E - Azione Cattolica Italiana
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23-11-2006 9:43 Pagina 1 Dialoghi Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia ANNO VI - DICEMBRE 2006 - Numero 4 “Dialoghi” – Rivista trimestrale – Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DRCB ROMA - ISSN 1593-5760 CoverAperta:Layout 1 D ialoghi ANNO VI DICEMBRE 2006 Numero 4 Euro 8,00 Luigi Alici Monica Amadini Piermarco Aroldi Paola Bignardi Chino Biscontin Franco Giulio Brambilla Luciano Caimi Giovanni Grandi Francesco Lambiasi Anna Peiretti Savino Pezzotta Mario Ravalico Stefano Ravalico Fabio Zavattaro Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia IIdiCOP4-06:II di COP 23-11-2006 8:33 Pagina 2 Dialoghi per un progetto culturale cristianamente ispirato Anno VI, n. 4 Rivista trimestrale promossa dall’Azione Cattolica Italiana in collaborazione con l’Istituto “Vittorio Bachelet” e con l’Istituto “Paolo VI” Direttore Luciano CAIMI Direttore responsabile Paola BIGNARDI Comitato di direzione Luigi ALICI, Piermarco AROLDI, Luciano CAIMI, Giacomo CANOBBIO, Giuseppe DALLA TORRE, Gian Candido DE MARTIN, Pina DE SIMONE, Roberto GATTI, Pier Giorgio GRASSI, mons. Francesco LAMBIASI, Francesco MALGERI, Francesco MIANO, Marco OLIVETTI, Matteo TRUFFELLI. Redazione Giovanni GRANDI (coordinatore), Gianni DI SANTO, Antonio MARTINO. Promozione Rosella GRANDE Comitato scientifico Pasquale ANDRIA, Renato BALDUZZI, mons. Giuseppe BETORI, Giandomenico BOFFI, Francesco BONINI, Mario BRUTTI, Paolo BUSTAFFA, Giorgio CAMPANINI, Francesco Paolo CASAVOLA, Lorenzo CASELLI, Carlo CIROTTO, Piero CODA, Francesco D’AGOSTINO, Attilio DANESE, Antonio DA RE, Cecilia DAU NOVELLI, Giulia Paola DI NICOLA, Franco GARELLI, Claudio GIULIODORI, Gildo MANICARDI, Ferruccio MARZANO, Paolo NEPI, Lorenzo ORNAGHI, Orazio Francesco PIAZZA, Antonio PIERETTI, Ernesto PREZIOSI, Paola RICCI SINDONI, Armando RIGOBELLO, Franco RIVA, Ignazio SANNA, Pierangelo SEQUERI, Angelo SERRA s.j., Marco VERGOTTINI, Carmelo VIGNA, Francesco VIOLA, Stefano ZAMAGNI, Sergio ZANINELLI. Editrice Fondazione Apostolicam Actuositatem Sede legale: Via Conciliazione 1 – 00193 Roma Uffici e redazione: Via Aurelia 481 – 00165 Roma Tel. 06/66.13.21 – Fax 06/66.20.207 E-mail: [email protected] [email protected] Progetto grafico e impaginazione Giuliano D’Orsi In copertina Giacomo Balla, Mercurio passa davanti al sole, 1914 Illustrazioni interne Foto Olycom Stampa So.gra.ro. – Roma Tiratura: 3.000 copie – Finito di stampare nel mese di novembre 2006 23-11-2006 8:49 Pagina 1 Editoriale Il cammino della Chiesa italiana dopo Verona Luciano Caimi 2 Primo Piano La lectio di Papa Ratzinger Fabio Zavattaro 8 SOMMARIO Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 Dossier: Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia Tracce di futuro per la Chiesa italiana 18 Forum con: Franco Giulio Brambilla, Paola Bignardi, Savino Pezzotta, Luigi Alici Comunicare il lieto annuncio 34 Piermarco Aroldi Il Concilio, bussola del nostro orientamento 42 Francesco Lambiasi Se la fede diventa dialogo tra le generazioni 50 Monica Amadini Le parole difficili della Rivelazione 58 Anna Peiretti La questione antropologica 64 Giovanni Grandi L’omelia tra Parola e preghiera 72 Chino Biscontin Come comunicare la speranza? 80 Mario Ravalico e Stefano Ravalico Eventi e Idee Energia, la sfida del Sole Vanni Lughi Il caso Telecom e il capitalismo italiano Giacomo Vaciago Guantanamo: il luogo del non diritto Roberto Cisotta Il Libro e i Libri Potere e rischi delle immagini del sacro Giacomo Canobbio Cattolicesimo a stelle e strisce Marco Olivetti Nuove sinfonie letterarie Ermanno Paccagnini Profili Gesualdo Nosengo Luciano Corradini dialoghi n. 4 dicembre 2006 86 90 94 98 102 106 109 1 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:49 Pagina 2 EDITORIALE EDITORIALE Il cammino della Chiesa italiana dopo Verona Luciano Caimi Si sono ormai spenti i riflettori sul IV Convegno ecclesiale di Verona. Per chi (come il sottoscritto) non c’era è pressoché impossibile rappresentare atmosfere, vissuti, umori profondi di quello che resta, prima di tutto, un evento di comunione, dove la preghiera, l’ascolto, il confronto, l’esercizio di discernimento hanno costituito trama costante dei giorni condivisi. Mi devo perciò limitare a quanto ho potuto raccogliere dalla stampa e dal resoconto di qualche partecipante. Forse non è molto, ma consente pur sempre di farsene un’idea. Le analisi, i messaggi, le sollecitazioni, gli auspici sono stati molti. Non so se tutti nella medesima direzione. Di sicuro, però, sono emerse, pur nella varietà degli accenti, alcune linee di forte convergenza. Intanto, la conferma (e come sarebbe potuto essere altrimenti?) di una fedeltà al modello di Chiesa tracciato dal Concilio. Una Chiesa come popolo, pellegrinante sulle strade del mondo, compagna nei cammini degli uomini e delle donne di questo tempo, consapevole di essere depositaria di un unico, ma straordinario tesoro: Gesù e il suo vangelo di speranza, da annunciare e testimoniare con coraggio sempre e ovunque. Verona ci ha consegnato un’immagine di comunità cristiana non ripiegata su se stessa, sui suoi problemi interni (che pure esistono e sono parecchi), ma aperta con slancio missionario agli interrogativi, alle ansie, alle fatiche, alle aspettative delle persone concrete (bambini e giovani, adulti e anziani, genitori e educatori, poveri e immigrati, studenti e lavoratori, ammalati ed emarginati). Tutto questo senza autocompiacimenti o retorica celebrativa. È un immenso campo d’azione quello dischiuso dal Convegno, dove i credenti, nella diversità di vocazioni e carismi, sono 2 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:49 Pagina 3 dialoghi n. 4 dicembre 2006 LUCIANO CAIMI chiamati a operare in spirito di corresponsabilità entro l’unica, ancorché articolata, missione evangelizzatrice. Nessuno può tirarsi fuori. Certo, in quest’ottica, al laicato, per la sua vocazionale “estroversione”, che dice riferimento quotidiano al “mondo” tramite le molteplici occupazioni feriali, spetta un ruolo particolare. Ho letto con gioia l’invito del card. Tettamanzi a rendere «autentica “prassi” ecclesiale» la «splendida “teoria” sul laicato espressa dal Concilio». Oggi la questione concerne non tanto (o non solo) il ruolo dei laici nella Chiesa, al centro di vivaci confronti sino a qualche tempo fa (anche se non darei per vinto del tutto una sorta di clericalismo di ritorno), quanto piuttosto il modo con cui tutte le vocazioni e i ministeri ecclesiali «costruiscono la comunità credente e diventano segno vivo del vangelo per il mondo» (F. G. Brambilla). L’idea di corresponsabilità è riecheggiata a più riprese nei lavori veronesi. Esprime la consapevolezza di dover essere, ciascuno con la specificità dei propri doni, parte attiva nell’edificazione della Chiesa e nello svolgimento della missione. Molto resta da compiere in questo senso. Devono crescere, a vari livelli, l’attitudine comunionale e partecipativa, il desiderio di porre la propria esperienza a servizio dell’intera comunità ecclesiale, superando esclusivismi autoreferenziali. Questi ultimi aspetti interpellano da vicino movimenti e associazioni laicali. Verona ha consentito di compiere un passo innanzi nel cammino di reciproca accoglienza, stima, collaborazione, riconoscendo la ricchezza dei doni dei quali ciascuno è portatore. Le differenze di sensibilità e di accenti in alcuni casi restano e non vanno misconosciute. Però, se si osserva la strada percorsa di recente, è da registrare con soddisfazione la ricerca di un dialogo aperto. Dobbiamo allora auspicarne lo sviluppo, persuasi della sempre più forte rilevanza delle esperienze aggregative per la stessa missione evangelizzatrice. Poco comprenderemmo però dell’evento veronese, se non tenessimo presente che esso, raccogliendosi intorno al binomio speranza-testimonianza, è stato occasione di riflessione a tutto campo sui nodi cruciali dell’esperienza di fede e sulle modalità della sua comunicazione in un tempo, il nostro, né migliore né peggiore di altre epoche storiche, ma solo diverso per una serie di ben noti fattori socio-culturali, economici, scientifici. Lo sguardo, legittimamente preoccupato su alcuni problemi e tendenze del presente (“disagio” del soggetto, crisi dei rapporti familiari, neo-scientismo, forme vecchie e nuove di povertà, fenomeni migratori, frammentazione socio-politica, illegalità ecc.), non ha impedito di cogliere i molteplici fermenti di bene e di generosità diffusi nel tessuto sociale, ad alimentare i quali concorrono in modo significativo i credenti. Se già questa rilevazione induce a considerare l’epoca attuale con sguardo meno cupo e rassegnato di quanto non appaia da molte analisi correnti, va però detto che 3 23-11-2006 8:49 Pagina 4 EDITORIALE Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 le ragioni di fondo dell’“ottimismo” cristiano riposano sulla certezza dell’amore di Dio per il mondo. A Verona, tale consapevolezza è emersa con forza e lucidità, incominciando dalle parole di Benedetto XVI relative al «grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza». Ecco, dal continuo “fare memoria”, personale e comunitario, di questa verità deve prendere slancio la presenza testimoniale dei cristiani nella società italiana di oggi. Senza nulla togliere al ruolo importante delle altre 4 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:49 Pagina 5 dialoghi n. 4 dicembre 2006 LUCIANO CAIMI vocazioni (religiose e sacerdotali), è però indubitabile che l’attenzione del Convegno ha finito per posarsi in forma privilegiata sui laici. Quale profilo debba contraddistinguerli perché possano essere, lì dove la vita quotidiana li chiama a operare, testimoni di speranza è stato detto in modo ampio e articolato. A tale proposito, prima di ogni altra considerazione, va posto in evidenza il rapporto “decisivo” con Cristo (Benedetto XVI). Il rischio è, talvolta, di darlo troppo per scontato, perdendo così di vista l’esigenza insopprimibile della meditazione della Parola, della preghiera, del silenzio, della comunicazione nella fede. Occorrono laici cristiani vivi, dinamici, ma oranti, disposti «ad abbandonarsi all’azione dello Spirito e a spendere il talento di un’intelligenza spirituale creativa» (P. Bignardi); uomini e donne appassionati della vita, dediti, nelle forme più diverse, alla cura del fratello e però consapevoli della “paradossalità” della vocazione cristiana, la quale, pur sollecitandoci a essere cittadini responsabili verso la città terrena, c’induce, nondimeno, a considerarci sempre “stranieri” sulla terra, perché in cammino verso la patria celeste. Naturalmente, sulla presenza socio-politica dei cattolici, il Convegno, nei suoi vari momenti, non poteva essere silente. Vi è stata una conferma di linee ormai consolidate. Intanto, il richiamo alla dottrina conciliare dell’«animazione cristiana delle realtà sociali», come compito proprio dei laici, da svolgere «con autonoma iniziativa e responsabilità», ma «nella fedeltà all’insegnamento della Chiesa» (card. Ruini). Restano tuttavia determinanti le modalità e gli stili capaci di testimoniare la speranza cristiana nei complessi contesti della vita pubblica. Più che retorici richiami ai valori – è stato detto in vari interventi –, occorrono comportamenti all’insegna della trasparenza, della lealtà, del rispetto, della solidarietà, della giustizia. Circa l’àmbito politico, lungi dall’attardarsi in nostalgie per il passato, si è, ancora una volta, realisticamente preso atto del sistema bipolare in vigore. L’auspicio, espresso con forza e in diversi modi, è che gli operatori cattolici del settore, nonostante le differenti sensibilità e collocazioni, si impegnino senza equivoci a favore del bene comune, non degli interessi di parte, con un’attenzione viva per le questioni “eticamente sensibili”, cariche di rilevanti ricadute sulla vita delle singole persone, delle famiglie e dell’intera società. Nel complesso quadro di temi, problemi, discussioni e confronti veronesi, la parola del Papa è risuonata con singolare incisività, proponendo linee d’interpretazione teologico-culturale e prospettive di azione pastorale meritevoli di meditati approfondimenti. Mi limito a segnalare due punti: il richiamo a una «fede amica dell’intelligenza», che deve indurre a proseguire nel lavoro di “argomentazione” delle ragioni del credere, sottraendo, pertanto, l’esperienza cristiana al rischio dell’“afasia” dinanzi agli incalzanti interrogativi dell’odierna socio-cultura; l’appello a «una prassi 5 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 6 EDITORIALE di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti», come documentano le pagine più belle delle comunità ecclesiali lungo i secoli. Sono, entrambi, inviti sui quali le Chiese e le varie espressioni del mondo cattolico in Italia devono sentirsi sollecitate a riflettere e a individuare idonee linee d’intervento. Passa anche da lì la possibilità di essere testimoni efficaci di speranza. Con un’ulteriore, importante precisazione, insistentemente riecheggiata durante il Convegno: quella di porre al centro della cura pastorale la formazione di coscienze credenti “adulte”, capaci, quindi, di legare, nell’unità della persona, libertà e responsabilità, dedizione ecclesiale e passione per il mondo. L’incontro di Verona ha offerto importanti spunti di riflessione e dato prova di dialoghi sinceri fra credenti. Si tratta di far fruttificare un’esperienza così significativa, concorrendo all’edificazione di una Chiesa più fedele al soffio dello Spirito e capace di riaccogliere oggi lo slancio innovatore del Concilio. **** In questo numero il Primo Piano, proposto da Fabio Zavattaro, offre una chiave di lettura dei recenti interventi di Benedetto XVI con particolare attenzione al fermento del mondo islamico. Il Dossier, interamente dedicato al IV Convegno ecclesiale nazionale, si apre con un forum in cui don Franco Giulio Brambilla, Paola Bignardi, Savino Pezzotta e Luigi Alici riflettono sull’esperienza dell’incontro veronese e sulle prospettive che si profilano. Piermarco Aroldi analizza il rapporto tra il comunicare ed il testimoniare, focalizzando alcuni snodi cruciali nella trasmissione della fede. Mons. Francesco Lambiasi fa il punto sul cammino della Chiesa italiana suggerendo alcuni appuntamenti per l’agenda pastorale di questa seconda metà del decennio in corso. Monica Amadini, Anna Peiretti e Giovanni Grandi analizzano alcuni luoghi in cui la testimonianza cristiana va declinata con urgenza e con particolare cura, rispettivamente nei rapporti intergenerazionali, nella trasmissione delle parole difficili della Rivelazione – specie ai più piccoli – e nella comprensione della portata della questione antropologica. Don Chino Biscontin riprende il tema della trasmissione della fede portando l’attenzione sull’omiletica, infine Mario e Stefano Ravalico offrono una testimonianza sulle condizioni, sulle difficoltà e sui modi del comunicare la speranza in contesti interculturali ed interreligiosi. Eventi e Idee si apre con un intervento di Vanni Lughi sul problema 6 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 7 dialoghi n. 4 dicembre 2006 LUCIANO CAIMI energetico e sulle attuali prospettive tecnologiche, Giacomo Vaciago offre un’analisi ed una riflessione sul caso Telecom e Roberto Cisotta, ricordando la situazione di Guantanamo, sollecita ad una costante attenzione alle violazioni dei diritti umani, specie da parte della grandi democrazie. La sezione Il libro e i libri si apre con la segnalazione, da parte di don Giacomo Canobbio, di un importante lavoro francese dedicato alla raffigurazione del sacro nelle grandi religioni: è l’occasione per riflettere sul rapporto tra libertà di espressione e rispetto delle sensibilità, specie religiose; anche Marco Olivetti segnala un lavoro di saggistica straniera, questa volta dedicato alla storia ed all’evoluzione del cattolicesimo americano; infine Ermanno Paccagnini offre una esplorazione sulle attuali tendenze della produzione letterarie. Il Profilo di questo numero, firmato da Luciano Corradini, è dedicato alla figura di Gesualdo Nosengo. 7 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 8 PRIMO PIANO PRIMO PIANO In questo primo scorcio di pontificato, il magistero di Benedetto XVI si è molto soffermato sull’analisi del rapporto tra “fides” e “ratio”, chiarendone natura e limiti, debolezze ed equivoci. La ragione, privata dell’apporto della Rivelazione, rischia di percorrere sentieri laterali perdendo di vista la propria meta finale. La fede, privata della ragione, sottolineando il sentimento e l’esperienza, corre il rischio di non essere più una proposta universale. La lectio di Papa Ratzinger F Fabio Zavattaro orse è sfuggito ai più; forse è passato inosservato. Ma a metà ottobre un testo di cinque pagine, a firma di trentotto capi spirituali e teologi islamici, sunniti e sciiti, viene diffuso dalla rivista americana Islamica Magazine: è la prima, articolata risposta alle parole di Papa Benedetto XVI a Regensburg, e ai successivi interventi per spiegare, per ribadire il «profondo rispetto per tutti i musulmani». È, quel testo, una risposta positiva che non solo accoglie il rammarico espresso dal Papa, ma ne sottolinea aperture e positività, come «i suoi sforzi (di Papa Benedetto, ndr) per opporsi al predominio di positivismo e materialismo nella vita dell’uomo» e il suo desiderio «per un franco e sincero dialogo, di cui si deve riconoscere l’importanza sempre più crescente nel nostro mondo». Cristianesimo ed Islam, affermano ancora i firmatari, «contano fra i loro fedeli oltre la metà dell’umanità e, in un mondo sempre più globalizzato, sono responsabili della pace». Per questo «devono spostare il confronto dalle strade e le piazze verso un dialogo sincero di cuori e menti» per accrescere la comprensione e il rispetto reciproci. Questo documento ci permette di avviare due riflessioni sulle parole pronunciate dal Papa in quella lezione all’università, il 12 settembre scorso. La prima su come è stata recepita la lezione, complice anche una non corretta comunicazione; la seconda, legata al tema che predomina in quel discorso rivolto più all’Occidente che all’Oriente: il dialogo fede e ragione. Cominciamo dalle proteste, dalle reazioni del mondo arabo 8 Fabio Zavattaro è vaticanista e inviato del Tg1. Ha di recente pubblicato I Santi e Karol, Àncora, Milano 2004 e realizzato i Dvd Giovanni Paolo II, un papa nella storia e Benedictus (edizioni Rai Trade 2005). dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 9 dialoghi n. 4 dicembre 2006 FABIO ZAVATTARO e islamico alle parole del Papa. Tutte avviate a seguito della lettura, sui media e le agenzie in primo luogo occidentali, di un contenuto parziale di quella lezione accademica, che puntava quasi esclusivamente a mettere in evidenza la questione Islam. Quasi nessuno aveva letto per intero il discorso di Benedetto XVI, quasi nessuno aveva avuto modo di approfondirne il contenuto visto che non vi era una traduzione in qualche lingua orientale. Però bisognava reagire a quelle parole che venivano inserite in un contesto di politica internazionale, di confronto fra Occidente e Islam: il conflitto di civiltà, insomma. Tutto l’opposto di quanto Papa Wojtyla, soprattutto, ma anche Benedetto XVI hanno sempre cercato e perseguito. Del discorso di Regensburg, la frase più citata è la domanda dell’imperatore d’Oriente Manuele II Paleologo al persiano colto, anno 1391; domanda posta «in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile» si legge nel discorso del Papa, pubblicato nel sito internet del Vaticano con tanto di note esplicative; domanda «centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere». La domanda: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava». Il Papa non si ferma qui. In un’altra nota alla sua lezione si legge: «Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell’imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione». Ecco il punto contestato. Eppure Benedetto XVI aveva citato, in precedenza, la Sura 2 che al versetto 257 dice: «Nessuna costrizione nelle cose di fede». E i trentotto leader religiosi islamici convengono sulle conversioni forzate. Scrivono: «Se è vero che una parte dei nostri fedeli è figlio delle conquiste, la maggior parte si è unita a noi grazie alla preghiera e all’attività missionaria […]. Se la storia insegna che alcuni musulmani hanno violato il credo islamico riguardo le conversioni forzate e il modo in cui vanno trattate le altre comunità religiose, la stessa storia ci dimostra che sono state eccezioni». Ancora. Subito dopo la domanda brusca, nel discorso del Papa si legge: «L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. Dio non si compiace del sangue – egli dice –, non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. La fede è frut- 9 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 10 to dell’anima, non del corpo». La violenza dunque è cosa irragionevole che contrasta con la natura di Dio: è questa la frase che ha colpito Papa Benedetto, tanto che la pronuncia cinque volte nel suo discorso. Chi fa violenza, cristiano o musulmano, non è un credente, va contro la ragione e contro Dio. LA LECTIO DI PAPA RATZINGER Fede e ragione «Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni». La lezione di Regensburg aveva proprio questo titolo; ed è la chiave giusta per capire il Pontificato di Papa Ratzinger, così come si è sviluppato dal giorno della sua elezione fino ad oggi. Fede e ragione. Una ragione svuotata però da tutto ciò che è spirituale: è questa la critica che il Papa fa all’Occidente; la stessa che viene dal mondo musulmano. Un Occidente secolarizzato che ha emarginato Dio. Per Benedetto XVI escludere Dio non è illuminismo, ma falso illuminismo. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido, viene riconosciuto senza riserve: «L’ethos della scientificità, del resto, è […] volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa». Fede e ragione unite in modo nuovo per il Papa, superando la limitazione della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dando nuovamente alla teologia, intesa non solo come disciplina storica e umanoscientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze. «Solo così», afferma Papa Benedetto, «diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni, un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture». L’Occidente, da molto tempo, «è minacciato», afferma ancora Papa Benedetto, «da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza, è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio, ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a 10 dialoghi n. 4 dicembre 2006 23-11-2006 8:50 Pagina 11 FABIO ZAVATTARO Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell’università». Agire contro la ragione, dunque, è in contraddizione con la natura di Dio. Affermando questo, il Papa offre un criterio fondamentale per mettere in guardia l’esperienza religiosa dal rischio di una deriva ideologica, e questo vale per tutte le fedi, cristiana, musulmana o altro ancora. E vale per tutti gli uomini, nessuno escluso. È ancora Papa Benedetto che il 2 settembre, in un messaggio per i venti anni dell’Incontro di preghiera di Assisi per la pace, scrive: le guerre di religione «non possono attribuirsi alla religione in quanto tale, ma ai limiti culturali con cui essa viene vissuta e si sviluppa nel tempo». C’è, dunque, un primato del logos perché la fede, per Papa Ratzinger, è una stabilità e un comprendere al tempo stesso, come si legge nella Introduzione al cristianesimo. La fede è un piantarsi sul terreno della parola di Dio, l’inizio di una comprensione della realtà in cui dialoghi n. 4 dicembre 2006 11 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 12 LA LECTIO DI PAPA RATZINGER a ciò che è visibile viene preferito ciò che è invisibile. Dio come luce che è nello stesso tempo «amor che move il sole e le altre stelle» come dice nella Deus caritas est, citando il Paradiso di Dante. Una visione che mostra «la continuità tra la fede cristiana in Dio e la ricerca sviluppata dalla ragione e dal mondo delle religioni». «Al contempo», spiega Papa Benedetto XVI in un discorso al Pontificio Consiglio Cor Unum, il 23 gennaio scorso, «però, appare anche la novità che supera ogni ricerca umana, la novità che solo Dio poteva rivelarci: la novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto umano, anzi ad assumere carne e sangue, l’intero essere umano […]. La fede non è una teoria che si può far propria o anche accantonare. È una cosa molto concreta: è il criterio che decide del nostro stile di vita. In un’epoca nella quale l’ostilità e l’avidità sono diventate superpotenze, un’epoca nella quale assistiamo all’abuso della religione fino all’apoteosi dell’odio, la sola razionalità neutra non è in grado di proteggerci. Abbiamo bisogno del Dio vivente, che ci ha amati fino alla morte». La fede che deve continuamente rapportarsi alla ragione purificandola dai suoi eccessi. Così a Verona al IV Convegno Ecclesiale, il 19 ottobre scorso, parla di un universo dove esiste una corrispondenza profonda «tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettiva della natura», un logos creatore che capovolge «la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme». La persona umana, dice ancora il Papa, non è soltanto ragione e intelligenza; «si interroga e spesso si smarrisce di fronte alle durezze della vita, al male che esiste nel mondo e che appare tanto forte e, al contempo, radicalmente privo di senso». Proprio per questo, afferma ancora il Papa, «dobbiamo essere sempre pronti a dare risposta (apo-logia) a chiunque ci domandi ragione (logos) della nostra speranza». Proprio per questo c’è bisogno di «risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà». Il volo di Icaro No dunque – afferma Papa Benedetto parlando a professori e studenti dell’Università Lateranense, la sua università come sottolinea al suo arri- 12 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 13 dialoghi n. 4 dicembre 2006 FABIO ZAVATTARO vo, lo scorso 21 ottobre – alla riduzione della ragione soltanto a ciò che è calcolabile e manipolabile. «Il contesto contemporaneo sembra dare il primato a un’intelligenza artificiale che diventa sempre più succube della tecnica sperimentale e dimentica in questo modo che ogni scienza deve pur sempre salvaguardare l’uomo e promuovere la sua tensione verso il bene autentico. Sopravvalutare il “fare” oscurando l’“essere” non aiuta a ricomporre l’equilibrio fondamentale di cui ognuno ha bisogno per dare alla propria esistenza un solido fondamento e una valida finalità». E usa un’immagine, il Papa, quella di Icaro, il sogno del volo. Preso dal gusto di volare verso la libertà, ricorda Benedetto XVI, Icaro dimentica le sue ali di cera, ed è incurante ai richiami del vecchio padre Dedalo: «La caduta rovinosa e la morte sono lo scotto che egli paga a questa sua illusione. La favola antica ha una sua lezione di valore perenne. Nella vita vi sono altre illusioni a cui non ci si può affidare, senza rischiare conseguenze disastrose per la propria ed altrui esistenza». Ancora la ragione che deve guidare i passi dell’uomo; e il docente che, per Papa Benedetto, ha il compito «non solo di indagare la verità e di suscitarne perenne stupore, ma anche di promuoverne la conoscenza in ogni sfaccettatura e di difenderla da interpretazioni riduttive e distorte. Porre al centro il tema della verità non è un atto meramente speculativo, ristretto a una piccola cerchia di pensatori; al contrario, è una questione vitale per dare profonda identità alla vita personale e suscitare la responsabilità nelle relazioni sociali». C’è un passaggio della Fides et ratio di Papa Wojtyla (al numero 29) che ci aiuta nel nostro ragionamento. Ed è anche qui un’immagine che guida la riflessione: «L’uomo non inizierebbe a cercare ciò che ignorasse del tutto o stimasse assolutamente irraggiungibile. Solo la prospettiva di poter arrivare ad una risposta può indurlo a muovere il primo passo. Di fatto, proprio questo è ciò che normalmente accade nella ricerca scientifica. Quando uno scienziato, a seguito di una sua intuizione, si pone alla ricerca della spiegazione logica e verificabile di un determinato fenomeno, egli ha fiducia fin dall’inizio di trovare una risposta, e non s’arrende davanti agli insuccessi. Egli non ritiene inutile l’intuizione originaria solo perché non ha raggiunto l’obiettivo; con ragione dirà piuttosto che non ha trovato ancora la risposta adeguata. La stessa cosa deve valere anche per la ricerca della verità nell’ambito delle questioni ultime. La sete di verità è talmente radicata nel cuore dell’uomo che il doverne prescindere comprometterebbe l’esistenza. E sufficiente, insomma, osservare la vita di tutti i giorni per costatare come ciascuno di noi porti in sé l’assillo di alcune domande essenziali ed insieme custodisca nel proprio animo almeno l’abbozzo delle relative risposte». Consonanza di pensiero tra i due Papi. È ancora Giovanni Paolo II a dirci che il rapporto tra fede e ragione richiede «un attento sforzo di 13 23-11-2006 8:50 Pagina 14 LA LECTIO DI PAPA RATZINGER Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 discernimento, perché sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l’una di fronte all’altra. La ragione, privata dell’apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale. È illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo 14 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 15 dialoghi n. 4 dicembre 2006 FABIO ZAVATTARO di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell’essere». Come Papa Wojtyla anche Benedetto XVI mette in guardia l’Occidente da una separazione tra fede e ragione – alla parresia della fede deve corrispondere l’audacia della ragione, scriveva Giovanni Paolo II sempre nella Fides et ratio. La conseguenza di questa separazione, per Benedetto XVI, è il rischio di una scarsa attenzione all’uomo, alla sua dignità, alla difesa della vita umana in tutte le sue fasi. È questa la preoccupazione di Papa Benedetto così come si evince dalle parole pronunciate nella lezione di Regensburg. Di più, egli evidenzia come la fede della Chiesa si sia «sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore». Ci sono degli interrogativi di fondo, afferma ancora Benedetto XVI, interrogativi propriamente umani, della ragione e dell’ethos, quelli del “da dove” e del “verso dove” che non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla scienza. E se le questioni della religione e dell’ethos non riguardano più la ragione, se non si riesce più a costruire comunità, se si cade nella discrezionalità, allora per il Papa è l’uomo che si trova in una condizione pericolosa, che rischia di perdere il contatto con la verità. Guarda soprattutto all’Occidente Papa Benedetto. Guarda ad una società secolarizzata che ha perso contatto con le sue radici e la sua tradizione. Ancora cardinale, Joseph Ratzinger a Subiaco, il primo aprile del 2005, affermava che: «Il cristianesimo, fin dal principio, ha compreso se stesso come la religione del logos, come la religione secondo ragione. Non ha individuato i suoi precursori in primo luogo nelle altre religioni, ma in quell’illuminismo filosofico che ha sgombrato la strada dalle tradizioni per volgersi alla ricerca della verità e verso il bene, verso l’unico Dio che sta al di sopra di tutti gli dèi. In quanto religione dei perseguitati, in quanto religione universale, al di là dei diversi Stati e popoli, ha negato allo Stato il diritto di considerare la religione come una parte dell’ordinamento statale, postulando così la libertà della fede. Ha sempre definito gli uomini, tutti gli uomini senza distinzione, creature di Dio e immagine di Dio, proclamandone in termini di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa dignità. In questo senso l’illu- 15 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 16 LA LECTIO DI PAPA RATZINGER minismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il Cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato». L’uomo, ricordava sempre a Subiaco «ha scandagliato i recessi dell’essere, ha decifrato le componenti dell’essere umano, e ora è in grado, per così dire, di costruire da sé l’uomo, che così non viene più al mondo come dono del Creatore, ma come prodotto del nostro agire». Tutto questo mostra che «al crescere delle nostre possibilità non corrisponde un uguale sviluppo della nostra energia morale. La forza morale non è cresciuta assieme allo sviluppo della scienza, anzi, piuttosto è diminuita, perché la mentalità tecnica confina la morale nell’ambito soggettivo, mentre noi abbiamo bisogno proprio di una morale pubblica, una morale che sappia rispondere alle minacce che gravano sull’esistenza di tutti noi […]. La sicurezza, di cui abbiamo bisogno come presupposto della nostra libertà e della nostra dignità, non può venire in ultima analisi da sistemi tecnici di controllo, ma può, appunto, scaturire soltanto dalla forza morale dell’uomo: laddove essa manca o non è sufficiente, il potere che l’uomo ha si trasformerà sempre di più in un potere di distruzione». La lezione del professor Ratzinger ha dunque l’Occidente come obiettivo primo, il nord ricco del mondo che legge con i suoi codici la realtà del sud, che propone strategie spesso dettate solo da altri interessi e non attente al destino dei popoli. Ecco che allora una ragione illuminata dalla fede può non solo evitare violenze e conflitti, ma può anche costruire nuove strade di dialogo, essere capace di leggere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, come chiede a tutti noi la Gaudium et spes. 16 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 17 DOSSIER Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 18 FORUM/Dopo Verona. Alcune riflessioni. Tracce di futuro per la Chiesa italiana Il Convegno ecclesiale di Verona fa il punto sul cammino della Chiesa italiana e contribuisce a tracciarne la rotta. Quali sono gli orizzonti che si aprono? Come tradurre un “evento di speranza” nella ferialità della vita culturale, civile ed ecclesiale? Quattro voci che hanno contribuito in diverso modo alla preparazione al Convegno offrono le loro prime impressioni. Ritrovare il gusto di una tensione missionaria E Franco Giulio Brambilla « partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”. Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane» (Lc 24,33-35). La premura dei primi discepoli descrive bene lo spirito con cui sono tornati a casa coloro che hanno partecipato al IV Convegno ecclesiale della Chiesa italiana. Come testimoni di Gesù risorto sono “partiti da Emmaus” per tornare a Gerusalemme, nel cuore delle Chiese locali d’Italia, per trovare la loro comunità riunite che già vivono della fede pasquale e confermarle raccontando loro ciò «che è accaduto lungo la via» e come «hanno riconosciuto il Signore allo spezzare del pane». Il Convegno è stato una sosta di metà cammino nel primo decennio della Chiesa sulla soglia del 18 Franco Giulio Brambilla è docente di Cristologia e Antropologia teologica e preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. Tra le sue pubblicazioni: Cinque dialoghi su matrimonio e famiglia, Glossa, Milano 2005; Antropologia teologica: chi e l'uomo, perche te ne curi? Queriniana, Brescia 2005. dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 19 Terzo millennio. Per questo Verona è un punto di partenza. Perché il Convegno non è stato solo “sulla speranza”, ma è lievitato in pochi giorni come un “evento di speranza”. Ne propongo tre percorsi di lettura. FRANCO GIULIO BRAMBILLA La condizione singolare dell’Italia Un primo percorso di lettura sviluppa le linee di forza del Convegno: Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. Il grande discorso di Benedetto XVI alla Fiera e lo splendido gioiello dell’omelia alla messa dello stadio hanno disegnato le coordinate teologico-spirituali e culturali dell’evento di Verona. La relazione di apertura del card. Tettamanzi e la sintesi conclusiva del card. Ruini ne hanno declinato le istanze pastorali e le forme di presenza nel mondo. Il discorso di Papa Benedetto ha onorato la tradizione dei grandi interventi dei predecessori ai Convegni precedenti. Ha sottolineato la singolarità dell’Italia sotto il profilo spirituale e culturale: «terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole per tale testimonianza». Anche l’Italia condivide con la cultura occidentale – osserva il Papa – l’atteggiamento di autosufficienza che sta generando un nuovo costume di vita, contrassegnato da una ragione strumentale e calcolante, e dall’assolutizzazione della libertà individuale come sorgente dei valori etici. Dio viene espunto dall’orizzonte della vita pubblica, ma questo si ritorce in un deperimento del senso e in una privatezza della coscienza della quale patisce l’uomo stesso, ridotto a un semplice prodotto della natura. Ma insieme il Papa parla della specificità dell’Italia come di un terreno ancora favorevole per la testimonianza cristiana, elencandone con grande accuratezza i tratti: presenza capillare alla vita della gente; tradizioni cristiane radicate e rinnovate nello sforzo di evangelizzazione per le famiglie e i giovani; reazione delle coscienze di fronte a un’etica individualistica; possibilità di dialogo con segmenti della cultura che percepiscono l’insufficienza di una visione strumentale della ragione ecc. Questo suscita un appassionato appello del Papa a «cogliere questa grande opportunità», a non essere rinunciatari, perché questo rappresenta «un grande servizio non solo a questa Nazione, ma anche all’Europa e al mondo». È quasi delineata una vocazione dell’Italia a essere un ponte tra le radici ebraico-cristiane dell’Occidente e la linfa del pensiero greco, che ha trovato nei grandi padri della Chiesa indivisa, nel medioevo latino e nel rinascimento italiano, il grembo della gestazione della cultura occidentale. La sua collocazione geografica, quasi ponte proteso verso Gerusalemme e Atene, trova in Roma un nuovo punto di sintesi. Far brillare il grande “sì” della fede Su questo sfondo si innesta il grande compito della testimonianza cristiana: il tema chiave di Verona. Il Papa riprende a questo proposito un dialoghi n. 4 dicembre 2006 19 TRACCE DI FUTURO PER LA CHIESA ITALIANA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 20 tema centrale del suo magistero: mostrare la fede come un grande sì all’uomo, perché è il sì di Dio in Gesù. Pertanto deve «emergere il grande “sì” che Dio in Gesù Cristo ha detto all’uomo e alla sua vita». Il motivo di fondo di una evangelizzazione/testimonianza capace di dire il grande “sì” della fede, di far palpitare il centro del cristianesimo, è poi svolto da papa Benedetto con una sorta di dittico, che ha molto impressionato per la forza del disegno e la chiarezza dell’esposizione. È stato introdotto dalla citazione capitale dell’enciclica Deus caritas est (n. 1), la quale afferma che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la persona di Gesù Cristo, “che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”». È questo il motivo di fondo del Pontificato, che è svolto sia nella direzione del confronto con la forma moderna della ragione, sia nella linea del bisogno dell’uomo di amare e di essere amato, per aprirlo a incontrare il volto agapico di Dio. Di qui il grande compito per l’annuncio di tenere uniti questi due aspetti, perché il grande sì della fede possa dire e comunicare la novità sconvolgente della rivelazione biblica. L’enciclica e il discorso di Regensburg appaiono i due assi dell’evangelizzazione, di modo che il vertice pasquale della divina rivelazione manifesti che «nella morte di croce si compie “quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo – amore, questo, nella sua forma più radicale”, nel quale si manifesta che cosa significhi che “Dio è amore” (1Gv 4,8) e si comprende anche come debba definirsi l’aPer comprendere «il “sì” more autentico». Per comprendere «il “sì” estremo di Dio estremo di Dio all’uomo, all’uomo, l’espressione suprema del suo amore e la scaturigil’espressione suprema ne della vita piena e perfetta» occorre domandarsi se il del suo amore e la mondo sia abitato da un Logos creatore, che è la grammatiscaturigine della vita ca con cui la vita cerca la sua pienezza. Ritorna qui insistenpiena e perfetta» te la preoccupazione del Papa a dilatare gli spazi della raziooccorre domandarsi se il nalità moderna, a dischiuderle prospettive di senso che mondo sia abitato da un superano la sua comprensione, ma soprattutto la sua prassi Logos creatore, che è la tecnica e strumentale. grammatica con cui la Sono forse gli accenti decisivi della giornata centrale del vita cerca la sua Convegno, che hanno trovato più d’una conferma sia in pienezza. Tettamanzi che in Ruini, ciascuno con la propria sensibilità. Se il cardinale di Milano insiste molto sul primato dell’evangelizzazione e sulla sua dimensione pasquale, nella quale appare «il senso, il logos della vita dell’uomo», il card. Ruini ne parla nei termini di un «primo obiettivo per il dopo Convegno», dove si può «davvero proporre quel grande “sì” a cui si è riferito ieri Benedetto XVI». E se la relazione d’apertura parlava di un intellectus spei, cioè di una «rinnovata figura antropologica sotto il segno della speranza», suggerendo con lungimi- 20 dialoghi n. 4 dicembre 2006 23-11-2006 8:50 Pagina 21 FRANCO GIULIO BRAMBILLA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 ranza una «seconda fase del progetto culturale», le parole conclusive del Presidente della Cei ne riprendevano l’invito, parlando della «provvidenziale insistenza» del Papa per riprendere il «legame costitutivo tra la fede cristiana e la ragione autentica». E, raccogliendo il suggerimento di Tettamanzi, il Presidente della Cei aggiungeva: la seconda fase del “progetto culturale” «va compiuta nella linea del sì all’uomo, alla sua ragione e alla sua libertà […] attraverso un confronto libero e a tutto campo. Abbraccia dunque le molteplici articolazioni del pensiero e dell’arte, il linguaggio dell’intelligenza e della vita, ogni fase dell’esistenza della persona e il contesto familiare e sociale in cui essa vive». Per dirla in forma lapidaria: una rinnovata figura antropologica – e la sua variegata espressione culturale – devono trovare casa nel riferimento alle forme della vita della persona, della famiglia e del vivere sociale. Il volto “popolare” del cattolicesimo italiano Il secondo percorso delinea sullo sfondo precedente la strategia della Chiesa italiana già prefigurata nel documento programmatico dei vescovi, Comunicare il vangelo in un mondo che cambia. Raccolgo le sottolineature più importanti, tre in particolare: la condizione essenziale dell’evangelizzazione, l’attenzione fondamentale con cui proporla, le figure da mettere in campo. dialoghi n. 4 dicembre 2006 21 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 22 TRACCE DI FUTURO PER LA CHIESA ITALIANA La condizione essenziale è la seguente: è giunto il tempo favorevole di una “sinodalità” che veda partecipare alla missione della Chiesa, ciascuna con il suo dono e la sua responsabilità, tutte le forze del cattolicesimo italiano. Ecclesialità e sinodalità sono insieme un affectus e uno stile, un affectus perché oggi «si danno opportunità inedite e urgenze più forti per vivere una comunione ecclesiale più ampia, più intensa, più responsabile e, proprio per questo, più missionaria» (Tettamanzi), e uno stile dal momento che «diviene ancora più evidente la necessità di comunione e di un impegno più sinergico tra i laici cristiani e tra le loro diverse forme di aggregazione, mentre si rivelano privi di fondamento gli atteggiamenti concorrenziali e i timori reciproci» (Ruini). Un affectus e uno stile che si radicano nell’ecclesiologia di comunione. Di qui l’attenzione fondamentale, per così dire la tonalità del primato dell’evangelizzazione che è stata insistentemente proposta. È forse qui che possiamo raccogliere i frammenti di novità risuonati a Verona. Ce ne ha fatto “immaginare” la portata il card. Ruini, quando ha affermato nel centro della sua relazione che la «tensione missionaria [è] il principale criterio interno al quale configurare e rinnovare progressivamente la vita delle nostre comunità»: questo significa – sono ancora le parole del Presidente della Cei – che non bisogna «puntare su un’organizzazione sempre più complessa, [ma] imboccare invece con maggior risolutezza la strada dell’attenzione alle persone e alle famiglie, dedicando tempo e spazio all’ascolto e alle relazioni interpersonali». E continuava: «questa attenzione alle persone e alle famiglie deve assumere però un preciso orientamento dinamico: non basta cioè “attendere” la gente, ma occorre “andare” a loro e soprattutto “entrare” nella loro vita concreta e quotidiana, comprese le case in cui abitano, i luoghi in cui lavorano, i linguaggi che adoperano, l’atmosfera culturale che respirano». La conclusione era un appello alla “conversione missionaria” e/o “pastorale” che non deve toccare solo le parrocchie, ma anche le comunità di vita consacrata, le aggregazioni ecclesiali, le strutture delle diocesi, la formazione del clero nei seminari e nelle università, persino la Conferenza episcopale e gli altri organismi nazionali e regionali. E con lo stile della “pastorale integrata” e/o “d’insieme” che punta «a mettere in rete tutte le molteplici risorse umane, spirituali, pastorali, culturali, professionali non solo delle parrocchie, ma di ciascuna realtà ecclesiale e persona credente, al fine della testimonianza e della comunicazione della fede in questa Italia che sta cambiando sotto i nostri occhi». Si può raccogliere questa prospettiva pastorale sotto una cifra, che è risuonata nel Convegno: la Chiesa italiana di questi anni intende privilegiare e coltivare in modo nuovo e creativo il volto “popolare” del cattolicesimo italiano. Infine, le figure protagoniste della coscienza missionaria. In molti 22 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 23 FRANCO GIULIO BRAMBILLA interventi prima del Convegno cresceva la pressione per mettere a fuoco il tema dei laici. Il titolo dato all’assise favoriva una considerazione non separata del laico, con il conseguente accanimento a cercarne la specificità, spesso da difendere gelosamente contro altre figure ecclesiali. Infatti, la prospettiva con cui parlare del laico è cambiata sia nel clima ecclesiale sia nella riflessione teologica. L’atmosfera ecclesiale, proprio in un’ottica missionaria, tende a comprendere la missione dei laici nella comune vocazione di “testimoni” del vangelo ricevuto, del mistero celebrato e della comunione vissuta, da trasmettere nella Chiesa e nel mondo. È emersa urgente l’istanza di una nuova maturità dei laici per la vita della Chiesa e la missione del mondo, superando radicalmente lo schema del duo sunt genera christianorum, gli uni intenti alle cose dello spirito, gli altri alle cose del mondo. Una maturità che si prospetta sia nell’impegno amorevole e sistematico di una coraggiosa opera di formazione non solo per i laici, ma con loro; sia nell’esigenza di creare un nuovo spazio nella vita della chiesa e una nuova responsabilità nell’impegno civile e sociale. Questa istanza ha attraversato il Convegno dall’inizio alla fine. La testimonianza come “esercizio del cristianesimo” Il terzo percorso uscito dal Convegno di Verona si riferisce agli ambiti in cui la speranza è stata messa alla prova: vita affettiva, festa e lavoro, fragilità, tradizione e cittadinanza. Mi pare sufficiente soffermarmi sull’elemento forse più innovativo del Convegno di Verona, apprezzato da molti anche prima dell’inizio dell’incontro nella città scaligera. L’obiettivo che si prefiggeva la scansione degli ambiti di esercizio della testimonianza era il seguente: l’unità della pastorale della Chiesa Occorre ripensare va ricondotta all’unità della persona e alla sua capacità di l’unità della pastorale, evidenziare la dimensione antropologica dell’agire missionaarticolata nelle funzioni rio della Chiesa. Al termine del Convegno il card. Ruini ha indicato il della Chiesa (Parola, significato dell’elaborazione degli ambiti per l’azione Sacramento, pastorale del futuro: «Per parte mia vorrei solo confermare Carità/comunione e che il nostro Convegno, con la sua articolazione in cinque Carità/servizio), ambiti di esercizio della testimonianza, ognuno dei quali incentrandola assai rilevante nell’esperienza umana e tutti insieme con- maggiormente sull’unità fluenti nell’unità della persona e della sua coscienza, ci ha della persona, sulla offerto un’impostazione della vita e della pastorale della rilevanza educativa e Chiesa particolarmente favorevole al lavoro educativo e formativa che queste formativo. Si tratta di un notevole passo in avanti rispetto funzioni possono avere. all’impostazione prevalente ancora al Convegno di Palermo, che a sua volta puntava sull’unità della pastorale ma era meno in grado di ricondurla all’unità della persona perché si concentrava solo sul dialoghi n. 4 dicembre 2006 23 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 24 TRACCE DI FUTURO PER LA CHIESA ITALIANA legame, pur giusto e prezioso, tra i tre compiti o uffici della Chiesa: l’annunzio e l’insegnamento della parola di Dio, la preghiera e la liturgia, la testimonianza della carità» (sott. mia). Questo potrebbe essere il frutto più promettente del Convegno. Occorre ripensare l’unità della pastorale, articolata nelle funzioni della Chiesa (Parola, Sacramento, Carità/comunione e Carità/servizio), incentrandola maggiormente sull’unità della persona, sulla rilevanza educativa e formativa che queste funzioni possono avere. Non si tratta di sostituire al criterio ecclesiologico la rilevanza antropologica nel disegnare l’unità e l’articolazione della missione della Chiesa, quanto invece di mostrare che la pastorale in prospettiva missionaria deve sapere in ogni caso condurre l’uomo all’incontro con la speranza viva del Risorto. Mostrare la qualità antropologica dei gesti della Chiesa è oggi un’urgenza non solo dettata dal momento culturale moderno e post, ma è un istanza imprescindibile per dire che il Vangelo è per l’uomo e per la pienezza della vita personale. Sono tornati da Verona i delegati, sono arrivati alle loro Chiese locali. Come i discepoli partiti da Emmaus sono ritornati a Gerusalemme, al luogo da dove riparte la missione. Hanno ritrovato la fede pasquale, quella di sempre, degli Undici riuniti con gli altri, che continuano a dire e a dirsi: «Veramente il Signore è risorto!». Se Verona è stato un frammento di questo incessante ritorno a Gerusalemme, potrà aprire lo slancio di una rinnovata missione. Perché in molti – proprio là a Verona – hanno potuto riconoscersi testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo! La buona notizia: quale messaggio in arrivo? Paola Bignardi Paola Bignardi è direttore della rivista “Scuola Italiana Moderna” e coordinatore nazionale di RetInOpera. È stata presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana. Tra le sue pubblicazioni: Una parola di speranza: frammenti di Vangelo per la vita di ogni giorno, Editrice AVE, Roma 2006 24 Scrivo questi pensieri sul recente Convegno ecclesiale a evento appena concluso. Forse le emozioni prevalgono ancora sulla riflessione e ci sarebbe bisogno di altro tempo per consentire a esse di sedimentarsi, ordinarsi, purificarsi. Domina dentro di me soprattutto un’immagine: quella della processione del lunedì pomeriggio. Incamminati verso l’Arena, ci siamo trovati accecati dalla luce del tramonto, fortissima ed abbagliante, calda com’è la luce dei tramonti di ottobre. Completamente immersi nella luce e quasi attratti da essa, abbiamo camminato fianco a fianco con chi forse nemmeno sapeva del Convegno ecclesiale e passava il pomeriggio a fare compere, a guardare vetrine o a fare turismo. Mi è parsa una splendida metafora della Chiesa: in cammino verso la luce di Dio, in mezzo a gente comune dedita alle comuni occupazioni della vita, sapendo che con tutti un giorno ci ritroveremo in quella Luce. La sensazione più forte, vera grazia di questo Convegno, è stata la posdialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 25 dialoghi n. 4 dicembre 2006 PAOLA BIGNARDI sibilità di sentirci Chiesa. È vero che la sensazione è una componente fragile del nostro vissuto, eppure abbiamo bisogno ogni tanto di “sentire” ciò che siamo; anche di sentirci Chiesa. La Chiesa è dimensione di fede e noi la portiamo dentro la nostra coscienza. Eppure nella solitudine in cui spesso noi laici viviamo la nostra esperienza ecclesiale, il sentirci Chiesa ci restituisce il senso esistenziale di un “noi” difficile da tener vivo. È stata una bella sorpresa, la Chiesa vista e ascoltata a Verona. Chiesa viva, Chiesa in cammino. Chiesa ricca perché più povera e libera. Chiesa cresciuta nel corso degli anni, purificata dal confronto con un mondo che la costringe a stare sveglia, a essere più autentica; che la costringe a ripensarsi, a rimettersi in gioco. A Verona si è vista la Chiesa della speranza. La si è vista nel realismo di alcune prese di coscienza della situazione: senza indulgere ad analisi sofisticate o a lamentazioni sterili, si è parlato della realtà assumendola nelle sue povertà, nei suoi aspetti critici, soprattutto quelli che riguardano l’impostazione della pastorale; la fatica della corresponsabilità; la pratica del dialogo a tutti i livelli (tra religioni, tra culture, ma anche all’interno della Chiesa, tra vocazioni diverse…). Si è parlato della sofferenza che si respira in molte comunità, e lo si è fatto senza meraviglia e senza recriminazioni, consapevoli che la sofferenza per la fede fa parte del cammino del discepolo del Signore: occorre prenderne atto, assumerla, aiutarsi a darle un senso e a portarla. La consapevolezza è diventata spesso progetto, idea, proposta: la speranza non si lascia paralizzare dalla difficoltà. Basta leggere le sintesi dei lavori degli ambiti per rendersi conto non solo di quante siano le proposte concrete che sono state elaborate, ma anche di quanto esse riflettano un modo di elaborare la vita cristiana e l’esperienza ecclesiale in forme nuove, capaci di relazione con un contesto mutato. A questo ha certamente contribuito l’articolazione della riflessione in ambiti esistenziali e non nei tradizionali settori pastorali rispondenti alla struttura della Chiesa. L’aderenza alla vita e alle sue dimensioni si è mostrata dunque positiva e utile: un’impostazione da non lasciar cadere, da portare fino in fondo, nel ripensamento complessivo dell’impostazione della pastorale che lascia intuire. Verona è stata un grande esercizio di dialogo e di confronto; schietto e fraterno; aperto e senza asprezze. Qualcuno penserà che questo è segno di appiattimento; io penso che sia frutto di un lungo e duro tirocinio ecclesiale, esito di una maturazione che ha reso tutti più saldi nell’appartenenza ecclesiale e nella responsabilità. A Verona si è vista una Chiesa che ha superato la fase (un po’ adolescenziale!) della conflittualità tra diverse anime e della insofferenza verso l’autorità e mostra oggi di essere capace di progetto, di confronto, di proposta. Nel confronto pacato e costruttivo 25 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 26 TRACCE DI FUTURO PER LA CHIESA ITALIANA del Convegno mi pare di poter scorgere i frutti dello sforzo caparbio compiuto in questi anni, soprattutto da parte dal laicato organizzato, per superare chiusure e contrapposizioni e per mettersi in relazione. Molto resta ancora da fare, ma la strada è aperta: non quella dell’omologazione, ma piuttosto quella evangelica della comunione e del confronto. Molti giornali si sono esercitati a collocare gli intervenuti nella scia dell’uno o dell’altro, di Tettamanzi o di Ruini, del Papa o dei vescovi. Ma c’è bisogno necessariamente anche di un bipolarismo ecclesiale? Mi pare che a Verona la Chiesa italiana abbia mostrato di essere corale, di sapersi esprimere con tante voci nessuna delle quali è diventata l’anima destinata ad aggregare opinioni e aderenti attorno a sé, ciascuna libera di esprimersi nella polifonia convergente di voci che fanno ricca un’armonia. I giornali – a parte Avvenire − hanno raccontato un altro convegno, nel quale sembrava che l’unico tema fosse quello della politica e del rapporto che i cattolici intendono avere con essa in questa fase della vita del nostro Paese. Senza nulla togliere al valore di questo tema, alle responsabilità che esso comporta anche per i credenti, tuttavia non si può consentire che esso divenga un’ossessione. Oggi le comunità e i singoli cristiani sono ben consapevoli che la responsabilità che essi hanno verso la società e verso il mondo non passa solo attraverso la politica, ma piuttosto attraverso una più autentica testimonianza al Vangelo. Quella della fede non smette di essere la vera questione del cattolicesimo del nostro Paese. Questione della fede dice questione della significanza del Vangelo per persone che vivono e faticano, cercano e lottano in questo tempo, nelle nostre città, nelle nostre famiglie, nei luoghi di lavoro... La questione della fede non è quella delle statistiche dei praticanti o dei sacramenti, ma quella del mettere la fede in rapporto con la cultura diffusa oggi, che significa ancor prima con le attese che le persone oggi si portano nella coscienza. Per far questo, la Chiesa ha mostrato di essere consapevole che le serve una fede più essenziale, più libera, purificata da elementi esteriori o secondari che possono offuscarne il cuore; e al tempo stesso ha bisogno di una comprensione empatica dell’esistenza quotidiana. Questo esercizio a Verona è stato avviato con convinzione: mi sembra questo il segno più bello di speranza per le nostre comunità e per le persone che vivono accanto a noi. Questo esercizio ha bisogno di una Chiesa plurale e corale: ha bisogno di preti e laici insieme; religiosi e vescovi; uomini e donne. Va da sé che alcune di queste presenze sono tradizionalmente più coinvolte di altre. Per una nuova relazione con il contesto di oggi, è urgente la presenza dei laici. È vero che qualcuno afferma che il discorso sui laici è vecchio di 40 anni (del resto anche tanti altri discorsi, eppure continuiamo a farli!), ma oggi esso si pone in termini nuovi e più urgenti, come bene il Convegno, in maniera unanime, ha affermato. Il coinvolgimento dei laici a Verona sem- 26 dialoghi n. 4 dicembre 2006 23-11-2006 8:50 Pagina 27 SAVINO PEZZOTTA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 brerebbe smentire l’urgenza della questione, ma occorre leggere la vita delle comunità cristiane nel loro versante quotidiano: quello delle parrocchie, dei luoghi poveri di risorse. Non bisogna commettere l’errore di scambiare la vita della Chiesa italiana con quella di alcune élites – e anche i partecipanti al Convegno ecclesiale lo erano!−. Oggi il giovane che cerca un senso alla sua vita non incontra il vescovo illuminato, ma il parroco della sua parrocchia o il suo insegnante di religione; il laico che si porta dentro domande difficili sulle sue scelte in ambito secolare incontra, dove esiste, un gruppo formativo che fa una catechesi dottrinale e astratta; la giovane donna che ha bisogno di qualcuno con cui confrontarsi sulla sua esperienza di vita trova comunità in cui si può solo ascoltare… l’elenco dei casi di vita potrebbe essere lunghissimo. Quando incontreranno la Chiesa bella in cui noi crediamo le persone comuni che tutti noi abbiamo in mente e cui vogliamo bene? Quando potranno non solo conoscerne, ma sperimentarne la maternità? Quando dialoghi n. 4 dicembre 2006 Savino Pezzotta già Segretario generale della Cisl, è presidente della Fondazione “Ezio Tarantelli”. 27 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 28 TRACCE DI FUTURO PER LA CHIESA ITALIANA potranno toccare con mano che il Vangelo è una bella notizia che esalta la loro umanità e apre la strada della felicità? Pur riconoscendo tutta la bellezza di ciò che abbiamo vissuto e il valore positivo delle riflessioni e delle indicazioni emerse a Verona, mi porto dentro un’inquietudine: come tutto questo raggiungerà la dimensione quotidiana? Sono convinta che il futuro della fede e della Chiesa vincerà o perderà la sua sfida nella realtà del quotidiano. E per esso, oggi i segni di speranza sono ancora troppo pochi. Spendersi per l’“oggi”. Senza tirarsi indietro Savino Pezzotta A Verona ci siamo ritrovati con una Comunità cristiana più matura, capace di discutere, di dialogare e di confrontarsi senza grandi tensioni. Si è respirato un clima di grande serenità e di profonda consapevolezza che quel convenire, nella bella città veneta, delle Chiese italiane, rafforzava il percorso ininterrotto di attuazione del Concilio Vaticano II. Una Chiesa in cammino, cosciente della sua missione religiosa, ma non dimentica del suo ruolo civile e sociale. Si è molto ragionato e discusso sul come essere testimoni della speranza in Cristo Risorto, senza pietismi o intimismi, ma spingendosi con decisione e a volte con estremo coraggio sul come questa speranza si doveva declinare nella testimonianza quotidiana, nella dimensione della carità e della fraternità, senza dimenticare le responsabilità dei cattolici nei confronti della nazione, dell’Europa e del mondo. È emersa una sollecitazione forte all’impegno sociale e politico senza che la Chiesa si ponga come attore politico, ma come un soggetto che ha un interesse profondo per il bene della comunità politica. Tocca ai laici decidere dove impegnarsi, ma sono stati anche richiamati a essere attenti alle modalità e a come alcune attenzioni di fondo si declinano nell’agire concreto; attenzioni che si ritrovano nei documenti dei cinque ambiti su cui si è articolato il Convegno e che riguardano in modo puntuale e preciso i temi della vita affettiva, del lavoro e festa, la fragilità della vita e trasmissione culturale e la cittadinanza. Questa nuova attenzione all’impegno politico e sociale non può prescindere da una rinnovata testimonianza cristiana. I cristiani sono chiamati a spendersi, a uscire dalle loro nicchie protettive, dalle nostalgie e rimettersi in cammino. Non si tratta di mettersi nell’ottica di una “riconquista”, ma in quella di un dialogo attento, passionale e paziente con tutte le donne e gli uomini che vivono in Italia per rendere conto della speranza che è nei cuori e restituire alla fede cristiana una presenza piena e fattiva nella società del nostro tempo. La fede non deve essere privatizzata, rinchiusa nell’individuale: essa deve esplicitarsi in modo pubblico. Si tratta, 28 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 29 dialoghi n. 4 dicembre 2006 SAVINO PEZZOTTA come ha detto il Papa, di «rendere visibile il grande “sì” della fede». Tocca oggi ai cristiani rendere visibile con la fede e le azioni questo aderire all’incontro con Cristo. Mettersi in cammino con Lui per incontrare le donne e gli uomini del nostro tempo, per richiamarci insieme alla dimensione dell’amore, alla libertà e alla dignità della persona umana. È un andare contro corrente, è uscire da un “politicamente corretto” che annacqua, inibisce, svilisce per affrontare le grandi sfide che la dimensione post-moderna pone sul piano dell’etica, dell’economia, della politica e delle relazioni sociali. La testimonianza esige concretezza e pertanto deve essere attenta alla realtà in cui è immerso l’umano e alle sfere in cui si manifesta, è questa consapevolezza che da Verona emerge una spinta verso una trasversalità pastorale, una pastorale aperta agli intrecci in cui s’intesse il vivere delle persone. Il documento finale pur nella sua stringatezza è molto chiaro e indica un percorso; ci sono concetti chiave che vale la pena riprendere: il richia-mo alla gioia per avere vissuto un momento di Chiesa e di Comunione. Sono convinto che non siamo buoni testimoni del Cristo Risorto se non riusciamo a comunicare la gioia. Come si può essere portatori di speranza se i nostri volti sono tristi, se i nostri discorsi volgono sempre al negativo, se siamo usi più a condannare che a perdonare. Oggi il mondo ha già dentro di sé tante e tante tristezze che noi siamo chiamati ad alleviare e non certo ad appesantire; per farsi prossimo occorre scendere da cavallo, mettersi nella condizione del capire più che del giudicare; l’invito a ravvivare le ragioni della speranza. In un mondo che sembra temere il futuro siamo chiamati ad annunciare la possibilità, l’andare oltre, ad alzare continuamente lo sguardo. Nei tempi moderni in molti si sono avventurati nella ricerca della speranza, per questo hanno costruito utopie, ideologie, fatto battaglie politiche e sociali, ma molte volte la loro speranza si poggiava su basi poche solide, la nostra è una speranza che scaturisce da una Persona, dalla sua tenerezza, dal come egli ha amato il mondo. Una speranza che non vive nella solitudine, ma si alimenta nella comunione, nello stare insieme, nell’accompagnarsi, nell’avere cura, nell’essere Chiesa; tenere lo sguardo rivolto ai nostri santi, a coloro che nelle nostre comunità hanno vissuto il Vangelo, senza paura e timori, senza cercare il gesto eroico ma immergendosi nella quotidianità, nella vita giornaliera con un’attenzione amorevole verso coloro che devono ogni giorno conquistarsi la vita, attraversare le sofferenze fisiche, psichiche, morali, sociali ed economiche. La santità proposta come tensione, come ricerca, come avvicinamento a quella persona che è il Signore Gesù, morto e risorto; vivere la promessa di Cristo Risorto, è dentro questa luce che ci dobbiamo collocare e su cui siamo chiamati ad impegnarci. Un impegno che non si accontenta di un dedicarsi, ma che chiede di divenire 29 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 30 TRACCE DI FUTURO PER LA CHIESA ITALIANA esso stesso vita. Vivere gli affetti, il lavoro e la festa, la fragilità, la tradizione, la cittadinanza, è diverso dall’assumerli come questioni o problemi, è un farsi prossimo delle donne e degli uomini del nostro tempo: vivere per costruire momenti di amore, di esistenza compiuta, di solidarietà liberando tutte le potenzialità e mettendo in campo i doni, i carismi, la grazia di stato per orientare il tutto verso la verità e il bene, per costruire diritti e responsabilità, giustizia e pace. Dopo Verona nessun cristiano può più tirarsi indietro, c’è la vita da promuovere, garantire, tutelare; la famiglia da sostenere, la cittadinanza da ampliare e spingere verso modelli di interculturalità, il deposito della fede da trasmettere, il dialogo con le altre culture e religioni da sostenere, la pace e la giustizia sociale da affermare e dirigersi verso stili di vita sobri, trasparenti e rispettosi di sé e dell’ambiente. Soprattutto i laici sono chiamati ad agire con maggior coraggio e determinazione, in quanto uomini di Chiesa: sul campo educativo, economico, politico; sul terreno della buona vita, della salute, della carità; sul piano sociale, rafforzando le sinergie di presenza testimoniale tra movimenti, associazioni e aggregazioni; sul terreno del lavoro, della famiglia, di una crescita economica in grado di superare i divari sociali e territoriali e inquadrata in un orizzonte di sostenibilità umana e ambientale; sul terreno delle nuove forme di economia civile, dal non profit alla banca etica, dalla cooperazione al volontariato, dalla mutualità alle attività sociali di cura e di accompagnamento, ma anche sul terreno della formazione e dell’istruzione. L’azione dei cristiani deve pertanto orientarsi a ricercare, cogliere, valorizzare, custodire, costruire e alimentare i luoghi della Speranza. Se Cristo è veramente risorto, ed è risorto, il mio modo di essere e di vivere lo deve dimostrare. Essere testimoni del Risorto non è facile, soprattutto quando deve essere evidenziato nella realtà del mondo attuale dove domina lo scientismo, il relativismo, lo scetticismo. L’attestazione assume certo un carattere solenne, ma si deve sapere che essa prelude sovente alla incomprensione. La testimonianza avanza sempre all’interno di due elementi: quello della gioia, è risorto, e quello della sofferenza, del non essere compresi e accolti. “Sono cristiano” è l’energica risposta che, in maniera esplicita o attraverso sinonimi, è risuonata molte volte, anche in questi nostri tempi, davanti ai tribunali di varia specie, non solo quelli giuridici, politici, filosofici, culturali, sociali, religiosi, ogni qualvolta il seguace di Cristo è chiamato a rinnegare la propria fede. “Sono cristiano”, definisce l’identità del testimone davanti alle minacce, alle lusinghe o agli inviti di reprimere dentro il privato la dimensione di fede. Quante volte c’è stato ricordato che non era “bello” manifestare la propria identità, anzi siamo stati invita- 30 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 31 LUIGI ALICI ti a nasconderla quasi fosse un disturbo. Non dobbiamo lasciarci turbare perché sappiamo che il termine testimone significa anche “confessore” e “martire”, ma non è su questo che ci dobbiamo soffermare; quello che c’interessa è la dimensione “cristologia” dell’esperienza testimoniale. L’incontro con il Signore Gesù risorto rimane l’esperienza determinante del cristiano. Essere testimoni oggi significa scegliere di “ripartire da Cristo”, per recuperare il radicalismo della sequela, con il desiderio di fare un’esperienza appassionata di un rapporto d’amore con Lui che sia coinvolgente. I cristiani devono dare ragione della speranza che è in loro. Un compito importante anche per le nostre società, per le donne e gli uomini, per le giovani e i giovani e per i nostri adolescenti che iniziano a osservare con occhi attenti il mondo. La speranza è fondamentale nell’educare, nel crescere e nel divenire adulti, nel partecipare, nell’impegnarsi e nel coinvolgersi nella passione per l’uomo e il suo futuro. Non imprigionare Verona Luigi Alici Non dobbiamo “imprigionare Verona”. Ha cercato di farlo una (certa) stampa, che si lamenta sempre di una Chiesa troppo clericale e poi racconta tutto come se si fosse trattato di un incontro del Papa con un paio di cardinali per parlare dei “teocon”. Ma anche noi possiamo imprigionare il Convegno ecclesiale, anestetizzandolo lentamente e riducendolo a qualche slogan: questione antropologica, pastorale integrata, Chiesa di popolo, corresponsabilità, progetto formativo... Si fa presto ad affezionarsi alle parole, fino a farle diventare usurate e inoffensive. Non dobbiamo schematizzare, sterilizzare, liofilizzare Verona. Come tutti i grandi eventi dello spirito, ci sono ottiche diverse, a volte diametralmente opposte, che tendono a imporre la loro ermeneutica semplificata e unilaterale. Credere è come camminare su un crinale impervio: basta deviare di poco, per precipitare e smarrire il panorama che si gode dall’alto. Il Convegno ecclesiale si può leggere con l’occhio umano troppo umano del calcolo costi-benefici, che si compiace dell’efficienza organizzativa, che misura le nuove geometrie della geografia ecclesiale: chi sale e chi scende, chi vince e chi perde, chi ha fatto un passo falso e chi ha fatto il passo giusto... Oppure, al contrario, il Convegno si può leggere con occhio angelicato, come un atto di pura ritualità assembleare, indolore e inconcludente: è stato bello aver pregato insieme e ascoltato il Papa, non sono emerse tensioni laceranti, tiriamo un sospiro di sollievo, di più non ci si può attendere. Ottiche diverse, che ci fanno dimenticare l’altra metà del cielo. Solo la fede riesce a tenere insieme i due lati incommensurabili del dialoghi n. 4 dicembre 2006 Luigi Alici è Presidente nazionale dell’Azione cattolica italiana e professore ordinario di Filosofia morale presso l’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Il terzo escluso, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004; La via della speranza. Tracce di futuro possibile, Editrice AVE, Roma 2006. 31 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 32 TRACCE DI FUTURO PER LA CHIESA ITALIANA mistero cristiano, donandoci occhi nuovi, capaci di liberarci dal nostro inguaribile strabismo. Gli occhi “suoi”, occhi del Risorto. Allora si capovolge tutto, si riscrive da cima a fondo la gerarchia dell’essenziale. L’essenziale è che il finito è abitato dall’Infinito, è stato chiamato all’essere dal nulla, è stato persino visitato e guarito da un evento straordinario, e da allora nulla è più come prima. Quello che è stato riunificato una volta per sempre ci viene offerto nella forma di una promessa, custodita e coltivata dalla speranza; non continuiamo a pensare a una Chiesa sdoppiata, in cui i pastori dovrebbero essere disincarnati specialisti del sacro e i laici liberi e onesti artigiani della storia. L’anima e il corpo, il tempo e l’eternità, la Chiesa e il mondo: quanta fatica, poi, a gestire le congiunzioni! Torniamo da Verona con questo messaggio e con il proposito di non lasciarlo marcire; lo si potrebbe esprimere prendendo a prestito, in un senso diverso, le parole del vangelo: l’uomo non separi quello Dio ha unito. Questo messaggio attraversa e compagina i vari piani nei quali si sono distribuiti i lavori del convegno. A livello teologico, anzitutto, abbiamo vissuto un evento di Chiesa che ha messo in pratica l’invito, centrale nelle Linee pastorali Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, a tenere lo sguardo fisso su Cristo, l’Inviato del Padre, colui che è risorto e che viene. La sua risurrezione, che è «il fondamento della nostra fede e della nostra speranza» (n. 24), «fa della storia umana lo spazio dell’incontro possibile con la grazia di Dio» (n. 26). In Cristo ogni credente trova l’unica forma possibile di incontro tra la terra e il cielo, che libera la creatura dal peccato e dalla morte, restituendole la speranza di cieli nuovi e terra nuova. La resurrezione di Cristo, ci ha ricordato il Papa, «non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo». Un secondo livello si può definire antropologico: l’attenzione alla centralità dell’uomo e dell’umano ha riproposto in modo appassionato e unanime il mistero della sua irriducibile duplicità. Lo si potrebbe dire con le parole di Lonergan: «Essere solo uomo è quanto l’uomo non può essere». Il cristianesimo non vuole cucire un vestito soprannaturale addosso ad un agglomerato biologico neutro. L’unico modo per restituire l’uomo a se stesso è restituirgli una verticalità infinita. È possibile articolare una cultura, una gerarchia di valori, un sistema di vita escludendo pregiudizialmente nell’essere umano una porta aperta sulla trascendenza, declassandola a un optional privato e socialmente irrilevante? Certo, solo la fede può guardare oltre quella porta, ma basta una porta aperta nell’edificio “naturale” dell’umano per riconoscere la dignità antropologica della speranza. 32 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 33 dialoghi n. 4 dicembre 2006 LUIGI ALICI Tutto l’insegnamento più recente del Papa (da Regensburg a Verona) ci sta richiamando instancabilmente all’importanza di vigilare su questa porta aperta, grazie a una costante purificazione dell’intelligenza. È la consegna più alta e impegnativa per i laici cristiani. Non avviliamo il dibattito sulla vocazione del laico, riducendolo solo a una negoziazione di spazi pastorali: prima di tutto, occorre restituire profondità verticale al volume appiattito e mortificato dell’umano, e il laico può farlo aiutando l’intera comunità cristiana a intrecciare un dialogo ravvicinato con gli ambiti concreti del vissuto. La testimonianza della vita ha bisogno di una fede “amica dell’intelligenza”, capace di “rendere ragione” della speranza, onorando quelle domande grandi che consentono alla persona umana di vivere all’altezza della propria vocazione. Un terzo livello riguarda l’ambito più propriamente pastorale. Come tradurre l’eccedenza del Vangelo, che illumina, promuove e riscatta l’umano, nella prassi ecclesiale ordinaria? Come annunciare l’essenziale del mistero cristiano senza inseguire la complessità, la banalità, la frammentazione, che sembrano le cifre più diffuse del nostro tempo? Da Verona è venuto un messaggio chiaro in questa direzione: la comunità ecclesiale deve “scomplicarsi”, deve ritrovare una capacità nuova di fare sintesi; una sintesi dinamica, centrata sul primato dell’evangelizzazione, radicata nel tessuto vivo della Chiesa locale, capace di parlare al cuore e all’intelligenza della gente. Occorre, a tale scopo, evitare l’autogol di uno stile e un metodo pastorale che disinnesca il paradosso cristiano, sbriciolandolo nei mille rivoli di iniziative frammentarie e autoreferenziali, che parlano il linguaggio burocratico della routine o cercano di rincorrere la logica mondana dell’“evento”. C’è una buona notizia che la comunità deve custodire e comunicare, imparando a camminare sul difficile crinale tra finito e Infinito, dove soltanto si può sperimentare quella «misura alta della vita cristiana ordinaria» (NMI, 31) che è la santità. L’attenzione all’eccellenza della santità e alla popolarità della proposta cristiana non sono in alternativa; solo una pastorale capace di crescere in altezza può crescere anche in larghezza. Non a caso, la perdita di tensione comunionale e di slancio missionario va di pari passo con l’allontanarsi della Chiesa dalla vita concreta delle persone. Solo una rinnovata progettualità formativa può realizzare questa difficile sintesi. Il clima di straordinaria maturità e sintonia cooperativa che si è sperimentato a Verona è un dono straordinario dello Spirito: non sotterriamo i talenti, non trasformiamo la manna in camomilla. 33 COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 34 La comunicazione è sempre un fatto dinamico: è trasmissione che matura nella relazione e nel dialogo, nell’ascolto e nella parola. La Chiesa declina sempre più il “comunicare” come “testimoniare”, invitando a riconsiderare in modo nuovo lo stile dell’annuncio. Comunicare il lieto annuncio I Piermarco Aroldi l documento contenente gli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del 2000 sul quale il Convegno di Verona, sia nella sua fase preparatoria sia – soprattutto − nei lavori dello scorso ottobre, ha richiamato l’attenzione della Chiesa italiana si intitola, come si ricorderà, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Nelle pagine che seguono vorrei tentare una riflessione proprio sulla dimensione della comunicazione nel quadro dell’evangelizzazione, così come emerge dagli orientamenti pastorali, dai documenti preparatori del Convegno e dalle relazioni presentate a Verona, cercando di evidenziare la dinamica con cui questo tema è stato sviluppato e alcuni snodi ad esso pertinenti che, nell’attuale contesto del nostro paese, mi appaiono particolarmente significativi. Lo sviluppo del tema comunicazione Negli Orientamenti pastorali, la missione della Chiesa è «intesa in senso ampio come comunicazione del Vangelo nel mondo odierno»1; in questa prospettiva, comunicare il Vangelo risulta chiaramente un sinonimo di evangelizzazione, l’annuncio della buona notizia della incarnazione, morte e resurrezione di Cristo che ci rivela il volto della misericordia di Dio. In modo speculare, l’introduzione del documento ricorda come il «compito assolutamente primario per la Chiesa […] sia e resti sempre la comunicazione della fede, della vita in Cristo sotto la guida dello Spirito, della perla preziosa del Vangelo»2. 34 Piermarco Aroldi è docente di Sociologia della comunicazione e dei media presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Milano e vicedirettore dell’“Osservatorio sulla comunicazione” della stessa Università. Tra le sue pubblicazioni: La TV risorsa educativa: uno sguardo familiare sulla televisione San Paolo, Cinisello Balsamo 2004. dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 35 dialoghi n. 4 dicembre 2006 PIERMARCO AROLDI Il documento mette sin dall’inizio questa missione in relazione alle parole di Giovanni (1Gv 1,1-4): «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta». Il prologo della prima lettera viene presentato, d’altra parte, come un modello che descrive fenomenologicamente l’itinerario eloquente tipico della fede cristiana: ascolto, contemplazione, esperienza, testimonianza, annuncio, comunione. Sono, questi, sei tratti che costituiscono la comunicazione del Vangelo come una dinamica complessa, la cui radice è nell’ascolto della Parola di Dio e nella contemplazione del volto di Cristo, “la vita che si è fatta visibile”, che si è fatta carne e di cui è possibile storicamente fare esperienza tangibile, fisica e concreta − ancora oggi − nella compagnia della Chiesa. Questa radice richiede a ogni cristiano di farsi testimone e di annunziare «Ciò che era fin dal principio […] ossia il Verbo della vita»; come ci ricorda la sua etimologia, poi, fine della comunicazione è la comunione, la condivisione gratuita dello stesso bene. La centralità del comunicare si qualifica così, nel documento episcopale, come la cifra sintetica della missione affidata alla comunità cristiana; «comunicare il Vangelo è il compito fondamentale della Chiesa»3 che lo realizza in modo “paradossale” prestando contemporaneamente ascolto «alla cultura del nostro mondo» e alla «trascendenza del Vangelo». Nella Traccia di riflessione in preparazione del Convegno Ecclesiale di Verona, dal titolo significativo Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, il tema della comunicazione subisce una prima piegatura interessante; seppure i titoli dei documenti non possano essere presi alla lettera come sintesi assolute dei rispettivi contenuti, appare significativo il passaggio strutturale dall’accento posto sul comunicare a quello posto sulla testimonianza. Esso, infatti, finisce per mettere a fuoco una forma specifica e privilegiata della comunicazione, un tratto peculiare tra i sei che si possono desumere dalla sintesi giovannea. Riletto alla luce della testimonianza, il comunicare diviene, più radicalmente, un «introdurre gli uomini alla relazione viva con il Risorto», e la sua figura adulta «la fede che opera per mezzo della carità»4 in una prospettiva «agonistica», aperta alla possibilità del «martirio», cioè della testimonianza «fino all’effusione del sangue»5. Contemporaneamente, il documento declina la testimonianza in alcuni ambiti di vita a partire dalla cosiddetta “questione antropologica”. In 35 COMUNICARE IL LIETO ANNUNCIO Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 36 questa declinazione ulteriore, la comunicazione subisce altre piegature e si qualifica soprattutto secondo due modalità operative: come educazione (alla vita affettiva, all’accoglienza etc.), da una parte, e, dall’altra, come «tradizione, intesa come esercizio del trasmettere ciò che costituisce il patrimonio vitale e culturale della società»6. L’impegno formativo e quello culturale costituiscono così le due leve privilegiate dell’agire testimoniale nella trama quotidiana della vita della Chiesa. I lavori del Convegno si spingono oltre su questa medesima strada; ne sono documentazione tanto le relazioni presentate a Verona quanto i discorsi su cui si è concentrata l’attenzione del grande pubblico: la prolusione del cardinal Tettamanzi, il messaggio di Benedetto XVI e l’intervento conclusivo del cardinal Ruini. Nella loro polifonicità, mi sembra che gli esiti del tema comunicazione messo a fuoco attraverso la prospettiva della testimonianza, all’indomani di Verona, siano sostanzialmente tre; il primo è sintetizzato negli ultimi passaggi della Prolusione dell’Arcivescovo di Milano, quando ricorda che «la risposta propria della testimonianza cristiana è la coerenza con la grazia e le responsabilità che ci vengono dall’incontro vivo e personale con Gesù Cristo morto e risorto, dall’obbedienza alla sua parola, dalla sequela del suo stile di vita, di missione e di destino»; è l’esercizio del cristianesimo, il vissuto esistenziale, concreto, quotidiano, che permette di portare il Vangelo nei luoghi della vita e che, quasi provocatoriamente, il cardinal Tettamanzi esprime con le parole di S. Paolo: «Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede sino alla fine. È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo» (Ignazio di Antiochia Lettera agli Efesini). Un secondo esito del tema comunicazione è rappresentato dalla sfida educativa; qui l’accento è posto soprattutto sul dialogo tra le generazioni, sia dentro che fuori dalla comunità ecclesiale: «In concreto, Un secondo esito del perché l’esperienza della fede e dell’amore cristiano sia tema comunicazione è accolta e vissuta e si trasmetta da una generzione all’altra, rappresentato dalla una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educasfida educativa; qui zione della persona»7. Come ha ricordato nel suo intervento il Rettore l’accento è posto soprattutto sul dialogo dell’Università Cattolica Lorenzo Ornaghi, è l’unitarietà tra le generazioni, sia della persona umana che richiede questa costante attenzione dentro che fuori dalla formativa: «Educazione e formazione, in un tale orizzonte, comunità ecclesiale. sono la risorsa più grande di cui disponiamo per bloccare e rovesciare quei processi, all’apparenza inarrestabili, di scomposizione dell’esperienza umana e di contestuale, connessa pluralizzazione parossistica delle convinzioni e convenzioni, delle mentalità e più confor- 36 dialoghi n. 4 dicembre 2006 23-11-2006 8:50 Pagina 37 PIERMARCO AROLDI Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 mistiche rappresentazioni, dei comportamenti e degli stili di vita più banali e superficiali della società». Infine, la comunicazione-testimonianza deve affrontare la sfida del confronto culturale: la Prolusione, infatti, ricorda come la testimonianza trovi «nella cultura lo strumento e insieme la forza per “aprirsi” e “dialogare” con i linguaggi e le esperienze della vita dell’uomo d’oggi”, nell’intento di offrirgli “un orizzonte di senso». Anche il «rendere ragione della speranza», cioè l’apologia, è più volte calato nel contesto del dibattito pubblico, dell’agone culturale, del confronto di idee e opinioni in cui diverse antropologie si incontrano e si misurano. La ricchezza del comunicare Vorrei proporre, ora, alcune riflessioni sulla dinamica con cui il tema comunicazione si è sviluppato attraverso i documenti che ho così sinteticamente ripercorso, e sulle conseguenze di tale sviluppo, soprattutto in relazione ad alcune questioni di maggior rilievo. Una prima considerazione riguarda il già citato spostamento di accento dal comunicare alla testimonianza8: sotto molti aspetti, esso rappresenta una precisazione e una specificazione sia di metodo che di merito, in grado di meglio qualificare la comunicazione del Vangelo in termini non solo esistenziali ed esperienziali ma anche storici; probabilmente questa focalizzazione permette di superare il rischio di una possibile assolutizzazione dell’opzione comunicativa o, se si preferisce, la tentazione – un po’ dialoghi n. 4 dicembre 2006 37 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 38 COMUNICARE IL LIETO ANNUNCIO di moda − di leggere l’intera realtà della Chiesa di Cristo sub specie communicationis. Questa tentazione si manifesta in altri ambiti (politica, amministrazione pubblica, economia, management etc.) con una sorta di privilegio riservato al dire rispetto al fare, al sembrare piuttosto che all’essere; o, se si preferisce, con la tendenza a considerare la comunicazione una parola magica, un’area totalmente simbolica o virtuale dell’interazione sociale in grado di produrre autonomamente, per sola forza di discorso, le realtà che essa mette in scena o rappresenta. In altri termini, la prospettiva della testimonianza mi sembra aver disinnescato una possibile deriva linguistica o retorica che ponesse l’evangelizzazione solo nei termini della sua efficacia persuasiva o dell’adeguatezza delle sue forme espressive. Nello stesso tempo, però, la prospettiva della testimonianza costituisce, di fatto, un ritaglio particolare – e in parte riduttivo − nel tessuto del comunicare, e suggerisce l’opportunità, in sede analitica, di recuperare alcune potenzialità e alcune caratteristiche proprie dell’agire comunicativo, per poi tornare a meditare sulle indicazioni emerse dal Convegno di Verona. D’altra parte vale la pena precisare che già nel documento Comunicare il Vangelo la comunicazione sembra mostrare almeno due volti diversi; il primo, più ricco e articolato, adombrato come si è detto nel prologo di 1Gv 1, 1-4, è la cifra di un’esperienza profonda, cui rimandano tutte le analisi etimologiche del termine stesso: partecipazione, accoglienza reciproca, scambio mutuo e reciproco di doni, condivisione grata di un bene9. La comunicazione più autentica implica dunque pariteticità, benevolenza reciproca, atteggiamento dialogico di ascolto e di comprensione, cooperazione in vista di uno scopo (almeno discorsivo) comune. Senza voler costruire su questo valore etimologico un’utopia della comunicazione (tantomeno della comunicazione pubblica10), resta il fatto che il modello più utile a rappresentare la complessità dei fenomeni e dei processi comunicativi è un modello bidirezionale, conversazionale11, ermeneutico, nel quale il significato non è semplicemente trasmesso ma è generato dall’incontro di due progetti interpretativi e di due soggettività interessate l’una all’altra. Questa progettualità implica, da parte di chi assume in prima persona la responsabilità di comunicare, anche l’assunzione di un rischio (quello di essere frainteso o ignorato) e il riconoscimento di una libertà, almeno di quel margine di libertà nel quale solo si colloca la possibilità di una risposta (la responsabilità dell’interlocutore). Implica anche la predisposizione, per l’interlocutore stesso, di un percorso logico e retorico (pragmatico, per meglio dire) che renda possibile l’incontro dei significati; e, in ultima analisi, implica l’immaginazione di un destinatario ideale in cui i singoli, reali interlocutori si possano riconoscere e sentirsi accolti, per essere da esso guidati alla formulazione del senso. Per questo la comunicazione implica sempre anche un’antropologia e un’etica. 38 dialoghi n. 4 dicembre 2006 23-11-2006 8:50 Pagina 39 A ridurre questa ricchezza sembra, talvolta, riemergere nei documenti – a partire ancora da alcuni passi di Comunicare il Vangelo − un volto più povero della comunicazione, quello equivalente al semplice passaggio di informazione, obbediente a un modello lineare, unidirezionale e quasi matematico17, al massimo diffusivo, come se si trattasse di un semplice processo di disseminazione, di amplificazione o di distribuzione, la cui unica pertinenza valutativa potrebbe essere il criterio di efficacia o quello di economia. Sarà forse chiaro, a questo punto, dove vorrei condurre questa riflessione: l’opzione per la testimonianza, per la formazione e per l’impegno culturale che mi sembra emergere con chiarezza dai lavori di Verona sarà tanto più illuminante e preziosa quanto più, nel precisare e meglio definire operativamente la vocazione ecclesiale alla comunicazione del Vangelo, sarà in grado di salvaguardare e approfondire tutta la ricchezza implicita nella accezione più alta del termine comunicare. Questa preoccupazione di ordine generale, di cui i lavori del Convegno di Verona mi sembra abbiano tenuto conto in larga misura, seppur con un grado di consapevolezza non sempre ugualmente condiviso, riecheggia − per esempio − nell’intervento conclusivo del Card. Ruini: la testimonianza «apre al mistero di Dio che liberamente si dona a noi e mette in gioco, insieme con la nostra ragione, La prima questione è, tutta la nostra vita e la nostra salvezza. Non si impone quinper così dire, di con evidenza cogente ma passa attraverso l’esercizio della nostra libertà». La testimonianza-comunicazione è dunque ecclesiologica: quale sempre un rischio, e richiede la partecipazione di entram- comunicazione può contribuire a edificare be le libertà coinvolte. la Chiesa in quanto “comunità di popolo”? Alcune questioni comunicative Ma questa attenzione comunicativa si traduce anche in Come sviluppare e far alcune questioni più specifiche, emerse nel corso dei lavo- maturare gli spazi ri, e che vorrei provare a proporre sotto forma di domande. della comunicazione La prima questione è, per così dire, ecclesiologica: dentro la Chiesa ? quale comunicazione può contribuire a edificare la Chiesa in quanto “comunità di popolo” (F. G. Brambilla)? Come sviluppare e far maturare gli spazi della comunicazione dentro la Chiesa? E quale comunicazione ecclesiale è in grado di alimentare la caratteristica “popolare” del cattolicesimo italiano sfuggendo al rischio intellettualistico di un “cristianesimo minimo”, da una parte, senza per questo adeguarsi intimamente alle forme di rappresentazione e ai linguaggi più corrivi, dall’altra? La seconda questione mira a cogliere la pertinenza della dimensione comunicativa rispetto alla “questione antropologica”: quest’ultima, infatti, non può risolversi solo nella definizione e nella riproposizione di un dialoghi n. 4 dicembre 2006 39 PIERMARCO AROLDI Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 40 COMUNICARE IL LIETO ANNUNCIO paradigma umano come contenuto della comunicazione ma è necessario che informi la stessa dinamica comunicativa, sollecitando il “rendere ragione della speranza” a interrogarsi sulla dimensione umana del proprio interlocutore, sui suoi bisogni, sulle sue domande, sulla sua attesa di senso. Come si traduce, altrimenti, dal punto di vista delle scelte comunicative, quel «parlare con speranza» come «stile virtuoso», come «anima, clima interiore, spirito profondo − prima ancora che come contenuto» richiestoci dall’arcivescovo di Milano nella sua Prolusione? Cosa c’è, per esempio, al cuore di quel processo di «alleggerimento che tende a rendere fragili e precari sia la solidarietà sociale sia i legami affettivi» (Card. C. Ruini)? O quali aspettative sollecita la dittatura del desiderio e come possono essere opportunamente valorizzate − in quanto posizioni umane “storiche”− per poter dar loro una risposta più autentica? Una terza questione è dunque culturale: come argomentare «una rinnovata figura antropologica sotto il segno della speranza» (Card. D. Tettamanzi) nell’ambito del discorso pubblico, del confronto tra i diversi “sensi comuni” in cui riposano implicitamente le diverse visioni dell’uomo che necessariamente convivono in una società pluralista e multiculturale? Quale contributo può dare, da questo punto di vista, il Progetto Culturale orientato in senso cristiano che celebra il suo decimo compleanno proprio in questi giorni e che, da più voci a Verona, è stato sollecitato a entrare in una “seconda fase”? Soprattutto, forti di quali strumenti critici si pensa di poter “fare i conti” con un pensiero che non ha più la coerenza e la sistematicità del progetto moderno ma che – seppur non vogliamo definire post-moderno − sembra farsi forte proprio delle originali contraddizioni della modernità? Un ultimo aspetto riguarda, infine, il ruolo dei media nel nostro contesto sociale, la loro valenza culturale e la loro responsabilità formativa. La riflessione mass-mediologica è stata, infatti, accolta spesso con grande intelligenza dalla Chiesa, soprattutto in prospettiva pastorale e – forse con meno tempismo − culturale; lo stesso insieme dei documenti di Verona rende conto delle diverse metafore con cui i media sono stati interpretati all’interno dell’esperienza ecclesiale: da quelle più “datate” (media come canali o mezzi di diffusione) a quelle più recenti (media come linguaggi) o attuali (media come ambienti). Prendere sul serio queste metafore significa tornare a riflettere sulla testimonianza: non solo un contenuto della comunicazione ma piuttosto uno stile, un linguaggio, una presenza in questi nuovi agorà virtuali che sono i media. Come tradurre oggi, nella cultura dell’immagine e della chiacchiera, il discorso di San Paolo nell’Areòpago di Atene (At 17, 22-33), che prendendo spunto dagli idoli e dal “dio ignoto” annuncia Gesù Cristo, Dio incarnato, crocifisso e risorto, resta la grande sfida del «comunicare il Vangelo nel mondo odierno». 40 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 41 dialoghi n. 4 dicembre 2006 PIERMARCO AROLDI Note 1 Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (d’ora in poi CV), § 33. 2 CV, § 4. 3 CV, § 32. 4 Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo (d’ora in poi TGR), § 5. 5 TGR, § 8. 6 TGR, § 15. 7 S. S. Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno Ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006. 8 Solo un dato a questo proposito: a una analisi del contenuto lessicale delle relazioni e dei discorsi pronunciati a Verona, i termini riconducibili alla radice della “testimonianza” fanno registrare un’occorrenza pari a cinque volte quelli riconducibili alla radice della “comunicazione”. 9 Cfr. per tutte R. Bracchi, “Comunicazione (etimologia)” in F. Lever, P. C. Rivoltella, A. Zanacchi, La comunicazione. Il Dizionario di scienze e tecniche, Pas/Elledici, Roma 2002. 10 Vd. a questo proposito J.Habermas, Etica del discorso, Laterza, Bari 1989. 11 Cfr. G. Bettetini, La conversazione audiovisiva, Bompiani, Milano 1984. 12 Cfr. C. Shannon e W. Weaver, The mathematical theory of communication, University of Illinois Press, 1949. 41 COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 42 A Verona il Papa è ritornato sul progetto culturale della Chiesa italiana, stimolando ad «allargare gli spazi della nostra razionalità». Le sfide del mondo di oggi sono tante: ecco perché dobbiamo dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo per restituire alla fede cristiana piena cittadinanza. Il Concilio, bussola del nostro orientamento I Francesco Lambiasi n un primo tempo sembrava dovesse essere una sorta di grande convention sul laicato. Poi, a un certo punto, ha rischiato di diventare un convegno teologico-pastorale sulla speranza. Di fatto il IV Convegno Ecclesiale, tenutosi a Verona dal 16 al 20 ottobre scorso, non è stato né l’una né l’altro. Nelle intenzioni dei vescovi italiani, espresse dal presidente del Comitato preparatorio nella introduzione alla Traccia di preparazione, card. Dionigi Tettamanzi, l’evento di Verona si proponeva di «dare un nuovo impulso allo slancio missionario scaturito dal grande Giubileo del 2000 e di compiere una prima verifica del cammino pastorale svolto in questo decennio e di essere occasione di ripresa e di rilancio verso gli impegni che ancora ci attendono». Verona come verifica, ripresa e rilancio degli Orientamenti pastorali per il primo decennio del 2000, Comunicare il vangelo in un mondo che cambia (Cvmc): è stato effettivamente così? Il primato dell’adorazione Dalla contemplazione alla missione, sulla strada della formazione, nel segno di una comunione partecipata e corresponsabile, assumendo il Concilio come “bussola” di orientamento, nell’orizzonte vitale della speranza: in sintesi, questo è il cammino prospettato alle Chiese in Italia da Cvmc. Come si ricorderà, il documento rappresentava una novità rispetto ai precedenti, perché non era impostato secondo l’abi- 42 Francesco Lambiasi è Assistente Ecclesiastico Generale dell’Azione Cattolica Italiana. È stato VicePresidente del Comitato Preparatorio per il Convegno Ecclesiale di Verona. dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 43 dialoghi n. 4 dicembre 2006 FRANCESCO LAMBIASI tuale scansione tripartita: vedere-giudicare-agire, ma si apriva con un primo capitolo interamente dedicato a motivare l’invito rivolto alle comunità cristiane a tenere «lo sguardo fisso su Gesù, l’Inviato del Padre». La seconda parte trattava de La Chiesa a servizio della missione di Cristo, cui seguiva una conclusione, significativamente intitolata Una vita di comunione. Già questo impianto lineare e organico parla da sé, e dice che la Chiesa può affrontare il compito dell’evangelizzazione ponendosi anzitutto e sempre di fronte a Gesù Cristo, il Testimone del Padre. Solo seguendo l’itinerario della missione del primo e più grande Evangelizzatore e ispirandosi al suo stile, sarà possibile per la Chiesa imprimere alla sua azione un orientamento decisamente missionario. Pertanto il primo capitolo di Cvmc ripercorre le quattro tappe dell’unica missione del Figlio di Dio: il suo invio dal Padre, la sua venuta in mezzo a noi, la sua morte e risurrezione, la sua venuta gloriosa alla fine dei tempi. “Verona” ha confermato e ripreso questa impostazione. Fin dalle prime battute il Convegno si è presentato non (solo) come una riflessione su Cristo speranza del mondo, ma come un vero incontro con Cristo, Signore della storia, e come una “rinnovata effusione dello Spirito Santo”. È stato Benedetto XVI a esplicitare questo nesso inscindibile e vivo dei testimoni della speranza con il Risorto, dedicando un passaggio di rara efficacia comunicativa della sua omelia nello stadio “Bentegodi” alla paroletta più minuta del motto del Convegno: Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo. Quel di – sottolineava il Papa – va capito bene. Vuol dire che il testimone è di Gesù risorto, cioè appartiene a Lui. «Quel di non indica riferimento, come la preposizione del mondo. Solo se, come Cristo, non sono del mondo, i cristiani possono essere speranza nel mondo e per il mondo». Nel suo lungo e fondamentale intervento alla Fiera, il Papa aveva dedicato il primo paragrafo proprio alla contemplazione del Signore Risorto che fa di ogni battezzato un soggetto nuovo, un io liberato dall’isolamento. «“Io e non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel battesimo, la formula della risurrezione dentro al nostro tempo, la formula della novità cristiana chiamata a trasformare il mondo». Per questo «prima di ogni nostra attività e di ogni nostro programma... deve esserci l’adorazione, che ci rende davvero liberi e ci dà i criteri per il nostro agire». Questo diventa pertanto il primo obiettivo a cui puntare per il dopoConvegno: la contemplazione come esperienza indispensabile per un autentico cammino di santità, definita da P. Bignardi «l’unica misura secondo cui vale la pena essere cristiani». Forse è il caso di esplicitare l’impatto che da questo fondamento e dalla conseguente centralità cristologica risulta per il modo della Chiesa di rapportarsi al mondo e alla sua storia. È un atteggiamento troppo ricco e 43 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 44 IL CONCILIO, BUSSOLA DEL NOSTRO ORIENTAMENTO complesso, che non si può ridurre alla semplice categoria (idea-azione) di “dialogo”, ma che si traduce in un obiettivo fondamentale e in diversi strumenti da utilizzare per raggiungerlo. L’obiettivo è quello di rendere sempre più trasparente l’imprescindibile carattere “cristiano” della Chiesa: il fatto cioè che la Chiesa è da-in-per Cristo. Questo volto cristiano della Chiesa deve apparire nell’annuncio, nella celebrazione, nel servizio della carità; deve trasparire nella testimonianza dei credenti e nel modo di attuare la presenza della Chiesa, nel suo ruolo e nel suo stile; deve potersi leggere nel discernimento comunitario dei segni di Dio nella storia; deve lasciarsi decifrare dal nostro atteggiamento verso il mondo: un atteggiamento di amore e non di compiacimento; di servizio gratuito, per fare strada a Cristo senza farsi strada; di testimonianza al vangelo senza complessi e senza reticenze, senza ripiegamenti e senza recriminazioni; di contestazione degli idoli del mondo, ma senza mai ricorrere a forme di violenza o di subdola pressione; di accoglienza dei “semi del Verbo” e di difesa (“apologia”) della speranza che è in noi, ma sempre “con dolcezza e rispetto” (1Pt 3,15). La “nuova fase” del progetto culturale Gli Orientamenti pastorali per questo decennio avevano parlato non solo di “conversione missionaria”, ma anche di Questo volto cristiano “conversione culturale”, in modo che il vangelo sia incarnato della Chiesa deve nel nostro tempo per ispirare la cultura e aprirla all’accoglienapparire nell’annuncio, za integrale di tutto ciò che è autenticamente umano” (n. 50). nella celebrazione, nel A Verona il Papa è ritornato sul Progetto culturale della servizio della carità; Chiesa italiana, stimolando ad «allargare gli spazi della deve trasparire nella nostra razionalità», e facendo presente che siamo ora di testimonianza dei fronte a una nuova opportunità, quella di «riaprirla alle credenti e nel modo di grandi questioni del vero e del bene, di coniugare tra loro la attuare la presenza della teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro Chiesa, nel suo ruolo e metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nel suo stile. nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme. È questo un compito che sta davanti a noi, un’avventura affascinante nella quale merita spendersi, per dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza. Il Progetto culturale della Chiesa in Italia è senza dubbio, a tal fine, un’intuizione felice e un contributo assai importante». Ma il Papa ha anche offerto una interessante esemplificazione al riguardo, proponendo una lettura della situazione dell’Italia di oggi «come un terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole» per la testimonianza cristiana. Bisognoso perché anche l’Italia viene investita da «una nuova ondata di illuminismo e di laicismo, per la quale 44 dialoghi n. 4 dicembre 2006 23-11-2006 8:50 Pagina 45 FRANCESCO LAMBIASI Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 sarebbe razionalmente valido solo ciò che è sperimentabile e calcolabile». Da ciò deriva anche la riduzione dell’etica entro i confini dell’individualismo, del relativismo e dell’utilitarismo. D’altra parte l’Italia rappresenta un terreno favorevole per la testimonianza cristiana, come risulta dalla sua presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione; dalla vitalità della tradizione cristiana; dal grande sforzo di evangelizzazione e catechesi; dalla consapevolezza dell’insufficienza di una razionalità chiusa in dialoghi n. 4 dicembre 2006 45 IL CONCILIO, BUSSOLA DEL NOSTRO ORIENTAMENTO Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 46 se stessa; dal rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà. Oltre a questa diagnosi nitida e perspicace, il Papa ha dischiuso una prospettiva stimolante e assai avvincente, e ha proposto una osservazione metodologica convincente e motivata. La prospettiva è quella della fede come “il grande sì”: Cristo è il grande sì che Dio ha detto all’uomo e alla vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza. Ciò comporta una visione positiva, fiduciosa e creativa dell’antropologia cristiana, che senza dimenticare i tratti di fragilità della natura umana, senza trascurare le tensioni e le contraddizioni della nostra epoca, guarda alla fede come al fattore della più grande promozione umana, nella linea dei padri della Chiesa di Oriente i quali non trovavano altra parola per dire tutto questo che “divinizzazione”. Non si tratta di difendere un’identità minacciata, ma di raccogliere l’eredità dei testimoni che hanno lasciato tracce indelebili in ogni angolo della Penisola. Volti luminosi di una santità che è «quel comportamento perfettamente umano che è divino» (dom F. Mosconi). Infatti solo se crediamo che «chi segue Cristo uomo, si fa lui pure più uomo» (GS 41), siamo in grado di reagire positivamente a una distorsione ancora presente nell’immaginario collettivo, che continua a pensare a “cattolico” come al “signor-no” e alla Chiesa come Sul piano metodologico, ad un’acida matrigna o a una maestra triste e accigliata, e va raccolto l’invito del riusciamo a presentare anche la croce come «il sì estremo di Papa a evitare «ogni Dio all’uomo». Allora anche i “no” che il cristianesimo deve rinunciatario pronunciare non saranno visti come sadica mutilazione ripiegamento su noi della libertà umana, ma come amputazione necessaria, stessi», che sarebbe come intervento risanante delle sue forme deviate e delle autolesionismo sue pericolose contraffazioni, e quindi come dei veri “sì” a patologico, e piuttosto a un umanesimo liberante, fecondo, plenario. Come si vede, cogliere ogni opportunità, ritorna un tema molto caro a Papa Benedetto, da lui felicea valorizzare ogni risorsa, mente formulato fin dall’inizio del pontificato: «Cristo non a non trascurare alcuna toglie nulla e dà tutto». Sovviene qui un’immagine, che il delle energie che card. Ratzinger donò alcuni anni fa a un altro convegno possono contribuire alla della Chiesa italiana. Noi siamo, disse, come i tagliatori di crescita culturale e sicomori, alberi che fanno frutti abbondanti, ma insipidi; e morale dell’Italia. però insipidi fino a quando il coltivatore non ne incide con cura la superficie e così li fa maturare fino a farli diventare assai gustosi. Sul piano metodologico, va raccolto l’invito del Papa a evitare «ogni rinunciatario ripiegamento su noi stessi», che sarebbe autolesionismo patologico, e piuttosto a cogliere ogni opportunità, a valorizzare ogni risorsa, a non trascurare alcuna delle energie che possono contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia. In questo spirito va promosso un 46 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 47 FRANCESCO LAMBIASI atteggiamento di dialogo con tutti, anche con «coloro che non condividono o almeno non praticano la nostra fede», eppure avvertono «la gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà». A Verona, già nella prolusione, il card. Tettamanzi aveva parlato di “seconda fase” del Progetto culturale, uno spunto poi ripreso e rilanciato dal card. Ruini nella conclusione: questa fase «va compiuta nella linea del sì all’uomo, alla sua ragione e alla sua libertà. Abbraccia le molteplici articolazioni del pensiero e dell’arte, il linguaggio dell’intelligenza e della vita, ogni fase dell’esistenza della persona e il contesto familiare e sociale in cui essa vive. È affidata alla responsabilità dei vescovi e al lavoro dei teologi, ma chiama ugualmente in causa la nostra pastorale, la catechesi e la predicazione, l’insegnamento della religione e la scuola cattolica, così come la ricerca filosofica, storica e scientifica e il corrispondente impegno didattico nelle scuole e nelle università, e ancora lo spazio tanto ampio e pervasivo della comunicazione mediatica. Di più, la sollecitudine specifica per la questione della verità è parte essenziale di quella missionarietà a cui i cristiani laici sono chiamati nei molteplici spazi della vita quotidiana, familiare e professionale». Formazione, testimonianza, missione «Dopo aver privilegiato negli orientamenti pastorali dello scorso decennio la virtù teologale e l’esperienza concreta della carità al centro del nostro interesse si colloca ora la speranza»: così si legge nell’Agenda pastorale, in appendice a Cvmc. In un mondo appiattito sul presente, le nostre comunità vanno avvertendo in modo sempre più acuto che, per l’albero dell’antropologia cristiana, se la radice è la cristologia, l’escatologia è il suo ossigeno. E se è vero che la fede senza la carità è morta, è altrettanto vero che senza la speranza è cieca. Ma sappiamo che oggi, nel clima relativistico dominante, la speranza è la virtù più difficile: la carità è generalmente apprezzata e la fede – purché ricondotta alla sfera soggettiva – viene tollerata, ma la speranza è incompresa e per lo più snobbata. La comunità cristiana non può dare conto della speranza che la abita senza la testimonianza dei cristiani laici. Proprio i laici hanno mostrato il volto sereno e maturo dell’assemblea veronese e ne sono stati i protagonisti umili, responsabili, costruttivi. «È venuta l’ora – aveva detto il card. Tettamanzi, riprendendo CfL 2 – in cui la splendida teoria conciliare sul laicato diventi un’autentica prassi ecclesiale». Cosa manca? Il trinomio indicato dallo stesso arcivescovo di Milano: comunione, collaborazione e corresponsabilità. Nonostante i molti passi in avanti, subiamo ancora gli effetti di un’anacronistica frammentazione e dello scarso riconoscimento dell’esperienza “mondana” dei laici nel pensare e interpretare la missione cristiana. Su di essi il Convegno ha concentrato fiducia e attesa; non rispondere con dialoghi n. 4 dicembre 2006 47 23-11-2006 8:50 Pagina 48 IL CONCILIO, BUSSOLA DEL NOSTRO ORIENTAMENTO Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 maturità sarebbe sprecare la grazia di questo momento. La condizione per questo obiettivo, che in gran parte resta ancora davanti a noi, è la formazione. Indicata nel cammino preparatorio come una vera e propria emergenza – in tutti gli ambiti: dalla sfera affettiva a quella sociale, passando attraverso la partecipazione e il dialogo – la formazione delle coscienze è l’unica via in grado di «risvegliare il coraggio delle decisioni definitive». Le sintesi dei gruppi di lavoro al Convegno ne sono una chiara conferma: educare l’intelligenza, la libertà e la capacità di amare costituiscono i grandi capitoli di un “progetto formativo permanente” in cui la parrocchia è la prima scuola di educazione e di comunione, luogo di confronto e di rigenerazione del linguaggio credente. Un territorio del vissuto che non può essere lasciato sguarnito del fermento della testimonianza laicale è quello della politica. Una ripresa di soggettività del laicato non è essenziale solo per rispondere alla fondamentale esigenza dell’evangelizzazione. Anche la qualità della convivenza civile ne trae vantaggio. La Chiesa – ha ricordato il Papa – ha un interesse 48 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 49 FRANCESCO LAMBIASI profondo per il bene della comunità politica, ma «non è e non intende essere un agente politico», per cui non tocca a essa in quanto tale ma ai fedeli laici, «sotto la propria responsabilità», agire in questo ambito per costruire una società più giusta. La comunità ecclesiale, da parte sua, ha un duplice contributo da offrire alla vita pubblica: aiutare la ragione ad essere fedele a se stessa e radicare nelle coscienze le energie morali e spirituali necessarie alla costruzione del bene comune. Organizzare la speranza è un compito molto concreto: significa affrontare la questione demografica, la precarietà lavorativa dei giovani e i problemi dell’immigrazione; contrastare le povertà e superare i divari interni al Paese; accrescere la dimensione relazionale dell’economia e riconoscere il ruolo sociale della famiglia. In conclusione, qualche appunto veloce sull’agenda pastorale di questa seconda metà del decennio in corso. Quella in appendice a Cvmc esce da Verona confermata e rilanciata. Attendiamo il documento dei vescovi, ma intanto sarà bene scrivere in rosso sull’agenda: continuare la traduzione del Concilio in italiano; portare avanti la riforma della Chiesa, nel segno della comunione e della corresponsabilità; decomplessificare la pastorale, troppo burocratizzata, dispersa e affannata, e renderla più “integrata” e più centrata sulle persone e sulle relazioni; promuovere una formazione dei laici con cammini non finalizzati a cose da fare; riprendere il tema dei luoghi della corresponsabilità ecclesiale (vedi consigli pastorali) ecc. Ma soprattutto fare il passo decisivo: quello della conversione missionaria, concretamente del primo annuncio. Una Chiesa con una Speranza per tutti, a cominciare da quelli di fuori: questo è stato il sogno di Verona. Verso questa meta alta ed esigente il cammino intrapreso da Cvmc continua. Ora, accelerarlo si deve. E si può. dialoghi n. 4 dicembre 2006 49 COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 50 L’ambito delle relazioni intergenerazionali sembra iscriversi tra i luoghi di fragilità nella trasmissione della fede. È urgente ritrovare il concerto tra testimonianza e racconto, in contesti di vita ed esperienze di comunità. È nella dimensione comunitaria che padri e figli possono elaborare e declinare insieme le ragioni del credere. Se la fede diventa dialogo tra le generazioni Monica Amadini ’ L Le nostre speranze sono riposte sempre nella novità di cui ogni generazione è apportatrice1. incontro tra le generazioni soffre oggi di una profonda difficoltà relazionale, frutto d’incomprensioni e di dissensi, ma anche di chiusure e silenzi. Risulta sempre più impellente, in tal senso, accogliere le istanze di disagio che emergono a livello di dialogo intergenerazionale e configurare scenari pedagogici atti a rilanciare un autentico incontro tra le diverse generazioni. Si tratta non tanto di pensare a nuovi elementi contenutistici ma piuttosto d’individuare inedite modalità relazionali, affinché non vada disperdendosi l’eredità di valori che innerva il legame intergenerazionale e il senso di appartenenza che da quest’ultimo scaturisce2. La fragilità di un ponte tra le generazioni priva in particolare i giovani di una matrice di senso con cui identificarsi, per elaborare i tratti del proprio sé in modo originale ma altresì robusto, attingendo dal passato i riferimenti necessari per progettare il futuro. Un’esile trasmissione del passato, infatti, «indebolisce anche il futuro, poiché sottrae la possibilità di interrogare la memoria, di concepire sé stessi nella trascendenza del presente e di attuare confronti, individuare analogie e differenze, elaborare il proprio tempo»3. 50 Monica Amadini è docente di Pedagogia delle Risorse Umane presso l’Università Cattolica di Brescia. Tra le sue pubblicazioni: Ontologia della reciprocità e riflessione pedagogica. Saggio sulla filosofia dell’amore di Maurice Nédoncelle, Vita e Pensiero, Milano 2001; Memoria ed educazione. Le tracce del passato nel divenire dell’uomo, La Scuola, Brescia 2006. dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 51 MONICA AMADINI La costruzione dell’identità personale si avvale della scoperta di avere origini, radici, indizi da cercare, tracce di un percorso umano più ampio che ci avvolge. Ciò assume maggior rilevanza se si pensa all’esplosione delle nuove e sempre più marcate manifestazioni della soggettività, in relazione alle quali l’individuo tende a definirsi come soggetto distinto, indipendente dalle eredità e dalle appartenenze. L’esser parte di una comunità, che ci precede e accoglie la nostra storia, dà radici alla biografia personale. Questo radicamento è fonte di consapevolezza e di speranza. La trama delle relazioni che, entro il contesto comunitario e sociale, s’instaurano tra le giovani generazioni e le generazioni più attempate permette a ciascuno di situarsi in un “noi”, rispetto al quale configurare la propria identità, tra appartenenza e differenziazione. I modelli trasmessi dalle generazioni precedenti non vanno pertanto assunti passivamente dalle nuove generazioni: devono invece favorire un’elaborazione personale, essere ricchi di spunti d’azione creativa. Pur nella continuità, tali modelli devono aprire al cambiamento. L’assunzione responsabile e personale delle scelte avviene in un confronto critico con i criteri assiologici “tramandati”. Non a caso, il pensiero di H. Arendt, citato in esordio al presente articolo, si traduce in un appello affinché la novità introdotta dalle nuove generazioni non sia assoggettata alle condizioni dettate dai “vecchi”. L’educazione ha il preciso compito di conservare proprio «quanto c’è di nuovo e rivoluzionario» in chi si affaccia alla vita4. I giovani non sono soltanto “dentro” la storia, ma hanno l’impegno esistenziale di produrre in prima persona la propria storia e quella dell’umanità: è in questo modo che il mondo si trasforma. «Ogni nuova generazione introduce l’inaspettato e l’imprevisto, rompe la continuità portandovi la novità della propria presenza; è l’inizio di una nuova storia, che deve far leva, per dispiegarsi, sull’eccedenza di ogni uomo che giunge in un mondo già esistente»5, ma non per questo già compiuto. La rielaborazione è quindi un processo indispensabile che va promosso e accompagnato nei giovani, impegnati a dare risposta alle esigenze e alle questioni esistenziali del presente. Credere nelle possibilità di rielaborazione originale insite nei giovani significa al tempo stesso infondere in loro speranza, contrastando il senso d’indifferenza e d’impotenza che spesso li attanaglia, dinanzi ad un mondo che li sovrasta. Comunicare esperienze di fede tra le generazioni L’erosione del senso di appartenenza ha pesanti ripercussioni anche nell’ambito dell’educazione alla fede. I giovani oggi risultano infatti più esposti all’incertezza dei riferimenti morali e religiosi, all’ambivalenza e all’imprevedibilità dei modelli sociali. L’indebolimento dei fondamenti metafisici ha ragioni di varia natura: le mutate condizioni di vita, le tecdialoghi n. 4 dicembre 2006 51 23-11-2006 8:50 Pagina 52 SE LA FEDE DIVENTA DIALOGO TRA LE GENERAZIONI Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 nologie d’avanguardia, i cambiamenti in campo economico e politico, i problemi epocali. Tuttavia, l’impoverimento del tessuto etico-morale e religioso trova origine anche in una lacerazione del legame intergenerazionale. La ricerca di un orientamento da conferire alla propria esistenza s’inscrive in contesti relazionali di annuncio e trasmissione della fede. Accogliere la novità e la discontinuità che i giovani introducono è pertanto un compito fondamentale, che attiene agli adulti impegnati ad accompagnare i cammini di fede. È indispensabile invocare con forza un impegno formativo in direzione di un ritorno dell’uomo alla propria capacità di fare e proporre esperienze di fede. Non a caso, la crisi della continuità tra le generazioni pare configurarsi come una crisi più profonda della capacità di “scambiare esperienze”, trovando le parole adatte affinché l’esperienza, anche quella religiosa, sia comunicata. La crisi in cui versa oggi un’efficace trasmissione del messaggio religioso è quindi dovuta in modo rilevante alla difficoltà di elaborare i vissuti di fede attraverso un linguaggio condiviso, capace di mediare i significati del singolo con quelli della collettività, dei padri con quelli dei figli. Per ovviare a tale crisi, la ricerca di senso necessita di prendere avvio entro particolari contesti educativi in cui è possibile convergere verso domande comuni di significato, alla ricerca di “simboli collettivi” che avvicinano e tengono insieme6. È un’esigenza di chiara natura pedagogica, per rispondere alla quale è auspicabile un rinnovamento del dialogo intergenerazionale. 52 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 53 MONICA AMADINI I giovani hanno bisogno d’incontrare e condividere proposte di senso, attestanti consapevolezza nella scelta e nell’individuazione dei valori a cui ispirare le azioni. Il dialogo tra generazioni educa alla fede anche ponendosi come opportunità di proporre fini e progetti, attraverso il confronto con esperienze personali di storicizzazione e contestualizzazione della fede. La fede, infatti, nutre ma si nutre essa stessa della capacità personale di assumere coscienza di sé per progettare l’esistenza, prendendo posizione dinanzi agli eventi storici. Laddove, invece, si trovano solo risposte parziali e provvisorie alla propria ricerca di senso, si procede senza punti di riferimento. Affinché la proposta di fede non sia astratta o disincarnata, deve assumere una rilevanza esistenziale ed essere strettamente connessa con il vivere-la-vita. Proprio per trovare conforto e confronto rispetto a questa ricerca esistenziale, che è anche di natura religiosa, le giovani generazioni lanciano alle generazioni attempate un monito alla responsabilità della testimonianza. Gli adulti sono investiti da tale appello nella duplice veste di credenti (impegnati nell’evangelizzazione) e di adulti (impegnati nell’educazione). Gli interrogativi di Paolo, riguardanti coloro che non conoscono Cristo, sono particolarmente pertinenti: “Come potranno invocare Cristo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno senza essere prima inviati? […] La fede dipende dunque dalla predicazione” (Rm 10, 14-17). I giovani chiedono certamente spazi e tempi per affermare la propria identità e sperimentare personali percorsi di fede. Per far ciò hanno però bisogno della presenza disponibile di un modello adulto con cui confrontarsi, pur secondo le modalità del distanziamento e della differenziazione. Diversamente, in assenza di riferimenti, l’alternativa è il disorientamento, «come avverrebbe a naviganti in mezzo all’oceano senza bussola né stelle per stabilire la rotta»7. Inoltre, attraverso questa relazione educativa improntata alla testimonianza, le nuove generazioni impegnano quelle più attempate ad una continua ridefinizione del senso: il confronto autentico esige un interrogarsi incessante e promuove una flessibilità relazionale. Il dialogo educativo, infatti, «quando è ben condotto, acquista una forza “dirompente”, nel senso che modifica di continuo la struttura percettiva degli interlocutori e suscita nuove prospettive»8. Narrare per dar voce alla fede L’interazione educativa e la condivisione di significati attinenti alla fede prendono forma nell’ambito di relazioni interpersonali e intergenerazionali forti; diversamente, si ha una mera ricezione (o un netto rifiuto) di dialoghi n. 4 dicembre 2006 53 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 54 SE LA FEDE DIVENTA DIALOGO TRA LE GENERAZIONI contenuti omologhi ed omologanti. Per costituirsi come vero e proprio luogo relazionale e affettivo, l’incontro tra generazioni deve assumere i tratti di uno spazio dialogico, in cui raccontare e raccontarsi. La narrazione rappresenta una feconda occasione pedagogica di educazione alla fede e attraverso la fede. Riproporre su basi nuove un tempo della narrazione appare oggi cruciale per permettere ai giovani di confrontarsi con storie di vita dense di significato, con esempi viventi di desiderio e ricerca di Dio. Gli adulti che rendono partecipi le giovani generazioni delle risposte che hanno dato alle domande profonde della vita pongono in essere un’importante esperienza formativa. Colui che narra, infatti, non mira «a comunicare il puro in-sé dell’accaduto, ma lo cala nella vita del relatore, per farne dono agli ascoltatori come esperienza»9. Nell’apertura al confronto e alla narrazione si possono rintracciare le ragioni profonde delle proprie scelte religiose e i valori di riferimento. D’altro canto, la ricerca della verità avviene sempre in un contesto di condivisione e narrazione reciproca. Un’attenzione specifica va quindi riservata allo “stile”: uno stile partecipativo nel proporre il Vangelo, che favorisca l’incontro tra la Parola e la vita dei giovani, attraverso un dialogo che scaturisce dal terreno dell’esperienza. Proporre messaggi credibili, legati alla significatività dei vissuti, significa uscire dall’autoreferenzialità e accettare la fatica (e il rischio) di dare nome e storia, cuore e corpo, alle ragioni della fede. La narrazione è anche esercizio di auto-formazione e di apertura esistenziale. La consapevolezza che si conquista rispetto a sé stessi e al proprio cammino di fede favorisce tanto per gli adulti quanto per i più giovani una maggior com-prensione dei percorsi esistenziali degli altri e delle risposte che hanno saputo dare alla propria ricerca del senso. La pedagogia narrativa può offrire molto a chi s’interroga oggi sulle strategie più efficaci per promuovere un autentico incontro tra generazioni distinte. La narrazione aiuta a ordinare le esperienza, genera condivisione, sollecita la capacità di ascolto, insegna la reciprocità. Attraverso la narrazione, è possibile altresì sperimentare una varietà di modi per poter “dire Dio”. La portata metaforica dei vissuti religiosi si presta a diverse forme di narrazione e risponde anche alla ricchezza espressiva dei giovani. Aprirsi alla polisemia del messaggio religioso permette inoltre di dischiuderne le potenzialità incompiute, lasciando spazio all’originalità delle espressioni personali. Le nuove generazioni rappresentano in questa prospettiva per la comunità ecclesiale una preziosa risorsa, perché offrono al messaggio evangelico nuove vie di attuazione. Ascoltare le parole dei giovani significa al tempo stesso corrispondere ad un loro radicato bisogno relazionale. La costruzione del senso di appartenenza si fonda sulla possibilità non solo di ascoltare, ma anche di essere 54 dialoghi n. 4 dicembre 2006 23-11-2006 8:50 Pagina 55 MONICA AMADINI Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 ascoltati. Un comunità attenta e pronta a recepire le istanze di senso dei giovani testimonia una presenza responsabile, suscita identificazione e si rinnova al tempo stesso. In ogni caso, il dar spazio a nuove interpretazioni rende dialettico l’incontro intergenerazionale. La trasmissione della fede avviene quindi all’insegna della continuità e della dispersione al tempo stesso. Il concetto di trasmissione non coincide con quello di mera “trasfusione”; più che l’assimilazione, implica la rielaborazione. La fedeltà s’intreccia con il rinnovamento: non è fissità di adesione bensì “restituzione” responsabile, tra ricordo e novità. Solo se intesa in questa accezione evolutiva e dinamica, la trasmissione della fede assume una valenza educativa, atta a delineare cornici di senso per la costruzione tanto dell’identità personale quanto dialoghi n. 4 dicembre 2006 55 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 56 SE LA FEDE DIVENTA DIALOGO TRA LE GENERAZIONI dell’identità collettiva e comunitaria. L’eredità religiosa consegnata alle nuove generazioni è sottoposta a inedite attualizzazioni, se si decide di lasciar spazio alle narrazioni dei giovani, ammettendo una certa dose d’incertezza, ma anche di novità. La fedeltà al messaggio religioso non è minacciata laddove un “erede” la assume su di sé con consapevolezza, ma anche con libertà. La fatica del “discernimento” va esercitata nei confronti delle nuove esperienze di fede dei giovani, per saper raccogliere da un lato i valori umani ed evangelici del passato e dall’altro per saperli metabolizzare con la freschezza delle nuove forme di incarnazione che le nuove generazioni offrono nel presente e per il futuro. Attraverso esperienze narrative, è possibile trovare nuovi modi di con-vergere e di intendere l’universo della fede. Orientamenti conclusivi Una ricerca aperta e condivisa del discorso di fede scaturisce dal dialogo e dall’ascolto reciproco, attraverso una continua comunicazione delle ragioni fondanti. Questi sono i presupposti non solo per educare alla fede le nuove generazioni, ma anche per edificare la comunità. La capacità di interrogare le ragioni del proprio agire permette alla comunità ecclesiale di rimanere fedele alla propria tensione formativa, promuovendo sia la vita di fede sia la crescita delle persone nella loro integralità. La comunità, di giovani e adulti insieme, che condivide momenti di vita e aiuta ad aprirsi alla verità è una “comunità educativa”. È altresì una “comunità credente”, che sa elaborare un progetto educativo-pastorale volto alla promozione umana, secondo uno stile di presenza e testimonianza attiva nell’annuncio del Vangelo10. Infine (ma non ultimo), fare esperienza di Dio e proporla alle nuove generazioni significa aver fiducia nella presenza attiva e feconda di Dio tanto nella storia personale quanto in quella dell’intera comunità. Si tratta di una via principale di testimonianza del senso autentico della fede in Dio. Il dialogo intergenerazionale che affonda le radici in Dio sa dare dignità alle diverse esperienze di fede, riconoscendo all’opera lo Spirito Santo nei molteplici cammini di ricerca del senso. 56 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 57 dialoghi n. 4 dicembre 2006 MONICA AMADINI Note 1 H. Arendt, Tra passato e futuro (trad. dall’inglese), Garzanti, Milano 2001, p. 250. 2 Cfr. L. Pati, Progettare la vita. Itinerari di educazione al matrimonio e alla famiglia, La Scuola, Brescia 2004; in particolare pp. 44-57. 3 V. Iori, “Implicazioni educative della moratoria psicosociale”, in Pedagogia e Vita, 2001, 6, p. 23. 4 H. Arendt, Tra passato e futuro, pp. 250-251. 5 M. Amadini, “Percorsi educativi intergenerazionali. La funzione pedagogica del far memoria”, in Pedagogia e Vita, 2005, 3, p. 138. 6 A. Chionna, Pedagogia della responsabilità. Educazione contesti sociali, La Scuola, Brescia 2001, p. 118. 7 Cfr. V. Iori (a cura di), Generazioni. Mutamenti nelle classi di età e nelle fasi della vita familiare, Collana Strumenti, Reggio Emilia 1999, pp. 78-79. 8 N. Galli, “I giovani: un nuovo impegno per la pedagogia e l’educazione”, in AA. VV., La giovinezza, un nuovo stadio per l’educazione, La Scuola, Brescia 2000, p. 77. 9 W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1995, p. 93. 10 Cfr. al riguardo le suggestive riflessioni sviluppate da D. Maggi in Educazione e pastorale, Una scelta di Chiesa, Elledici, Torino, 2003. «La pastorale “educativa” – scrive – non si riduce mai alla sola catechesi o alla sola liturgia, ma spazia in tutti i concreti impegni della persona e della sua condizione. Si situa all’interno del processo di umanizzazione nella convinzione che il Vangelo deve proprio essere seminato lì per portare ogni persona ad impegnarsi generosamente nella storia. Niente di quello che la persona si porta dentro è indifferente all’educatore». Ibid. p. 81. 57 COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 58 Ogni comunicazione fa leva sull’esperienza, su realtà sperimentate che diventano spunto per altre riflessioni. Ma cosa accade nel caso dei contenuti della fede? Ci sono “parole difficili” che fatichiamo – oggi più che un tempo – a proporre, specie ai più piccoli? Talvolta le parole della rivelazione devono servirsi della creatività dei simboli o di quella della poesia. Le parole difficili della Rivelazione U Anna Peiretti n ragno tesse la sua ragnatela lassù, in un angolo delle pareti dello studio. Ha trovato un appiglio. Sta costruendo la sua dimora. È affascinante; così sicuro di sé, si muove senza esitazioni. La sua tela è una trama finissima, perfetta. È osservando un ragno che il teologo brasiliano Rubem Alves1 dà inizio alla riflessione sulle parole. Il ragno cerca un punto di appoggio, lega la tela ad un elemento sicuro, resistente. Nessuna ragnatela potrebbe sussistere se sospesa nell’aria. Così avviene per le parole; devono legarsi alle cose per avere significato. Nessun discorso può essere sospeso nel vuoto. Dunque le parole sono legate alla realtà delle cose. Da esse dipendono, per esistere. La scrittrice americana Flannery O’Connor (1925-1964) riuscì a dare nella maniera più compiuta l’idea che la letteratura ha valore concreto e tangibile. Nei suoi testi sostenne infatti che la natura delle parole è in gran parte determinata dalla natura del nostro apparato percettivo. La concretezza della narrazione deriva dal fatto che il materiale alla base delle storie deve per forza essere desunto dal reale tramite i sensi, tutti e cinque i sensi, che determinano il nostro apparato percettivo. Del resto come impara un bambino? Prima di poter denominare correttamente un oggetto, egli deve farne la scoperta sensoriale. Le parole iniziano dunque quando inizia la percezione umana. La comunicazione agisce attraverso, e prima di tutto, i sensi, e sui sensi nulla possono le astrazioni. Si dovrebbe tener presente che il processo conoscitivo attraverso cui il bambino scopre le paro- 58 Anna Peiretti è caporedattore della rivista “La Giostra”. Tra le sue pubblicazioni: Ragazzi a tre dimensioni, Effatà, Cantalupa (TO) 2006; La morte Raccontata ai bambini, Elledici, Leumann (TO) 2005. dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 59 dialoghi n. 4 dicembre 2006 ANNA PEIRETTI le del suo credo religioso è questo, lo stesso. Chi oggi comunica la fede ai bambini − genitore, insegnante o catechista egli sia − deve compiere lo sforzo di legare le sue parole alla materia, di ancorarle alla realtà. Dovrebbe essere capace di abbandonarsi al mondo che lo circonda, fatto di cose e persone, più, e prima, che di idee astratte, di filosofia, di principi. Le parole divengono significative solo se desunte dal reale, tramite i sensi. Ecco perché le parole dell’escatologia, per le quali un bambino non riesce a trovare nulla di reale a cui si legano, risultano del tutto prive di significato. Non è soltanto nel rapporto con le cose (il mondo materiale conoscibile attraverso i sensi) che le parole acquistano significato e valore, ma anche nella relazione interpersonale in cui le parole vengono ascoltate e ripetute, comunicate. È chi mi parla, anche soltanto con la voce e nello sguardo, a donare senso alle parole. Alcune parole sono legate ad una persona particolare, rimandano ad una situazione, evocano sentimenti unici. Alla nascita il bambino scopre la voce della madre che gli parla. Entra in relazione con lei ricevendo oltre al latte, al calore e alle lacrime, parole. Quale madre non nutre di parole il figlio? Nei primi mesi di vita il bambino è del tutto indifferente al suono e al contenuto di quel che le sue orecchie sentono; quello che conta, per lui, è il volto della mamma che parla, più del senso delle sue parole. Non è consapevole che quei suoni contengono significati profondi e simbolici che egli stesso si porterà nel cuore per il resto della propria vita. Il linguaggio si origina nella relazione; unicamente in essa acquista senso e valore. Ora, il problema del linguaggio della fede non si risolve dimenticando che anche le parole della rivelazione hanno un legame con la realtà, si comunicano nella relazione. Non possono restare sospese nel vuoto, nell’astrazione dei concetti, pena la loro comprensione. Le prime parole di fede che un bambino ascolta e percepisce hanno un forte aggancio con l’esperienza quotidiana. Rimandano a cose familiari. Padre, per dire Dio. Madre: Dio ama come una madre ama il suo bambino. Maria, la mamma di Gesù. Pane. Vino. Acqua. Sono vocaboli che appartengono al nucleo originario di una lingua. Non sono lontani dalla vita. In una famiglia in cui si vive l’esperienza religiosa (piccoli gesti, il segno della croce, la preghiera della sera, la lettura di un libro, la messa della domenica…) queste parole riescono ad evocare la presenza di Dio. Non tutte le parole della fede però offrono il loro senso con tale naturalezza. Quante parole risultano difficili! Senza andarsi a impelagare nella liturgia, in cui troviamo la “transustanziazione” (che cosa sarà mai?) o l’epiclesi, basta fermarsi a considerarne altre, come benedizione, ascesa, dogma, confessione, peccato, trasfigurazione, virtù... Le parole dell’escatologia, poi... A questo punto della riflessione ci si domanda: «Queste parole potran- 59 LE PAROLE DIFFICILI DELLA RIVELAZIONE Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 60 no far parte del linguaggio religioso di un bambino? A lui potrà essere svelato il loro senso? Saprà esprimersi ricorrendo ad esse?». Intorno ai dodici anni si sviluppa nel ragazzo il pensiero astratto. Scopre, non senza difficoltà, l’esistenza di parole che non si legano a cose della realtà tangibile, inarrivabili per la percezione sensoriale. Evocano anche realtà non terrene: il paradiso, l’inferno, il purgatorio. Parole per dimensioni interiori misconosciute quali la coscienza, l’anima. Il ragazzo non trova nella sua esperienza nulla che sia gancio per questi termini, offrendogli un significato possibile per essi. «Il tempo in cui viviamo soffre di afasia, dell’incapacità cioè di esprimere e comprendere le parole: un male oscuro che attacca anche le zone più profonde dell’animo umano. Nella società della comunicazione si assiste ad un paradosso: pur aumentando vertiginosamente la quantità di informazioni disponibili, si impoverisce il linguaggio, riducendosi in percentuale esponenziale il numero di parole atte a esprimere sentimenti, emozioni, valori, slanci della mente e del cuore»2. Sicuramente dovremmo accogliere oggi la sfida di Padre David Turoldo, che condannava il nostro tempo dal «linguaggio consumato» e dalle «parole frustre». «Si parla a vuoto, il mondo è pieno di parole, ma nessuno ascolta e forse questo è il male maggiore di cui siamo malati...» È attuale ancora oggi la sua denuncia del logorio in cui è racchiuso il nostro alfabeto: «Il nostro vocabolario è un tormento, piuttosto che un aiuto al mistero». Oggi il problema della catechesi presenta aspetti simili all’apprendimento di una lingua straniera. Il bambino ha appreso la lingua madre nel contesto familiare, in una comunità di appartenenza e entro la cultura di riferimento. Imparare una lingua è un processo legato a persone, a luoghi e ad un tempo. La lingua è identità e contemporaneamente pensiero e rappresentazione della realtà circostante. La perNella società della cezione uditiva dei nomi induce nel bambino una rielaboracomunicazione si zione a tre livelli: sul piano individuale (la storia esistenziale assiste ad un paradosso: della persona che comunica); sul piano relazionale, dei valopur aumentando la ri e dei significati che il gruppo familiare e di appartenenza quantità di informazioni danno a quelle parole come simbolo della propria storia, disponibili, si valori e miti; sul piano culturale, dei simboli con cui un impoverisce il gruppo esprime modelli, stereotipi, valori. La lingua dunlinguaggio, riducendosi que è carica di aspetti inconsci e simbolici che vanno consiil numero di parole atte a derati, valorizzati e rispettati. esprimere sentimenti, L’insegnamento di una lingua in realtà è anche una emozioni, valori, slanci pedagogia simbolica. Al ragazzo non basta più il linguaggio della mente e del cuore. aneddotico che descrive le cose reali. L’uso descrittivo della parola risulta un limite per la crescita spirituale. Per le cose invisibili, trascendenti, non può funzionare il meccanismo: indico la cosa e dico il nome. La parola ha un altro uso, quello simbolico. Si tratta di 60 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 61 dialoghi n. 4 dicembre 2006 ANNA PEIRETTI scoprire come dire Dio con le parole di quaggiù. Forse basterebbe tornare alla mentalità simbolica del medioevo e, prima, dei Padri. Nella concezione medievale il mondo veniva considerato un sistema di simboli. Lo sguardo verso le cose veniva nutrito con la convinzione che anche la più infima realtà non può limitarsi alla sua funzione immediata, ma si estende all’aldilà. «È la differenza che passa fra guardare una persona che non si ama e guardarla quando la si ama», ebbe modo di dire lo storico Huizinga nel descrivere lo spirito della simbologia medievale. Leggendo in ogni cosa un significato di ordine superiore, appartenente alla sfera spirituale, tutto rimanda a Dio, tutto è immagine del suo Amore. Dio creatore ha trasformato in materiale lo spirituale; il linguaggio di oggi dovrebbe trasformare il materiale in spirituale, riportando le cose al cielo... Il simbolo è custodito nell’analogia, che è una categoria dell’essere: segue l’idea che tutte le realtà possiedono un’intima connessione, rimandando l’una all’altra. Se non vedessimo la bellezza creata non potremmo nominare Dio Perfetto; se non conoscessimo persone buone non potremmo chiamarlo Padre Buono. Si arriva alla causa universale attraverso la conoscenza analogica delle cose. Dio si dona a misura delle nostre capacità... Così Zeno di Verona riesce a parlare della resurrezione come del risveglio della natura: «In questo giorno, allontanata la melanconia del passato inverno, sotto il soffiare mite del carezzevole vento Favonio, i prati germogliano ovunque, profumando di fiori... Chi non capisce che tutto questo è un simbolo dei misteri celesti?»3. La Bibbia stessa usa questo linguaggio. Che cosa possiamo dire della trasfigurazione? Henri Nouwen guardando il rosone della Cattedrale di Notre Dame ebbe una nuova intuizione della trasfigurazione avvenuta sul monte Tabor: la luce di Dio che splende nel corpo di Gesù. «Sei secoli fa fu fatto un rosone che oggi mi aiuta a vedere la gloria di Cristo in modo nuovo», scrisse nel suo diario il 23 febbraio 1985. Quando un simbolo è appropriato, azzeccato, aderente alla realtà eppure aperto alla trascendenza, ha la capacità di prendere per mano il ragazzo e fargli vedere anche tutto quello che le parole non dicono, di mostrargli quel significato che, pur nascosto, vive e dà vita alla fede. Il simbolo non ha mai l’evidenza del segno, anche quando è chiaro. Pensiamo all’icona del computer; è segno che immediatamente rimanda alla cosa, comunica il messaggio per automatismo. Il simbolo invece richiede partecipazione e coinvolgimento nella ricerca di un senso personale. Quando un ragazzo entra nel mistero della rivelazione cristiana è un po’ come se entrasse in una galleria di opere d’arte. L’arte, come il simbolo, non descrive neanche quando è naturalistica; è sempre portatrice di un significato aggiunto al dato reale. Di per sé ogni opera d’arte, così come 61 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 62 LE PAROLE DIFFICILI DELLA RIVELAZIONE ogni parola di fede, per sua natura, coinvolge e invita alla partecipazione nella ricerca dei suoi stessi significati. «Che cosa significa... per te?» Il simbolo provoca la riflessione, sprona alla ricerca. Il solo fatto di testimoniare questo atteggiamento ha un valore educativo, soprattutto oggi: i ragazzi percepiscono un’enorme quantità di immagini, acquisite con estrema velocità, in un susseguirsi che non permette l’azione del pensiero e dello spirito critico. La dialettica del simbolo è quella del vicino-lontano, dell’uguale eppure diverso, del reale e dello spirituale; solo in questo orizzonte è possibile comprenderne il senso. I ragazzi dovrebbero essere messi in condizione di prendere la parola su ciò che ascoltano. La linguistica moderna insegna che la produzione di un linguaggio personale è necessaria all’acquisizione. Deve essere possibile una presa di parole sulle parole perché esse possano diventare significative. Se molti nomi hanno perduto il loro significato è anche perché i ragazzi sono raramente provocati a utilizzarli in un discorso. Quando l’uomo si scopre capace di pensiero e di parola scopre di avere una capacità infinita di riformulare le cose che vede e apprende, e queste cose infinite, eterne, che percepisce, quando lui stesso le racconta, diventano una sorta di creazione. C’è una parola in aramaico che suona ibra k’dibra che letteralmente vuol dire “io creo attraverso il mio parlare” (da cui il nostro abracadabra). Con la parola, in un certo modo, diveniamo con-creatori, generiamo stati d’animo, sveliamo cose che prima non erano visibili. Un bambino sarà capace di possedere le parole (comprenderne il significato, ricorrere ad esse nei suoi discorsi) tanto più avrà avuto la possibilità di raccontarle con la sua esperienza. Per un bambino la parola “morte” (molto prima che la parola “resurrezione”) non avrà nessun significato se non avrà avuto modo di lavorare interiormente per cercare e formulare un racconto del suo vissuto, un’esperienza. Ma i bambini non vengono accompagnati ai funerali dei nonni; sono troppo piccoli... Si dice... Quante occasioni hanno i ragazzi di prendere la parola, nelle nostre chiese? La catechesi è purtroppo ancora considerata trasmissione della fede; i ragazzi interlocutori muti e ascoltatori passivi. L’educatore non è colui che dispiega il significato delle parole, nel senso che non le “spiega”, piuttosto le illumina. Resterà su di loro sempre una zona d’ombra, tale è il mistero che comunicano. Se la catechesi fosse più narrazione che spiegazione (dottrina) le parole avrebbero modo di svelarsi, di dispiegare il loro senso profondo. I sensi ci portano alla realtà delle parole, l’immaginazione ci conduce al loro significato simbolico. Attraverso l’immaginazione infatti è possibile creare immagini che non vengono dai sensi, quindi conducono la conoscenza a livelli più profondi. È l’immaginazione il deposito del senso ultimo, partecipazione alla verità del mondo. «Ogni discorso su Dio dev’essere introdotto dalla parola che usavano gli antichi rabbini ki-vjakhol, come si 62 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 63 ANNA PEIRETTI potesse dire”, “se così si può dire”, perché non c’è linguaggio su Dio, neppure quello metafisico, neppure quello del “totalmente altro” che non sia mitico»4. Italo Calvino, nelle sue Lezioni Americane, definì l’immaginazione «deposito del senso ultimo, partecipazione alla verità del mondo». Ignazio di Loyola trasformò la Parola − le parole − in vedute, in visioni. Il suo procedimento conoscitivo prevedeva che il fedele immaginasse interiormente la parola, come se dovesse dipingere sulla parete della propria mente affreschi. Se questa parola fosse un’immagine, che immagine sarebbe? Ai Padri l’esercizio veniva facile... Qualche volta l’etimologia veniva loro in soccorso... Si può interpretare il termine “peccato” (l’etimologia è greca) come l’atto di chi sbaglia il bersaglio. È nel peccato chi vive al minimo la possibilità della vita umana. La conversione libera possibilità di crescita, sviluppa le potenzialità. In questo esempio il senso della parola si svela nell’etimologia, nell’immagine simbolica, nella realtà concreta di un atto, quello del centrare il bersaglio. Credo che le parole della rivelazione abbiano in un certo senso la caratteristica del linguaggio poetico. La poesia non è per la chiarezza scientifica, ma per la ricerca dei significati delle parole. La poesia rende in qualche modo a chi legge la consapevolezza che la verità dimora al di là del visibile, dell’evidente... di questa realtà. Proprio nella fatica della ricerca dei significati si svela l’essenziale. L’immaginazione si purifica nel crogiolo della ricerca, si affina, si perfeziona. Più è profonda l’esperienza spirituale più le parole della fede acquistano forza e potere. Le immagini simboliche diventano culla della Verità. Lo insegna Simone Weil: «Quando si è al limite della sete, quando si è ammalati di sete, non ci si raffigura più l’atto del bere i rapporto a se stessi e nemmeno l’atto del bere in generale; ci si raffigura soltanto l’acqua, l’acqua in se stessa, ma questa raffigurazione dell’acqua è come il grido di tutto l’essere»5. Il linguaggio religioso dovrebbe mobilitare tutte le capacità di comprensione, sollecitare l’immaginazione, ammonire a cercare oltre. Voler vedere la faccia Dio è l’equivalente di voler parlare di Lui. Note 1 R. A. Alves, Parole da mangiare, Edizioni Qiqajon, Bose 1998. 2 A. Peiretti (a cura), D. M. Turoldo. Dizionario spirituale, Piemme, Casale Monferrato 2002. 3 S. Zeno di Verona, Tractatus I, 33 (CCL, 22). 4 P. De Benedetti, Quale Dio, Morcelliana, Brescia 1996. 5 S.Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1999. dialoghi n. 4 dicembre 2006 63 COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 64 La “questione antropologica” va affrontata in termini positivi e propositivi: al centro vi è un annuncio di liberazione da dare, non certo una disciplina morale da imporre. Questa consapevolezza invita a un deciso sforzo di creatività nel cogliere a ogni livello i riverberi della questione: è uno sforzo di lettura dei segni tempi o, come si è ripetuto al Convegno ecclesiale, di discernimento comunitariochecertamenteneiprossimitempiimpegneràicristiani. La “questione antropologica” L Giovanni Grandi a “questione antropologica” è riecheggiata ripetutamente nel corso del Convegno ecclesiale di Verona, diventando un autentico snodo attorno a cui è invitata a riorganizzarsi l’azione della Chiesa stessa. Si tratta – ha rilevato il cardinale Camillo Ruini nel discorso di chiusura – di «una novità di grande spessore e implicazioni che ha guadagnato molto spazio nell’ultimo decennio», una tematica che «nei lavori del nostro Convegno è stata, giustamente, assai presente»1. Il termine “questione” è di quelli nobili, che alludono a snodi irrinunciabili e cruciali: “questione sociale”, “questione morale”, “questione meridionale”... quando si mette in campo l’idea di “questione” si evocano le problematiche epocali, quelle che non possono lasciarci indifferenti perché riguardano tutti. Sollevare una questione significa di fatto operare un discernimento sulla realtà; significa leggere i fatti sociali e culturali e trovarvi dei segnali che destano preoccupazione e che quindi vanno riconsiderati attentamente, coinvolgendo nella riflessione quanti più soggetti possibile. È importante evidenziare questa dinamica, perché sollevare una questione significa in primo luogo aprire un dibattito, non chiuderlo. È questo il modo in cui la Chiesa si fa compagna di strada di ogni uomo, anzitutto invitando a sostare sui problemi, a non liquidarli sbrigativamente, stimolando anzitutto a cercare. La questione antropologica si pone indubbiamente a partire da certi fatti, tra cui spiccano senz’altro tutte le vicende legate 64 Giovanni Grandi è vice-direttore del Centro Studi e Ricerche dell’Istituto Internazionale “Jacques Maritain”; tra le ultime pubblicazioni: L’Oriente e l’Occidente, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004 e Rileggere Maritain, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004; coordina la redazione di Dialoghi. dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 65 GIOVANNI GRANDI alle frontiere della vita umana, ma appunto questi fatti vengono letti come segni, come indicatori di un problema più radicale: questione antropologica è il problema di un’umanità sempre più titubante e confusa dinanzi all’interrogativo sulla propria natura e sulla diversità dell’umano dal resto del vivente. Si delineano in particolare due fronti tra loro collegati: il rinvenimento di un senso per la vita dell’uomo e le risorse da mettere in campo per poterlo attingere. Questione antropologica è, per un verso, riportare alla luce i grandi interrogativi esistenziali e, per un altro, discernere a che livello è decisiva la rivelazione cristiana, a che livello l’annuncio risuona proprio come la buona notizia che, da se stesso, l’uomo non è in grado di rinvenire. Di qui l’insistenza del Papa sulla attenta composizione di ragione e fede, una composizione che chiama in causa il concerto delle scienze2 e che mira ad evitare due eccessi ugualmente perniciosi: l’esilio della fede dal sapere – quasi che non ci sia altro oltre a ciò che le scienze sperimentali ci offrono – e l’esuberanza del fideismo – quasi, all’opposto, che tutto sia risolvibile con un atto di fede e senza impegno per la ragione sperimentale e filosofica. I ripetuti interventi di Benedetto XVI sul tema del rapporto tra fede e ragione e sulla irriducibilità del sapere alla sola dimensione delle scienze sperimentali andrebbero quindi a loro volta riportati proprio alla questione antropologica: «L’uomo non può riporre nella scienza e nella tecnologia una fiducia talmente radicale e incondizionata da credere che il progresso scientifico e tecnologico possa spiegare qualsiasi cosa e rispondere pienamente a tutti i suoi bisogni esistenziali e spirituali. La scienza non può sostituire la filosofia e la rivelazione rispondendo in modo esaustivo alle domande più radicali dell’uomo: domande sul significato della vita e della morte, sui valori ultimi, e sulla stessa natura del progresso»3. Per meglio focalizzare la concretezza della questione, conviene ripartire dai fatti riconsiderandoli nel loro valore di segni. Si diceva degli accesi dibattiti sulle frontiere della vita umana, dibattiti che ruotano attorno ad una questione precisa: «chi è uomo?» – per i più accorti, «chi è persona?» –. È persona l’embrione? Lo è il malato terminale? Lo è l’incosciente? Occorre chiedersi perché la cultura sollevi questo interrogativo di inclusione/esclusione dall’umano. Alle sorgenti di queste domande c’è infatti un dilemma, che potremmo visualizzare in questo modo: tutti avvertiamo che l’umano è inviolabile. Se guardiamo a noi stessi, non ci consideriamo come uno strumento a disposizione di altri. Allo stesso tempo però si profilano condizioni per cui una violazione dell’umano può diventare utile per ottenerne vantaggi (terapie o altro) o per minimizzare costi di tempo e denaro (cura, struttudialoghi n. 4 dicembre 2006 65 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 66 LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA re di assistenza, ospitalità...). Il dilemma è evidente: potrebbe essere utile violare ciò che tuttavia avvertiamo come inviolabile. Ma nessuno se la sente – è ovvio – di sposare una posizione di questo tipo. Allora ecco la via soft: se ci sono i margini per escludere qualcuno dalla cerchia degli inviolabili, il problema cade e si può procedere. Di qui la discussione per stabilire se e quando un vivente che appartiene alla nostra stessa specie – da una donna ed un uomo nascono sempre, e non per coincidenza, un altro uomo ed un’altra donna, non un cavallo o un canarino – abbia le carte in regola per essere incluso o escluso dall’umano. La persona diventa così una dignità da attribuire discrezionalmente e non una realtà da riconoscere universalmente. Il problema non è tanto il sofisma della via soft, che fa leva in modo spregiudicato sulle situazioni di frontiera più problematiche. Il problema piuttosto è che progressivamente sembrano venir meno gli anticorpi culturali ed intellettuali, prima ancora che morali, contro le vie soft dell’esclusione. E precisamente questo è il segnale preoccupante, il segna- 66 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 67 dialoghi n. 4 dicembre 2006 GIOVANNI GRANDI le che non siamo più così convinti che la persona sia una questione di realtà da riconoscere: si fa convincente l’idea che si tratti piuttosto di dignità da attribuire. È il segnale di un conflitto tra la percezione della radicale diversità dell’umano – da cui discende una non-strumentalità dell’umano e quindi la sua inviolabilità – e la visione del vantaggio che potremmo trarre da alcune violazioni, magari selettive, magari soft. La percezione della radicale diversità sembra perdere il match con la visione del vantaggio: si rivela debole, precaria, non ci convince. Accade che, se dobbiamo scegliere tra l’affermare un valore assoluto (rinunciando con questo a qualcosa che è a portata di mano) e il trarre un vantaggio (stendendo la mano), optiamo per la seconda soluzione. Sollevare la questione antropologica significa scorgere, come ha osservato il cardinal Ruini, un problema nuovo, una nuova radice per questa crescente affermazione del primato del vantaggio: è come riconoscere che non si tratta soltanto di una questione di crisi morale, ma di una questione di crisi di coscienza, di crisi dell’intelligenza. In altri termini, non ci scopriamo utilitaristi (e, deteriormente, edonisti) perché siamo tutti più cattivi o spregiudicati: ci scopriamo piuttosto catturati dalla logica del vantaggio immediato perché questa sembra l’unica strada rimasta, perché l’alternativa – l’agire a partire dalla percezione della radicale indisponibilità di ogni uomo – appare debole, poco convincente, forse irragionevole o forse poco sponsorizzata. Ci muoviamo nella luce crepuscolare del tramonto delle «grandi narrazioni» (F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere. 1979), navighiamo a vista avendo perso quelle coordinate che per millenni hanno consentito all’uomo di orientarsi. Ora quelle coordinate ci sembrano favole: favola è l’idea che l’uomo sia diverso dagli altri animali, favola è l’idea che il destino personale non si compia allo scadere del tempo biologico, favola è l’idea che esista una natura dell’uomo che dice – sempre e dovunque – cosa l’umano sia, cosa gli sia proprio, cosa gli sia dovuto. Ed anche cosa non gli appartenga. «Ha luogo – per dirla con le parole di Benedetto XVI – una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro animale. Si ha così un autentico capovolgimento del punto di partenza di questa cultura, che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà»4. Questione antropologica è l’affievolirsi delle ragioni della dignità, è il legare la percezione della diversità (e perciò della dignità) alla vaghezza del sentire, è il ridurre questa percezione a favola. Il rango di “questione” è dato proprio dalla radicalità del problema: se l’umano non è effettivamente altro dall’animale, il principio di discrezionalità nell’inclusione/esclusione dal personale è pienamente giustificato; non escludiamo qualcuno 67 LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 68 perché siamo più cattivi, ma perché in fondo non ci sono ragioni valide per non farlo, se ciò dovesse rivelarsi utile. Tutto dipende allora, lecitamente, dai nostri accordi, dalla nostra cultura, dalla nostra sensibilità, anche dalla nostra posizione di potere. La “questione” non è allora riorientare la moralità ed il costume, non in prima battuta per lo meno. È anzitutto ridare spessore alla percezione della diversità e della dignità dell’umano rispetto al comune animale: è un compito alto, perché siamo dinanzi a quegli interrogativi che giustamente si dicono esistenziali; è un compito concreto perché sono in gioco tante scelte che dipendono dalle risposte che sapremo trovare. È un compito urgente, perché almeno nella società occidentale sembrano moltiplicarsi i segnali di una fragilità nel discernere le grandi domande di senso che albergano in ogni uomo. Dobbiamo allora interrogarci sul ruolo dell’annuncio cristiano dinanzi a questi orizzonti: testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. La rivelazione cristiana ha una parola originale ed irrinunciabile circa la questione antropologica? Possiamo venire a capo di quella percezione di diversità dell’umano con le nostre sole risorse, senza alcuna luce ulteriore? Ci basteranno le forze delle scienze e delle filosofie? L’aria di crisi di coscienza suggerisce una risposta negativa. «Privo del suo riferimento a Dio, l’uomo non può rispondere alle domande fondamentali che agitano e agiteranno sempre il suo cuore riguardo al fine e quindi al senso della sua esistenza. Conseguentemente neppure è possibile immettere nella società quei valori etici che soli possono garantire una conQuando il Papa invita a vivenza degna dell’uomo. Il destino dell’uomo senza il suo non separare fede e riferimento a Dio non può che essere la desolazione dell’anragione ci suggerisce goscia che conduce alla disperazione»5. Con queste parole il che il messaggio della Papa ci invita a fare il punto: le questioni morali si dirimorivelazione non ci no solo a partire dalle posizioni esistenziali. Altrimenti le indirizza verso l’assurdo regole che ci daremo si ridurranno a opprimente moralio l’irrazionale: ci porta smo. Ma non dobbiamo trascurare che una risposta adeguainvece a discernere ciò ta alle domande esistenziali viene solo dalla Rivelazione: è il che, ai nostri occhi, è grande messaggio dell’uomo imago Dei, è il grande annunindecidibile proprio cio che i Padri declinavano dicendo «Dio si è fatto uomo perché ugualmente affinché l’uomo potesse diventare Dio»6, è quella parola ragionevole. inaudita secondo cui siamo «chiamati figli di Dio e lo siamo realmente!»7. La diversità dell’uomo dagli altri esseri viventi è una notizia che può solo essere accolta, una buona notizia che viene da altrove, ma che – e qui occorre davvero fare attenzione – non per questo è favola per creduloni. Quando il Papa invita a non separare fede e ragione ci suggerisce anche – nel solco della millenaria tradizione del pensiero cristiano – che il messag- 68 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 69 dialoghi n. 4 dicembre 2006 GIOVANNI GRANDI gio della rivelazione non ci indirizza verso l’assurdo o l’irrazionale: ci porta invece a discernere ciò che, ai nostri occhi, è indecidibile proprio perché ugualmente ragionevole. Il credere non si sostituisce al pensare, ma – dinanzi ai bivii che la ragione da sola non saprebbe sciogliere – incoraggia a procedere in una direzione piuttosto che nell’altra. È ragionevole pensare che il successo dell’uomo nel cammino dell’evoluzione sia un semplice fatto fortuito, sorprendente ma fortuito; così come è ragionevole ritenere che il successo dell’uomo nell’evoluzione sia il senso stesso di tutto il processo, e che quindi l’uomo sia radicalmente diverso, sia un fine e non un anello di una catena senza capo né coda. La questione antropologica si accende perché, dinanzi a due opzioni entrambe razionalmente plausibili, l’uomo sembra oggi più rassegnato alla visione minimalista ed alle sue – talvolta, ma non è detto sempre, vantaggiose – conseguenze. La buona novella giunge proprio incoraggiando verso l’altra direzione. Entrare da cristiani nel cuore della questione antropologica significa allora anzitutto risvegliare le domande, le attese profonde, aiutando l’uomo ad accorgersi che la buona notizia è proprio ciò che intimamente desidera ricevere e – più spesso di quanto non si creda – la scommessa stessa che anima tanti gesti, tante attenzioni. Sarebbe infatti interessante interrogare la concretezza della vita, per scovare il perché di tante scelte: perché prendersi cura dei più deboli? Perché lottare contro le ingiustizie? Perché essere fedeli alle amicizie? Perché onorare quelli che oggi non sono più tra noi? Non sono questi, assieme a tanti altri, i segni feriali di un continuo affermare la diversità dell’umano, la sua irriducibilità al dato biologico? Non tradiscono, questi segni, una richiesta profonda di liberazione, di liberazione proprio dalla ragionevole ipotesi che tutto questo sia solo illusione? Risvegliare la domanda è risensibilizzare alla buona notizia, e fare spazio all’annuncio che sì, l’uomo è diverso dal resto del vivente perché è figlio di Dio e chiamato e vivere la sua stessa vita. La buona notizia raggiunge ogni uomo nell’attestargli che certe sue scelte sono sensate, sono consistenti, sono ben fondate e lo sono proprio perché la percezione di irripetibilità dell’umano che in fondo le anima risponde al vero. La buona notizia riscatta dalla precarietà tutto ciò che afferma la nobiltà dell’umano e la promuove. Riscatta, quindi libera e accende speranza, perché invita di conseguenza a coltivare quei percorsi che affermano la differenza dell’umano ed a diffidare da quelli che la riducono, che la mettono in dubbio o ne fanno una questione di convenzione o di sola sensibilità. La buona notizia accende il nuovo anzitutto liberando ciò che già cova sotto la cenere: l’annuncio sorprende, ma – in qualche misura – è atteso. In questo senso, forse, dovremmo iniziare seriamente a pensare che ciascun uomo, nelle scelte umane che compie, è il primo testimone a se stesso di 69 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 70 LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA una diversità radicale dell’umano affermata spontaneamente. Liberazione è passare dalla spontaneità – talvolta episodica – alla scelta consapevole, dall’occasionalità allo stile di vita, dalla scintilla al fuoco ardente. Che l’annuncio di Cristo risorto, in cui Dio rivela l’uomo all’uomo, sia una notizia liberante nel contesto della “questione antropologica” è apparso chiaramente dall’esortazione di Benedetto XVI a far risuonare anzitutto i “sì”» dell’esperienza cristiana: è a partire dalla conferma di quella percezione della diversità dell’umano, che tutti presentiamo, che ogni gesto assume una configurazione nuova; è a partire da lì che si aprono gli spazi per far maturare anche quelle risorse morali che rovesciano le sorti del confronto tra l’affermazione dei valori e il raggiungimento di un vantaggio. «Per parte mia – ha detto ancora il Papa – vorrei sottolineare come debba emergere soprattutto quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo. Il cristianesimo è infatti aperto a tutto ciò che di giusto, vero e puro vi è nelle culture e nelle civiltà, a ciò che allieta, consola e fortifica la nostra esistenza»8. La “questione antropologica” va allora impostata ed affrontata in termini nettamente positivi e propositivi: al centro vi è un annuncio di liberazione da dare non certo – non come radice – una disciplina morale da imporre circa questo o quell’altro tema all’ordine del giorno delle diverse agende politiche. Questa consapevolezza, che muove da Verona con vigore rinnovato, invita a un deciso sforzo di creatività nel cogliere a ogni livello i riverberi della questione: è uno sforzo di lettura dei segni tempi o, come si è ripetuto al Convegno ecclesiale, di discernimento comunitario che certamente nei prossimi tempi impegnerà i cristiani. Note 70 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 71 S. Em. card. Camillo Ruini, Intervento conclusivo al Convegno Ecclesiale di Verona. 2 «Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme». Cfr. Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno Ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006. 3 Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla plenaria della pontificia accademia delle scienze, 6 novembre 2006. 4 Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno Ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006. 5 S. S. Benedetto XVI. Discorso in occasione della Visita alla Pontificia Università Gregoriana, 3 novembre 2006. 6 S. Ireneo, Adv. haer., V, praef. 7 Cfr. 1 Gv 3,1 8 Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno Ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006. dialoghi n. 4 dicembre 2006 GIOVANNI GRANDI 1 71 COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 72 L’omelia rimane uno dei principali spazi comunicativi nella dimensione ecclesiale. Ma non si tratta di tenere conferenze di argomenti religiosi, quanto piuttosto di aprire uno spazio per offrire a Dio l’opportunità di parlare. Un clima di preghiera e la cura nel suscitare in chi ascolta un cambiamento sono le coordinate fondamentali per questa forma del comunicare. L’omelia tra Parola e preghiera ’ L Chino Biscontin ultima pubblicazione sull’omelia1, che ha ottenuto una certa attenzione dai media, è una ennesima lunga lamentela, in parte denigratoria, sulla situazione della predicazione omiletica corrente. Perché la buona predicazione non è poi così rara, solo che è più facile scrivere su quella mediocre, che purtroppo non manca. Si deve, ad ogni modo, riconoscere che la predicazione sta attraversando un periodo non facile, dovuto a tanti fattori, tra i quali anche i mutamenti culturali così rapidi che ci coinvolgono. La qualità religiosa dell’omelia Se dovessi indicare alcuni dei problemi più seri, come mi è stato chiesto, comincerei con il parlare di un inadeguato livello religioso di non poca predicazione. L’affermazione sembra paradossale: le prediche non sono tutte intessute di argomenti di carattere religioso? È vero. Ma si possono trattare argomenti religiosi in maniera inadeguata proprio dal punto di vista religioso. Quanti predicatori, ad esempio, sono consapevoli che parlano di Gesù alla presenza di Gesù? Poiché è questo che accade quando un prete tiene l’omelia. E se si è consapevoli della presenza del Signore, se ne parla con un coinvolgimento personale molto forte e non senza una percepibile commozione o comunque passione. Allora i destinatari avvertiranno una presenza, che si manifesta proprio attraverso il parlare del predicatore, e l’omelia sarà la mediazione di un incontro, il nutrimento 72 Chino Biscontin è docente presso il Seminario di Pordenone, gli ISSR di Portogruaro (VE) e Padova e presso la Facoltà Teologica del Triveneto. Dirige la rivista di sussidi per la predicazione “Servizio della Parola”, dell’Editrice Queriniana. Tra le sue pubblicazioni: Predicare oggi: perché e come, Queriniana, Brescia 2001; Come è fatto un cristiano, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2006. dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 73 dialoghi n. 4 dicembre 2006 CHINO BISCONTIN di una relazione. Perché l’identità dell’omelia è questa: assieme al contesto immediato di cui fa parte, la liturgia della parola, è mediazione del parlare di Dio, oggi, a questa assemblea radunata nel suo nome. «La predicazione della parola da parte dei ministri sacri partecipa in un certo senso del carattere salvifico della Parola stessa non per il semplice fatto che essi parlino del Cristo, bensì perché annunciano ai loro uditori il Vangelo, con il potere di interpellare, che proviene dalla loro partecipazione alla consacrazione e missione dello stesso Verbo di Dio incarnato. All’orecchio dei ministri risuonano ancora quelle parole del Signore: “Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me” (Lc 10, 16), e possono dire con Paolo: “Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali” (1Cor 2, 12-13). La predicazione rimane così configurata come un ministero che sgorga dal sacramento dell’Ordine e che si svolge per autorità di Cristo»2. Il prete non si trova, dunque, davanti al compito di tenere una breve conferenza su argomenti religiosi, ma si mette a disposizione del Dio vivente, perché Egli possa, anche attraverso il discorso omiletico, parlare ai suoi alleati radunati in assemblea. Perciò l’omelia dovrebbe nascere, anzitutto, da un atteggiamento di preghiera, e precisamente la preghiera di ascolto, per offrire a Dio l’opportunità di poter parlare. Esiste quindi un rapporto essenziale tra orazione personale e predicazione. Dalla meditazione della Parola di Dio nella preghiera personale dovrà anche sgorgare spontaneamente il primato della «testimonianza della vita, che fa scoprire la potenza dell’amore di Dio e rende persuasiva la sua parola». Frutto anche della preghiera personale è una predicazione che diventa incisiva non soltanto in virtù della sua coerenza speculativa, ma perché nata da un cuore sincero e orante, consapevole che il compito del ministro «non è di insegnare una propria sapienza, bensì la Parola di Dio e di invitare tutti insistentemente alla conversione e alla santità». La predicazione dei ministri di Cristo richiede dunque, perché diventi efficace, che sia saldamente fondata sul loro spirito di preghiera filiale: «Sit orator, antequam dictor»3. Nel Messale si trova una bella e ardita colletta: «O Dio, che nel tuo Figlio fatto uomo ci hai detto tutto e ci hai dato tutto, poiché nel disegno della tua provvidenza tu hai bisogno anche degli uomini per rivelarti, e resti muto senza la nostra voce, rendici degni annunziatori e testimoni della parola che salva»4. Il ministero della parola di Dio, è anzitutto servizio reso a Dio perché non sia costretto a restare muto! A voler migliorare la predicazione bisogna fare il necessario per innalzare nei predicatori la consapevolezza di questo valore “sacramentale” del loro parlare, con tutte le con- 73 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 74 L’OMELIA TRA PAROLA E PREGHIERA seguenze che ne derivano: la preghiera d’ascolto anzitutto, e poi la grande cura nella preparazione sia remota che diretta. E tuttavia, nonostante i tanti limiti, l’omelia è pur sempre una opportunità di cui Dio si serve per continuare a rivolgerci la sua parola. Nei rilevamenti statistici è interessante notare come, a fronte della severità degli specialisti, i giudizi dei fedeli sono generalmente più benevoli. L’omelia come potenza che trasforma Un secondo problema della predicazione corrente è che, in una percentuale non insignificante di casi, l’omelia tende a ridursi a intrattenimento religioso. Vi sono una decina di minuti da occupare, e dentro questo contenitore vengono messi dei contenuti religiosi, che intrattengono gli ascoltatori, ma lasciano la loro situazione immutata. Ciò può dipendere dal fatto che diversi preti concepiscono l’omelia come una breve conferenza, e perciò trattano la parola come semplice veicolo di informazioni. È urgente riprendere la comprensione biblica della parola, come forza che interviene sulla realtà per modificarla: «La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4, 12). Il già citato documento della Congregazione per il Clero afferma: «La predicazione della Parola non è mera trasmissione intellettuale di un messaggio, ma “potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rm 1, 16), attuata una volta per sempre in Cristo». Nota acutamente S. Agostino: «Se non mi rendi migliore di quello che ero, perché mi parli?». Da un punto di vista pratico, ciò significa che i predicatori dovrebbero concepire il loro ministero come un lavoro che si propone di intervenire sui destinatari, per provocare un cambiamento. Ancora più concretamente: quando il predicatore prepara la sua omelia, dopo l’analisi preliminare dei testi biblici e del contesto liturgico, sulla base della situazione pastorale della comunità a cui si rivolge, dovrebbe fissare l’obiettivo della sua omelia. Dovrebbe chiedersi non, anzitutto: «Che cosa vado a spiegare domenica in chiesa?», quanto piuttosto: «A quale cambiamento la nostra comunità è chiamata dal Signore, nella celebrazione a cui mi sto preparando?». La preparazione di un’omelia, infatti, consiste in una serie di scelte che hanno lo scopo di intessere questa predica. Ma in base a quale criterio si faranno le scelte? L’aver presente con chiarezza fin dall’inizio l’obiettivo, al cui servizio si pone il proprio discorso, impedisce che il criterio della scelta sia lasciato o al caso o a ciò che risulta più agevole e gradevole al predicatore. E l’obiettivo, come abbiamo visto, deve essere una trasformazione da provocare nei destinatari. Certo, adottare questo punto di vista, significa trovarsi davanti ad un compito esigente, che richiede meditazione della Parola, preghiera perso- 74 dialoghi n. 4 dicembre 2006 23-11-2006 8:50 Pagina 75 CHINO BISCONTIN Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 nale di ascolto e discernimento pastorale. E ciò comporta che alla preparazione dell’omelia va dato un tempo adeguato. Naturalmente conosco bene, anche per esperienza pastorale, quale sia il carico di impegni di un prete nella situazione odierna, e tuttavia credo che alla predicazione vada data una priorità molto alta. Come viene continuamente ricordato, per la maggior parte dei fedeli è proprio la predica l’unica, o quasi, occasione di nutrimento sostanzioso della fede a cui attingere: merita dunque ogni cura. La mia osservazione diretta sul campo mi porta a ritenere che alla preparazione dell’omelia viene dato un tempo inadeguato di preparazione: nei casi peggiori tale preparazione si limita a un’occhiata al brano di vangelo assegnato per la celebrazione e a qualche riflessione affrettata su come organizdialoghi n. 4 dicembre 2006 75 L’OMELIA TRA PAROLA E PREGHIERA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 76 zare su di esso un qualche discorso. Mi ha molto colpito un colloquio con un pastore protestante: nel contratto di servizio stabilito con la comunità di cui era al servizio gli veniva concessa un’intera giornata per preparare il sermone. Pur tenendo conto che l’omelia cattolica non coincide in tutto con il sermone protestante, è auspicabile che i preti possano dedicare un tempo adeguato per preparare l’omelia, attribuendo a tale ministero tutta l’importanza, e di conseguenza la cura, che esso richiede. L’esigenza di una adeguata preparazione appare ancora più urgente se si tiene conto che l’omelia va concepita e preparata come parte integrante della celebrazione liturgica5. Ora il Messale del Concilio Vaticano II non è come quello che lo ha preceduto: esige che la celebrazione venga adeguata alla concreta comunità celebrante mediante tutta una serie di scelte di grande importanza, che riguardano il prefazio e la preghiera eucaristica, l’orazione iniziale (colletta) e l’atto penitenziale, eventuali monizioni e introduzioni e tanto altro ancora. Tra coloro che si occupano di pastorale liturgica si parla correntemente di “regia liturgica” per indicare questa responsabilità che ha colui che presiede la celebrazione e i suoi collaboratori. Ora, essendo l’omelia non un corpo a sé stante, ma come s’è detto, parte integrante della celebrazione, la preparazione dell’omelia deve avvenire in costante dialogo con le scelte di regia liturgica. Non basta l’attenzione alle letture bibliche, anche se il rapporto con esse qualifica in maniera prioritaria l’omelia, ma a tutta la celebrazione: la predica deve assecondarne il contesto, così come le scelte del contesto devono tener conto di quella che sarà l’omelia. Solo così si eviterà che si crei una situazione nella quale l’omelia apparirà come una breve conferenza, con una cornice di riti avvertiti come meno significativi. Al contrario, la celebrazione nel suo insieme trasmetterà all’omelia il suo alto livello religioso di mediazione del parlare di Dio, mentre l’omelia sarà un fatLa celebrazione nel suo tore determinante perché la parte rituale non decada in insieme trasmetterà ritualismo svuotato del suo significato. all’omelia il suo alto livello religioso di L’omelia come comunicazione mediazione del parlare I ragionamenti sulla necessità di fissare un obiettivo per di Dio, mentre l’omelia l’omelia, e la collocazione di questo obiettivo dentro i destisarà un fattore natari, ci porta a sottolineare un terzo problema con cui la determinate perché la predicazione deve misurarsi. Si tratta della qualità comuniparte rituale non decada cativa della predica. Il Concilio Vaticano II ha comportato in ritualismo svuotato una profonda, e benefica, trasformazione della preparazione del suo significato. dei futuri preti. Ciò ha richiesto una dilatazione sia in quantità che in profondità delle materie di insegnamento, e si sono dovute fare delle scelte. Una è stata quella di togliere l’insegnamento, che generalmente c’era anche se non sempre in maniera adeguata, di quel- 76 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 77 dialoghi n. 4 dicembre 2006 CHINO BISCONTIN la che veniva chiamata “oratoria sacra” o “sacra eloquenza” o con altro nome. Ci stiamo accorgendo che è stata una scelta affrettata e mentre scrivo ho motivo di credere che il nuovo ordinamento degli studi nei seminari, che è in procinto di essere pubblicato, reintrodurrà questo insegnamento. Non è vero che se si sa quello che si vuole dire, certamente si riesce a dirlo anche in maniera adeguata ed efficace. A partire dalla metà del secolo scorso, gli studi sulla comunicazione si sono moltiplicati in maniera tumultuosa, accumulando una notevole quantità di competenze e di saperi, al punto che sono sorte Facoltà di Scienze della comunicazione. Un caporeparto di azienda, un impiegato di banca che sta allo sportello, una telefonista di una organizzazione, per non parlare di giornalisti e di speaker della radio o della televisione, fanno dei corsi di addestramento ad una comunicazione efficace e corretta. Ebbene, per quanto la cosa risulti sorprendente, la grande maggioranza dei preti non è entrata in contatto con questo patrimonio che dovrebbe essere così importante per chi deve comunicare continuamente per lo svolgimento del proprio ministero e, naturalmente, anche nella comunicazione. Parlavo del tempo inadeguato dedicato da molti preti alla preparazione dell’omelia. Ma se ad un prete si chiede: del tempo che dedichi a preparare la tua predica, quanto ne impieghi a decidere quale sarà il contenuto del tuo messaggio, e quanto a decidere quale deve essere la forma più adeguata per far passare quel messaggio, normalmente ci si trova davanti a una espressione tra il sorpreso e l’imbarazzato. Segno che il problema del come comunicare in maniera efficace e non è tenuto nella debita considerazione. Data la mia attività di insegnamento e di animatore di corsi di aggiornamento del clero riguardanti la predicazione, ho esaminato molte centinaia di omelie, registrate, a volte anche videoregistrate, e trascritte. L’onda della riforma del Vaticano II ha portato, generalmente, ad un livello accettabile un numero rilevante di omelie, se le si considera dal punto di vista del contenuto. Ma dal punto di vista della comunicazione non si può dire altrettanto. Accettando come progetto il medesimo contenuto, se si interviene sulla qualità comunicativa, molte omelie migliorerebbero in efficacia in maniera considerevole. Faccio un solo esempio, tra i molti possibili. L’inizio di un’omelia, come sottolineano tutti gli studi sulla comunicazione in pubblico mediante la parola, decide di quanta attenzione verrà accordata a quanto segue. Le prime frasi, il primo minuto e mezzo di una predica dovrebbe essere concepito per destare e attirare l’attenzione, per motivare l’ascolto e per orientare i destinatari verso quello che sarà il messaggio che si intende comunicare. Per fare ciò l’inizio dell’omelia deve essere concepito con alcune caratteristiche che non sono le medesime di un passaggio a metà omelia o della sua conclusione. L’osservazione può apparire ovvia, e in parte lo è. Ebbene, nella gran parte 77 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 78 L’OMELIA TRA PAROLA E PREGHIERA dei casi delle molte omelie che ho potuto esaminare, il predicatore sembra o non essere avvertito del problema o di non saperci fare. Il risultato inevitabile è la perdita di attenzione e la riduzione di efficacia della sua fatica. Quando ci si occupa di questo aspetto ci si imbatte in una certa resistenza in molti preti: essi hanno quasi l’impressione che imparando il “mestiere” di come si comunica in maniera efficace, si finisce per diventare manipolatori delle coscienze altrui. Naturalmente chi vuole manipolare il prossimo approfitterà delle molte conoscenze sulla comunicazione che possediamo. Ma la preoccupazione di diventare “professionisti” della comunicazione dovrebbe far parte di quella che viene chiamata la “carità pastorale”, e cioè l’atteggiamento e la volontà di servizio nella fede che deve caratterizzare l’impegno di un prete6. Mentre prepara la sua predica, egli, mentre opera le scelte necessarie a costruire il suo discorso, deve continuamente chiedersi: «Perché coloro a cui mi rivolgerò, tenendo conto della loro situazione reale, dovrebbero provare interesse per quello che mi propongo di dire loro, così da starmi ad ascoltare?»; e ancora: «Se mi concederanno la loro attenzione, quale vantaggio ne avranno per la loro esistenza concreta?»; e ancora: «Quali domande potrebbero sorgere in loro mentre svolgo questo passaggio della mia predica, e come posso andare loro incontro con delle risposte adeguate e persuasive?». Data la formazione dei preti, che prevede studi filosofici e teologici fortemente orientati al contenuto, l’attenzione alla forma del comunicare risulta debole. Se, esaminando l’omelia di un prete, gli si chiede: «Quale era lo scopo della sua predica»? Nella quasi totalità dei casi la risposta indicherà i contenuti dell’omelia. Ora dovrebbe essere chiaro che i contenuti sono gli strumenti di quell’azione che è l’omelia, mentre lo scopo va individuato dentro coloro che ascoltano e a servizio dei quali l’azione omiletica deve essere svolta. Non che il contenuto non sia importante, al contrario, ma esso va pensato in funzione e a servizio dei destinatari, e come tale va pensato. È questo spostamento di attenzione dal predicatore, dai suoi stati d’animo, e dai contenuti in cui egli si ritrova più agevolmente, verso i destinatari della predica, verso le loro gioie e le loro speranze, le loro tristezze e le loro angosce7, che può provocare un notevole miglioramento qualitativo della predicazione. Poiché essa è a servizio di una Parola che è «per noi uomini e per la nostra salvezza». 78 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 79 dialoghi n. 4 dicembre 2006 CHINO BISCONTIN Note 1 R. Beretta, Da che pulpito... Come difendersi dalle prediche, Piemme, Casale Monferrato, 2006. 2 Congregazione per il clero, Il presbitero, maestro della parola, ministro dei sacramenti e guida della comunità in vista del terzo millennio cristiano, 19 marzo 1999, cap. II, n. 1. 3 Ivi (“Sia uno che prega prima di mettersi a parlare”). 4 Messale Romano, preghiera colletta XIV per le ferie del tempo ordinario, p. 1020. 5 Cf n. 52 della Costituzione conciliare sulla Liturgia: Sacrosantum concilium. 6 Nella rivista che dirigo, Servizio della Parola, sto pubblicando una serie di articoli che applicano alla predicazione le regole per una comunicazione efficace mediante la parola rivolta ad un “pubblico”. 7 Cfr. la Costituzione conciliare Gaudium et spes, n. 1. 79 COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 80 Testimonianze/ Riaccendere la speranza in mezzo ai conflitti, tra memorie ferite da guerre troppo recenti, nel cuore delle differenze etniche e religiose: un’esperienza di prossimità internazionale suggerisce una riflessione sulle vie concrete della testimonianza di Gesù risorto. E spesso si tratta di vie su cui si infrangono le armonie troppo geometriche di un dialogo concepito astrattamente. Come comunicare la speranza? S Mario Ravalico e Stefano Ravalico i parla con molta facilità oggi di dialogo, soprattutto di dialogo interculturale e anche interreligioso; si parla molto di speranza e di come comunicare questa agli uomini di oggi nel concreto della loro vita e della loro storia. Ma la comunicazione e il dialogo non possono essere costruiti a tavolino, attraverso le discussioni, nelle tavole rotonde o in altri consessi, pur importanti. Il dialogo va invece costruito entrando nella vita degli uomini d’oggi, partendo dalla loro situazione e dalla loro storia, dalle vicende che hanno segnato la loro vita. È da qui che può e deve partire un messaggio di speranza. È una grande fatica, questa, che ha bisogno di molta pazienza, di grande rispetto unito a tanta perseveranza. Ci attardavamo in queste semplici riflessioni riconsiderando una esperienza internazionale che ancora stiamo vivendo con passione assieme ad altri operatori della Caritas diocesana di Trieste, un’esperienza non spettacolare, feriale, come tante altre che fioriscono nelle Caritas di tutta Italia e certo non esclusivamente in questi contesti, in cui le Chiese locali si fanno carico di povertà vicine e lontane. È un’esperienza che tuttavia può essere un banco di prova stimolante proprio perché ci invita a misurare la testimonianza con parametri non nostri, con parametri stranieri. La terra straniera con cui misurarsi è in questo caso quella tormentata di Bosnia ed Erzegovina, è la città di Mostar, luogo di un’esperienza che appunto ci ha segnato e continua a segnarci nella nostra mentalità e nello stile del nostro dia- 80 Mario Ravalico è direttore della Caritas di Trieste. È stato presidente diocesano dell’AC di Trieste. Stefano Ravalico segue il progetto Caritas-Mostar. dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 81 dialoghi n. 4 dicembre 2006 MARIO RAVALICO E STEFANO RAVALICO logo, ma che anche ci aiuta a interrogarci continuamente sul senso del nostro servizio e sul significato del nostro “andare” in una realtà così diversa dalla nostra, diversa per storia, cultura, sensibilità, anche per religione. Siamo presenti anzitutto in una “realtà di Chiesa” – come è la Caritas, anche a Mostar –, offrendo una contributo a una delle tante opere-segno che quella diocesi sta portando avanti non senza fatica. Si tratta di una struttura di accoglienza per bambini e ragazzi disabili gravi (psichici e fisici), che concretizza l’impegno della Chiesa locale verso gli ultimi. Le persone che incontriamo a Mostar sono sì bisognose di molto, soprattutto di tanta amicizia, comprensione, prossimità, anche aiuto materiale; soprattutto però bisognose di trovare e incontrare altre persone che sappiano “capire”, che sappiano amare e perciò che sappiano condividere, da pari – non da insegnanti, non da vincenti – cammini concreti, anche se faticosi. Cammini che conducano anzitutto verso una piena cittadinanza, e forse, domani, anche verso la riconciliazione: con le persone, ma anche con la loro storia presente e passata. Quando nel 2002 siamo andati per la prima volta in Bosnia ed Erzegovina, ospiti del vescovo di quella Chiesa locale, non sapevamo che cosa avremmo trovato in quella realtà, che pensavamo di conoscere, almeno un po’, dai giornali, dai libri, dalle tante testimonianze scritte e che ci erano state raccontate. Sapevamo soprattutto che in quella realtà, che sbrigativamente dicevamo Bosnia (e non invece Bosnia ed Erzegovina, come realmente è), dopo la tremenda guerra – che era stata scatenata dai Grandi, non dalla gente sicuramente, e dopo gli “accordi di pace” imposti – c’era bisogno di pace vera, più ancora di riconciliazione dei cuori; magari inconsapevolmente, forse ingenuamente pensavamo che avremmo dovuto andare là a “parlare” il linguaggio appunto della riconciliazione, portando la nostra testimonianza e dicendo che dovevano convivere assieme i tre popoli costitutivi di quel Paese: i croati, i serbi, i mussulmani; tre popoli, ma anche tre storie profondamente diverse e tre religioni. Poi, invece, arrivati sul posto, finalmente immersi nella concretezza, frequentando a lungo e con continuità quei luoghi, incontrando persone della nostra stessa fede o anche di fedi e culture diverse dalla nostra, ci siamo accorti che le cose stavano molto diversamente da come ce le avevano raccontate, diverse da come ce le eravamo immaginate: chi aveva subito dolori, lutti, fatiche, disagi inenarrabili, a prescindere dalla sua etnia e il più delle volte non per causa propria, non poteva essere giudicato; non si potevano spendere con sufficienza parole come “dialogo” tra diversi, “riconciliazione” o simili; quelle persone, quelle realtà, quei popoli andavano semplicemente amati così com’erano, con le ragioni e i torti che potevano avere, con i lutti e le morti che portavano nel loro animo; non si 81 23-11-2006 8:50 Pagina 82 COME COMUNICARE LA SPERANZA Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 poteva «insegnare» loro la pace, il guardare avanti parlando di «convivenza» e di «interculturalità». Certe parole andavano usate con parsimonia, anche nel positivo tentativo di comunicare un po’ di speranza per il domani. Era urgente quindi ascoltare e accogliere le persone come erano, con pazienza appunto, con rispetto, con umiltà, donando loro quel poco di cose che potevamo e quel tanto di attenzione prima e di amicizia poi che hanno fatto il vero miracolo della nostra esperienza di missione a Mostar; lì l’impegno si è articolato su vari livelli: il sostegno all’accoglienza di alcuni bambini al Centro di riabilitazione “Sacra Famiglia”, il sostegno economico garantito nel tempo per qualche operatore locale, la costruzione di un ambulatorio dentistico completo per la cura dei denti dei ragazzi disabili ospiti di quel Centro, l’accompagnare da Trieste verso Mostar una equipe medica che, con continuità, andava e va ancora per la cura dei denti; ma anche l’ospitare qui, da noi, in Italia, alcuni gruppi di giovani venuti ad animare nelle nostre parrocchie le esperienze estive dei nostri ragazzi, offrendoci – tra l’altro – una esemplare esperienza di fede; il favo- 82 dialoghi n. 4 dicembre 2006 23-11-2006 8:50 Pagina 83 rire il contatto con le nostre esperienze di carità presenti in diocesi… Un lavoro basato soprattutto sulla reciprocità, sullo scambio dei doni, non sull’assistenza e sull’aiuto materiale soltanto, un lavoro che ha inteso scardinare un modello unilaterale di prossimità (noi-verso-loro) che il più delle volte rischia di umiliare e di ferire. Ed è stata per noi una grande lezione di vita perché abbiamo capito che il linguaggio che ci univa, attraverso il quale si poteva “comunicare” e lavorare assieme, era ed è proprio quello della testimonianza e della speranza. Un linguaggio pratico, concreto, che nel tempo ci ha permesso di costruire “ponti” (non il ponte vecchio di Mostar) là dove c’erano solchi anche profondi, «vicinanza» là dove prima c’erano diffidenza e forse anche sospetto, sicuramente durezza e incomprensione. Sono questi, forse, i veri miracoli della Provvidenza che arriva là dove noi non pensiamo di poter arrivare o, meglio, non siamo – da soli – capaci di arrivare. L’esperienza ci ha aiutato anche a rimeditare le coordinate reali della dimensione interreligiosa e interculturale. Certamente il progetto della Caritas diocesana di Trieste, andando a Mostar, presso la locale Caritas, era quello di “andare ad aiutare”, forse non sapendo bene dove e in che cosa; certamente si intendeva aiutare le realtà ecclesiali prima di tutto, realtà che in qualche modo sentivamo “nostre”, più vicine a noi. Me si trattava di una preferenza quasi obbligata, perché – ci fu detto e fatto capire, inizialmente – che non era opportuno pensare di aiutare anche altre realtà presenti in quei territori: i musulmani, i serbi, i Rom, ad esempio. Si capiva che ciò non era gradito, o meglio non sarebbe stato capito il perché della nostra iniziativa. Vedevamo che non c’erano rapporti strutturati con realtà istituzionali del territorio, e non capivamo il perché di questa situazione – che per certi versi era persino una scelta – che avevamo trovato; una sorta di dialogo ine- In questo contesto sistente, di rapporti anche di vicinato mancati, di presenza eravamo chiamati a dell’altro non vista... La separatezza, ai nostri occhi era parlare di pace, di marcata, vistosa, una separatezza non solo dovuta alla pre- dialogo, a pronunciare senza del fiume – la Neretva – che separa la parte Est della proprio quella parola – città, quella più vecchia abitata dai musulmani, dall’altra riconciliazione – forse parte della città, quella abitata più densamente dai croati. senza capire mai fino in C’era un solco, e lo si capiva, nei rapporti tra persone, fondo la sua durezza e la nella loro storia, nella loro vita passata attraverso prove difficoltà a viverla fino in durissime. C’erano silenzi assordanti. Ad esempio, a noi fondo con coerenza, ad sembrava impossibile che nessuno a Mostar, ma proprio incarnarla. nessuno, ci parlasse e ci dicesse dove era il luogo in cui, nella città vecchia, tre operatori della Rai, nostri concittadini, per proteggere un bambino, erano stati uccisi il 28 gennaio del 1994, mentre quel bambino raccontava loro come vivevano i ragazzi durante quella guerra. dialoghi n. 4 dicembre 2006 83 MARIO RAVALICO E STEFANO RAVALICO Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 84 COME COMUNICARE LA SPERANZA Perché, questi silenzi, queste assenze di memoria, queste divisioni, questi rancori, forse? Perché? Noi non capivamo. In questo contesto eravamo chiamati a parlare di pace, di dialogo, a pronunciare proprio quella parola – riconciliazione – che tante volte, qui da noi, anche nei nostri percorsi formativi abbiamo sicuramente ripetuto, forse senza capire mai fino in fondo la sua durezza e la difficoltà a viverla fino in fondo con coerenza, ad incarnarla. Questo, per noi, era il banco di prova della nostra umanità e fraternità, prima di tutto, ma anche della nostra fede, che su questo crinale interreligioso, interculturale ed interetnico veniva messa in discussione. Ma come comunicare speranza, in questa situazione? Dicevamo però del “miracolo”, del cambiamento a cui abbiamo assistito e che, noi e loro, stiamo tuttora vivendo, negli atteggiamenti, nella prospettiva e nelle attenzioni diverse; possiamo parlare di un cambiamento culturale, di un clima nuovo che si sta sviluppando: abbiamo visto crescere piano piano, ma con vigore, la voglia di aprirsi anche all’altro, “diverso” per cultura, storia, fede. E non è poco, questo. Abbiamo visto un impegno nuovo di dialogo e di collaborazione nascente tra la realtà dei nostri amici cattolici di Mostar ed altre realtà religiose di quel Paese che, come loro, sono impegnate ad esempio nella cura dei bambini disabili; abbiamo visto nascere un rapporto di leale compartecipazione delle strutture sanitarie statali – laddove ieri nemmeno si poteva immaginare – alle strutture similari della Chiesa locale e della Caritas. Al centro, come “ponte”, per l’aiuto alle persone e famiglie deboli e povere. In tutto questo la stessa Caritas di Mostar sta maturando attenzioni nuove, verso realtà che prima non venivano prese in considerazione. Certo, il loro non è un cammino semplice, non concluso ancora, spesso a rischio, che però si sta sviluppando con impegno e grande passione; è un cammino che mette veramente al centro la persona – qualunque sia la sua provenienza – e la sua dignità, che tenta di andare oltre alla semplice tolleranza, facendo del dialogo e dell’accoglienza reciproca uno strumento nuovo di sviluppo per il domani. Il domani rimane ancora fortemente incerto, ma il dialogo fatto anzitutto di gesti, di opere-segno e solo poi di elaborazione e di parole resta l’unico metodo umano possibile per percorrere il cammino della storia degli uomini e delle donne di quel paese. Il dialogo si sta facendo testimonianza, e si sta sviluppando anche all’interno della Chiesa che è in Bosnia ed Erzegovina, concretizzandosi in messaggi operativi di speranza (pensiamo alle scuole interetniche fondate a Sarajevo dal vescovo ausiliare mons. Pero Sudar), in processi lenti e pazienti di reciproco riconoscimento che tengono conto dei vissuti delle persone, soprattutto delle persone più provate, com’è per quasi tutti coloro che vivono in quel territorio; perché là tutti – cattolici, ortodossi, musulmani – hanno avuto i propri morti e i propri dolori. Il dialogo ha 84 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p1-77:Dialoghi4/04p1-77 23-11-2006 8:50 Pagina 85 dialoghi n. 4 dicembre 2006 MARIO RAVALICO E STEFANO RAVALICO quindi anche il volto di un grande rispetto dei tempi umani dell’elaborazione della sofferenza, ben sapendo che i tempi della riconciliazione non sono i tempi della storia. Talvolta, se ripensiamo alla nostra stessa storia di persone nate e vissute su una frontiera tormentata – che ha visto protrarsi gli effetti della seconda guerra mondiale ben oltre le date storiche che ne hanno segnato la fine – ci stupiamo della fretta che oggi vorremmo mettere ad altri popoli nei processi di riavvicinamento. Riflettendo su tutto questo ritornavano in mente le parole dette dal vescovo ausiliare di Sarajevo, mons. Sudar, nell’omelia della S. Messa in occasione della sua ordinazione episcopale, quando allora pochissimi vedevano un senso nella collaborazione e nella convivenza tra popoli in guerra in Bosnia; allora, dire qualcosa a favore degli altri era considerato tradimento del proprio popolo. In quel clima il vescovo invitava a meditare: «La Chiesa cattolica in questo paese non ha né argento né oro per comperare i corruttibili, né la forza per fermare i violenti e così proteggere gli innocenti. Però, ciò che abbiamo, vogliamo darlo a tutti senza distinzioni e separazione tra loro. Vogliamo offrire a tutti la nostra disponibilità a soffrire con voi e per voi... solo unione e collaborazione nel bene ovunque possiamo e rifiuto della logica dell’odio imposta può portarci alla pace e libertà. Noi oggi non possiamo pregare per la Chiesa e non pregare per questo paese, non possiamo e non vogliamo pregare per i cattolici senza nello stesso tempo pregare e lavorare per il bene di tutti gli uomini, con cui in questa terra da secoli condividiamo il bene e il male». Queste parole forti dette allora – era il gennaio 1994 – oggi hanno ancora un profondo significato: sono per noi il faro che orienta la nostra azione e la nostra testimonianza in quel paese, sono per noi l’emblema di quel seme che deve morire perché poi porti frutto. Ancora una volta il dialogo da costruire e la speranza da trasmettere solcano le vie umili e spesso fangose della concretezza della vita. Anche questa, forse soprattutto questa, è incarnazione. 85 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 86 La ricerca scientifica promette soluzioni ragionevoli per la produzione di energia da fonti alternative.Tuttavia, nessuna fonte energetica da sola sarà in grado di soddisfare tutto il fabbisogno mondiale; piuttosto, una diversificazione basata su fonti rinnovabili e pulite, che rispondano alle caratteristiche locali delle varie comunità, sarà la chiave per una soluzione duratura. Energia, la sfida del Sole EVENTI & IDEE - ENERGIA, LA SFIDA DEL SOLE E& I Vanni Lughi L a questione energetica è un tassello fondamentale del complesso intreccio di relazioni tra salute, stabilità economica, disponibilità di acqua e cibo, educazione, stabilità demografica e, appunto, energia. Per quanto qui nel nostro guscio sicuro ciò non si percepisca, su scala globale la disponibilità di energia è oggi scarsa, generando conflitti armati legati al dominio sulle risorse energetiche, o lasciando due miliardi di persone senza accesso ad illuminazione adeguata, con conseguenze gravissime in termini di educazione, sicurezza e salute. Ma il quadro futuro sembra ancora più problematico: la domanda energetica globale è destinata ad aumentare1, e mantenendo il corso Vanni Lughi attuale delle cose l’offerta non potrà è ricercatore post-dottorato al reggere questo tasso di crescita, Dipartimento di Materiali dell’Università nemmeno contando sul probabile della California a Santa Barbara. Ha futuro incremento dell’efficienza pubblicato, con D. R. Clarke, Defect nella produzione2. Su questo fronte, and Stress Characterization of AlN Films tuttavia, ricerca e sviluppo si stanno By Raman Spectroscopy. Applied dando da fare: celle a combustibile Physics Letters (in stampa); e High o motori e turbine più efficienti, Temperature Aging of YSZ Coatings per esempio, sono argomenti molto and Subsequent Transformation at caldi in tutti i settori delle scienze e Room Temperature. in “Surface delle ingegnerie. Ma alla fin fine Coatings and Technology”, 200 [5-6] produrre energia bruciando meno 1287-1291 (2005). 86 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 87 E dialoghi n. 4 dicembre 2006 VANNI LUGHI petrolio, carbone o gas è – nel caso migliore – soltanto una soluzione temporanea (nessuno sa dire con precisione quando, ma tutti concordano che queste risorse si esauriranno), ed anche nel breve periodo potrebbe non essere la via d’uscita in grado di soddisfare la crescente sete di energia. Questo vale in particolare nei paesi in via di sviluppo, dove è scarsa la disponibilità sia di combustibili fossili che di capitale per l’acquisto o la produzione di tecnologie avanzate. Considerato che proprio nei paesi in via di sviluppo si concentrerà la maggior parte della crescita del bisogno energetico nel prossimo futuro, è necessario analizzare le varie soluzioni alla questione energetica anche alla luce della loro applicabilità in tali paesi. Osserviamo subito che affidarsi pesantemente ai combustibili fossili (oggi forniscono circa l’80% del fabbisogno energetico mondiale) non risponde certo a questo criterio. Una drastica riduzione dell’uso dei combustibili fossili è pure resa urgente dalla necessità di diminuire le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, probabilmente causa primaria dell’anomalo aumento della temperatura media della terra con effetti potenzialmente drastici e duraturi sul clima terrestre3. Altri sottoprodotti dell’uso di combustibili fossili, come pulviscolo ed ossidi di azoto e zolfo, sono associati a severe conseguenze sulla salute della popolazione oltre che sull’ambiente. I costi sociali di questi effetti, per esempio quelli sanitari, sono incalcolabili. Quest’ultima serie di considerazioni richiama il legame spesso dimenticato tra ambiente, società ed economia: se da un lato il prezzo di mercato dell’energia prodotta da combustibili fossili è oggi il più conveniente, dall’altro questo non tiene conto dei costi sociali ed ambientali che in qualche modo siamo costretti a pagare comunque, ad esempio attraverso tasse o premi assicurativi più alti per finanziare costi sanitari maggiori. Ma se l’orizzonte dei combustibili fossili è così grigio, qual è lo stato attuale dell’energia prodotta da fonti alternative, e quali le prospettive di breve e lungo termine? Nel seguito ho scelto di non ragionare né sulla promettente e controversa energia nucleare, né di fonti rinnovabili relativamente mature come biomassa, energia eolica ed idroelettrica, né di idrogeno, in quanto vettore piuttosto che fonte di energia. Per quanto questi siano argomenti fondamentali nel comprendere a fondo la questione energetica, ho preferito concentrarmi sulla fonte che ritengo abbia il maggior potenziale di sviluppo nel futuro a breve e lungo termine: l’energia solare. La conversione diretta di radiazione solare in elettricità, basata sull’effetto fotovoltaico, contribuisce oggi solo per una percentuale minima del fabbisogno energetico. Tuttavia, la crescita dell’industria del &I 87 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 8:52 Pagina 88 &I fotovoltaico è stata in anni recenti del 35% annuo, indicando chiaramente che l’energia solare sarà un’importante pedina nello scacchiere energetico dei prossimi decenni. Il sole è accessibile ed abbondante, particolarmente nelle zone geografiche dove si trova la maggior parte dei paesi in via di sviluppo; la produzione di energia solare può essere distribuita piuttosto che concentrata in grandi centrali (ovunque nel mondo gli edifici potrebbero avere pannelli solari sul tetto), con vantaggi di stabilità della produzione e di riduzione delle perdite di trasporto, oltre che strategici. Inoltre, una volta assorbiti i costi di installazione dell’impianto solare, l’energia prodotta è essenzialmente gratuita. Tuttavia la diffusione su larga scala, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dovrà attendere ancora, giacché la produzione di celle solari richiede infrastrutture e supporto tecnico molto raffinati, ed il costo iniziale delle celle in sé è ancora elevato. Queste limitazioni, comunque, sono attribuibili alla relativa immaturità della tecnologia fotovoltaica, ed a differenza della maggior parte delle altre fonti di energia, dove le tecnologie sono relativamente mature e vicine ai propri limiti teorici, lo sfruttamento dell’energia solare offre ancora enormi margini di miglioramento: le migliori celle solari ottenibili sul mercato (in silicio cristallino) convertono meno del 20% dell’energia solare che li investe, a fronte di un 40% teoricamente possibile. Prototipi da laboratorio basati su raffinate architetture dei dispositivi, teoricamente capaci di efficienze superiori al 60%, raggiungono oggi circa il 40% di efficienza, ma a costi proibitivi per la diffusione su larga scala. Il compromesso illustrato qui tra efficienza e costo rispecchia in effetti lo stato attuale delle cose, ma non è un limite intrinseco di questa tecnologia, e la buona notizia è che ci sono soluzioni in vista4. Un’idea è quella di ridurre i costi riducendo la quantità di materiale “attivo” (in generale un semiconduttore, il quale media la conversione della radiazione solare in corrente elettrica) necessaria alla fabbricazione della cella fotovoltaica. Alcuni moduli solari basati su film sottili (fino a millesimi di millimetro o meno) di semiconduttore sono già in commercio, anche se il costo per unità di potenza non è ancora tale da renderli competitivi rispetto all’energia convenzionale. In un altro approccio il materiale attivo è un polimero semiconduttore; il vantaggio è che i polimeri (essenzialmente plastiche) sono economici ed i processi di lavorazione semplici. Celle solari basate su questa tecnologia esistono già come prototipi5, e possono anche venire fabbricate su fogli di plastica flessibile, prestandosi ad essere montate ovunque con facilità. La limitazione attuale di questo approccio è la bassa efficienza, che si attesta a circa il 5%. Tuttavia, considerato il bassissimo costo della materia prima, anche raggiungere un obiettivo come l’8-10%, ragione- EVENTI & IDEE - ENERGIA, LA SFIDA DEL SOLE E 23-11-2006 88 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 89 E VANNI LUGHI vole nei prossimi 3-5 anni, renderà questa tecnologia molto competitiva ed adatta alla diffusione su larga scala anche in paesi in via di sviluppo. Infine, è importante menzionare l’utilizzo di materiali in cui le strutture caratteristiche sono su scala nanometrica (nanometro: un milionesimo di millimetro). Questo approccio è tra i più promettenti, essenzialmente per la ragione che i meccanismi fisici che sottendono all’effetto fotovoltaico avvengono a livello nanometrico, sicché la recente capacità che i ricercatori hanno acquisito di controllare la materia a questa scala può essere capitalizzata, offrendo un intero orizzonte di nuove possibilità. Dunque, pur senza aver in alcun modo esaurito l’argomento, si può dire che la ricerca scientifica sembra davvero promettere soluzioni ragionevoli per la produzione di energia da fonti alternative in tempi relativamente brevi. Tuttavia, nessuna fonte energetica da sola sarà in grado nei prossimi decenni di soddisfare tutto il fabbisogno mondiale; piuttosto, una diversificazione basata su fonti rinnovabili e pulite, che rispondano alle caratteristiche locali delle varie comunità, sarà la chiave per una soluzione duratura. Infine, la questione energetica non può essere risolta guardando alla sola produzione: è fondamentale avviare un rallentamento dei consumi, sia attraverso soluzioni tecnologiche (apparecchiature, illuminazione, automobili, eccetera, ad alta efficienza), sia attraverso programmi di educazione, sensibilizzazione ed incentivi. Il coinvolgimento dei governi in questo necessario cambiamento di rotta, per esempio con un sistema di tassazione ed incentivi che favorisca il risparmio energetico e l’utilizzo di fonti rinnovabili e pulite, sarà fondamentale e dovrà riconoscere l’inscindibilità delle ricadute economiche, sociali ed ambientali della propria politica, sia energetica che generale. Note 1 Cfr. Rapporto del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (2005), disponibile su www.sc.doe.gov/bes/reports/files/SEU_rpt.pdf. 2 M. I. Hoffert et al., “Energy Implications of Future Stabilization of Atmospheric CO2 Content”, in Nature 395, p. 881 (1998). 3 Ibidem. 4 Cfr. Rapporto del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (2005), cit. 5 Rif. Fraunhofer Institut für Solare Energiesysteme. dialoghi n. 4 dicembre 2006 &I 89 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 90 EVENTI & IDEE - IL CASO TELECOM... E& I L’economia di mercato e il valore della concorrenza non sono nel Dna degli italiani. Segno che c’è ancora molto do ut des tra mondo delle imprese e politica. La vicenda Telecom ha ulteriormente evidenziato questa realtà. In un paese normale, il Parlamento si sarebbe occupato del futuro delle telecomunicazioni e non di quanto s’erano detti il presidente della Telecom e il capo del Governo. Il caso Telecom e il capitalismo italiano Giacomo Vaciago S appiamo da tempo che il nostro è un paese di “ricchi che possiedono povere imprese”, dove i soldi abbondano ma le buone regole del capitalismo non sono rispettate (ne ho scritto sul Mulino, numero 1 del 2006: “Capitali senza capitalismo”). Troppa evasione fiscale, troppo familismo amorale, troppe protezioni politiche: non valgono i teoremi che gli economisti usano per dimostrare che un’economia di mercato produce un ottimo sociale, cioè una situazione non più migliorabile. L’affaire Telecom conferma questa diagnosi e permette di aggiornarla. Tre sono gli aspetti che merita ancora sottolineare. Il primo riguarda il modo con cui dieci anni fa iniziavamo a riformare il nostro capitalismo. Il secondo aspetto riguarda i rapporti tra economia e politica. Il terzo è il futuro di un settore vitale per il paese come sono le telecomunicazioni. Liberalizzare e privatizzare Dopo la crisi valutaria del 1992 e pressati dalla necessità di ridurre debito e deficit pubblico per essere accolti nell’Euro, dieci anni fa abbiamo avviato una nuova fase del nostro capitalismo tuttora di grande importanza. Si pone termine ai monopoli pubblici prevalenti in numerosi settori – dalle telecomu- 90 Giacomo Vaciago è professore ordinario di Politica Economica e direttore dell’Istituto di Economia e Finanza presso l’Università Cattolica di Milano. Tra le sue pubblicazioni: Per tornare a crescere: intervista sul futuro dell’Italia, Il sole 24ore, Milano 2005. dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 91 E GIACOMO VACIAGO nicazioni all’energia – e se ne dismettono in tutto o in parte le principali aziende. Lo facciamo seguendo Direttive europee volte a favorire l’integrazione dei vari settori in un unico grande mercato europeo. Ma lo facciamo senza aver prima disegnato un quadro di riferimento generale, che fissi obiettivi e politiche da realizzare; e senza aver chiarito le priorità tra settori, e soprattutto tra liberalizzazioni e privatizzazioni, cioè tra cosa il Governo fa “per far soldi” e cosa dovrebbe invece fare perché migliori il funzionamento dell’economia. Il risultato è quindi stato di qualità casuale, e molti arricchimenti privati che si sono verificati non hanno avuto alcuna giustificazione (continuo a pensare che secondo l’etica del capitalismo l’arricchimento privato è giustificato se serve anche agli altri!). La vicenda Telecom, da quando la privatizzazione dei telefoni inizia nel 1997, è emblematica di un capitalismo che tra i vari modelli nazionali esistenti non è dei migliori. Perché abbiamo visto il ricorso a tutti gli escamotages che impediscono ad una economia di mercato di funzionare bene, dai “noccioli duri” alle “scatole cinesi”. Mentre il valore della società si è dimezzato (ma non a spese di tutti e di ciascuno!). Economia e politica Come in molte nostre aziende si confonde proprietà (degli azionisti) e controllo (da parte di quei pochi che esercitano il potere), così nel paese si confonde economia e politica. E lo vediamo non solo nei grandi servizi pubblici, ma anche in aziende in teoria del tutto private. L’essere la società quotata in borsa non costituisce alcuna remora a confusioni di quel tipo. Né ci giustifica il fatto che analoghe commistioni esistano anche altrove, perché noi riusciamo spesso a far peggio, come in questo caso è stato dimostrato un po’ da tutti gli attori della vicenda, compresa la manifestazione di goliardia di altri tempi che hanno fatto gli onorevoli di destra alle Camere. Merita riflettere su tre aspetti, in parte connessi. Anzitutto, l’indebita commistione (tipica dei paesi sottosviluppati) che in questo paese ancora si fa tra cose molto diverse rispettivamente rappresentate da: imprese, padroni e ricchi. L’impresa è una macchina produttiva indispensabile al benessere ed alla crescita del paese. Tutto ciò che la favorisce o l’ostacola si riverbera sul benessere dei cittadini. Il “padrone” è una figura già più controversa da un punto di vista sociale ed è comprensibilmente oggetto di atteggiamenti anche molto diversi. Il “ricco” è ancora differente in termini di giustificazione e immagine. Per l’economista, la ricchezza di ciascuno di noi è più o meno giustificata a seconda della qualità delle regole (più o meno rispettate) che presiedono all’accumulazione. Diciamo che c’è una bella differenza tra il Bill dialoghi n. 4 dicembre 2006 &I 91 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 &I EVENTI & IDEE - IL CASO TELECOM... E 92 23-11-2006 8:52 Pagina 92 Gates che arricchisce per l’innovazione (e quindi la crescita-paese) di cui è responsabile e lo speculatore che fa i soldi a spese del prossimo, in modo più o meno lecito. La seconda riflessione riguarda un aspetto di cui alcuni analisti hanno fatto analisi approfondite: come si sono distribuiti guadagni e perdite della società Telecom negli ultimi 5 anni? Invito a leggere due brevi pezzi giornalistici, rispettivamente di Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera del 15 ottobre 2006 e del prof. Alessandro Penati sull’Espresso del 26 ottobre 2006. Il primo riassume le minusvalenze che Telecom e la sua controllante Pirelli hanno accumulato negli ultimi 5 anni e conclude sottolineando soprattutto un aspetto: «Si è bruciata ricchezza a fronte di una politica retributiva per i dirigenti tra le più generose d’Italia». Il prof. Penati affronta un secondo aspetto: Pirelli e Telecom hanno perso – dall’estate del 2001 – il 40 ed il 31 per cento, in un periodo nel quale l’indice della borsa è invece salito del 33 per cento. Tutti ci hanno rimesso? Niente affatto: la complessità societaria data dalla volontà di esercitare il controllo senza avere i capitali necessari e la gestione del massiccio ricorso al debito che si era allora fatto hanno significato la fortuna di banche d’investimento, consulenti e avvocati, che si sono spartiti miliardi di euro a fronte di tutte le operazioni fatte. Ma Penati sottolinea un aspetto ancora più grave. Da un lato, parcelle miliardarie possono attutire il dovere di controllo che advisor e banche di investimento dovrebbero avere nei confronti dell’interesse di tutti gli azionisti e non solo del management e/o del gruppo di controllo. Inoltre, non si può escludere che le banche di investimento che agivano come advisor abbiano sfruttato le conoscenze così acquisite per loro attività di trading e di investimento diretto. In altre parole, non solo avremmo avuto un immeritato arricchimento di alcuni, ma anche un danno all’efficienza del mercato. Queste riflessioni portano al terzo e ultimo aspetto qui meritevole di attenzione: i rapporti che necessariamente si instaurano con la politica quando vi sono elementi di debolezza come quelli prima ricordati. Perché il problema non è solo quello di corretti rapporti con il Governo (e magari anche con il Parlamento) che ogni grande impresa – a maggior ragione se è presente in settori strategici – deve pur avere. Il problema, come in questo caso, è invece quello di una situazione per più motivi fragile, e quindi bisognosa di “consenso politico”. Ma allora si ricade in un altro problema tipico italiano, che è quello della scarsa importanza che attribuiamo ad una buona economia di mercato caratterizzata da molta concorrenza. Ho scritto sul Mulino (numero 5 del 2006) che «l’economia di mercato e il valore della concorrenza non dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 93 E &I sono nel Dna degli italiani. Non sono neppure alla base della nostra Costituzione». E in effetti, lo vedono tutti che ancora c’è molto do ut des tra mondo delle imprese e politica. La vicenda Telecom ha ulteriormente consolidato questa opinione: tutte e due le Camere hanno discusso di cosa s’erano detti il presidente della Telecom e il capo del Governo! In un paese normale, le Camere si sarebbero semmai occupate del futuro delle telecomunicazioni. dialoghi n. 4 dicembre 2006 GIACOMO VACIAGO Il futuro delle telecomunicazioni In tutto il mondo, questo è un settore di grande importanza caratterizzato da profonde trasformazioni, e da molta innovazione tecnologica. Da questi punti di vista, la situazione nel nostro paese non è inferiore a quella di tanti altri paesi sviluppati. E bisogna riconoscere che Telecom ha saputo ben difendere con l’innovazione la sua posizione di incumbent pur destinata ad essere erosa come in parte è già avvenuto per effetto della concorrenza e della regolazione. Alla recente confusione sulle strategie di questa società (separare o meno la rete), aveva peraltro già contribuito una serie di incertezze da parte della società stessa, con particolare riferimento alla scelta di integrare o meno telefonia fissa e mobile o di integrare invece la telefonia con possibili contenuti mediatici. Negli ultimi 5 anni, la priorità attribuita al “controllo” da parte di chi non aveva capitali sufficienti ha spesso pregiudicato l’evoluzione della società in una direzione più moderna, mentre la situazione debitoria da parte del gruppo di controllo portava a ridimensionare il ruolo internazionale di Telecom (al contrario di quanto facevano le maggiori società). Alla fine, l’evoluzione più recente è stata caratterizzata più dalle polemiche (vedi la lite con Palazzo Chigi, poi ripresa alle due Camere) e dagli scandali (compresi quelli delle intercettazioni illegali): un destino immeritato da un’azienda all’avanguardia tecnologica del paese. 93 EVENTI & IDEE - GUANTANAMO: IL LUOGO DEL NON DIRITTO Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 94 E& I È necessario non far passare sotto silenzio alcuno dei preoccupanti passi indietro che nel mondo contemporaneo si compiono nel campo del rispetto della dignità della persona. E augurarsi che la più grande democrazia del mondo mantenga vivi gli anticorpi contro le violazioni dell’umano, di cui talvolta si fa protagonista. Guantanamo: il luogo del non diritto Roberto Cisotta G li Stati Uniti tengono reclusi nelle prigioni della loro base navale di Guantanamo Bay a Cuba, fin dai primi mesi del 2002, alcune centinaia di prigionieri, sospettati di terrorismo. Con il lancio della guerra al terrore, si è deciso di applicare a tutti questi casi una norma del diritto internazionale bellico – anche se non tutti gli internati sono stati catturati nel corso di operazioni in teatro di guerra –, che permette di trattenere i prigionieri senza un’accusa a carico fino alla fine delle ostilità (art. 118 della Terza Convenzione di Ginevra del 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra). Ma quando si concludono le ostilità nella guerra al terrore? È stata una mossa unilaterale dell’Amministrazione statunitense: un’operazione carica di ambiguità tecnicogiuridiche e politiche. Ed anche riguardo alle poco rassicuranti noti- Roberto Cisotta zie, che già dai primi tempi trapela- è dottorando di ricerca in Diritto vano sul trattamento dei prigionie- dell’Unione Europea nell’Università di ri, l’Amministrazione aveva pronta Trieste; è membro del Comitato una giustificazione al proprio ope- esecutivo dell’Istituto di Diritto rato: l’installazione militare e le car- Internazionale della Pace “G. Toniolo”. ceri si trovano nella parte sud Tra le sue pubblicazioni più recenti: Le dell’Isola Caraibica, grazie ad accor- violazioni dei diritti umani e del diritto di di affitto intercorsi in un lontano umanitario nelle prigioni di Guantanamo, passato tra Cuba e Stati Uniti in “I Diritti dell’uomo - cronache e d’America, e lo Stato non è obbliga- battaglie”, 2/2006, pp. 59-68. 94 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 95 E dialoghi n. 4 dicembre 2006 ROBERTO CISOTTA to – sempre secondo l’Amministrazione – al rispetto dei diritti umani se non su territori sui quali esercita una piena sovranità. Grazie ai poteri speciali conferiti al Presidente dopo l’11 settembre 2001, è stato emanato un presidential military order, e in seguito altri atti, di provenienza quasi sempre governativa, secondo i quali la durata della detenzione in quei campi di prigionia è rimessa alla discrezionale valutazione del Presidente. Intanto i pochi reclusi sottoposti ad un processo si ritrovano davanti a military commissions composte da soggetti con competenze legali non verificate e nominati dall’esecutivo. Lo sconcerto cresce se si considerano le ordinarie condizioni di detenzione. I detenuti sono sottoposti ad offese della loro sensibilità religiosa, internamento in celle-gabbia, controllo forzato sui bisogni primari della persona, restrizioni all’uso di quanto necessario per l’igiene personale, mantenimento in ambienti con “temperature estreme” ed esposizione forzata alla luce e al buio in modo tale da turbare il ciclo sonno-veglia. Queste e altre torture hanno quasi sempre l’obiettivo di ottenere informazioni su Al-Qaeda, fornendo le quali si viene ricambiati con condizioni di vita più miti (anche se non è stata smentita l’antica regola secondo cui le informazioni ottenute sotto tortura spesso non rispondono al vero). Questa prassi è ampiamente documentata dalle indagini di diverse Organizzazioni non governative (Ong) e di recente si è anche aggiunta la pubblicazione di due documenti che la confermano ulteriormente: si tratta del Rapporto dei cinque esperti, incaricati dalla Commissione per i Diritti Umani dell’Onu di indagare sulla condizione dei detenuti di Guantanamo, pubblicato il 15 febbraio 2006 e delle Conclusioni e Raccomandazioni rivolte agli Stati Uniti dal Comitato contro la tortura (istituito dalla Convenzione contro la Tortura ed altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti del 1984 e su cui si basa un sistema internazionale di controllo della prassi degli Stati) pubblicate il 18 maggio del 2006. Sono atti che non vincolano gli Stati Uniti. L’obiettivo delle attività di tali di organi è quello di portare ad una conoscenza dei fatti, cercare di instaurare un dialogo con gli Stati che compiono violazioni dei diritti umani, al fine di promuovere una cessazione delle prassi “incriminate”. Essi contribuiscono, in tal senso, a fare pressione a livello politico su questi Stati. Per quanto riguarda il fronte interno, i giudici statunitensi hanno per un certo periodo di tempo assecondato la prassi dell’Amministrazione. La Corte Suprema però, nei casi Rasul et Al. v. Bush e Al Odah et Al. v. United States ha riconosciuto la competenza delle corti federali a giudicare la legittimità della detenzione degli stranieri catturati all’estero e detenuti a Guantanamo, benché poi nella pratica tali corti abbiano &I 95 EVENTI & IDEE - GUANTANAMO: IL LUOGO DEL NON DIRITTO Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 E 23-11-2006 8:52 Pagina 96 &I manifestato una certa ritrosia ad esercitare questa loro competenza. Il 29 giugno 2006 ancora la Corte Suprema, nel caso Hamdan v. Rumsfeld, ha espresso la sua contrarietà a che le military commissions esercitino poteri giurisdizionali, in quanto ciò appare in contrasto col principio della separazione dei poteri. Di fronte a questo stato di cose non si è fatta attendere la reazione di altri Stati e di Ong. Si è fatta sentire soprattutto l’Europa: agli interventi del Parlamento europeo (2002) e dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (2005) si sono affiancati – specie dopo la pubblicazione dei due documenti internazionali sopra richiamati – quelli degli esponenti dei governi di molti paesi. Ma l’Amministrazione Bush, malgrado qualche apparente e temporaneo ammorbidimento, sembra proseguire sulla propria strada. Così ad esempio nel vertice UeUsa di Vienna del 21 giugno 2006, il Presidente americano ha chiesto la collaborazione dei partners del Vecchio Continente per trovare una via d’uscita; poi però il 17 ottobre scorso ha firmato una legge che pone nel nulla gli effetti delle pronunce della Corte Suprema. Inoltre, secondo i due atti internazionali citati, nonché secondo molti giuristi, gli Stati Uniti, con il comportamento messo in atto a Guantanamo, hanno violato norme di entrambi i tipi esistenti nel diritto internazionale: i trattati, attraverso i quali uno Stato si vincola ad un certo comportamento nei confronti dell’altra Parte contraente (o delle altre Parti contraenti), e la consuetudine, cioè tutte quelle regole che vengono seguite con costanza dagli Stati, nella convinzione di stare adempiendo un obbligo giuridico. I trattati di cui sono parte gli Stati Uniti e che sono stati violati sono: la Terza Convenzione di Ginevra e la Convenzione contro la Tortura, già citate, e il Patto sui Diritti civili e politici; probabilmente anche la Convenzione Internazionale sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965. Dal punto di vista del diritto consuetudinario, la norma che in maniera più evidente è stata trasgredita, è ancora il divieto di tortura: esso, pur consacrato in più di un trattato, è considerato anche una consuetudine. E pare che gli Stati Uniti abbiano in realtà cercato anche di far affermare nuove regole, che consentano loro di sfuggire ai divieti imposti dal diritto internazionale, anche i più perentori, come quello della tortura. Con gli escamotages dell’extraterritorialità e della guerra al terrore – nonché con altri, ugualmente carichi di ambiguità e poco convincenti – si è fatto un tentativo di salvare la mera apparenza della legalità. Ma secondo le interpretazioni più attendibili delle norme di tutela dei diritti umani, queste vanno rispettate dagli Stati ovunque; secondo poi le leggi che regolano lo svolgimento di operazioni belliche, è difficile considerare un conflitto armato in senso convenzionale la guerra al ter- 96 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 97 E dialoghi n. 4 dicembre 2006 ROBERTO CISOTTA rore. L’intento statunitense è quello di convincere la Comunità internazionale che certe norme vanno riviste e che, così come esse sono, non sono idonee a disciplinare fenomeni nuovi come la lotta al terrorismo. Ciò è in parte vero, ma intanto esse vengono trasgredite in modo arbitrario. Si spera poi, forse, che il consolidamento di una certa prassi, grazie alla forza politica, economica e militare degli Stati Uniti e all’appoggio di altri Stati, crei una norma consuetudinaria nuova, che renda questi comportamenti leciti. Un’operazione piuttosto ardita, certamente; e del resto in linea con la filosofia che negli ultimi anni ha ispirato la politica estera americana un po’ in tutti i campi. Ma è comunque lecito chiedersi: dove sta andando la Comunità internazionale? C’è un arretramento nella volontà di tutelare i diritti umani? La risposta non è semplice, ma, allo stato attuale, le iniziative degli Stati Uniti non sembrano aver trovato seguito nella prassi internazionale generale, anzi hanno suscitato una fiera opposizione. Per tutti noi Guantanamo è la materializzazione di un incubo, che speravamo di aver lasciato chiuso nelle più tetre memorie del secolo scorso. È pertanto necessario non far passare sotto silenzio alcuno degli inquietanti passi indietro che nel mondo contemporaneo si compiono nel campo del rispetto della dignità della persona, ed attendere che la più grande democrazia del mondo si risvegli dal torpore, carico di crudeltà e indifferenza per certi valori, in cui oggi appare avvolta. &I 97 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 IL LIBRO & I LIBRI - POTERE E RISCHI DELLE IMMAGINI... IL LIBRO 23-11-2006 8:52 Pagina 98 &I LIBRI Fino a che punto è legittimo rappresentare i simboli di una religione in forma dissacrante? Basta appellarsi alla libertà di espressione per giustificare caricature del sacro? E che fine ha fatto il rispetto dell’Altro? Potere e rischi delle immagini del sacro Giacomo Canobbio N ell’agosto 2005 Flemming Rose, responsabile delle pagine culturali del maggior quotidiano danese, lo Jyllans-Posten, organizzava un concorso di disegno sul Profeta. Dei quaranta disegnatori interpellati la maggior parte rifiutò; dodici accettarono e inviarono i loro disegni, in verità piuttosto mediocri e perfino volgari (il più famoso raffigura Maometto con una bomba nel turbante), che il giornale pubblicò il 30 settembre con il titolo Muhammeds ansigt (i volti di Maometto). La pubblicazione provocò alcune proteste soprattutto tra i rappresentanti diplomatici di Paesi arabi presso il governo danese. Il 10 gennaio 2006 un piccolo giornale norvegese (il Magazinet: tiratura 5000 copie) riprendeva le caricature, come il 1° febbraio faranno alcuni quotidiani europei, giustificando la pubblicazione in nome della libertà di espressione. Il fatto provocò violente reazioni nel mondo islamico, che furono rincarate quando un ministro del governo italiano osò mostrarsi in pubblico con una maglietta che riproduceva una delle caricature. Il fatto qui appena richiamato pone un problema: fino a che punto Giacomo Canobbio è legittimo rappresentare i simboli è docente di Teologia sistematica di una religione in forma dissacran- presso il Seminario di Brescia e la te? Basta appellarsi alla libertà di Facoltà Teologica dell’Italia espressione per giustificare caricatu- Settentrionale. È membro del Comitato di direzione di Dialoghi. Tra le sue più re del sacro? A queste domande cerca di recenti pubblicazioni: Dio può soffrire? rispondere il domenicano François Morcelliana, Brescia 2005. 98 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 99 IL LIBRO &I LIBRI dialoghi n. 4 dicembre 2006 GIACOMO CANOBBIO Bœspflug, professore di Storia delle religioni alla Facoltà di teologia cattolica dell’Università Marc Bloch di Strasburgo, nel libro Caricaturer Dieu? Pouvoirs et dangers de l’image, Bayard, Paris 2006, 223 pp. Prendendo avvio dall’episodio ricordato, l’Autore – che ha già pubblicato numerosi saggi sulla storia delle immagini di Dio nell’arte – traccia una storia delle raffigurazioni di Dio nelle tre religioni contigue: Islam, Ebraismo e Cristianesimo. Dopo una introduzione nella quale presenta un “lessico” utile per procedere nella lettura (immagini, iconismo, aniconismo, iconofilia, iconolatria, iconoclastia, caricature), considera prima i testi normativi delle tre tradizioni religiose e poi cosa è accaduto nel corso della storia, non limitandosi al tema della raffigurazione della divinità e dei suoi inviati, ma allargando l’indagine pure alla bestemmia, cioè a ogni forma di denigrazione della medesima divinità. Si tratta di un’opera ricca di documentazione (324 note di rimandi bibliografici) che permette di affrontare il problema in maniera serena, oltre ogni polemica, ma nello stesso tempo con determinazione. La lettura permette di conoscere il diverso modo di pensare il rapporto umano con la trascendenza nelle tre religioni monoteiste, che è quanto dire il diverso modo di pensare la trascendenza. Per quanto attiene all’Islam, la proibizione assoluta di raffigurare Allah, non impedisce, soprattutto presso gli sciiti, immagini del Profeta Maometto nell’atto di ricevere la rivelazione dall’arcangelo Gabriele, anche se il suo volto non è delineato precisamente. A partire dal secolo XVII poi si trovano rappresentazioni di scene bibliche, sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento, riprese dal Corano. Dal sec. XVIII sempre negli ambienti sciiti si propongono pure raffigurazioni dei martiri (Hussein, Ali), degli ayatollah, degli imam. Il Paese più “aperto”, a questo riguardo, è l’Iran, che è perciò anche il Paese nel quale si riscontra il più alto numero di caricature di personaggi legati alla religione (ovviamente non del Profeta). Nella tradizione musulmana non mancano neppure racconti dissacranti (vi sono attestazioni che risalgono al X-XI secolo), ma in genere i loro autori sono stati tradotti in tribunale e perfino condannati a morte (il caso recente più noto è quello dei Versetti satanici di Salman Rushdie). Ciò conferma un profondo rispetto per il sacro. Forse paradossale per gli appartenenti ad altre tradizioni religiose: una vita umana varrebbe meno di una immagine dissacrante, se questa legittima l’uccisione di chi l’ha osata. Relativamente all’ebraismo, sembra si possa dire che l’aniconismo cultuale – forse mutuato dai Madianiti – sarebbe posteriore all’esilio e funzionale a impedire l’idolatria, nei confronti della quale i testi biblici non mancano di offrire caricature. Con il linguaggio attuale si potrebbe dire che gli Ebrei non avevano alcun rispetto per le altre religioni (baste- 99 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 IL LIBRO & I LIBRI - POTERE E RISCHI DELLE IMMAGINI... IL LIBRO 23-11-2006 8:52 Pagina 100 &I LIBRI rebbe leggere il Sal 115, 4-8 o Ger 10,1-16 per avere un esempio del dileggio nei confronti delle divinità [idoli] delle genti). L’aniconismo cultuale non ha però impedito il nascere di un’arte giudaica, che si è sviluppata fin dai primi secoli dell’era cristiana. L’esempio più famoso è quello della sinagoga di Dura-Europos (Siria) che presenta più di cento metri quadrati di affreschi raffiguranti scene bibliche, all’interno delle quali è visibile anche una mano che esce dal cielo indicante la parola di Dio. Non si trovano però raffigurazioni di Dio. Anche nell’arte contemporanea (si pensi a Marc Chagall) Dio non è raffigurato; di lui si trova eventualmente un simbolo. Unica eccezione pare sia presente nella scena della creazione dipinta dallo stesso Chagall, dove si vede un angelo barbuto, evidente ripresa di un motivo tipico dell’arte cristiana occidentale. Non c’è bisogno di insistere nel ricordare le raffigurazioni di Dio e dei misteri della salvezza nella tradizione cristiana: con il passare dei secoli le immagini si moltiplicano, creando così una notevole distanza con le altre due tradizioni monoteiste. La giustificazione del fenomeno si trova nella fede cristologica: Dio si è reso presente nella storia in forma umana in Gesù di Nazareth. È questa la ragione che viene addotta dal concilio di Nicea II (787) contro gli iconoclasti, dopo il quale le raffigurazioni di Cristo, della Vergine, dei santi e degli angeli conosce un singolare sviluppo, che sfocerà nel XII secolo nella rappresentazione non più cristomorfica di Dio: il Padre e la Trinità (soprattutto nella forma del “trono della grazia”) compaiono sempre più frequentemente man mano passa il tempo; a volte senza alcun “canone”, al punto che papa Benedetto XIV nel 1745 sentì il dovere di precisare con il Breve Sollicitudini nostrae che Dio può essere rappresentato come le Scritture attestano Egli si è degnato di apparire. La precisazione si rendeva necessaria a fronte di rappresentazioni dello Spirito Santo in forma umana. Non si può certo dire che le disposizioni di papa Lambertini siano state osservate: le raffigurazioni seguono un loro percorso, frutto più delle intuizioni degli artisti o delle intenzionalità devozionali che non dei testi scritturistici. Si potrebbe perfino osare una data a partire dalla quale le immagini vanno per la loro strada rispetto ai testi: verso la fine del XVIII secolo con il tramonto dell’arte barocca. Contestualmente all’ampio uso delle raffigurazioni di Dio, compare anche la repressione della bestemmia attraverso pene rigorosissime. Le condanne non riusciranno però a fermare l’espandersi dell’ironia e della derisione del sacro cristiano, fino alla bestemmia verbale, letteraria, teatrale e figurativa. Si constata così che, in nome della libertà di espressione, si profana senza alcun ritegno ciò che per i cristiani è sacro, proprio nel contesto in cui il mistero divino è maggiormente rappresentato. In 100 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 101 IL LIBRO &I LIBRI GIACOMO CANOBBIO ultima analisi, non c’è confronto tra la “bestemmia” perpetrata nell’Occidente cristiano rispetto a quella che si può riscontrare nella tradizione giudaica e mussulmana. Anche da questo fatto deriva la meraviglia espressa in Europa in occasione delle violente manifestazioni dell’Islam nei confronti delle caricature del Profeta. Libertà contro “fanatismo”? Ma si tratta di autentica libertà? Bœspflug prima di rispondere agli interrogativi che chiamano in causa la libertà propone alcune riflessioni sul potere che le immagini esercitano sull’animo umano, sulla scorta del detto di Orazio segnius irritant animos demissa per aurem/quam quae sunt oculis subjecta fidelibus. Allora, c’è un limite alla dichiarata libertà di espressione? La risposta dell’Autore è questa: il rispetto dell’altro, che comporta una specie di autocensura, senza alcun bisogno di nuove leggi. Basta l’educazione civica, che è sorella della cortesia, figlia della fraternità. Tale rispetto può nascere però solo dalla conoscenza degli altri e quindi di ciò che li può offendere. In questo modo si potrebbe aiutare anche chi protesta in forma violenta a comprendere che «Uccidere un uomo non è difendere una dottrina; è uccidere un uomo» (Sébastien Castellion lo diceva nel 1533 reagendo alla condanna al rogo di Michele Serveto). Il libro François Bœspflug, Caricaturer Dieu? Pouvoirs et dangers de l’image, Bayard, Paris 2006. dialoghi n. 4 dicembre 2006 101 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 IL LIBRO & I LIBRI - CATTOLICESIMO A STELLE E STRISCE IL LIBRO 23-11-2006 8:52 Pagina 102 &I LIBRI La complessa relazione fra cattolicesimo e concezione americana della democrazia e della libertà, come conseguenza della dialettica fra i valori della comunità e del bene comune, cari alla Chiesa cattolica, e il risalto dato nella cultura americana al valore dell’autonomia individuale. Cattolicesimo a stelle e strisce Marco Olivetti È corrente nell’opinione pubblica europea l’idea che l’homo americanus sia oggi molto più religioso dell’homo europeus, e che la differenza nel radicamento delle diverse confessioni religiose – soprattutto cristiane – sia ormai un dato che distanzia notevolmente le due sponde dell’Atlantico. L’attenzione verso il “Dio d’America”, per richiamare il titolo di un saggio di Furio Colombo, è cresciuta anche nel vecchio continente, soprattutto in quanto molti ritengono che taluni orientamenti religiosi influenzino tuttora le grandi scelte politiche, come quelle dell’attuale inquilino della Casa Bianca, George W. Bush. Meno noto al grande pubblico è il Marco Olivetti ruolo nella società americana della più è professore ordinario di Diritto numerosa confessione statunitense: la costituzionale presso la Facoltà di Chiesa cattolica. Al riguardo, gli osser- Giurisprudenza dell’Università vatori si soffermano soprattutto sui di Foggia e professore inviato di Diritto profili strettamente religiosi od orga- costituzionale comparato presso la nizzativi (ad es. sul fatto che essa sia Pontificia Università “San Tommaso” uno dei punti di forza – anche finan- di Roma. Tra le sue pubblicazioni: La ziari – della Chiesa universale) o, questione di fiducia nel sistema all’opposto, sull’impatto direttamente parlamentare italiano, Giuffrè, Milano politico delle scelte dell’episcopato 1996; Nuovi Statuti e forma di Governo americano (come, di recente, i dissensi delle Regioni, Il Mulino, Bologna 2002. con il terzo candidato alla Presidenza È coordinatore con Raffaele Bifulco e di religione cattolica nella storia degli Alfonso Celotto, del Commentario alla Costituzione, Utet, Torino 2006. Stati Uniti, John Kerry). 102 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 103 IL LIBRO &I LIBRI dialoghi n. 4 dicembre 2006 MARCO OLIVETTI Un volume apparso di recente negli Stati Uniti e sinora poco notato al di qua dell’Oceano offre ora uno sguardo prezioso alla complessa relazione fra cattolicesimo e concezione americana della democrazia e della libertà. John McGreevy, professore di Storia nella principale Università cattolica nordamericana – la University of Notre Dame, sita a South Bend, Indiana, nel cuore della Regione dei Grandi Laghi – è autore di Catholicism and American Freedom. A History (W.W. Norton & Company, New York, 2003), una affascinante storia culturale del cattolicesimo americano. Il volume attraversa i dibattiti che hanno segnato il progressivo radicamento del cattolicesimo oltreoceano, legato all’immigrazione irlandese, tedesca, franco-canadese, italiana e polacca prodottasi in successive ondate a partire dalla metà dell’Ottocento. 295 pagine di testo – dense e ben scritte – e 111 di note – utilissime – ripercorrono le grandi controversie che hanno segnato un rapporto complesso, talora di conflittualità, talora di vicinanza-immedesimazione fra i cattolici americani e la democrazia statunitense. Il volume ripercorre le battaglie sulla questione dell’educazione (e in particolare delle scuole cattoliche), della schiavitù (e della ostilità, ma non dell’abolizionismo, dei cattolici rispetto a questo istituto a metà Ottocento) e sulla “questione sociale”, fino alle più recenti controversie sulla contraccezione, sull’aborto e – da ultimo – la drammatica vicenda della pedofilia. Due fili rossi attraversano il volume. Il primo è la dialettica fra l’americanizzazione del cattolicesimo e gli inputs continuamente provenienti dall’esterno. Dall’esterno vuol dire in genere dall’Europa: da lì provengono a metà Ottocento le spinte verso l’intransigentismo, che generano la prima grande reazione ostile al cattolicesimo negli States. Ma da lì viene anche il contributo apportato dagli esuli, anche cattolici, durante la fase più buia della storia europea: fra essi Jacques Maritain, che a sua volta avrebbe visto profondamente modificata la propria concezione della libertà e della democrazia attraverso il soggiorno americano, ove videro la luce, in fasi successive, suoi lavori fondamentali come Cristianesimo e Democrazia, I diritti dell’uomo e la legge naturale, e L’uomo e lo Stato. Più in generale dall’Europa vengono gli stimoli della Nouvelle Théologie, che dagli anni cinquanta in poi mettono in discussione il tradizionalismo del cattolicesimo americano. Il secondo filo rosso è la dialettica fra la sottolineatura, da parte cattolica, dei valori della comunità e del bene comune, e il risalto dato nella cultura americana al valore dell’autonomia individuale: qui sta il tema ricorrente dei contrasti fra i cattolici e la cultura liberal negli Stati Uniti. Un contrasto che porta i cattolici ad opporsi ad una emancipazione “traumatica” degli schiavi di colore a metà Ottocento, con l’argomento 103 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 IL LIBRO 23-11-2006 8:52 Pagina 104 &I LIBRI IL LIBRO & I LIBRI - CATTOLICESIMO A STELLE E STRISCE che la schiavitù è solo una fra le forme di oppressione che devono essere combattute e che, comunque, segnano inevitabilmente la condizione creaturale dell’uomo: non peggiore, osservano alcuni cattolici, della condizione cui sono sottoposti uomini formalmente liberi ma schiavi del sistema di produzione capitalistico. Ma è sempre la questione dell’autonomia individuale a differenziare la posizione cattolica dopo l’enciclica Rerum Novarum: la Chiesa contesta un’ideale di libertà senza limiti, applicato al campo dell’economia, e sottolinea la subordinazione della libertà di impresa al bene comune. Ed è ancora l’autonomia l’oggetto del contendere attorno ai temi della contraccezione e della sterilizzazione involontaria prima (già dagli anni trenta) e dell’aborto poi (dagli anni sessanta). Così se appare troppo dura – specie nei toni – la battaglia condotta dagli anni trenta agli anni sessanta contro il controllo delle nascite, assume un tono profetico la posizione assunta contro una figura gigantesca del liberalismo americano – il giudice della Corte suprema Oliver Wendell Holmes – sul tema della sterilizzazione involontaria, sostenuto a quei tempi non solo da Hitler in Europa, ma anche dai socialdemocratici svedesi e dai progressisti americani. Certo, in buona parte di queste vicende i cattolici non sono un monolite: sin dalla metà dell’Ottocento emerge una dialettica fra cattolici liberali ed ultramontani, ben simboleggiato – anche attorno alla questione della schiavitù – dalle figure di Orestes Brownsons e James Macmaster. Le diverse sensibilità – presenti sul tema della questione sociale (che vede questa volta tiepidi i cattolici liberali) – si ritrovano a metà Novecento, sulla questione della contraccezione. Su altri temi, invece, prevale il momento dell’unità: è il caso della grande battaglia sull’aborto, apertasi negli anni sessanta e divenuta accesissima dopo la repentina sentenza della Corte suprema sul caso Roe vs Wade, che nel 1973 riconobbe il diritto costituzionale della donna a interrompere la gravidanza, sia pure con limitazioni derivanti dal periodo in cui la decisione viene adottata. Una decisione che ha riallineato non solo i cattolici di diverse tendenze, ma anche il neo-protestantesimo americano, che ha assunto posizioni di contestazione ben più radicale. E che ha aperto una lunga battaglia sulla composizione della Corte suprema, giunta forse solo oggi ad una svolta: dal 2005 – grazie alle due nomine di John Roberts e di Samuel Alito, decise dal Presidente Bush – la Corte più potente e famosa del mondo ha per la prima volta una maggioranza di giudici cattolici (5 su 9) ed è forse in condizione di rovesciare l’abominevole Roe vs Wade. Il libro di McGreevy ripercorre con grande equilibrio e senso critico tutte queste vicende, evidenziando la ricchezza del contributo cattolico alla civiltà americana, ma anche i limiti di posizioni a volte eccessiva- 104 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 105 IL LIBRO &I LIBRI MARCO OLIVETTI mente rigide (come l’accesa battaglia sulla contraccezione, che lasciò quasi sguarnito il ben più grave fronte dell’aborto, schiacciando in maniera indifferenziata sul tema della difesa della vita due temi di portata evidentemente diversa) o incapaci di cogliere la speciale negatività morale di alcuni temi (come la schiavitù, non sostenuta, ma non ritenuta a priori inaccettabile, anche se poi i cattolici saranno ben più efficaci dei protestanti nel realizzare, a metà novecento, la fine della segregazione razziale nelle loro comunità). Il volume sollecita una riflessione. Il valore dell’autonomia individuale è certo irrinunciabile – oggi anche per i cattolici, americani e non. Ed esso è essenziale all’affermazione e al radicamento di una società liberal-democratica: di ciò, spesso, i cattolici americani sono stati meno consapevoli dei loro concittadini ebrei o protestanti. Tuttavia la loro sottolineatura dei valori della solidarietà e del bene comune è stata ed è una risorsa preziosa, non solo in America: accanto, non necessariamente radicalmente contro, il valore dell’autonomia individuale. E se quest’ultima è decisiva ad aversi democrazia, forse non basta: ne è condizione necessaria, ma non sufficiente. Allora il valore della responsabilità e del bene comune – che ogni cattolico che si rispetti (direbbe l’anglicano canadese Charles Grant) non può non valorizzare – è un patrimonio da non disperdere e da bilanciare con il bene dell’autonomia, in un equilibrio molto delicato e sempre da rinnovare. La convinzione di John McGreevy sul ruolo dei cattolici nella società americana – ieri ed oggi – traspare efficacemente nelle righe finali del volume: «Forse il giudizio finale sul lungo incontro dei cattolici con le idee americane di libertà sta qui: sul se i cattolici del ventunesimo secolo possono convincere i loro concittadini, e loro stessi, che le associazioni e i legami con i diversi da noi soddisfano le nostre più profonde e comuni aspirazioni». Il libro John McGreevy, Catholicism and American Freedom. A History, W.W. Norton & Company, New York 2003. dialoghi n. 4 dicembre 2006 105 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 IL LIBRO & I LIBRI - NUOVE SINFONIE LETTERARIE IL LIBRO 23-11-2006 8:52 Pagina 106 &I LIBRI La narrativa e la letteratura in genere sono oggi caratterizzate dalla fruttuosa assenza di estetiche o ideologie dominanti anche in senso creativo e stilistico. Ciò da vita a un fiorire di forme creative le più disparate, ma non sempre originali. Nuove sinfonie letterarie Ermanno Paccagnini S i trova davvero di tutto e di più, negli scaffali delle librerie. Di tutto e di più anche solo a limitarsi alla produzione nostrana. E non solo di tutto e di più, che potrebbe persino suonare positivo ove si pensi alla varietà dell’offerta: purtroppo, a tutto questo “di tutto e di più” si accompagna spesso anche una disposizione imitativa che porta a proposte di titoli e tipologie narrative in non pochi casi anche un po’ troppo “uguali”. Questo mi pare, a grandi linee, lo stato attuale della nostra narrativa, pur in una diminuita libertà e creatività, personale e di direttive editoriali. Il dato positivo, dunque: che mi par consistere, per la narrativa e la letteratura in genere, al pari di altre forme di creatività, quali ad esempio pittura o musica, nella caratterizzazione di questi anni soprattutto come periodo di ricerca in una situazione da «perdita del centro» (per dirla con Sedlmayr): ossia come assenza di estetiche o ideologie dominanti anche in senso creativo e stilistico. Discendono da questa disposizione le forme di creatività le più disparate, dal totalmente contrapposto al mescida- Ermanno Paccagnini to di quelle stesse forme estreme, è docente di Letteratura secondo un procedere – e qui rubo italiana contemporanea l’espressione a Luciano Berio – da all’Università Cattolica di Brescia «sinfonia di percorsi»: ovviamente Tra le sue pobblicazioni: Voci sommerse non armonicamente neoromantici, della Scapigliatura: indagini e recuperi, ma ricchi di dissonanze, realizzatesi Istituto propaganda libraria per qualche tempo anche in narrati- Milano 1995 106 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 107 IL LIBRO &I LIBRI dialoghi n. 4 dicembre 2006 ERMANNO PACCAGNINI va fors’anche per disinteresse delle case editrici maggiori e certa volontà di rischio su autori, forme e generi delle minori. Ed è per tale via che si son così potute riaffacciare, riprendendosi un ruolo anche primario, forme narrative solitamente sprezzate come “genere”: dal rosa al giallo, al fantasy, alla fantascienza. Un riaffacciarsi dal ruolo positivo, perché hanno riportato nella narrazione quella dimensione del narrare appartenuta in passato ai cosiddetti «raccontatori di storie», per dirla con uno di essi come Arpino (ma potremmo anche fare il nome di Piero Chiara): una dimensione che era andata scemando sia per la graduale scomparsa di quei «raccontatori» sia per quella tipologia narrativa autocoscienziale poggiante sino all’ingolfo su un Io confessante sempre lacrimosamente logorroico emersa in particolare negli anni successivi al Sessantotto e con le involuzioni del Settantasette. Tanto più che il Genere si riproponeva non secondo modelli standard, ma ritemprandosi coi problemi dell’oggi, ad esempio depurando il poliziesco della componente catartica. Con tale conseguente successo che purtroppo oggi non c’è bandella di libro che non si richiami al thriller (anche «dell’anima») – ed è invece l’aspetto negativo, da “aggregamenti”, del fenomeno; così riaffermando nei fatti quel “centro” nella forma o di scelte e direttive editoriali o di autoindicazioni d’autore, sino a mescolare il genere col “romanzo storico” non tralasciando intingoli da Effetto Dan Brown. Al punto che – in un clima di soffocamento del genere stesso – respiri quando trovi chi se ne ritrae o per altra opzione creativa (tipo Fois) o per interessi diversi (il Camilleri dell’ultimo Montalbano, attratto dalle psicologie più che da una trama subito smascherabile). Fortunatamente non tutto è “giallo”. Anche se è pur vero che non mancano altri precisi filoni, sempre più saldamente cavalcati sino alla codifica da autori ed editori. Penso così alla frequentatissima rivisitazione narrativa di personaggi reali, con forte prevalenza di letterati (addirittura due i romanzi su Benjamin), che ti inducono a chiederti se tali scelte poggianti sul “già dato” non costituiscano precisi sintomi di carenza creativa. Perché poi il procedimento è il solito: scelte individuali coraggiose; fortuna presso pubblico e/o critica; inserimento di case editrici o di altri colleghi autori che puntano alla replica imitativa; creazione di un filone. Col rischio mai evitato del fagocitante snaturamento dell’idea iniziale. Che è quanto sta avvenendo con la giovane narrativa meridionale, ricca in questi ultimi anni di significative voci nuove, con opzioni stilistiche diversificate nel loro accompagnare lo sguardo dentro contraddizioni, denunce, sogni e utopie d’un Sud in sofferenza. Solo che il fenomeno si sta allargando a dismisura, sino alla standardizzazione: col “nero” di Napoli quale ambientazione privilegiata, e conseguente abdi- 107 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 IL LIBRO 23-11-2006 8:52 Pagina 108 &I LIBRI IL LIBRO & I LIBRI - NUOVE SINFONIE LETTERARIE cazione all’immaginario a favore d’una volontà di denuncia che tante volte traduce la narrazione in cronaca (e non, semmai, viceversa). E buona sorte quando tutto questo – mafia e camorra che “tirano” – resta affidato a sguardi interni, più che a esterne prospettive “sociologicamente guardone”. Situazione analoga a quella dell’altro recentissimo “fenomeno”: dei narratori di madrelingua non italiana che però si esprimono direttamente in italiano. Una presenza che in più occasioni e saggi m’è avvenuto di salutare positivamente proprio per la potenzialità di immaginario da essi introdotto e che può ricadere positivamente su certe nostre sclerotizzate espressività, là ove sappia tradursi anche in scelte stilistiche e strutturali originali; ma che sta divenendo “fenomeno” proprio in quanto, ciò che dal nostro dopoguerra si era concretizzato come sparsa ma fruttuosa ricchezza (cito a titolo d’esempio Pressburger, Kemeny, Wilcock, Jaeggy, Schneider, Bruck, sino a Tawfik, senza dimenticare negli anni Novanta le sollecitazioni di piccoli editori come Fara o Il Grappolo), pare oggi precisa direttrice editoriale e dei premi; e se è vero che si registrano pur sempre voci sicure (penso alla Vorpsi), altrettanto vero è che si affacciano voci ancora incerte e forse solo esotiche. Un Immaginario, aggiungo, che è anche ricchezza metaforica, come può ben dimostrare il confronto tra la rappresentazione delle dune del deserto d’un Tawfik rispetto alla Morandini; e dove semmai il rischio risiede nel farsi metabolizzare da certe nostre schematizzazioni narrative (pericolo non sempre evitato proprio da Tawfik). E si potrebbe proseguire. Anche perché la formazione dei filoni è continua: dalla saga delle nonne post-Tamaro, ripiegata gradualmente su Nonni, Zie, sino a recuperare il classico conto col padre (anche con buoni esiti, come ricorda lo Starnone di Via Gemito); ai ripensamenti narrativi sugli anni di piombo (che cominciano a essere un po’ troppi); al ritorno della letteratura di viaggio, che mi auguro di miglior gestione. Anche se il vero augurio resta quello di poter contare su chi sappia sfuggire a codici e condizionamenti, mettendosi continuamente in gioco, operando mutamenti interni, cercando strade nuove, spezzando le regole. Per essere se stesso. Tanto più in una fase come l’attuale in cui l’editoria letteraria – con l’affacciarsi di nuovi editori o di editori anche noti che hanno deciso di optare per la narrativa italiana o di accentuarne la presenza nel catalogo – sembra davvero scommettere su di sé. Sullo stesso genere romanzo. Sugli esordi. Con proposte di voci spesso quanto mai interessanti e promettenti. Ma questo richiederebbe un discorso del tutto autonomo. 108 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 109 PROFILI GESUALDO NOSENGO/Educatore e organizzatore cristianamente ispirato, fondatore dell’Uciim, fu laico pienamente inserito nella Chiesa italiana e universale e nella scuola italiana ed europea. Il suo sforzo fu quello di tenere uniti il più possibile i mondi vitali e i mondi istituzionali, senza contare su privilegi e poteri diversi da quelli della competenza culturale, della libertà interiore e della fede. LUCIANO CORRADINI Gesualdo Nosengo. Vita di un educatore Luciano Corradini G esualdo Nosengo è una delle figure eminenti della pedagogia italiana d’ispirazione cristiana del secolo scorso, ma non è stato solo un pedagogista. È stato il fondatore e il primo presidente dell’Uciim, Unione cattolica italiana insegnanti medi, la cui nascita è avvenuta a Roma il 18 giugno 1944, ma non è riconducibile a questa sola fondamentale appartenenza. La segnalazione, che cade proprio l’anno centenario della sua nascita (20.7.1906 – 13.5.1968), della sua figura di laico da parte dell’episcopato piemontese al IV Convegno ecclesiale di Verona, dove una gigantesca foto del suo volto sorridente è stata issata sugli spalti dell’Arena, con quelle di altre 16 personalità del mondo laico cattolico (da La Pira a Medi, da Candia a Capograssi, per citarne alcune), è forse l’occasione adatta a restituire Nosengo alla storia della società, della Luciano Corradini scuola e della Chiesa italiana, oltre i è presidente dell’Associazione Italiana confini dell’associazione, per la quale Docenti Universitari. È stato professore egli ha speso le sue migliori energie. ordinario di Pedagogia generale nella L’Uciim gli ha dedicato quest’an- Facoltà di Scienze della formazione no un convegno nazionale di studio, dell’Università di Roma Tre, che si è svolto ad Asti a fine settembre. sottosegretario alla Pubblica Istruzione e Personalità carismatica e polivalente, presidente nazionale dell’Uciim. egli è stato tra i protagonisti della vita Dirige “La Scuola e l’Uomo”, mensile sociale e della vita ecclesiale italiana dell’Uciim. Fra i suoi lavori più recenti: fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, Educare nella scuola nella prospettiva e cioè prima durante e dopo la trage- dell’Uciim, Armando, Roma 2006. dialoghi n. 4 dicembre 2006 109 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 110 PROFILI - GESUALDO NOSENGO. VITA DI UN EDUCATORE PROFILI dia della dittatura, della Guerra e le fatiche della Liberazione e della ricostruzione. Fu uomo di pensiero, come Mounier, Stefanini, Lazzati, Dossetti, La Pira, tutti autori che studiò e citò più volte, ma anche uomo di azione e di “governo”, come Gonella, Gui, la Badaloni, Bellisario, Gozzer, con i quali collaborò in vario modo; e fu educatore, come don Bosco, don Milani e don Giussani. Non si vogliono stabilire gerarchie e graduatorie, ma riconoscere ruoli e contributi diversi dati da personaggi di spicco, in modo talora convergente, talora divergente, alla elaborazione di idee, di norme, di “formazioni sociali”, di reti di amicizie e di solidarietà umane, nella società, nella Chiesa, nella scuola. Nonostante una vocazione religiosa maturata in un lungo giovanile travaglio interiore, egli volle rimanere laico, rinunciando al sacerdozio, al matrimonio, alla carriera accademica, a quella amministrativa e a quella politica, che pure in più occasioni gli vennero offerte. Fu educatore a tutto tondo, professore liceale e universitario, dirigente sindacale, animatore e organizzatore del movimento scoutistico e dell’associazione degli insegnanti medi cattolici, scrittore di successo, autore di libri di testo e di libri di didattica generale e in particolare religiosa e catechetica, di pedagogia generale, di politica scolastica. Questi cenni introduttivi servono per dire che non fu solo educatore e organizzatore cristianamente ispirato, ma laico pienamente inserito, sia pure con qualche sofferenza, nella Chiesa italiana e universale e nella scuola italiana ed europea. Il suo sforzo fu quello di tenere uniti il più possibile i mondi vitali e i mondi istituzionali, senza contare su privilegi e poteri diversi da quelli della competenza culturale e professionale, della fede, della testimonianza, della libertà interiore, centrata sul quotidiano rapporto personale con Gesù Maestro. Profondamente umile tanto quanto motivato al servizio e alla lotta per la giustizia, fu, per le molte migliaia di persone che lo hanno conosciuto, un maestro, in un mondo in cui di maestri di vita e di testimoni di laicità, di ecclesialità e di capacità organizzativa c’è profondo bisogno. Nato a San Damiano d’Asti, il giovane Gesualdo studiò dai salesiani di Valsalice a Torino, ma lavorò anche come operaio nella fornace paterna, a produrre mattoni. Spirito intimamente religioso e insieme “pratico” (i mattoni, diceva, vanno messi uno sull’altro, altrimenti cadono; le stufe non brillano, ma scaldano) attivamente partecipe delle vicende del suo tempo, trovò nella pedagogia, nella didattica, in particolare relative alla religione e alla fede, nella politica scolastica, nel sindacalismo, nell’associazionismo professionale, nello scoutistico ma soprattutto nella prassi dell’educazione e dell’insegnamento, i punti di applicazione della leva di una vita intensamente vissuta, pensata e programmata fin da giovane, nella «santa battaglia della vita, la vera che onora e la cui vittoria ci rimane per tutta l’eternità». Ci restano di lui, oltre a un centinaio di libri di varia consistenza e circa 110 dialoghi n. 4 dicembre 2006 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 111 PROFILI dialoghi n. 4 dicembre 2006 LUCIANO CORRADINI quattrocento saggi e articoli, su varie collane e riviste dell’Uciim, le note e le riflessioni manoscritte, consegnate a decine di quaderni e a sedici agende, annotate per lo più ordinatamente dal 1953 al 1968. È questa una parte cospicua dell’iceberg sommerso della sua vita. Nel 1928 entrò nella Compagnia di San Paolo, che era stata fondata con spirito anticipatore dal milanese don Giovanni Rossi nel 1921, per un progetto di consacrazione a Dio a servizio dell’educazione dei giovani, e frequentò l’Università Cattolica alternando lo studio all’insegnamento della religione, ottenuto con un permesso speciale della Curia, perché non era sacerdote, nell’istituto magistrale Virgilio di Milano. Si laureò in pedagogia nel 1935, con Mario Casotti, del quale fu assistente volontario. Fondò nel 1934 la “Compagnia di Gesù Maestro” e con don Carlo Gnocchi e Silvio Riva, nel 1939, un “Segretariato informativo di pedagogia attiva religiosa”, con la rivista L’Informatore. Frutto della sua ricerca di quegli anni è un vivace diario di scuola, intitolato Così come siamo, scritto in collaborazione con sei suoi alunni, concreto esempio di quella didattica attivistica di ascendenza scoutistica, di cui egli è stato uno dei più originali e convinti sostenitori. Per certi aspetti anticipa la Lettera a una professoressa di don Milani, che in quegli anni studiava in un liceo di Milano. Il volume mise in allarme la Questura fascista di Milano, che pensò di trovarsi di fronte ad un gruppo “sovversivo”. Trasferitosi a Roma, per insegnare nel liceo Cavour, incappò ancora nella persecuzione fascista, rifugiandosi in Vaticano e preparandosi al dopo fascismo, col gruppo che faceva capo alla Fuci, ai Laureati Cattolici e a mons. Montini, futuro Paolo VI. Dal 1943 al 1948 svolse il ruolo di Commissario centrale dell’Associazione Scout Cattolici Italiani (Asci). In occasione dei convegni estivi dei professori, spesso spariva ad organizzare i giochi dei loro figli. In quel periodo partecipò, per la parte relativa alla famiglia, all’educazione e alla scuola, alla stesura del cosiddetto Codice di Camaldoli. Si può dunque considerare Nosengo uno dei “padri della Patria”, anche se non si mise in politica e non fu quindi eletto all’Assemblea Costituente. Fu anticipatore del Concilio, con una costante riflessione teologica, e sulla prassi conseguente, sul ruolo dei laici e sul valore salvifico della professione, in particolare di quella docente. Circa la nascita dell’Uciim, questo egli scrisse in una relazione letta il 22.6.1960 alla Commissione episcopale per l’alta direzione dell’Aci: «L’Unione, accuratamente preparata durante gli anni del 1942 al 1944 da un gruppo d’insegnanti iscritti al Movimento Laureati, ebbe il suo battesimo ufficiale e la sua costituzione la domenica 18 giugno 1944 in una pubblica assemblea tenutasi nella sala della Fuci, in piazza S. Agostino in Roma, alla presenza dell’avv. Vittorino Veronese, allora segretario centrale del 111 Dialoghi4-06p77-115:Dialoghi4/04p77-115 23-11-2006 8:52 Pagina 112 PROFILI - GESUALDO NOSENGO. VITA DI UN EDUCATORE PROFILI Movimento Laureati, che diede, a nome della competente autorità ecclesiastica, l’approvazione alla costituzione dell’Unione. Il primo presidente provvisorio di essa fu scelto da S. E. Mons Montini, il quale comunicò all’interessato tale nomina, attraverso mons. Sergio Pignedoli». E nei suoi appunti: «A comandarmi o a invitarmi sono state autorità di Ac o ecclesiastiche dirigenti di vario genere, o semplicemente circostanze esteriori e mozioni interiori, come per il primo corso sulla pedagogia di Gesù e la Compagnia di Gesù Maestro. E allora? Le ho concordate forse un po’ affrettatamente... col mio direttore. Posso quindi ritenermi sicuro di eseguire la volontà di Dio». Nonostante questa approvazione, seguita da lettere d’incoraggiamento di Pio XII attraverso Mons. Montini, i rapporti col Movimento laureati e con la citata Commissione episcopale, inizialmente non furono facili. Nelle “Norme” deliberate da questa Commissione per i rapporti tra il Movimento Laureati e le Unioni Professionali (1957), Nosengo vedeva non solo l’invito ad una maggior collaborazione, vivamente auspicata, ma una negazione dell’autonomia dell’Uciim, nella scelta dei temi e nell’organizzazione interna dei propri lavori. I vescovi rispondevano con mons. Castellano che questa reazione appariva loro «come espressione di poco spirito di subordinazione» e che comunque quelle norme andavano intese come ad experimentum per un triennio. La garbata ma ferma “resistenza” fu efficace. Da allora i rapporti furono improntati a sempre maggior reciproco rispetto, auspice anche la feconda stagione del Concilio. Le difficoltà successive non derivarono da insubordinazione o da prevaricazione, ma dalla difficoltà di mantenere in vita e di rinnovare la rete associativa, con la sua formula complessa di impegno professionale, sociale, presindacale e prepolitico, vissuti con piena laicità e piena ecclesialità. Di questo impegno Nosengo vide alcuni notevoli frutti. Per ciò che riguarda la politica scolastica, si può dire documentatamente che l’educazione civica nella scuola (1958), basata sul testo della Costituzione (di cui occorreva assicurare la «conoscenza amorosa», in vista della «realizzazione della volontà comunitaria espressa nel medesimo testo») e la nuova scuola media (1962), per la quale affrontò una «dolorosa battaglia», con purezza di intenti», non sarebbero state preparate, varate normativamente e interpretate didatticamente nella scuola, senza il determinante contributo di Nosengo. Arrivando vicino al termine della vita, scrisse sull’agenda nel 1967: «Il seme è gettato. Forse il mio compito era solo quello. Io me ne vado, ciò che è polemica diverrà responsabilità. La scuola media non torna indietro. Per la superiore qualcuno si batterà... I germi, se sono vivi, produrranno piantine». È a queste piantine che i docenti di oggi devono dedicarsi, a cominciare da chi ha il dono della fede. 112 dialoghi n. 4 dicembre 2006 IIIdiCOP4-06:III di COP 23-11-2006 8:31 Pagina 2 Dialoghi per un progetto culturale cristianamente ispirato UN CONTRIBUTO DELL’AZIONE CATTOLICA • • • al cammino di evangelizzazione della comunità cristiana al dialogo nella città degli uomini a una elaborazione culturale aperta e rigorosa IN OGNI NUMERO EDITORIALE: un invito alla lettura, alla luce degli eventi PRIMO PIANO: interventi autorevoli su questioni di attualità culturale e sociale UN PERCORSO TEMATICO ANNUALE: articoli, servizi, interviste a testimoni significativi, forum EVENTI & IDEE : interpretazioni, aggiornamenti, discussioni; la letteratura e il cinema, il costume e la politica, la Chiesa e la società... IL LIBRO & I LIBRI: suggerimenti e itinerari critici di lettura PROFILI: un testimone scomodo da non dimenticare IL PERCORSO TEMATICO DELL’ANNO: I cristiani nella città, testimoni di speranza Indirizzo internet: http://www.dialoghi.azionecattolica.it/ (interamente consultabili i numeri del 2001, 2002, 2003, 2004 e 2005) E-mail: [email protected] ABBONAMENTO ANNUALE (4 numeri): 26,00 EURO L’abbonamento può essere effettuato attraverso il bollettino di conto corrente postale n. 97314009 intestato a Fondazione Apostolicam Actuositatem – Via Conciliazione 1 – 00193 Roma. Finito di stampare nel mese di novembre 2006 a cura della So.gra.ro. – Roma