori di
rischio (demografici, antropometrici, familiarità per malattie cardiovascolari in giovane
età, livelli di pressione arteriosa, profilo lipidico e glucidico), la presenza di danno
d’organo subclinico o manifesto, il diabete mellito, la sindrome metabolica, la malattia
renale, cardiaca, la vasculopatia periferica e retinopatia avanzata.
Per la prima volta viene inserita la sindrome metabolica dato che tale condizione clinica
si caratterizza per la presenza di più fattori di rischio che amplificano in maniera
esponenziale il rischio cardiovascolare globale (223).
La ricerca del danno d’organo può essere effettuata tramite procedure relativamente
semplici ed economiche quali l’ECG, la misurazione della creatinina plasmatica, della
proteinuria e della microalbuminuria, la stima del filtrato glomerulare mediante il
calcolo della clearance della creatinina con la formula di Cockroft-Gault o MDRD,
l’indice pressorio caviglia/braccio, adatte quindi come esami di routine in tutta la
popolazione di ipertesi o attraverso procedure e apparecchiature più complesse
(ecocardiografia, ultrasonografia carotidea e velocità dell’onda di polso). Tra queste,
data la loro diffusione, la valutazione ecografica cardiaca e vascolare viene incoraggiata
38
in tutti i pazienti. L’incremento della velocità di polso invece, seppure riconosciuto
come indice precoce di alterata distensibilità delle grandi arterie, ha un impiego limitato
impiego nella pratica clinica.
Tab. 4 Fattori di rischio e valutazione del danno d’organo
39
6. TERAPIA DELL’IPERALDOSTERONISMO PRIMARIO
Dato che l’iperaldosteronismo primario oltre a determinare ipertensione arteriosa induce
una serie di complicanze che coinvolgono cuore, vasi, rene e metabolismo, il target
della terapia non deve essere unicamente il controllo dei valori pressori ma anche
ridurre o prevenire il danno d’organo. La terapia di scelta per i pazienti con APA è
rappresentata dall’intervento chirurgico che consiste nella rimozione della ghiandola
dove origina l’eccessiva produzione di aldosterone, per i pazienti con IHA è indicata
invece la terapia medica con antagonisti del MR che consente il blocco dell’azione
dell’aldosterone mediata dal suo recettore (21).
TERAPIA CHIRURGICA
La terapia di scelta nei pazienti con ipersecrezione monolaterale consiste
nell’asportazione chirurgica dell’intera ghiandola ipersecernente aldosterone per via
laparoscopica. Tale approccio introdotto da Gagner nel 1992 (224) è preferibile rispetto
all’intervento per via laparotomia perché richiede una più breve degenza ospedaliera e si
associa a minore insorgenza di complicanze a breve e lungo termine (225-226).
L’intervento consente in quasi il 100% dei casi un miglioramento dei valori pressori e
della concentrazione sierica di potassio (227-229) mentre una normalizzazione della
pressione arteriosa in assenza di terapia farmacologica si assiste solo in una percentuale
che varia dal 35 al 60% a seconda delle casistiche (230-232). La persistenza di
ipertensione potrebbe essere spiegata in diversi modi. E’ possibile data l’elevata
prevalenza di ipertensione essenziale nella popolazione generale che in alcuni pazienti
con PA coesista anche un’ipertensione primaria che resta dopo l’intervento. Potrebbe
essere stato commesso un errore nella fase diagnostica inviando alla chirurgia un
paziente con un nodulo surrenalico che invece presentava un’ipersecrezione bilaterale,
ipotesi non così remota se prima dell’indicazione chirurgica non si esegue un
cateterismo delle vene surrenaliche. Altra possibilità è che la lunga esposizione
all’eccesso di aldosterone abbia indotto danni a livelli dei diversi organi, in particolare
al sistema cardiovascolare e renale irreversibili. Diversi sono i fattori presi in
considerazione dai vari gruppi di studio come predittori di guarigione. Dalla letteratura
emerge che fattori prognostici favorevoli sono: assenza di familiarità per ipertensione,
età giovane, ridotta durata di malattia, utilizzo di un ridotto numero di farmaci, positiva
40
risposta allo spironolattone, buon controllo della pressione con la terapia farmacologica
prima dell’intervento, elevato rapporto aldosterone/attività reninica plasmatica, assenza
di rimodellamento vascolare, piccole dimensioni dell’adenoma e la contemporanea
presenza di più fattori quali sesso femminile, BMI <25 kg/m2, durata di ipertensione
inferiore a 6 anni e l’uso di due o meno farmaci antiipertensivi (227-230, 233-239).
Nella gestione postoperatoria dei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico le linee
guida dell’Endocrine Society (21) raccomandano la sospensione della terapia con
antialdosteronici e dei supplementi di potassio fin dal giorno successivo all’intervento e
una riduzione della terapia farmacologia antiipertensiva. E’ indicata inoltre una
rivalutazione a breve dei livelli di aldosterone e della PRA come indicatore precoce
della risposta biochimica.
TERAPIA MEDICA
Nei pazienti con IHA il trattamento è di tipo medico e prevede come prima scelta gli
antagonisti del recettore dei mineralocorticoidi (21). In Italia, i farmaci antialdosteronici
al momento disponibili sono lo spironolattone, il canrenoato di potassio e il canrenone
(rappresentati nella figura sottostente). Lo spironolattone per più di 4 decadi ha
rappresentato il farmaco di riferimento per il trattamento dell’iperaldosteronismo
primario. Fin dagli anni ’70 infatti diversi studi hanno dimostrato la sua efficacia
nell’abbassare i valori pressori sistolici e diastolici e nel ridurre l’impiego di altri
antiipertensivi (240-242). Lo spironolattone viene somministrato per os, a dosi variabili
dai 50 ai 400 mg/die, viene assorbito solo parzialmente (60-70%), metabolizzato a
livello epatico, si lega alle proteine plasmatiche ed ha una breve emivita ma il suo
metabolita attivo, il canrenone ha un’emivita molto più lunga che ne prolunga gli effetti.
Agisce come antagonista competitivo del MR ma non è selettivo per cui può indurre
una serie di effetti collaterali che sono dose dipendenti: ginecomastia, disfunzione
erettile e calo della libido nell’uomo data la sua affinità per il recettore degli androgeni,
irregolarità mestruali nelle donne per la sua attività agonista sul recettore del
progesterone. Non va poi dimenticato che ad elevati dosaggi può causare insufficienza
renale ed iperkaliemia (243). Il canrenone e il canrenoato, per la loro composizione
biochimica, hanno minori effetti collaterali legati al legame con il recettore degli ormoni
41
sessuali per cui sono da preferire, ma anche essi non sono completamente selettivi sul
MR.
Negli Stati Uniti da alcuni anni è in commercio l’eplerenone, un nuovo antagonista
selettivo dei MR. Tale farmaco è stato approvato per il trattamento dell’ipertensione
essenziale (244, 245) e per l’insufficienza cardiaca post infarto del miocardio (246).
L’eplerenone possiede circa il 60% della potenza di legame del MR dello spironolattone
ed ha una breve emivita per cui per ottimizzarne l’effetto andrebbe somministrato due
volte al giorno.
Riguardo al suo potenziale impiego nell’iperaldosteronismo primario, due soli studi
prospettici sono stati effettuati per confrontare in maniera diretta l’eplerenone e lo
spironolattone. Nel primo pubblicato nel 2008 (247), di durata di 24 settimane ed
eseguito in un piccolo gruppo di IHA (n=34), entrambi i farmaci sono risultati efficaci
nel ridurre i valori pressori, il rischio di iperkaliemia era simile ma significativamente
inferiore era la comparsa di ginecomastia con l’eplerenone. Nel secondo studio,
pubblicato nel 2011 (248), di durata pari a 16 settimane ed eseguito su 141 pazienti,
l’effetto antipertensivo appariva più marcato nei PA trattati con spironolattone, seppure
a discapito di una significativa maggiore insorgenza di effetti collaterali. In questo
ultimo lavoro però gli autori concludevano affermando che probabilmente la scelta del
dosaggio e/o della monosomministrazione giornaliera dell’eplerenone non era adeguata.
Per cui nei paesi in cui sono disponibili entrambi farmaci, è possibile iniziare la terapia
antialdosteronica o con basse dosi di spironolattone o con eplerenone ad alte dosi o in
doppia somministrazione.
Riguardo la terapia con antagonisti del MR, è inoltre interessante ricordare che sono
stati documentati diversi casi di remissione spontanea di iperaldosteronismo primario
idiopatico dopo anni di terapia sia in Italia (249, 250) che in Germania (251).
Farmaco di seconda scelta nella terapia del PA è l’amiloride, antagonista dei canali
epiteliali del sodio renali, che rappresentano i principali mediatori dell’azione sodioritentiva e potassiurica dell’aldosterone. L’amiloride quindi essendo un diuretico
risparmiatore di potassio oltre a controllare i valori pressori migliora anche la kaliemia
ma a differenza degli antagonisti MR non è in grado di prevenire i restanti effetti
deleteri dell’aldosterone (21).
42
In casi di mancato controllo della pressione arteriosa con i soli antialdosteronici è
possibile aggiungere alla terapia altri antiipertensivi, preferendo calcio-antagonisti,
ACE inibitori e antagonisti dell’AII anche se pochi e su piccoli numeri di pazienti sono
gli studi condotti a riguardo (21).
Fig. 10 Struttura chimica dei farmaci antagonisti del MR
Spironolactone
Canrenoato di Potassio
Eplerenone
O
O
KO
H
O
O
O
O
S C CH3
=
O
O
K+- Canrenoato
Spironolactone
O
Sulfur
K+ +
Canrenone
O
O
O
O
C-O=
O
Eplerenone
43
PARTE SPERIMENTALE
SCOPO DELLO STUDIO
L’iperaldosteronismo primario (PA) rappresenta la più comune forma di ipertensione
arteriosa secondaria, con una prevalenza di circa il 10% nella popolazione ipertesa (10).
Tale patologia si associa non solo ad elevati livelli di pressione arteriosa ed a potenziali
alterazioni dell’equilibrio idroelettrolitico, ma anche ad una serie di complicanze che
coinvolgono cuore, vasi, rene e metabolismo (1) e che determinano, dal punto di vista
clinico, una maggiore frequenza di eventi cardiovascolari (124, 127, 128) ed una
maggiore prevalenza di sindrome metabolica rispetto all’ipertensione essenziale (EH)
(138, 139). Di conseguenza l’obiettivo terapeutico nei pazienti con iperaldosteronismo
primario oltre a mirare al controllo dei valori pressori e al ripristino della
normokaliemia deve comprendere anche l’arresto e dove possibile la regressione del
danno d’organo. Studi clinici di follow up hanno infatti dimostrato che è possibile
ottenere un miglioramento o comunque una mancata progressione delle complicanze
cardiache, metaboliche e renali sia con la terapia chirurgica che con la terapia medica
(74, 125, 126, 184, 185). Non vi sono invece studi sull’effetto della terapia sul rischio
cardiovascolare globale in questi pazienti e i meccanismi patogenetici che sottendono la
relazione tra iperaldosteronismo e le complicanze cardio-metaboliche sono ancora poco
noti. Diversi autori hanno dimostrato una correlazione tra aldosterone e insulinoresistenza sia negli ipertesi essenziali (143, 144) che nei pazienti con PA (132-134), e
che, in questi ultimi, una terapia mirata (surrenectomia negli adenomi secernenti
aldosterone (APA) e antialdosteronico nelle forme idiopatiche di PA) consente un
miglioramento della sensibilità insulinica o un comunque una mancata progressione
delle alterazioni metaboliche (125, 137). A tale riguardo,
il tessuto adiposo, in
particolare quello viscerale, potrebbe avere un ruolo chiave dato che rappresenta uno dei
maggiori tessuti target dell’insulina e in qualità di organo endocrino secerne ormoni,
adipokine, citokine e fattori pro-trombotici coinvolti nell’infiammazione, nello stress
ossidativo, nel metabolismo glucidico e lipidico, nel bilancio energetico e nella funzione
vascolare. Studi in vitro su colture cellulari umane (promocytic U-937) hanno
dimostrato che la somministrazione di dosi fisiologiche di aldosterone può ridurre i
livelli del mRNA del recettore dell'insulina (IR), il legame e la risposta all’insulina
(148). Tale meccanismo risulta essere mediato da una down regulation dei recettori
44
mineralocorticoidi (MR), gli stessi autori infatti hanno evidenziato che lo spironolattone
è in grado di inibire gli effetti dell'aldosterone sull’azione dell'insulina. Inoltre, adipociti
ottenuti da tessuto adiposo sottocutaneo di pazienti con PA mostrano una riduzione del
numero del substrato del recettore dell’insulina del 34% e una riduzione dell'espressione
genica del IR del 54% (147). Inoltre, studi recenti suggeriscono la presenza di un vero e
proprio cross-talk tra tessuto adiposo e surrene in particolare mineralocorticoide
dipendente. Il tessuto adiposo sia bruno che bianco esprime il recettore dei
mineralocorticoidi ed in un recente studio è stato dimostrato che l’aldosterone è in grado
di agire come fattore di trascrizione pro-adipogenetico, promuovendo l’adipogenesi in
maniera dose e tempo dipendente mediante attivazione del MR (167). Altri studi
suggeriscono che l’effetto negativo dell’eccesso di aldosterone sul signaling insulinico
sia mediato da meccanismi infiammatori o che coinvolgono lo stress ossidativo (252254).
Scopo del nostro studio è stato quindi valutare:
il rischio cardiovascolare (CV) secondo le ultime Linee Guida ESH-ESC per il
trattamento dell’ipertensione arteriosa in un ampio campione di pazienti affetti
da iperaldosteronismo primario alla diagnosi e dopo terapia, confrontandolo con
un gruppo controllo di pazienti con ipertensione arteriosa essenziale di pari età,
sesso e durata di malattia.
possibili modificazioni dell’espressione di geni coinvolti nel metabolismo glicolipidico nel tessuto adiposo omentale di pazienti con APA sottoposti a
surrenectomia.
45
MATERIALI E METODI
Studio clinico
Lo studio clinico è stato effettuato in maniera prospettica su 234 pazienti ipertesi: 102
con PA (40 con APA e 62 con IHA) e 132 con EH di pari età, sesso e durata di malattia.
La diagnosi di iperaldosteronismo primario è stata posta secondo procedure standard
(39) e in accordo con le attuali linee guida (21). In breve, come test di screening
abbiamo utilizzato il rapporto attività reninica plasmatica/aldosterone, dopo adeguato
periodo di wash-out farmacologico, con cut-off di 40 e come test di conferma il carico
salino endovenoso, considerando diagnostici per PA valori di aldosterone alla quarta ora
superiori a 7 ng/dl (39). I pazienti con diagnosi confermata di PA sono stati sottoposti
ad una valutazione morfologica mediante TC o RMN addome ed un gruppo di essi
anche a cateterismo selettivo delle vene surrenaliche. La diagnosi di APA è stata poi
confermata in tutti i casi dopo surrenectomia mediante esame istologico.
Oltre alla valutazione ormonale ed elettrolitica sierica ed urinaria necessaria per la
diagnosi, in tutti i soggetti abbiamo valutato la presenza di eventuali fattori di rischio,
danno d’organo subclinico o conclamato e malattie concomitanti seguendo le
indicazioni delle Linee Guida ESH-ESC per il trattamento dell’ipertensione arteriosa
del 2007-2009 (217).
Come fattori di rischio abbiamo valutato:
Pressione arteriosa sistolica e diastolica (PAS e PAD)
Età (considerandola fattore di rischio se >55 anni nell’uomo e >65 anni nelle
donne)
Sesso
Abitudine al fumo
Familiarità per malattie cardiovascolari precoci (<55 anni nell’uomo, <65 anni
nella donna)
Colesterolo totale (fattore di rischio se >190 mg/dl)
Colesterolo LDL (fattore di rischio se 115 mg/dl)
Colesterolo HDL (fattore di rischio se <40 mg/dl nell’uomo e <46 mg/dl nelle
donne)
Trigliceridi (fattore di rischio se >150 mg/dl)
Glicemia a digiuno (fattore di rischio se compresa tra 102 e 125 mg/dl)
46
Glicemia da carico alterata (fattore di rischio se compresa tra 140 e 198 mg/dl)
Circonferenza addominale (fattore di rischio se >102 cm negli uomini e >88 cm
nelle donne)
Per studiare il danno d’organo abbiamo effettuato:
Ecocardiogramma con misurazione della massa ventricolare sinistra indicizzata
(LVMi), del setto interventricolare e della parete posteriore in diastole
considerando come danno
-
LVMi ≥125 g/m2 negli uomini
-
LVMi ≥110 g/m2 nelle donne
Doppler dei vasi epiaortici considerando danno d’organo la presenza di
ispessimento miointimale >0,9 mm o di placche ateroma siche (esame
strumentale effettuato in 70 pazienti con PA e in 60 pazienti con EH)
Creatinina plasmatica, considerandola danno d’organo subclinico se compresa
tra 1.3 e 1.5 mg/dl negli uomini e tra 1.2-1.4 mg/dl negli uomini
Clearance della creatinina, positiva se <60 ml/min
Microalbuminuria, positiva se tra 30 e 300 mg/24h o se il rapporto
albumina/creatinina ≥22 negli uomini e ≥31 mg/g creatinina nelle donne
Abbiamo poi valutato l’eventuale presenza di malattie concomitanti quali:
Sindrome metabolica definita secondo l’ATP III (18) dalla contemporanea
presenza di almeno 3 dei seguenti fattori: circonferenza vita > 102 cm
nell’uomo e > 88 cm nelle donne, Trigliceridi ≥ 150 mg/ dl, Colesterolo
HDL < 40 mg/dl negli uomini e < 50 mg/dl nelle donne, PA ≥ 130/ 85
mmHg, Glicemia ≥ 110 mg/ dl
Diabete mellito (glicemia a digiuno ≥126 mg/dl o glicemia dopo curva da
carico orale >198 mg/dl)
Malattie cardio- e cerebrovascolari: infarto del miocardio, angina,
rivascolarizzazione coronarica, scompenso cardiaco, ictus ischemico,
emorragia cerebrale, attacco ischemico transitorio (TIA)
Malattia renale: nefropatia diabetica, insufficienza renale (creatinina >1.5
mg/dl negli uomini e 1.4 mg/dl nelle donne), proteinuria >300 mg/24 ore
47
Vasculopatia periferica
Retinopatia avanzata (emorragie o essudati, papilledema).
Abbiamo classificato la pressione arteriosa in:
Ottimale se PAS <120 e PAD <80 mmHg
Normale se PAS 120-129 e/o PAD 80-84 mmHg
Normale alta se PAS 130-139 e/o PAD 85-89 mmHg
Ipertensione di Grado 1 se PAS 140-159 e/o PAD 90-99 mmHg
Ipertensione di Grado 2 se PAS 160-179 e/o PAD 100-109 mmHg
Ipertensione di Grado 3 se PAS ≥180 o PAD ≥110 mmHg
Ipertensione sistolica isolata se PAS ≥140 e PAD <90 mmHg
Abbiamo poi stratificato il rischio cardiovascolare in categorie: rischio aggiuntivo nella
media, basso, moderato, elevato e molto elevato seguendo la tabella fornita dalle Linee
Guida ESH-ESC 2007 riportata a pagina 2.
Ogni valutazione è stata effettuata alla diagnosi di iperaldosteronismo primario e al
follow up dopo terapia medica o chirurgica.
Analisi biochimiche e ormonali
Tutte le valutazioni biochimiche e ormonali sono state effettuate in un unico laboratorio
centrale. L’aldosterone sierico (range di riferimento in ortostatismo 4-31 ng/dl) è stato
misurato in RIA (Biodata Diagnostic, Roma, Italia). L’attività plasmatica reninica
(PRA) (valori di riferimento 1.5-5.7 ng/ml per h) è stata misurata come angiotensina I
prodotta in vitro utilizzando kit RIA (Radim, Roma, Italia). Le concentrazioni
plasmatiche di insulina (range di riferimento 0-27 mcU/ml) sono state misurate
mediante kit RIA (Medical System, Immunite DPC, Los Angeles CA, USA) e la
glicemia plasmatica è stata misurata mediante determinazione fotometrica. I livelli di
trigliceridi plasmatici, colesterolo HDL e di colesterolo totale sono stati misurati con
protocolli standard.
48
Analisi dell’espressione genica
Una prima analisi è stata effettuata mediante microarray per identificare geni ipo o
iper-espressi nei pazienti con iperaldosteronismo primario rispetto ai controlli. Tra
questi abbiamo selezionato geni implicati nel metabolismo glico-lipidico e nella
produzione di adipokine e citokine infiammatorie per poi effettuare un’analisi di tipo
quantitativo mediante Real-time PCR.
Analisi Microarray
L’RNA totale per lo studio microarray è stato estratto dal tessuto adiposo omentale di 3
pazienti con APA e da 4 controlli utilizzando TriReagent (Sigma UK), è stato trattato
con DNase I per rimuovere eventuali contaminazioni genomiche con DNA (DNase I,
Invitrogen, UK) e la qualità e quantità dei target di RNA ottenuti sono stati poi
processati
usando
Affymetrix
GeneChip
Instrument
System
(http://www.affymetrix.com/support/technical/manual/expression_manual.affx).
La
quantità di mRNA misurata mediante spettrofotometro OD260/280 (NanoDrop 1000,
Thermo Scientific, UK) e mediante elettroforesi su gel agarosio 1%.
Lo studio è stato effettuato utilizzando Affymetrix Human Genome HG-U133 Plus 2.0
array come descritto nel sito http:/www.affymetrix.com/products/arrays e rispettando lo
standard MIAME. L’RNA totale è stato utilizzato per preparare l’RNA biotinilato target
con
minime
modifiche
rispetto
alle
raccomandazioni
(http://www.affymetrix.com/support/technical/manual/
Brevemente, 10
del
produttore
expression-manual.affx).
µg di mRNA pool sono stati utilizzati per sintetizzare il primo
filamento di cDNA mediante T7-linked oligo(dT) primer (SuperScirpt Double Stranded
cDNA Synthesis Kit, Invitrogen, UK), poi dopo la sintesi del secondo filamento, è stata
effettuata la trascrizione in vitro mediante UTP e CTP biotinilato che ha consentito un
amplificazione dell’RNA di circa 100 volte.
Una
descrizione
completa
della
procedura
è
disponibile
all’indirizzo
http://bioinf.picr.man.ac.uk/mbcf/downloads/GeneChip_Target_Prep_Protocol_CRUK_
v_2.pdf. In seguito, 15 µg di cssRNA frammentato è stato ibridizzato e l’array è stato
poi lavato e trattato con streptavidina-ficoerithrina, prima di essere scannerizzato con
Affymetrix GeneChip scanner. La descrizione completa di queste procedure è
dosponibile
all’indirizzo
http://bioinf.picr.man.ac.uk/mbcf/downloads/GeneChip_Hyb_Wash_Scan_Protocol_v_
49
2_web.pdf. L’intensità di segnale 2.5 volte superiore al background è stata presa in
considerazione per l’analisi. I dati ottenuti sono stati poi normalizzati e analizzati
utilizzando
il
Gene
Expression
Pattern
Analysis
Suite
2.0
software
(http://gepas.bioinfo.cipf.es). Un totale di 54614 records nell’analisi di confronto sono
stati analizzati secondo i seguenti criteri: sono stati esclusi i geni senza un valore
controllo di riferimento, i geni senza differenza di espressione, i geni con un segnale
assoluto inferiore a 100, i geni con un “signal log ratio” (SLR) sotto a 1 per I (aumento)
o sopra -1.0 per D (riduzione) (il valore di cut off arbitrario è stato posto a 2) e i tags
delle sequenze di espressione (ESTs) e le ipotetiche proteine non sono stati analizzati.
Le procedure di filtro hanno prodotto un dataset per i PA verso i controlli. Utilizzando il
NetAffx Analysis Center (www.affymetrix.com), i geni sono stati analizzati sulla base
della loro funzione dividendoli come geni coinvolti nel metabolismo dei
glucocorticoidi, fattori di trascrizione, geni coinvolti nell’arresto di crescita, nella
modulazione della matrice extraxcellulare, geni adipocita-specifici, geni coinvolti nella
risposta immunitaria e nel metabolismo glucidico. Per le analisi, variazioni superiori a 2
volte sono state considerate significative.
Real-time PCR
L’RNA totale per gli esperimenti con Real-time PCR è stato estratto da 16 APA e 10
controlli utilizzando Trizol kit (Invitrogen,UK): 500 mg di tessuto adiposo sono stati
omogeneizzati con polytron in 1 ml di Trizol per ogni 50 mg di tessuto. L’RNA totale è
stato separato dalle proteine e dal DNA aggiungendo cloroformio e centrifugando a
12000 giri e poi precipitato con isopropanololo. La concentrazione di RNA è stata
misurata tramite esame spettrofotometrico con lettura a OD 260 dopo trattamento con
RNase-free DNase (Promega, USA) e la qualità valutata tramite corsa elettroforetica su
gel di agarosio all’1%.
Il protocollo seguito per la trascrittasi inversa (RT) è stato il seguente: 1 mcg di RNA
totale e 200 ng Random Examers (Applied Biosystems, Foster City, CA, USA) sono
stati inizialmente denaturati a 70 °C per 10 minuti. Dieci unità dell’enzima Multiscribe
Reverse Transcriptase, (Applied Biosystems, Foster City, CA, USA), 2.5 mM di
magnesio cloruro, 10 U RNase inhibitor e 0.25 mM di ciascun dNTP con 1 X reaction
buffer sono stati aggiunti all’RNA e ai primers in 20 mcl di volume finale. La reazione
RT è stata effettuata a 42 °C per 50 minuti e l’attività dell’esonucleasi è stata inattivata
a 95 °C per 5 minuti.
50
La Real-time PCR è stata utilizzata per ottenere una quantificazione dell’mRNA dei
seguenti geni: l’esokinasi 1 (HK1), l’IL-1R1, l’IL-6, la colesterolo-25-idrossilasi, la
lipoprotein lipasi, l’omentina (ITLN) e la visfatina (PBEF1). Questa reazione è stata
effettuata utilizzando il iQ5 Real Time PCR Detection System (BIO-RAD, ,vvv), che
impiega la chimica TaqMan per una quantificazione molto accurate dei livelli di
mRNA. Per ciascun campione sono stati utilizzati 1x TaqMan® Gene Expression
Master Mix (Applied Biosystems,vvv), 1x TaqMan® Gene Expression Assays, 2 µl di
cDNA e acqua fino ad ottenere un volume finale di 20 µl. Ogni campione è stato
analizzato in triplicato. Tutte le reazioni sono state eseguite per i geni in esame e per il
gene “housekeeping” (GAPD umano come controllo endogeno) nello stesso tempo.
Come sonda di controllo è stata usata la GAPDH preottimizzata (Applied Biosystems).
Sono stati individuati i valori soglia (Ct), quale misura della quantità di mRNA, e tali
valori sono stati poi utilizzati per l’analisi dei dati. I valori Ct sono stati ottenuti dalla
media dei valori per ogni campione di tessuto adiposo e normalizzati per i livelli di
DAPDH. Nell’analisi di confronto la formula 2−∆∆Ct è stata utilizzata per calcolare
l’espressione relativa . Il ∆Ct è uguale alla differenza tra il valori Ct del GAPDH e dei
singoli geni.
Fig.15 Rappresentazione schematica del funzionamento microarray
Analisi statistica
L’analisi statistica è stata effettuata mediante StatView v.4.1 software for Windows
(ABACUS concepts inc., Berkley, California). I dati sono espressi come media +
deviazione standard (SD). Le differenze statisticamente significative tra gruppi sono
51
state valutate mediante unpaired t test per i parametri con distribuzione normale. Il
Mann-Whitney test è stato utilizzato per le variabili che non mostravano una
distribuzione normale. La frequenza di distribuzione delle diverse variabili tra i due
gruppi è stata valutata mediante il test χ2. Le relazioni tra le diverse variabili sono state
esaminate mediante analisi di regressione lineare. Le differenze osservate con p<0.05
sono state considerate statisticamente significative.
L’analisi per il confronto dell’espressione genica tra pazienti e controlli è stata
effettuata mediante GeneChip Operating Software e NetAffix Analysis Centre
(Affimetrix) e sono state considerate significative variazioni di espressione genica
maggiore di due volte.
52
RISULTATI
La parte clinica dello studio è stato condotta su 234 pazienti ipertesi: 102 con PA (40
con APA e 62 con IHA) e 132 con EH, seguiti in maniera prospettica rispettivamente
per 3.7 ± 4.4 anni e per 3.9 ± 2.7 anni. Le principali caratteristiche cliniche dei pazienti
alla valutazione iniziale sono riportati nella tabella 1.
Tab.1 Caratteristiche cliniche dei pazienti con PA ed EH.
PA
EH
P
Sesso (M/F)
58/44
58/74
ns
Età (anni)
51 ± 12
53 ± 9
ns
Durata di malattia (anni)
8.3 ± 6.8
7.5 ± 6.9
ns
PAS (mmHg)
160 ± 20
150 ± 14
<0.001
PAD (mmHg)
101 ± 12
94 ± 7
<0.001
BMI kg/m2
26.8 ± 3.9
27.5 ± 3.3
ns
Circonferenza vita (cm)
92 ± 9
94 ± 11
ns
Glicemia (mg/dl)
104 ± 23
101 ± 27
ns
Colesterolo totale (mg/dl)
201 ±38
220 ± 36
<0.001
Colesterolo HDL (mg/dl)
45 ± 11
50 ± 13
0.002
Trigliceridi (mg/dl)
130 ± 89
129 ± 92
ns
Colesterolo LDL (mg/dl)
134 ± 33
148 ± 39
0.004
Creatinina (mg/dl)
1 ± 0.3
0.9 ± 0.2
0.005
Microalbuminuria
30 ± 44
13 ± 14
<0.001
Potassio (mEq/l)
3.7 ± 0.5
4.2 ± 0.3
<0.001
PAS: pressione arteriosa sistolica, PAD: pressione arteriosa diastolica, BMI: body
mass index, PA: primary aldosteronism, EH: essential hypertension
53
Come confermato dalla tabella, i due gruppi di pazienti erano confrontabili per età,
sesso e durata di malattia. I pazienti con PA presentavano livelli di pressione arteriosa
significativamente più elevati, livelli di mciroalbuminuria e creatinina più elevati e,
come atteso, valori di potassiemia più bassi.
Per quanto riguarda i valori pressori, i due gruppi presentavano una differente
distribuzione del grado di ipertensione arteriosa. I pazienti con PA mostravano una
maggiore prevalenza del grado 2 ed un’elevata percentuale di grado 3, gli ipertesi
essenziali una netta prevalenza del grado 1 (Fig.1).
Figura 1. Gradi di ipertensione arteriosa secondo la classificazione delle Linee
Guida ESH-ESC nei pazienti con PA ed EH alla diagnosi.
p<0.001, χ2=24.898
%
n=30
n=45
n=81
n=27
n=37
n=14
Ripetendo l’analisi dopo aver suddiviso i pazienti con PA nei due sottotipi APA e IHA,
la distribuzione del grading di ipertensione si confermava differente nei tre gruppi
(Figura 2). Mentre tra APA e IHA, non vi erano differenze statisticamente significative
nella distribuzione del grado di ipertensione arteriosa (p=0.78, χ2= 0.493).
54
Figura 2. Gradi di ipertensione arteriosa secondo la classificazione delle Linee
Guida ESH-ESC nei pazienti con APA, IHA ed EH alla diagnosi.
p<0.001, χ2=25.388
%
n=81
n=29
n=13
n=16
n=37
n=17
n=11
n=16
n=14
Prendendo poi in considerazione il grado di ipertensione arteriosa e l’associazione di
eventuali fattori di rischio e malattie concomitanti, come indicato dalle Linee Guida
ESH-ESC, è stato calcolato il rischio cardiovascolare globale.
Circa la metà dei pazienti di entrambe le popolazioni presentava un rischio
cardiovascolare elevato (50% nei PA e 55% negli EH), ma come rappresentato in
Figura 3, i pazienti con PA avevano un rischio cardiovascolare più elevato rispetto agli
EH. In particolare meno rappresentati risultavano il rischio basso e intermedio e la
percentuale dei pazienti con PA con rischio molto elevato era addirittura il doppio di
quella riscontrata negli EH (36 vs 17%, p<0.05).
Tra APA ed IHA, il rischio cardiovascolare invece tendeva ad essere più elevato negli
APA, senza però una differenza statisticamente significativa tra i due sottogruppi
(p=0.08, χ2=7.262) (Figura 4).
.
55
Figura 3. Rischio cardiovascolare globale nei pazienti con PA ed EH alla diagnosi.
p=0.005, χ2=13.666,
n=73
n=51
n=37
%
n=32
n=23
n=13
n=1 n=4
Figura 4. Rischio cardiovascolare negli APA, IHA e EH alla diagnosi.
p=n.s.
n=73
n=33
n=18
%
n=19
n=18
n=32
n=11
n=4
n=1
n=0
n=23
n=2
Nella figura 5 vengono riportati la prevalenza dei vari fattori di rischio e le malattie
associate. Alla diagnosi tutti i pazienti avevano come fattore di rischio l’ipertensione
arteriosa e la prevalenza di dislipidemia, obesità e diabete era sovrapponibile nei due
gruppi. Nei pazienti con PA vi era una percentuale statisticamente maggiore di pazienti
56
con iperglicemia, intesa come glicemia a digiuno o alterata glicemia dopo curva da
carico di glucosio (p=0.03, χ2=4.865), di pazienti con sindrome metabolica (p=0.04,
χ2=4.435) e di fumatori (p=0.03, χ2=8.622).
Gli ipertesi essenziali presentavano invece una maggiore prevalenza di familiarità per
malattie cardiovascolari precoci (p<0.001 χ2= 12.812).
Figura 5. Fattori di rischio e malattie associate nei PA ed EH alla
diagnosi
p=ns
p=ns
p<0.001
p=ns
p<0.05 p<0.05
p<0.05
%
p=ns
Per quanto riguarda il danno d’organo, come riportato in figura 6, i pazienti con PA
rispetto agli EH presentavano una più elevata frequenza di malattie cardiocerebrovascolari, di malattie renali e di alterazioni renali (lieve incremento della
creatinina plasmatica, riduzione del filtrato glomerulare e microalbuminuria), ma
l’unico dato statisticamente significativo era la maggiore prevalenza di ipertrofia
ventricolare sinistra (p=0.03, χ2=4.730). Sovrapponibili tra i due gruppi risultavano
invece le percentuali di ispessimento mio-intimale o di placche aterosclerotiche
carotidee e di vasculopatia periferica.
57
Figura 6. Danno d’organo subclinico e conclamato nei PA ed EH alla diagnosi.
p=ns
p<0.05
p=ns
%
p=ns
p=ns
p=ns
LVH: ipertrofia vetricolare sinistra, IMT: ispessimento mio-intimale carotideo, CVD: malattie cardio e
cerebrovascolari
Una volta posta diagnosi e completata la valutazione clinico-ormonale-strumentale, i
pazienti con adenoma secernente aldosterone sono stati sottoposti ad intervento
chirurgico di surrenectomia. In tutti casi l’esame istologico ha confermato la diagnosi
preoperatoria e si è assistito ad una normalizzazione dell’asse renina-angiotensinaaldosterone. Nei pazienti invece con iperaldosteronismo idiopatico è stata iniziata una
terapia medica mirata con antialdosteronici. I comuni farmaci antiipertensivi sono stati
utilizzati negli ipertesi essenziali e nei pazienti con PA dove necessario.
Ipolipemizzanti, ipoglicemizzanti orali e altre classi di farmaci sono stati impiegati nel
rispetto della buona pratica clinica in entrambe le popolazioni, indipendentemente dalla
diagnosi ed in percentuale sovrapponibile. Dopo un periodo di follow up medio di 3.7
anni per i pazienti con PA e di 3.9 anni per i pazienti con EH è stata effettuata una
rivalutazione di tutti i parametri clinici, dei fattori di rischio e del danno d’organo ed è
stato ricalcolato il rischio cardiovascolare globale.
Nella figura 7 è riportata la distribuzione del grading dei valori pressori dopo terapia nei
pazienti con PA ed EH e in figura 8 lo stesso parametro suddividendo però
l’iperaldosteronismo nei due sottogruppi. Come era atteso la media dei valori pressori e
58
il grado di ipertensione arteriosa si sono ridotti dopo terapia in maniera significativa
(p<0.001, χ2=16.837, nei PA, p<0.001, χ2=16.571 negli EH) anche se non in tutti i
soggetti è stato possibile ottenere una normalizzazione dei valori pressori (figura 9 e
10). I dati mostrano che, nonostante una terapia specifica nei pazienti con PA i valori
tendono a rimanere più elevati e seppure non vi è una differenza significativa nella
distribuzione del grading tra APA e IHA, i pazienti sottoposti a surrenectomia mostrano
valori pressori in media più bassi e una percentuale di normalizzazione sovrapponibile
agli EH.
Figura 7. Gradi di ipertensione arteriosa nei PA ed EH dopo terapia
n=63
p<0.001, χ2=19.237
n=56
n=42
n=30
n=27
%
n=8
n=2 n=3
Figura 8. Grado di ipertensione arteriosa negli APA, IHA ed EH dopo terapia
n=19
n=63
p=n.s.
n=56
n=23
n=19
n=11
n=18
n=9
%
n=8
n=1 n=1 n=3
59
Figura 9. Gradi di ipertensione prima e dopo terapia nei pazienti con PA.
p<0.001, χ2=16.837
%
Figura 10. Gradi di ipertensione prima e dopo terapia nei pazienti con EH.
p<0.001, χ2=16.571, DF=3
%
La stratificazione del rischio cardiovascolare dopo terapia, come riportato in figura 11
risultava sovrapponibile tra PA ed EH (p=0.132, χ2=6.251).
Analogamente non vi erano differenze statisticamente significative nella distribuzione
del rischio considerando i due sottotipi di iperaldosteronismo (p=0.169, χ2=6.440) .
60
Figura 11. Rischio cardiovascolare globale dopo terapia nei PA ed EH.
n=47
n=64
p=0.132, χ2=6.251
n=34
n=24
%
n=22
n=20
n=22
n=11
n=12
Figura 12. Rischio cardiovascolare globale dopo terapia negli APA, IHA ed EH.
n=29 n=64
n=18
n=15
n=9 n=22
%
n=22
p=0.169, χ2=6.440
n=34
n=22
n=8
n=22
n=5
n=12
n=12
n=6
In entrambe le popolazioni il rischio cardiovascolare si è complessivamente e
significativamente ridotto (figura 13 e 14).
61
Figura 13. Rischio cardiovascolare globale prima e dopo terapia nei PA.
p<0.001, χ2=16.837
%
Figura 14. Rischio cardiovascolare globale prima e dopo terapia negli EH.
p=0.001, χ2=16.571
%
Riduzioni significative dopo terapia sono state rilevate anche per i vari fattori di rischio
(figura 15 e 16) e questo ha reso sovrapponibili le due popolazioni PA ed EH, non sono
state infatti rilevate differenze tra i due gruppi, per quanto riguarda la prevalenza di
iperglicemia, sindrome metabolica e fumatori. La familiarità per CVD precoci è rimasta
maggiore negli EH, essendo questo un fattore di rischio immodificabile.
62
Figura 15. Fattori di rischio dopo terapia nei PA ed EH
*
* p<0.001
In merito al danno d’organo, l’unico dato significatimente differente tra PA ed EH dopo
terapia era la prevalenza di malattia renale, più elevata nei PA (p<0.001, χ2= 11.618).
Diversamente da quanto osservato al basale, la prevalenza di ipertrofia ventricolare
sinistra risultava invece sovrapponibile tra i due gruppi.
Figura 15 Danno d’organo subclinico e conclamato dopo terapia nei PA ed EH
*
* p<0.001
63
Confrontando i fattori di rischio prima e dopo terapia nell’ambito dello stesso gruppo
(tabella 2), abbiamo osservato che, nei pazienti con PA, la terapia consentiva una
riduzione significativa della prevalenza della sindrome metabolica (p<0.05, χ2= 4.089),
di ipertensione arteriosa (p<0.001, χ2=51.980) e dell’abitudine tabagica (p<0.05,
χ2=4.133) e una tendenza alla riduzione dell’iperglicemia che sfiorava la significatività
(p=0.054,
χ2=3.728).
Nei
pazienti
con
EH
invece
la
terapia
migliorava
significativamente la prevalenza di dislipidemia (p<0.05, χ2=4.912) e di ipertensione
arteriosa (p<0.001, χ2= 81.137)
Tabella 2. Fattori di rischio prima e dopo terapia nei pazienti con PA ed EH
Relativamente al danno d’organo, l’unico dato di prevalenza che la terapia ha consentito
di ridurre in maniera significativa era l’ipertrofia ventricolare sinistra sia nei pazienti
con PA (p<0.001, χ2= 7.103) che con EH (p<0.001, χ2=4.25)
Tabella 3. Danno d’organo subclinico e conclamato prima e dopo terapia nei
pazienti con PA ed EH
PA
EH
Prima
n (%)
Dopo
n (%)
p
Prima
n (%)
Dopo
n (%)
p
LVH
58 (57)
38 (37)
<0.001
55 (42)
38 (29)
<0.05
IMT
66 (65)
61 (60)
ns
85 (64)
78 (59)
ns
Alterazioni
renali
22 (22)
19 (19)
ns
16 (12)
16 (12)
ns
CVD
14 (14)
18 (18)
ns
11 (8)
12 (9)
ns
Malattie
renali
6 (6)
14 (14)
ns
2(2)
2 (2)
ns
Vasculopatia
7 (7)
7 (7)
ns
11 (8)
11 (8)
ns
64
ANALISI DELL’ESPRESSIONE GENICA NEL TESSUTO OMENTALE
Analisi Microarray
L’espressione di numerosi geni coinvolti nel signaling insulinico e nell’uptake del
glucosio, quali IRS-2, IGFBP 4 e 7, il gluco-transportatore GLUT3 e l’esokinasi 1 è
risultata essere ridotta nei pazienti con PA rispetto ai controlli (Tabella 4).
Analogamente, anche l’espressione di geni coinvolti nel metabolismo lipidico e nella
sintesi di alcune adipokine è risultata ridotta in questi soggetti, in particolare i geni che
codificano per la colesterolo25-idrossilasi, il PPARα, la CEBPβ, la lipoprotein lipasi, la
perilipina, la stearil coA denaturasi, l’adiponectina, l’omentina e la visfatina (Tabella 5).
Per quanto riguarda invece i geni coinvolti nell’infiammazione, abbiamo riscontrato una
ridotta espressione dell’IL-6 e del recettore dell’IL-1 tipo I e un’aumentata espressione
dell’IL-1 (Tabella 6).
Tabella 4. Espressione di geni coinvolti nel metabolismo gluco-lipidico
GENE
DECREMENTO (n
FUNZIONE
volte)
IRS2
2.8
Signaling insulinico
GLUT3
3.2
Trasporto del glucosio
Esochinasi 1
5.3
Metabolismo del glucosio
Lattato deidrogenasi
5.3
Gluconeogenesi/Glicolisi
Gliceraldeide 3-fosfato
2.0
Gluconeogenesi/Glicolisi
Lipoprotein lipasi
4.0
Metabolismo dei lipidi
Colesterolo 25 idrossilasi
16.0
Metabolismo dei lipidi
Apolipoproteina D
3.7
Espressa princip. nelle
deidrogenasi
HDL
Perilipina
3.5
65
Lipolisi in condiz.basali
Tabella 5. Espressione di geni che codificano per adipochine
GENE
DECREMENTO (n
FUNZIONE
volte)
Adiponectina
2.0
Sensibilità insulinica
Omentina
7.0
Sensibilità insulinica
Visfatina
7.5
Sensibilità insulinica
Tabella 6. Espressione dei geni che codificano per fattori infiammatori
GENE
n volte
IL-1
42.0
FUNZIONE
Pro-infiammazione
Incrementato
Recettore 1 IL-1
24.0 Ridotto
Pro-infiammazione
IL-6
16.0 Ridotto
Pro-infiammazione
66
Real time PCR
Le caratteristiche cliniche e biochimiche dei pazienti studiati sono riportate in tabella 6.
I pazienti con APA presentavano valori di pressione arteriosa significativamente più
elevati rispetto ai controlli, così come risultavano differenti i livelli di PRA, aldosterone
e potassiemia. Non vi erano invece differenze riguardo l’età, il BMI e il profilo glicolipidico.
Tabella 6. Parametri clinici e biochimici con APA e controlli
APA
Controlli
(n=16)
(n=10)
Sesso, M/F
11/5
5/5
ns
Età (anni)
53 ± 11
55 ± 9
ns
BMI, Kg/m2
28 ± 6
26 ± 4
ns
PAS, mmHg
164 ± 20
132 ± 7
p<0.001
PAD , mmHg
99 ± 7
87 ± 2
p<0.001
Glucosio, mg/dl
99 ± 23
95 ± 7
ns
180 ± 18
ns
Colesterolo HDL (mg/dl) 48 ± 10
52 ± 12
ns
Trigliceridi (mg/dl)
158 ± 104
104 ± 12
ns
Potassio sierico (mEq/l)
3.7 ± 0.5
4.2 ± 0.4
p<0.001
PRA (ng/ml/h)
0.6 ± 0.4
1.2 ± 0.6
p<0.005
Aldosterone (ng/dl)
57 ± 35
8.26.9
p<0.001
Colesterolo
(mg/dl)
totale 205 ± 41
P
I risultati di espressione genica ottenuti con Real time PCR sono riportati in Tabella 7.
67
Tabella 7. Real-time PCR: espressione genica nei pazienti con APA e nei controlli
In merito ai geni valutati non sono state osservate differenze significative di
espressione, eccetto che per l’interleuchina 6. Come rappresentato in figura 16,
l’espressione dell’mRNA di questa citochina è risultata essere 10 volte superiore nei
pazienti con APA rispetto ai controlli. Inoltre, solo 5 dei 16 campioni di adipe di
pazienti con APA mostravano livelli di espressioni nel range di normalità, definite come
la media dei controlli ± 2SD.
Figura 16. Espressione genica dell’Interleuchina 6
68
Figura 17. Espressione genica dell’Interleuchina IL-1R1
Figura 18. Espressione genica di HK-1
69
Figura 19. Espressione genica della visfatina
Figura 20. Espressione genica dell’omentina
70
Figura 21. Espressione genica della lipoprotein-lipasi
Figura 22. Espressione genica della colesterolo 25OH
71
Al fine poi di valutare possibili correlazioni tra l’espressione di singoli geni e
caratteristiche fenotipiche dei pazienti abbiamo utilizzato l’analisi di regressione.
Una relazione lineare, seppure non statisticamente significativa, è stata osservata tra
livelli di espressione genica dell’IL-6 e BMI e tra espressione genica dell’IL-6 e valori
di colesterolo totale negli APA (Figura 23).
Per quanto riguarda invece l’omentina, l’espressione genica di questa adipokina,
tendenzialmente inferiore negli APA rispetto ai controlli, è risultata correlata
direttamente ai livelli di colesterolo HDL (come rappresentato in Figura 24) e
inversamente al BMI.
Abbiamo invece rilevato una relazione lineare positiva tra l’espressione di visfatina e
colesterolo totale (Figura 25).
Figura 23. Correlazione tra espressione genica dell’IL-6 e colesterolemia totale
negli APA
72
Figura 24. Correlazione tra espressione genica dell’omentina e colesterolo HDL
negli APA
Figura 25. Correlazione tra espressione genica della visfatina e colesterolemia
totale negli APA
73
DISCUSSIONE
L’iperaldosteronismo primario è la forma più comune di ipertensione arteriosa
endocrina. Sebbene studi clinici abbiano ampiamente dimostrato che i pazienti con
iperaldosteronismo primario presentano una serie di complicanze cardiache, vascolari,
renali e metaboliche (1) ed un’elevata prevalenza di eventi cardiovascolari quali infarto
del miocardio, ictus e fibrillazione atriale (124, 127, 128), per la prima volta in questo
lavoro è stata valutata l’entità del rischio cardiovascolare globale e le sue modificazioni
dopo terapia.
Analizzando un ampia casistica (102 pazienti con PA e 132 con EH) abbiamo
evidenziato che i pazienti con PA presentavano un rischio cardiovascolare globale alla
diagnosi significativamente maggiore rispetto a quello rilevato negli ipertesi essenziali.
Solo una piccola percentuale di soggetti con PA aveva un rischio basso-intermedio, il
50% aveva un rischio elevato e il 36% un rischio molto elevato. Questo significa che
oltre un terzo dei pazienti presentava un rischio assoluto di eventi cardiovascolari a 10
anni di oltre il 30%. Anche gli ipertesi essenziali mostravano, nella maggior parte dei
casi, un rischio elevato ma la prevalenza di rischio molto elevato era nettamente
inferiore (17%).
Molteplici sono i fattori che hanno contribuito a questa differente stratificazione del
rischio. Uno di questi è il grading dell’ipertensione arteriosa. Nei pazienti con PA il
grado di ipertensione arteriosa più comune è risultato il grado 2, osservazione che
concorda con i dati presenti in letteratura (53) mentre negli ipertesi essenziali il grado
maggiormente rappresentato era il grado 1.
Tra gli altri fattori, sembrano avere un ruolo determinante sul rischio cardiovascolare
l’iperglicemia, intesa sia come iperglicemia a digiuno che come alterata risposta al
carico di glucosio, la sindrome metabolica e l’abitudine tabagica, la prevalenza infatti di
questi è risultata statisticamente maggiore nei pazienti con PA rispetto agli EH, mentre
la prevalenza di obesità, dislipidemia e diabete era simile nei due gruppi. Il rilievo di
un’associazione iperaldosteronismo primario e sindrome metabolica è in linea con i dati
della letteratura (138, 139), così come è stata descritta da più gruppi la presenza di
alterazioni glucidiche nei PA (125, 126, 137, 138, 157) mentre la maggiore prevalenza
di fumatori nei PA non era mai stata segnalata in precedenza.
Per quanto riguarda il danno d’organo, in accordo con numerosi studi della letteratura
(73-75, 125), abbiamo rilevato una prevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra
74
significativamente maggiore nei PA rispetto agli EH (57% vs 42%). Come già riportato
da altri autori (124, 127, 128) anche nella nostra casistica la frequenza di di malattie
cardio-cerebrovascolari, di malattie e alterazioni renali soprattutto in termini di
microalbuminuria, era maggiore nei PA ma il dato non raggiungeva la significatività
statistica. Sovrapponibili tra i due gruppi risultavano invece le percentuali di
ispessimento mio-intimale o di placche aterosclerotiche carotidee e di vasculopatia
periferica.
Abbiamo poi seguito in maniera prospettica le due popolazioni e rivalutato il rischio
cardiovascolare dopo terapia con un follow up medio di quasi quattro anni.
Gli APA hanno effettuato intervento chirurgico di surrenectomia che ha consentito la
rimozione della causa dell’eccesso di aldosterone con conseguente normalizzazione
della funzionalità surrenalica. Gli IHA hanno invece intrapreso una terapia medica
mirata al blocco del recettore dei mineralocorticoidi con l’obiettivo di contrastare gli
effetti dell’aldosterone. Gli ipertesi essenziali sono stati trattati con i comuni
antiipertensivi.
In tutti i soggetti si è assistito ad una riduzione significativa, come era atteso, dei valori
pressori: in entrambe le popolazioni è quasi scomparso il grado 3 di ipertensione e si è
ridotto significativamente il grado 2. I dati però mostrano che, nonostante una terapia
specifica, nei pazienti con PA i livelli pressori tendono a rimanere più elevati. La
normalizzazione completa dei valori si è ottenuta nel 42% dei PA e nel 48% degli EH,
senza quindi differenze significative. Il mancato raggiungimento del target pressorio in
un numero elevato di pazienti non deve affatto sorprendere, è infatti ben noto che
nell’ambito degli ipertesi in genere, solo una minima percentuale di soggetti è ben
controllata dalla terapia, soprattutto nei pazienti ad alto rischio (261) e anche
considerando l’iperaldosteronismo primario nello specifico, dati della letteratura
riportano tassi di “guarigione” medi tra il 35 e il 60% nei pazienti con APA operati
(241-243). Confrontando i due sottotipi di iperaldosteronismo, seppure non vi era una
differenza significativa nella distribuzione del grading tra i due, i pazienti sottoposti a
surrenectomia mostravano valori pressori in media più bassi e una percentuale di
normalizzazione sovrapponibile agli EH.
Anche il rischio cardiovascolare globale si è ridotto in maniera significativa dopo
terapia sia negli ipertesi da iperaldosteronismo che negli essenziali. In particolare in
75
entrambi i gruppi si è quasi dimezzata la percentuale di pazienti con rischio molto
elevato. Un altro dato interessante è che la terapia ha reso la stratificazione del rischio
sovrapponibile tra PA ed EH, nonostante i valori pressori siano rimasti più elevati nei
PA, e questo conferma l’importanza degli altri fattori di rischio e del danno d’organo.
Nei pazienti con PA al follow up si è ridotta in maniera significativa la prevalenza di
sindrome metabolica, di tabagismo e al limite della significatività anche l’iperglicemia
mentre negli ipertesi essenziali oltre alla pressione arteriosa migliorava soltanto
l’assetto lipidico. La possibilità di ridurre la prevalenza di sindrome metabolica è stata
descritta per la prima volta in questo studio, mentre il potenziale effetto benefico della
terapia sulle alterazioni del metabolismo glucidico è stato già ampiamente descritto in
precedenti lavori sia clinici che sperimentali (125, 132, 137, 140). Nel nostro gruppo di
pazienti con PA anche la percentuale di fumatori si è significativamente ridotta. Questo
può essere correlato ad una maggiore motivazione da parte del paziente, legata alla
percezione del soggetto stesso di avere una patologia ad alto rischio cardiovascolare.
Inoltre, data l’evidenza in alcuni studi che l’eccesso di aldosterone possa avere
ripercussioni anche sulla qualità di vita (215, 216) e sullo stato psicologico favorendo
ansia e depressione (207-210) e che la terapia possa migliorare tali aspetti, è possibilile
speculare che la terapia possa migliorare questi aspetti consentendo migliori condizioni
per smettere di fumare.
In entrambi i gruppi la terapia ha consentito anche una regressione del danno d’organo a
livello cardiaco, in termini di riduzione della massa ventricolare sinistra. Tale
miglioramento dopo terapia è stato più volte riportato in letteratura nei PA e sembra
essere indipendente dal raggiungimento del target pressorio (73-75, 125). Anche nei
nostri pazienti tale miglioramento non sembra essere determinato unicamente
dall’abbassamento dei valori pressori: al follow up la prevalenza dell’ipertrofia
ventricolare sinistra è risultata simile nei due gruppi, nonostante i pazienti con PA
mostrassero più elevati valori pressori. Questo suggerisce che sia l’eccesso di
aldosterone per sé, aldilà del rialzo pressorio, a causare il danno d’organo e che la sua
rimozione, mediante intervento di surrenectomia, o il suo blocco, mediante terapia
farmacologica, possa consentire una regressione del danno d’organo altrimenti non
raggiungibile con i comuni antiipertensivi.
76
Un dato apparentemente in contraddizione con il progressivo miglioramento clinico di
questi pazienti era l’aumentata prevalenza di malattia renale intesa come rialzo della
creatina sierica ≥ 1.5 mg/dl nell’uomo e ≥ 1.4 mg/dl nella donna, mentre le alterazioni
renali in particolare la microalbuminuria tendeva a ridursi. Una riduzione del filtrato
glomerulare dopo terapia è stata riscontrata anche in precedenti lavori di outcome renale
in pazienti con PA (183,185, 187), possiamo quindi ipotizzare che i nostri pazienti con
PA avessero alla diagnosi un’iperfiltrazione glomerulare indotta da alterazioni
emodinamiche secondarie all’eccesso di aldosterone e che questo mascherasse i veri
livelli di creatinina, per cui la terapia riducendo la clearance abbia determinato un lieve
ma significativo incremento dei valori di creatinina a livello sierico.
Non abbiamo invece evidenziato modificazioni significative riguardo la prevalenza di
ispessimento miointimale e la vascolopatia periferica, dato mai esplorato in questi
termini in letteratura. L’unica osservazione riportata da più gruppi sul danno vascolare è
che la terapia nell’iperaldosteronismo primario consente una riduzione dello spessore
miointimale in assoluto (107-109).
Il follow up è invece troppo breve per osservare variazioni significative in termini di
eventi cardiovascolari.
In questo studio abbiamo poi esaminato l’espressione a livello del tessuto adiposo
omentale in pazienti con APA e in un gruppo controllo di geni coinvolti nel
metabolismo glucidico, lipidico, nel signaling dell’insulina e nell’infiammazione al fine
di valutare un potenziale ruolo patogenetico del tessuto adiposo nello sviluppo della
sindrome cardiometabolica che caratterizza l’iperaldosteronismo primario. Il risultato
più interessante di questa ricerca è stato il riscontro di un’aumentata espressione
dell’interleuchina 6 nell’adipe di pazienti con APA.
E’ ormai ben noto che il tessuto adiposo, in presenza di condizioni predisponenti, è in
grado di secernere fattori pro-infiammatori e pro-trombotici e adipokine con effetto
metabolico negativo. La presenza di queste molecole spesso precede lo sviluppo di
insulino-resistenza per cui è possibile ipotizzare che questi fattori abbiano un ruolo
centrale nella sviluppo delle complicanze.
E’ stato dimostrato che il tessuto adiposo bianco umano produce circa il 25% dei livelli
circolanti dell’IL-6 in vivo (255). Va inoltre ricordato che il tessuto adiposo, in presenza
77
di obesità-sovappeso, subisce un’infiltrazione da parte dei macrofagi che contribuiscono
a loro volta alla cosiddetta meta-infiammazione (256), producendo altri fattori proinfiammatori.
Nel nostro studio inoltre, abbiamo riscontrato una correlazione positiva tra livelli di
espressione dell’IL-6 nel tessuto adiposo e il BMI. Questo risultato, seppure esistono
dati contrastanti in letteratura, è in linea con la maggior parte dei lavori che dimostrano
che i livelli di IL-6 sono correlati direttamente al BMI e inversamente alla sensibilità
insulinica (257-259). I meccanismi con cui L’IL-6 induce alterazioni metaboliche
sembrano essere molteplici. E’ stato infatti dimostrato che l’IL-6 è in grado di
determinare direttamente insulino-resistenza, alterando il signaling insulinico negli
adipociti e negli epatociti attraverso l’induzione delle proteine SOCS (suppressor of
cytokine signaling) 1 and 3 (260, 261). Come da tempo è noto che questa citokina
aumenta i livelli plasmatici degli acidi grassi liberi, stimola l’ossidazione degli acidi
grassi (262) e inibisce l’attività della lipoprotein-lipasi nel tessuto adiposo (263).
Nei campioni di adipe omentale dei nostri pazienti con APA, abbiamo anche osservato
una relazione diretta con il colesterolo totale, a conferma dei dati presenti in letteratura
di un link tra IL-6 e metabolismo lipidico e potenziale sviluppo di aterosclerosi (264,
265).
Riguardo invece gli altri geni studiati, non abbiamo riscontrato differenze
nell’espressione genica nell’adipe omentale degli APA e degli adenomi non
ipersecernenti. Utilizzando però, l’analisi di regressione abbiamo rilevato correlazioni
interessanti tra livelli di espressione di adipokine insulino-sensibilizzanti come
l’omentina e la visfatina, e profilo lipidico.
L’omentina è una proteina prodotta dal tessuto adiposo viscerale piuttosto che
dall’adipe sottocutaneo, ma non direttamente dagli adipociti, bensì dalle cellule
vascolari stromali. Numerosi lavori mostrano che l’espressione e i livelli di questa
adipokina sono correlati in maniera inversa all’obesità e ai vari fattori della sindrome
metabolica (266-268). Inoltre, esperimenti in vitro hanno evidenziato che la
somministrazione di omentina ricombinante aumenta l’uptake del glucosio mediato
dall’insulina negli adipociti umani sottocutanei ed omentali e che sia in presenza che in
assenza di insulina, attiva il signalling Akt (269-271). Nei nostri pazienti con APA i
livelli di espressione dell’omentina sono risultati lievemente inferiori rispetto ai
controlli e seppure in maniera non significativa, sono risultati correlati in maniera
78
diretta con il colesterolo HDL e inversa con il BMI, a conferma di un profilo metabolico
peggiore in questi pazienti.
Riguardo invece la visfatina, abbiamo rilevato livelli di espressione quasi doppi negli
APA rispetto ai controlli anche se la differenza non risultava statisticamente
significativa e l’analisi di regressione ha mostrato una relazione diretta con i valori di
colesterolemia totale. La visfatina è una proteina sintetizzata e secreta dal tessuto
adiposo viscerale strettamente associata all’obesità, alla sindrome metabolica,
all’infiammazione e all’aterosclerosi (272-274). La visfatina agisce infatti, sia livello
metabolico che pro-infiammatorio e pro-trombotico. Da un alto, mima l’azione
dell’insulina, presentando la stessa affinità dell’insulina al proprio recettore seppur
legandosi ad un diverso sito e stimola la differenziazione dell’adipocita (275).
Dall’altro, aumenta l’attività delle metalloproteinasi-9 della matrice nei monociti,
stimola la produzione del TNF-α and IL-8 nelle cellule mononucleari periferiche e
risulta particolarmente espressa nei macrofagi infarciti di lipidi delle placche
aterosclerotiche (276).
Possiamo quindi concludere che i pazienti con iperaldosteronismo primario presentano
alla diagnosi un rischio cardiovascolare globale più elevato rispetto agli ipertesi
essenziali e questo è determinato dalla presenza di più elevati valori pressori, da una
maggiore prevalenza di iperglicemia, sindrome metabolica, abitudine al fumo e di
ipertrofia ventricolare sinistra. Con una terapia mirata è possibile non solo migliorare il
controllo pressorio ma ridurre significativamente l’entità del rischio rendendolo
sovrapponibile a quello degli ipertesi essenziali, grazie ad un effetto benefico anche su
alcuni fattori di rischio e sul danno d’organo, quali la sindrome metabolica,
l’iperglicemia e l’ipertofia ventricolare sinistra.
I nostri dati inoltre suggeriscono che una maggiore espressione di IL-6 in pazienti con
PA possa contribuire, almeno in parte, alla patogenesi della sindrome cardiometabolica
che si osserva in questi pazienti.
79
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