E - Azione Cattolica Italiana

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E - Azione Cattolica Italiana
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Dialoghi
Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia
ANNO VI - DICEMBRE 2006 - Numero 4
“Dialoghi” – Rivista trimestrale – Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DRCB ROMA - ISSN 1593-5760
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D
ialoghi
ANNO VI
DICEMBRE 2006
Numero 4
Euro 8,00
Luigi
Alici
Monica
Amadini
Piermarco
Aroldi
Paola
Bignardi
Chino
Biscontin
Franco Giulio
Brambilla
Luciano
Caimi
Giovanni
Grandi
Francesco
Lambiasi
Anna
Peiretti
Savino
Pezzotta
Mario
Ravalico
Stefano
Ravalico
Fabio
Zavattaro
Comunicare il Vangelo
in un mondo che cambia
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Dialoghi
per un progetto culturale cristianamente ispirato
Anno VI, n. 4
Rivista trimestrale promossa dall’Azione Cattolica Italiana
in collaborazione con l’Istituto “Vittorio Bachelet” e con l’Istituto “Paolo VI”
Direttore
Luciano CAIMI
Direttore responsabile
Paola BIGNARDI
Comitato di direzione
Luigi ALICI, Piermarco AROLDI, Luciano CAIMI, Giacomo CANOBBIO, Giuseppe DALLA TORRE, Gian Candido DE MARTIN,
Pina DE SIMONE, Roberto GATTI, Pier Giorgio GRASSI, mons. Francesco LAMBIASI, Francesco MALGERI, Francesco MIANO,
Marco OLIVETTI, Matteo TRUFFELLI.
Redazione
Giovanni GRANDI (coordinatore), Gianni DI SANTO, Antonio MARTINO.
Promozione
Rosella GRANDE
Comitato scientifico
Pasquale ANDRIA, Renato BALDUZZI, mons. Giuseppe BETORI, Giandomenico BOFFI, Francesco BONINI, Mario BRUTTI,
Paolo BUSTAFFA, Giorgio CAMPANINI, Francesco Paolo CASAVOLA, Lorenzo CASELLI, Carlo CIROTTO, Piero CODA,
Francesco D’AGOSTINO, Attilio DANESE, Antonio DA RE, Cecilia DAU NOVELLI, Giulia Paola DI NICOLA, Franco GARELLI,
Claudio GIULIODORI, Gildo MANICARDI, Ferruccio MARZANO, Paolo NEPI, Lorenzo ORNAGHI, Orazio Francesco PIAZZA,
Antonio PIERETTI, Ernesto PREZIOSI, Paola RICCI SINDONI, Armando RIGOBELLO, Franco RIVA, Ignazio SANNA, Pierangelo
SEQUERI, Angelo SERRA s.j., Marco VERGOTTINI, Carmelo VIGNA, Francesco VIOLA, Stefano ZAMAGNI, Sergio ZANINELLI.
Editrice
Fondazione Apostolicam Actuositatem
Sede legale: Via Conciliazione 1 – 00193 Roma
Uffici e redazione: Via Aurelia 481 – 00165 Roma
Tel. 06/66.13.21 – Fax 06/66.20.207
E-mail:
[email protected]
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Progetto grafico e impaginazione
Giuliano D’Orsi
In copertina
Giacomo Balla, Mercurio passa davanti al sole, 1914
Illustrazioni interne
Foto Olycom
Stampa
So.gra.ro. – Roma
Tiratura: 3.000 copie – Finito di stampare nel mese di novembre 2006
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Editoriale
Il cammino della Chiesa italiana dopo Verona
Luciano Caimi
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Primo Piano
La lectio di Papa Ratzinger
Fabio Zavattaro
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SOMMARIO
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Dossier: Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia
Tracce di futuro per la Chiesa italiana
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Forum con:
Franco Giulio Brambilla, Paola Bignardi, Savino Pezzotta, Luigi Alici
Comunicare il lieto annuncio
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Piermarco Aroldi
Il Concilio, bussola del nostro orientamento
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Francesco Lambiasi
Se la fede diventa dialogo tra le generazioni
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Monica Amadini
Le parole difficili della Rivelazione
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Anna Peiretti
La questione antropologica
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Giovanni Grandi
L’omelia tra Parola e preghiera
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Chino Biscontin
Come comunicare la speranza?
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Mario Ravalico e Stefano Ravalico
Eventi e Idee
Energia, la sfida del Sole
Vanni Lughi
Il caso Telecom e il capitalismo italiano
Giacomo Vaciago
Guantanamo: il luogo del non diritto
Roberto Cisotta
Il Libro e i Libri
Potere e rischi delle immagini del sacro
Giacomo Canobbio
Cattolicesimo a stelle e strisce
Marco Olivetti
Nuove sinfonie letterarie
Ermanno Paccagnini
Profili
Gesualdo Nosengo
Luciano Corradini
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EDITORIALE
EDITORIALE
Il cammino
della Chiesa italiana
dopo Verona
Luciano Caimi
Si sono ormai spenti i riflettori sul IV Convegno ecclesiale di Verona.
Per chi (come il sottoscritto) non c’era è pressoché impossibile rappresentare atmosfere, vissuti, umori profondi di quello che resta, prima di tutto,
un evento di comunione, dove la preghiera, l’ascolto, il confronto, l’esercizio di discernimento hanno costituito trama costante dei giorni condivisi. Mi devo perciò limitare a quanto ho potuto raccogliere dalla stampa e
dal resoconto di qualche partecipante. Forse non è molto, ma consente
pur sempre di farsene un’idea.
Le analisi, i messaggi, le sollecitazioni, gli auspici sono stati molti. Non
so se tutti nella medesima direzione. Di sicuro, però, sono emerse, pur
nella varietà degli accenti, alcune linee di forte convergenza.
Intanto, la conferma (e come sarebbe potuto essere altrimenti?) di una
fedeltà al modello di Chiesa tracciato dal Concilio. Una Chiesa come
popolo, pellegrinante sulle strade del mondo, compagna nei cammini
degli uomini e delle donne di questo tempo, consapevole di essere depositaria di un unico, ma straordinario tesoro: Gesù e il suo vangelo di speranza, da annunciare e testimoniare con coraggio sempre e ovunque.
Verona ci ha consegnato un’immagine di comunità cristiana non ripiegata su se stessa, sui suoi problemi interni (che pure esistono e sono parecchi), ma aperta con slancio missionario agli interrogativi, alle ansie, alle
fatiche, alle aspettative delle persone concrete (bambini e giovani, adulti e
anziani, genitori e educatori, poveri e immigrati, studenti e lavoratori,
ammalati ed emarginati). Tutto questo senza autocompiacimenti o retorica celebrativa. È un immenso campo d’azione quello dischiuso dal
Convegno, dove i credenti, nella diversità di vocazioni e carismi, sono
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chiamati a operare in spirito di corresponsabilità entro l’unica, ancorché
articolata, missione evangelizzatrice. Nessuno può tirarsi fuori.
Certo, in quest’ottica, al laicato, per la sua vocazionale “estroversione”,
che dice riferimento quotidiano al “mondo” tramite le molteplici occupazioni feriali, spetta un ruolo particolare. Ho letto con gioia l’invito del
card. Tettamanzi a rendere «autentica “prassi” ecclesiale» la «splendida
“teoria” sul laicato espressa dal Concilio». Oggi la questione concerne non
tanto (o non solo) il ruolo dei laici nella Chiesa, al centro di vivaci confronti sino a qualche tempo fa (anche se non darei per vinto del tutto una
sorta di clericalismo di ritorno), quanto piuttosto il modo con cui tutte le
vocazioni e i ministeri ecclesiali «costruiscono la comunità credente e
diventano segno vivo del vangelo per il mondo» (F. G. Brambilla). L’idea
di corresponsabilità è riecheggiata a più riprese nei lavori veronesi.
Esprime la consapevolezza di dover essere, ciascuno con la specificità dei
propri doni, parte attiva nell’edificazione della Chiesa e nello svolgimento
della missione. Molto resta da compiere in questo senso. Devono crescere,
a vari livelli, l’attitudine comunionale e partecipativa, il desiderio di porre
la propria esperienza a servizio dell’intera comunità ecclesiale, superando
esclusivismi autoreferenziali.
Questi ultimi aspetti interpellano da vicino movimenti e associazioni
laicali. Verona ha consentito di compiere un passo innanzi nel cammino
di reciproca accoglienza, stima, collaborazione, riconoscendo la ricchezza
dei doni dei quali ciascuno è portatore. Le differenze di sensibilità e di
accenti in alcuni casi restano e non vanno misconosciute. Però, se si osserva la strada percorsa di recente, è da registrare con soddisfazione la ricerca
di un dialogo aperto. Dobbiamo allora auspicarne lo sviluppo, persuasi
della sempre più forte rilevanza delle esperienze aggregative per la stessa
missione evangelizzatrice.
Poco comprenderemmo però dell’evento veronese, se non tenessimo
presente che esso, raccogliendosi intorno al binomio speranza-testimonianza, è stato occasione di riflessione a tutto campo sui nodi cruciali dell’esperienza di fede e sulle modalità della sua comunicazione in un tempo,
il nostro, né migliore né peggiore di altre epoche storiche, ma solo diverso
per una serie di ben noti fattori socio-culturali, economici, scientifici. Lo
sguardo, legittimamente preoccupato su alcuni problemi e tendenze del
presente (“disagio” del soggetto, crisi dei rapporti familiari, neo-scientismo, forme vecchie e nuove di povertà, fenomeni migratori, frammentazione socio-politica, illegalità ecc.), non ha impedito di cogliere i molteplici fermenti di bene e di generosità diffusi nel tessuto sociale, ad alimentare i quali concorrono in modo significativo i credenti. Se già questa rilevazione induce a considerare l’epoca attuale con sguardo meno cupo e rassegnato di quanto non appaia da molte analisi correnti, va però detto che
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le ragioni di fondo dell’“ottimismo” cristiano riposano sulla certezza dell’amore di Dio per il mondo. A Verona, tale consapevolezza è emersa con
forza e lucidità, incominciando dalle parole di Benedetto XVI relative al
«grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza».
Ecco, dal continuo “fare memoria”, personale e comunitario, di questa
verità deve prendere slancio la presenza testimoniale dei cristiani nella
società italiana di oggi. Senza nulla togliere al ruolo importante delle altre
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vocazioni (religiose e sacerdotali), è però indubitabile che l’attenzione del
Convegno ha finito per posarsi in forma privilegiata sui laici. Quale profilo debba contraddistinguerli perché possano essere, lì dove la vita quotidiana li chiama a operare, testimoni di speranza è stato detto in modo
ampio e articolato. A tale proposito, prima di ogni altra considerazione, va
posto in evidenza il rapporto “decisivo” con Cristo (Benedetto XVI). Il
rischio è, talvolta, di darlo troppo per scontato, perdendo così di vista l’esigenza insopprimibile della meditazione della Parola, della preghiera, del
silenzio, della comunicazione nella fede. Occorrono laici cristiani vivi,
dinamici, ma oranti, disposti «ad abbandonarsi all’azione dello Spirito e a
spendere il talento di un’intelligenza spirituale creativa» (P. Bignardi);
uomini e donne appassionati della vita, dediti, nelle forme più diverse,
alla cura del fratello e però consapevoli della “paradossalità” della vocazione cristiana, la quale, pur sollecitandoci a essere cittadini responsabili
verso la città terrena, c’induce, nondimeno, a considerarci sempre “stranieri” sulla terra, perché in cammino verso la patria celeste.
Naturalmente, sulla presenza socio-politica dei cattolici, il Convegno,
nei suoi vari momenti, non poteva essere silente. Vi è stata una conferma
di linee ormai consolidate. Intanto, il richiamo alla dottrina conciliare
dell’«animazione cristiana delle realtà sociali», come compito proprio dei
laici, da svolgere «con autonoma iniziativa e responsabilità», ma «nella
fedeltà all’insegnamento della Chiesa» (card. Ruini). Restano tuttavia
determinanti le modalità e gli stili capaci di testimoniare la speranza cristiana nei complessi contesti della vita pubblica. Più che retorici richiami
ai valori – è stato detto in vari interventi –, occorrono comportamenti
all’insegna della trasparenza, della lealtà, del rispetto, della solidarietà,
della giustizia. Circa l’àmbito politico, lungi dall’attardarsi in nostalgie
per il passato, si è, ancora una volta, realisticamente preso atto del sistema
bipolare in vigore. L’auspicio, espresso con forza e in diversi modi, è che
gli operatori cattolici del settore, nonostante le differenti sensibilità e collocazioni, si impegnino senza equivoci a favore del bene comune, non
degli interessi di parte, con un’attenzione viva per le questioni “eticamente sensibili”, cariche di rilevanti ricadute sulla vita delle singole persone,
delle famiglie e dell’intera società.
Nel complesso quadro di temi, problemi, discussioni e confronti veronesi, la parola del Papa è risuonata con singolare incisività, proponendo
linee d’interpretazione teologico-culturale e prospettive di azione pastorale meritevoli di meditati approfondimenti. Mi limito a segnalare due
punti: il richiamo a una «fede amica dell’intelligenza», che deve indurre a
proseguire nel lavoro di “argomentazione” delle ragioni del credere, sottraendo, pertanto, l’esperienza cristiana al rischio dell’“afasia” dinanzi agli
incalzanti interrogativi dell’odierna socio-cultura; l’appello a «una prassi
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di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai
poveri e ai sofferenti», come documentano le pagine più belle delle comunità ecclesiali lungo i secoli.
Sono, entrambi, inviti sui quali le Chiese e le varie espressioni del
mondo cattolico in Italia devono sentirsi sollecitate a riflettere e a individuare idonee linee d’intervento. Passa anche da lì la possibilità di essere
testimoni efficaci di speranza. Con un’ulteriore, importante precisazione,
insistentemente riecheggiata durante il Convegno: quella di porre al centro della cura pastorale la formazione di coscienze credenti “adulte”, capaci, quindi, di legare, nell’unità della persona, libertà e responsabilità, dedizione ecclesiale e passione per il mondo.
L’incontro di Verona ha offerto importanti spunti di riflessione e dato
prova di dialoghi sinceri fra credenti. Si tratta di far fruttificare un’esperienza così significativa, concorrendo all’edificazione di una Chiesa più
fedele al soffio dello Spirito e capace di riaccogliere oggi lo slancio innovatore del Concilio.
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In questo numero il Primo Piano, proposto da Fabio Zavattaro, offre
una chiave di lettura dei recenti interventi di Benedetto XVI con particolare attenzione al fermento del mondo islamico. Il Dossier, interamente
dedicato al IV Convegno ecclesiale nazionale, si apre con un forum in cui
don Franco Giulio Brambilla, Paola Bignardi, Savino Pezzotta e Luigi
Alici riflettono sull’esperienza dell’incontro veronese e sulle prospettive
che si profilano. Piermarco Aroldi analizza il rapporto tra il comunicare ed
il testimoniare, focalizzando alcuni snodi cruciali nella trasmissione della
fede. Mons. Francesco Lambiasi fa il punto sul cammino della Chiesa italiana suggerendo alcuni appuntamenti per l’agenda pastorale di questa
seconda metà del decennio in corso. Monica Amadini, Anna Peiretti e
Giovanni Grandi analizzano alcuni luoghi in cui la testimonianza cristiana va declinata con urgenza e con particolare cura, rispettivamente nei
rapporti intergenerazionali, nella trasmissione delle parole difficili della
Rivelazione – specie ai più piccoli – e nella comprensione della portata
della questione antropologica. Don Chino Biscontin riprende il tema della
trasmissione della fede portando l’attenzione sull’omiletica, infine Mario
e Stefano Ravalico offrono una testimonianza sulle condizioni, sulle difficoltà e sui modi del comunicare la speranza in contesti interculturali ed
interreligiosi.
Eventi e Idee si apre con un intervento di Vanni Lughi sul problema
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energetico e sulle attuali prospettive tecnologiche, Giacomo Vaciago offre
un’analisi ed una riflessione sul caso Telecom e Roberto Cisotta, ricordando la situazione di Guantanamo, sollecita ad una costante attenzione
alle violazioni dei diritti umani, specie da parte della grandi democrazie.
La sezione Il libro e i libri si apre con la segnalazione, da parte di don
Giacomo Canobbio, di un importante lavoro francese dedicato alla raffigurazione del sacro nelle grandi religioni: è l’occasione per riflettere sul
rapporto tra libertà di espressione e rispetto delle sensibilità, specie religiose; anche Marco Olivetti segnala un lavoro di saggistica straniera, questa volta dedicato alla storia ed all’evoluzione del cattolicesimo americano;
infine Ermanno Paccagnini offre una esplorazione sulle attuali tendenze
della produzione letterarie. Il Profilo di questo numero, firmato da
Luciano Corradini, è dedicato alla figura di Gesualdo Nosengo.
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PRIMO PIANO
PRIMO PIANO
In questo primo scorcio di pontificato, il magistero di
Benedetto XVI si è molto soffermato sull’analisi del rapporto
tra “fides” e “ratio”, chiarendone natura e limiti, debolezze ed
equivoci. La ragione, privata dell’apporto della Rivelazione,
rischia di percorrere sentieri laterali perdendo di vista la
propria meta finale. La fede, privata della ragione,
sottolineando il sentimento e l’esperienza, corre il rischio di
non essere più una proposta universale.
La lectio
di Papa Ratzinger
F
Fabio Zavattaro
orse è sfuggito ai più; forse è passato inosservato. Ma a metà
ottobre un testo di cinque pagine, a firma di trentotto capi spirituali e teologi islamici, sunniti e sciiti, viene diffuso dalla rivista americana Islamica Magazine: è la prima, articolata risposta
alle parole di Papa Benedetto XVI a Regensburg, e ai successivi
interventi per spiegare, per ribadire il «profondo rispetto per
tutti i musulmani». È, quel testo, una risposta positiva che non
solo accoglie il rammarico espresso dal Papa, ma ne sottolinea
aperture e positività, come «i suoi sforzi (di Papa Benedetto,
ndr) per opporsi al predominio di positivismo e materialismo
nella vita dell’uomo» e il suo desiderio «per un franco e sincero
dialogo, di cui si deve riconoscere l’importanza sempre più crescente nel nostro mondo». Cristianesimo ed Islam, affermano
ancora i firmatari, «contano fra i loro fedeli oltre la metà dell’umanità e, in un mondo sempre più globalizzato, sono responsabili della pace». Per questo «devono spostare il confronto dalle
strade e le piazze verso un dialogo sincero di cuori e menti» per
accrescere la comprensione e il rispetto reciproci.
Questo documento ci permette di avviare due riflessioni
sulle parole pronunciate dal Papa in quella lezione all’università,
il 12 settembre scorso. La prima su come è stata recepita la
lezione, complice anche una non corretta comunicazione; la
seconda, legata al tema che predomina in quel discorso rivolto
più all’Occidente che all’Oriente: il dialogo fede e ragione.
Cominciamo dalle proteste, dalle reazioni del mondo arabo
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Fabio Zavattaro
è vaticanista e inviato del
Tg1. Ha di recente
pubblicato I Santi e
Karol, Àncora, Milano
2004 e realizzato i Dvd
Giovanni Paolo II, un
papa nella storia e
Benedictus (edizioni Rai
Trade 2005).
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e islamico alle parole del Papa. Tutte avviate a seguito della lettura, sui
media e le agenzie in primo luogo occidentali, di un contenuto parziale di
quella lezione accademica, che puntava quasi esclusivamente a mettere in
evidenza la questione Islam. Quasi nessuno aveva letto per intero il discorso di Benedetto XVI, quasi nessuno aveva avuto modo di approfondirne il
contenuto visto che non vi era una traduzione in qualche lingua orientale.
Però bisognava reagire a quelle parole che venivano inserite in un contesto
di politica internazionale, di confronto fra Occidente e Islam: il conflitto
di civiltà, insomma. Tutto l’opposto di quanto Papa Wojtyla, soprattutto,
ma anche Benedetto XVI hanno sempre cercato e perseguito.
Del discorso di Regensburg, la frase più citata è la domanda dell’imperatore d’Oriente Manuele II Paleologo al persiano colto, anno 1391;
domanda posta «in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da
essere per noi inaccettabile» si legge nel discorso del Papa, pubblicato nel
sito internet del Vaticano con tanto di note esplicative; domanda «centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere». La domanda:
«Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per
mezzo della spada la fede che egli predicava».
Il Papa non si ferma qui. In un’altra nota alla sua lezione si legge:
«Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come
espressione della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di
fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di
una grande religione. Citando il testo dell’imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione».
Ecco il punto contestato. Eppure Benedetto XVI aveva citato, in precedenza, la Sura 2 che al versetto 257 dice: «Nessuna costrizione nelle cose
di fede». E i trentotto leader religiosi islamici convengono sulle conversioni forzate. Scrivono: «Se è vero che una parte dei nostri fedeli è figlio delle
conquiste, la maggior parte si è unita a noi grazie alla preghiera e all’attività missionaria […]. Se la storia insegna che alcuni musulmani hanno
violato il credo islamico riguardo le conversioni forzate e il modo in cui
vanno trattate le altre comunità religiose, la stessa storia ci dimostra che
sono state eccezioni».
Ancora. Subito dopo la domanda brusca, nel discorso del Papa si
legge: «L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura
di Dio e la natura dell’anima. Dio non si compiace del sangue – egli dice
–, non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. La fede è frut-
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to dell’anima, non del corpo». La violenza dunque è cosa irragionevole
che contrasta con la natura di Dio: è questa la frase che ha colpito Papa
Benedetto, tanto che la pronuncia cinque volte nel suo discorso. Chi fa
violenza, cristiano o musulmano, non è un credente, va contro la ragione
e contro Dio.
LA LECTIO DI PAPA RATZINGER
Fede e ragione
«Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni». La lezione di
Regensburg aveva proprio questo titolo; ed è la chiave giusta per capire il
Pontificato di Papa Ratzinger, così come si è sviluppato dal giorno della
sua elezione fino ad oggi. Fede e ragione. Una ragione svuotata però da
tutto ciò che è spirituale: è questa la critica che il Papa fa all’Occidente; la
stessa che viene dal mondo musulmano. Un Occidente secolarizzato che
ha emarginato Dio. Per Benedetto XVI escludere Dio non è illuminismo,
ma falso illuminismo. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è
valido, viene riconosciuto senza riserve: «L’ethos della scientificità, del
resto, è […] volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un
atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano.
Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di
un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa».
Fede e ragione unite in modo nuovo per il Papa, superando la limitazione della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dando nuovamente alla teologia, intesa non solo come disciplina storica e umanoscientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla
ragione della fede, il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle
scienze. «Solo così», afferma Papa Benedetto, «diventiamo anche capaci di
un vero dialogo delle culture e delle religioni, un dialogo di cui abbiamo
un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa
derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del
mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità
della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione,
che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture». L’Occidente,
da molto tempo, «è minacciato», afferma ancora Papa Benedetto, «da
questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione,
e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza, è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica,
entra nella disputa del tempo presente. Non agire secondo ragione, non
agire con il logos, è contrario alla natura di Dio, ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a
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questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di
nuovo, è il grande compito dell’università».
Agire contro la ragione, dunque, è in contraddizione con la natura di
Dio. Affermando questo, il Papa offre un criterio fondamentale per mettere in guardia l’esperienza religiosa dal rischio di una deriva ideologica, e
questo vale per tutte le fedi, cristiana, musulmana o altro ancora. E vale
per tutti gli uomini, nessuno escluso. È ancora Papa Benedetto che il 2
settembre, in un messaggio per i venti anni dell’Incontro di preghiera di
Assisi per la pace, scrive: le guerre di religione «non possono attribuirsi alla
religione in quanto tale, ma ai limiti culturali con cui essa viene vissuta e
si sviluppa nel tempo». C’è, dunque, un primato del logos perché la fede,
per Papa Ratzinger, è una stabilità e un comprendere al tempo stesso,
come si legge nella Introduzione al cristianesimo. La fede è un piantarsi sul
terreno della parola di Dio, l’inizio di una comprensione della realtà in cui
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LA LECTIO DI PAPA RATZINGER
a ciò che è visibile viene preferito ciò che è invisibile. Dio come luce che è
nello stesso tempo «amor che move il sole e le altre stelle» come dice nella
Deus caritas est, citando il Paradiso di Dante. Una visione che mostra «la
continuità tra la fede cristiana in Dio e la ricerca sviluppata dalla ragione
e dal mondo delle religioni». «Al contempo», spiega Papa Benedetto XVI
in un discorso al Pontificio Consiglio Cor Unum, il 23 gennaio scorso,
«però, appare anche la novità che supera ogni ricerca umana, la novità che
solo Dio poteva rivelarci: la novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto umano, anzi ad assumere carne e sangue, l’intero essere
umano […]. La fede non è una teoria che si può far propria o anche
accantonare. È una cosa molto concreta: è il criterio che decide del nostro
stile di vita. In un’epoca nella quale l’ostilità e l’avidità sono diventate
superpotenze, un’epoca nella quale assistiamo all’abuso della religione
fino all’apoteosi dell’odio, la sola razionalità neutra non è in grado di proteggerci. Abbiamo bisogno del Dio vivente, che ci ha amati fino alla
morte».
La fede che deve continuamente rapportarsi alla ragione purificandola
dai suoi eccessi. Così a Verona al IV Convegno Ecclesiale, il 19 ottobre
scorso, parla di un universo dove esiste una corrispondenza profonda «tra
la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettiva della natura», un logos
creatore che capovolge «la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al
caso e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la
nostra libertà. Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli
spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del
bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno
rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma
anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme».
La persona umana, dice ancora il Papa, non è soltanto ragione e intelligenza; «si interroga e spesso si smarrisce di fronte alle durezze della vita,
al male che esiste nel mondo e che appare tanto forte e, al contempo, radicalmente privo di senso». Proprio per questo, afferma ancora il Papa,
«dobbiamo essere sempre pronti a dare risposta (apo-logia) a chiunque ci
domandi ragione (logos) della nostra speranza». Proprio per questo c’è
bisogno di «risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà
sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella
vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi
per dare consistenza e significato alla stessa libertà».
Il volo di Icaro
No dunque – afferma Papa Benedetto parlando a professori e studenti
dell’Università Lateranense, la sua università come sottolinea al suo arri-
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vo, lo scorso 21 ottobre – alla riduzione della ragione soltanto a ciò che è
calcolabile e manipolabile. «Il contesto contemporaneo sembra dare il primato a un’intelligenza artificiale che diventa sempre più succube della tecnica sperimentale e dimentica in questo modo che ogni scienza deve pur
sempre salvaguardare l’uomo e promuovere la sua tensione verso il bene
autentico. Sopravvalutare il “fare” oscurando l’“essere” non aiuta a ricomporre l’equilibrio fondamentale di cui ognuno ha bisogno per dare alla
propria esistenza un solido fondamento e una valida finalità».
E usa un’immagine, il Papa, quella di Icaro, il sogno del volo. Preso dal
gusto di volare verso la libertà, ricorda Benedetto XVI, Icaro dimentica le
sue ali di cera, ed è incurante ai richiami del vecchio padre Dedalo: «La
caduta rovinosa e la morte sono lo scotto che egli paga a questa sua illusione. La favola antica ha una sua lezione di valore perenne. Nella vita vi
sono altre illusioni a cui non ci si può affidare, senza rischiare conseguenze disastrose per la propria ed altrui esistenza». Ancora la ragione che deve
guidare i passi dell’uomo; e il docente che, per Papa Benedetto, ha il compito «non solo di indagare la verità e di suscitarne perenne stupore, ma
anche di promuoverne la conoscenza in ogni sfaccettatura e di difenderla
da interpretazioni riduttive e distorte. Porre al centro il tema della verità
non è un atto meramente speculativo, ristretto a una piccola cerchia di
pensatori; al contrario, è una questione vitale per dare profonda identità
alla vita personale e suscitare la responsabilità nelle relazioni sociali».
C’è un passaggio della Fides et ratio di Papa Wojtyla (al numero 29)
che ci aiuta nel nostro ragionamento. Ed è anche qui un’immagine che
guida la riflessione: «L’uomo non inizierebbe a cercare ciò che ignorasse
del tutto o stimasse assolutamente irraggiungibile. Solo la prospettiva di
poter arrivare ad una risposta può indurlo a muovere il primo passo. Di
fatto, proprio questo è ciò che normalmente accade nella ricerca scientifica. Quando uno scienziato, a seguito di una sua intuizione, si pone alla
ricerca della spiegazione logica e verificabile di un determinato fenomeno,
egli ha fiducia fin dall’inizio di trovare una risposta, e non s’arrende
davanti agli insuccessi. Egli non ritiene inutile l’intuizione originaria solo
perché non ha raggiunto l’obiettivo; con ragione dirà piuttosto che non
ha trovato ancora la risposta adeguata. La stessa cosa deve valere anche per
la ricerca della verità nell’ambito delle questioni ultime. La sete di verità è
talmente radicata nel cuore dell’uomo che il doverne prescindere comprometterebbe l’esistenza. E sufficiente, insomma, osservare la vita di tutti i
giorni per costatare come ciascuno di noi porti in sé l’assillo di alcune
domande essenziali ed insieme custodisca nel proprio animo almeno l’abbozzo delle relative risposte».
Consonanza di pensiero tra i due Papi. È ancora Giovanni Paolo II a
dirci che il rapporto tra fede e ragione richiede «un attento sforzo di
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discernimento, perché sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono
divenute deboli l’una di fronte all’altra. La ragione, privata dell’apporto
della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato
il sentimento e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale. È illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione
debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo
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di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione
che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell’essere».
Come Papa Wojtyla anche Benedetto XVI mette in guardia l’Occidente da una separazione tra fede e ragione – alla parresia della fede deve
corrispondere l’audacia della ragione, scriveva Giovanni Paolo II sempre
nella Fides et ratio. La conseguenza di questa separazione, per Benedetto
XVI, è il rischio di una scarsa attenzione all’uomo, alla sua dignità, alla
difesa della vita umana in tutte le sue fasi. È questa la preoccupazione di
Papa Benedetto così come si evince dalle parole pronunciate nella lezione
di Regensburg. Di più, egli evidenzia come la fede della Chiesa si sia
«sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno
Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui
certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze,
non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio. Dio
non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un
volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel
Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di
amore in nostro favore».
Ci sono degli interrogativi di fondo, afferma ancora Benedetto XVI,
interrogativi propriamente umani, della ragione e dell’ethos, quelli del “da
dove” e del “verso dove” che non possono trovare posto nello spazio della
comune ragione descritta dalla scienza. E se le questioni della religione e
dell’ethos non riguardano più la ragione, se non si riesce più a costruire
comunità, se si cade nella discrezionalità, allora per il Papa è l’uomo che si
trova in una condizione pericolosa, che rischia di perdere il contatto con
la verità.
Guarda soprattutto all’Occidente Papa Benedetto. Guarda ad una
società secolarizzata che ha perso contatto con le sue radici e la sua tradizione. Ancora cardinale, Joseph Ratzinger a Subiaco, il primo aprile del
2005, affermava che: «Il cristianesimo, fin dal principio, ha compreso se
stesso come la religione del logos, come la religione secondo ragione. Non
ha individuato i suoi precursori in primo luogo nelle altre religioni, ma in
quell’illuminismo filosofico che ha sgombrato la strada dalle tradizioni
per volgersi alla ricerca della verità e verso il bene, verso l’unico Dio che
sta al di sopra di tutti gli dèi. In quanto religione dei perseguitati, in quanto religione universale, al di là dei diversi Stati e popoli, ha negato allo
Stato il diritto di considerare la religione come una parte dell’ordinamento statale, postulando così la libertà della fede. Ha sempre definito gli
uomini, tutti gli uomini senza distinzione, creature di Dio e immagine di
Dio, proclamandone in termini di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa dignità. In questo senso l’illu-
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minismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il Cristianesimo, contro la
sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato».
L’uomo, ricordava sempre a Subiaco «ha scandagliato i recessi dell’essere, ha decifrato le componenti dell’essere umano, e ora è in grado, per così
dire, di costruire da sé l’uomo, che così non viene più al mondo come
dono del Creatore, ma come prodotto del nostro agire». Tutto questo
mostra che «al crescere delle nostre possibilità non corrisponde un uguale
sviluppo della nostra energia morale. La forza morale non è cresciuta
assieme allo sviluppo della scienza, anzi, piuttosto è diminuita, perché la
mentalità tecnica confina la morale nell’ambito soggettivo, mentre noi
abbiamo bisogno proprio di una morale pubblica, una morale che sappia
rispondere alle minacce che gravano sull’esistenza di tutti noi […]. La
sicurezza, di cui abbiamo bisogno come presupposto della nostra libertà e
della nostra dignità, non può venire in ultima analisi da sistemi tecnici di
controllo, ma può, appunto, scaturire soltanto dalla forza morale dell’uomo: laddove essa manca o non è sufficiente, il potere che l’uomo ha si trasformerà sempre di più in un potere di distruzione».
La lezione del professor Ratzinger ha dunque l’Occidente come obiettivo primo, il nord ricco del mondo che legge con i suoi codici la realtà del
sud, che propone strategie spesso dettate solo da altri interessi e non attente al destino dei popoli. Ecco che allora una ragione illuminata dalla fede
può non solo evitare violenze e conflitti, ma può anche costruire nuove
strade di dialogo, essere capace di leggere le gioie e le speranze, le tristezze
e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro
che soffrono, come chiede a tutti noi la Gaudium et spes.
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DOSSIER
Comunicare il Vangelo
in un
mondo che cambia
COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA
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FORUM/Dopo Verona. Alcune riflessioni.
Tracce di futuro
per la Chiesa italiana
Il Convegno ecclesiale di Verona fa il punto sul cammino della
Chiesa italiana e contribuisce a tracciarne la rotta. Quali sono gli
orizzonti che si aprono? Come tradurre un “evento di speranza”
nella ferialità della vita culturale, civile ed ecclesiale?
Quattro voci che hanno contribuito in diverso modo alla preparazione al Convegno offrono le loro prime impressioni.
Ritrovare il gusto di una tensione missionaria
E
Franco Giulio Brambilla
«
partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove
trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali
dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”.
Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane» (Lc 24,33-35). La premura dei primi discepoli descrive bene lo spirito con cui sono tornati a casa coloro che hanno partecipato al IV Convegno ecclesiale della Chiesa italiana. Come testimoni di Gesù risorto sono
“partiti da Emmaus” per tornare a Gerusalemme, nel cuore delle
Chiese locali d’Italia, per trovare la loro comunità riunite che già
vivono della fede pasquale e confermarle raccontando loro ciò
«che è accaduto lungo la via» e come «hanno riconosciuto il
Signore allo spezzare del pane». Il Convegno è stato una sosta di
metà cammino nel primo decennio della Chiesa sulla soglia del
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Franco Giulio
Brambilla
è docente di Cristologia
e Antropologia teologica
e preside della Facoltà
Teologica dell’Italia
Settentrionale. Tra le sue
pubblicazioni: Cinque
dialoghi su matrimonio e
famiglia, Glossa, Milano
2005; Antropologia
teologica: chi e l'uomo,
perche te ne curi?
Queriniana, Brescia
2005.
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Terzo millennio. Per questo Verona è un punto di partenza. Perché il
Convegno non è stato solo “sulla speranza”, ma è lievitato in pochi giorni
come un “evento di speranza”. Ne propongo tre percorsi di lettura.
FRANCO GIULIO BRAMBILLA
La condizione singolare dell’Italia
Un primo percorso di lettura sviluppa le linee di forza del Convegno:
Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. Il grande discorso di
Benedetto XVI alla Fiera e lo splendido gioiello dell’omelia alla messa
dello stadio hanno disegnato le coordinate teologico-spirituali e culturali
dell’evento di Verona. La relazione di apertura del card. Tettamanzi e la
sintesi conclusiva del card. Ruini ne hanno declinato le istanze pastorali e
le forme di presenza nel mondo. Il discorso di Papa Benedetto ha onorato
la tradizione dei grandi interventi dei predecessori ai Convegni precedenti. Ha sottolineato la singolarità dell’Italia sotto il profilo spirituale e culturale: «terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole per tale testimonianza». Anche l’Italia condivide con la cultura occidentale – osserva il Papa – l’atteggiamento di autosufficienza che sta generando un nuovo costume di vita, contrassegnato da una ragione strumentale
e calcolante, e dall’assolutizzazione della libertà individuale come sorgente dei valori etici. Dio viene espunto dall’orizzonte della vita pubblica, ma
questo si ritorce in un deperimento del senso e in una privatezza della
coscienza della quale patisce l’uomo stesso, ridotto a un semplice prodotto della natura. Ma insieme il Papa parla della specificità dell’Italia come
di un terreno ancora favorevole per la testimonianza cristiana, elencandone con grande accuratezza i tratti: presenza capillare alla vita della gente;
tradizioni cristiane radicate e rinnovate nello sforzo di evangelizzazione
per le famiglie e i giovani; reazione delle coscienze di fronte a un’etica
individualistica; possibilità di dialogo con segmenti della cultura che percepiscono l’insufficienza di una visione strumentale della ragione ecc.
Questo suscita un appassionato appello del Papa a «cogliere questa grande
opportunità», a non essere rinunciatari, perché questo rappresenta «un
grande servizio non solo a questa Nazione, ma anche all’Europa e al
mondo». È quasi delineata una vocazione dell’Italia a essere un ponte tra le
radici ebraico-cristiane dell’Occidente e la linfa del pensiero greco, che ha
trovato nei grandi padri della Chiesa indivisa, nel medioevo latino e nel
rinascimento italiano, il grembo della gestazione della cultura occidentale.
La sua collocazione geografica, quasi ponte proteso verso Gerusalemme e
Atene, trova in Roma un nuovo punto di sintesi.
Far brillare il grande “sì” della fede
Su questo sfondo si innesta il grande compito della testimonianza cristiana: il tema chiave di Verona. Il Papa riprende a questo proposito un
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tema centrale del suo magistero: mostrare la fede come un grande sì
all’uomo, perché è il sì di Dio in Gesù. Pertanto deve «emergere il grande
“sì” che Dio in Gesù Cristo ha detto all’uomo e alla sua vita». Il motivo di
fondo di una evangelizzazione/testimonianza capace di dire il grande “sì”
della fede, di far palpitare il centro del cristianesimo, è poi svolto da papa
Benedetto con una sorta di dittico, che ha molto impressionato per la
forza del disegno e la chiarezza dell’esposizione. È stato introdotto dalla
citazione capitale dell’enciclica Deus caritas est (n. 1), la quale afferma che
«all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande
idea, ma l’incontro con la persona di Gesù Cristo, “che dà alla vita un
nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”». È questo il motivo di
fondo del Pontificato, che è svolto sia nella direzione del confronto con la
forma moderna della ragione, sia nella linea del bisogno dell’uomo di
amare e di essere amato, per aprirlo a incontrare il volto agapico di Dio.
Di qui il grande compito per l’annuncio di tenere uniti questi due
aspetti, perché il grande sì della fede possa dire e comunicare la novità
sconvolgente della rivelazione biblica. L’enciclica e il discorso di
Regensburg appaiono i due assi dell’evangelizzazione, di modo che il vertice pasquale della divina rivelazione manifesti che «nella morte di croce si
compie “quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per
rialzare l’uomo e salvarlo – amore, questo, nella sua forma più radicale”,
nel quale si manifesta che cosa significhi che “Dio è amore”
(1Gv 4,8) e si comprende anche come debba definirsi l’aPer comprendere «il “sì” more autentico». Per comprendere «il “sì” estremo di Dio
estremo di Dio all’uomo, all’uomo, l’espressione suprema del suo amore e la scaturigil’espressione suprema ne della vita piena e perfetta» occorre domandarsi se il
del suo amore e la mondo sia abitato da un Logos creatore, che è la grammatiscaturigine della vita ca con cui la vita cerca la sua pienezza. Ritorna qui insistenpiena e perfetta» te la preoccupazione del Papa a dilatare gli spazi della raziooccorre domandarsi se il nalità moderna, a dischiuderle prospettive di senso che
mondo sia abitato da un superano la sua comprensione, ma soprattutto la sua prassi
Logos creatore, che è la tecnica e strumentale.
grammatica con cui la
Sono forse gli accenti decisivi della giornata centrale del
vita cerca la sua Convegno, che hanno trovato più d’una conferma sia in
pienezza. Tettamanzi che in Ruini, ciascuno con la propria sensibilità.
Se il cardinale di Milano insiste molto sul primato dell’evangelizzazione e sulla sua dimensione pasquale, nella quale appare «il
senso, il logos della vita dell’uomo», il card. Ruini ne parla nei termini di
un «primo obiettivo per il dopo Convegno», dove si può «davvero proporre quel grande “sì” a cui si è riferito ieri Benedetto XVI». E se la relazione d’apertura parlava di un intellectus spei, cioè di una «rinnovata figura antropologica sotto il segno della speranza», suggerendo con lungimi-
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ranza una «seconda fase del progetto culturale», le parole conclusive del
Presidente della Cei ne riprendevano l’invito, parlando della «provvidenziale insistenza» del Papa per riprendere il «legame costitutivo tra la fede
cristiana e la ragione autentica». E, raccogliendo il suggerimento di
Tettamanzi, il Presidente della Cei aggiungeva: la seconda fase del “progetto culturale” «va compiuta nella linea del sì all’uomo, alla sua ragione e
alla sua libertà […] attraverso un confronto libero e a tutto campo.
Abbraccia dunque le molteplici articolazioni del pensiero e dell’arte, il linguaggio dell’intelligenza e della vita, ogni fase dell’esistenza della persona
e il contesto familiare e sociale in cui essa vive». Per dirla in forma lapidaria: una rinnovata figura antropologica – e la sua variegata espressione culturale – devono trovare casa nel riferimento alle forme della vita della persona, della famiglia e del vivere sociale.
Il volto “popolare” del cattolicesimo italiano
Il secondo percorso delinea sullo sfondo precedente la strategia della
Chiesa italiana già prefigurata nel documento programmatico dei vescovi,
Comunicare il vangelo in un mondo che cambia. Raccolgo le sottolineature
più importanti, tre in particolare: la condizione essenziale dell’evangelizzazione, l’attenzione fondamentale con cui proporla, le figure da mettere in
campo.
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La condizione essenziale è la seguente: è giunto il tempo favorevole di
una “sinodalità” che veda partecipare alla missione della Chiesa, ciascuna
con il suo dono e la sua responsabilità, tutte le forze del cattolicesimo italiano. Ecclesialità e sinodalità sono insieme un affectus e uno stile, un
affectus perché oggi «si danno opportunità inedite e urgenze più forti per
vivere una comunione ecclesiale più ampia, più intensa, più responsabile e,
proprio per questo, più missionaria» (Tettamanzi), e uno stile dal momento che «diviene ancora più evidente la necessità di comunione e di un
impegno più sinergico tra i laici cristiani e tra le loro diverse forme di
aggregazione, mentre si rivelano privi di fondamento gli atteggiamenti
concorrenziali e i timori reciproci» (Ruini). Un affectus e uno stile che si
radicano nell’ecclesiologia di comunione.
Di qui l’attenzione fondamentale, per così dire la tonalità del primato
dell’evangelizzazione che è stata insistentemente proposta. È forse qui che
possiamo raccogliere i frammenti di novità risuonati a Verona. Ce ne ha
fatto “immaginare” la portata il card. Ruini, quando ha affermato nel centro della sua relazione che la «tensione missionaria [è] il principale criterio
interno al quale configurare e rinnovare progressivamente la vita delle
nostre comunità»: questo significa – sono ancora le parole del Presidente
della Cei – che non bisogna «puntare su un’organizzazione sempre più
complessa, [ma] imboccare invece con maggior risolutezza la strada
dell’attenzione alle persone e alle famiglie, dedicando tempo e spazio all’ascolto e alle relazioni interpersonali». E continuava: «questa attenzione
alle persone e alle famiglie deve assumere però un preciso orientamento
dinamico: non basta cioè “attendere” la gente, ma occorre “andare” a loro
e soprattutto “entrare” nella loro vita concreta e quotidiana, comprese le
case in cui abitano, i luoghi in cui lavorano, i linguaggi che adoperano,
l’atmosfera culturale che respirano». La conclusione era un appello alla
“conversione missionaria” e/o “pastorale” che non deve toccare solo le parrocchie, ma anche le comunità di vita consacrata, le aggregazioni ecclesiali, le strutture delle diocesi, la formazione del clero nei seminari e nelle
università, persino la Conferenza episcopale e gli altri organismi nazionali
e regionali. E con lo stile della “pastorale integrata” e/o “d’insieme” che
punta «a mettere in rete tutte le molteplici risorse umane, spirituali,
pastorali, culturali, professionali non solo delle parrocchie, ma di ciascuna
realtà ecclesiale e persona credente, al fine della testimonianza e della
comunicazione della fede in questa Italia che sta cambiando sotto i nostri
occhi». Si può raccogliere questa prospettiva pastorale sotto una cifra, che
è risuonata nel Convegno: la Chiesa italiana di questi anni intende privilegiare e coltivare in modo nuovo e creativo il volto “popolare” del cattolicesimo italiano.
Infine, le figure protagoniste della coscienza missionaria. In molti
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interventi prima del Convegno cresceva la pressione per mettere a fuoco il
tema dei laici. Il titolo dato all’assise favoriva una considerazione non
separata del laico, con il conseguente accanimento a cercarne la specificità, spesso da difendere gelosamente contro altre figure ecclesiali. Infatti,
la prospettiva con cui parlare del laico è cambiata sia nel clima ecclesiale
sia nella riflessione teologica. L’atmosfera ecclesiale, proprio in un’ottica
missionaria, tende a comprendere la missione dei laici nella comune vocazione di “testimoni” del vangelo ricevuto, del mistero celebrato e della
comunione vissuta, da trasmettere nella Chiesa e nel mondo. È emersa
urgente l’istanza di una nuova maturità dei laici per la vita della Chiesa e
la missione del mondo, superando radicalmente lo schema del duo sunt
genera christianorum, gli uni intenti alle cose dello spirito, gli altri alle cose
del mondo. Una maturità che si prospetta sia nell’impegno amorevole e
sistematico di una coraggiosa opera di formazione non solo per i laici, ma
con loro; sia nell’esigenza di creare un nuovo spazio nella vita della chiesa
e una nuova responsabilità nell’impegno civile e sociale. Questa istanza ha
attraversato il Convegno dall’inizio alla fine.
La testimonianza come “esercizio del cristianesimo”
Il terzo percorso uscito dal Convegno di Verona si riferisce agli ambiti
in cui la speranza è stata messa alla prova: vita affettiva, festa e lavoro, fragilità, tradizione e cittadinanza. Mi pare sufficiente soffermarmi sull’elemento forse più innovativo del Convegno di Verona, apprezzato da molti
anche prima dell’inizio dell’incontro nella città scaligera. L’obiettivo che si
prefiggeva la scansione degli ambiti di esercizio della testimonianza era il seguente: l’unità della pastorale della Chiesa
Occorre ripensare
va ricondotta all’unità della persona e alla sua capacità di
l’unità della pastorale,
evidenziare la dimensione antropologica dell’agire missionaarticolata nelle funzioni
rio della Chiesa.
Al termine del Convegno il card. Ruini ha indicato il della Chiesa (Parola,
significato dell’elaborazione degli ambiti per l’azione Sacramento,
pastorale del futuro: «Per parte mia vorrei solo confermare Carità/comunione e
che il nostro Convegno, con la sua articolazione in cinque Carità/servizio),
ambiti di esercizio della testimonianza, ognuno dei quali incentrandola
assai rilevante nell’esperienza umana e tutti insieme con- maggiormente sull’unità
fluenti nell’unità della persona e della sua coscienza, ci ha della persona, sulla
offerto un’impostazione della vita e della pastorale della rilevanza educativa e
Chiesa particolarmente favorevole al lavoro educativo e formativa che queste
formativo. Si tratta di un notevole passo in avanti rispetto funzioni possono avere.
all’impostazione prevalente ancora al Convegno di
Palermo, che a sua volta puntava sull’unità della pastorale ma era meno in
grado di ricondurla all’unità della persona perché si concentrava solo sul
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legame, pur giusto e prezioso, tra i tre compiti o uffici della Chiesa: l’annunzio e l’insegnamento della parola di Dio, la preghiera e la liturgia, la
testimonianza della carità» (sott. mia).
Questo potrebbe essere il frutto più promettente del Convegno.
Occorre ripensare l’unità della pastorale, articolata nelle funzioni della
Chiesa (Parola, Sacramento, Carità/comunione e Carità/servizio), incentrandola maggiormente sull’unità della persona, sulla rilevanza educativa
e formativa che queste funzioni possono avere. Non si tratta di sostituire
al criterio ecclesiologico la rilevanza antropologica nel disegnare l’unità e
l’articolazione della missione della Chiesa, quanto invece di mostrare che
la pastorale in prospettiva missionaria deve sapere in ogni caso condurre
l’uomo all’incontro con la speranza viva del Risorto. Mostrare la qualità
antropologica dei gesti della Chiesa è oggi un’urgenza non solo dettata dal
momento culturale moderno e post, ma è un istanza imprescindibile per
dire che il Vangelo è per l’uomo e per la pienezza della vita personale.
Sono tornati da Verona i delegati, sono arrivati alle loro Chiese locali.
Come i discepoli partiti da Emmaus sono ritornati a Gerusalemme, al
luogo da dove riparte la missione. Hanno ritrovato la fede pasquale, quella di sempre, degli Undici riuniti con gli altri, che continuano a dire e a
dirsi: «Veramente il Signore è risorto!». Se Verona è stato un frammento di
questo incessante ritorno a Gerusalemme, potrà aprire lo slancio di una
rinnovata missione. Perché in molti – proprio là a Verona – hanno potuto
riconoscersi testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo!
La buona notizia: quale messaggio in arrivo?
Paola Bignardi
Paola Bignardi
è direttore della rivista
“Scuola Italiana
Moderna” e coordinatore
nazionale di RetInOpera.
È stata presidente
nazionale dell’Azione
Cattolica Italiana. Tra le
sue pubblicazioni:
Una parola di speranza:
frammenti di Vangelo
per la vita di ogni giorno,
Editrice AVE, Roma 2006
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Scrivo questi pensieri sul recente Convegno ecclesiale a evento appena
concluso. Forse le emozioni prevalgono ancora sulla riflessione e ci sarebbe bisogno di altro tempo per consentire a esse di sedimentarsi, ordinarsi,
purificarsi.
Domina dentro di me soprattutto un’immagine: quella della processione del lunedì pomeriggio. Incamminati verso l’Arena, ci siamo trovati
accecati dalla luce del tramonto, fortissima ed abbagliante, calda com’è la
luce dei tramonti di ottobre. Completamente immersi nella luce e quasi
attratti da essa, abbiamo camminato fianco a fianco con chi forse nemmeno sapeva del Convegno ecclesiale e passava il pomeriggio a fare compere,
a guardare vetrine o a fare turismo. Mi è parsa una splendida metafora
della Chiesa: in cammino verso la luce di Dio, in mezzo a gente comune
dedita alle comuni occupazioni della vita, sapendo che con tutti un giorno ci ritroveremo in quella Luce.
La sensazione più forte, vera grazia di questo Convegno, è stata la posdialoghi n. 4 dicembre 2006
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PAOLA BIGNARDI
sibilità di sentirci Chiesa. È vero che la sensazione è una componente fragile del nostro vissuto, eppure abbiamo bisogno ogni tanto di “sentire” ciò
che siamo; anche di sentirci Chiesa. La Chiesa è dimensione di fede e noi
la portiamo dentro la nostra coscienza. Eppure nella solitudine in cui
spesso noi laici viviamo la nostra esperienza ecclesiale, il sentirci Chiesa ci
restituisce il senso esistenziale di un “noi” difficile da tener vivo.
È stata una bella sorpresa, la Chiesa vista e ascoltata a Verona. Chiesa
viva, Chiesa in cammino. Chiesa ricca perché più povera e libera. Chiesa
cresciuta nel corso degli anni, purificata dal confronto con un mondo che
la costringe a stare sveglia, a essere più autentica; che la costringe a ripensarsi, a rimettersi in gioco.
A Verona si è vista la Chiesa della speranza. La si è vista nel realismo di
alcune prese di coscienza della situazione: senza indulgere ad analisi sofisticate o a lamentazioni sterili, si è parlato della realtà assumendola nelle
sue povertà, nei suoi aspetti critici, soprattutto quelli che riguardano l’impostazione della pastorale; la fatica della corresponsabilità; la pratica del
dialogo a tutti i livelli (tra religioni, tra culture, ma anche all’interno della
Chiesa, tra vocazioni diverse…). Si è parlato della sofferenza che si respira
in molte comunità, e lo si è fatto senza meraviglia e senza recriminazioni,
consapevoli che la sofferenza per la fede fa parte del cammino del discepolo del Signore: occorre prenderne atto, assumerla, aiutarsi a darle un
senso e a portarla.
La consapevolezza è diventata spesso progetto, idea, proposta: la speranza non si lascia paralizzare dalla difficoltà. Basta leggere le sintesi dei
lavori degli ambiti per rendersi conto non solo di quante siano le proposte
concrete che sono state elaborate, ma anche di quanto esse riflettano un
modo di elaborare la vita cristiana e l’esperienza ecclesiale in forme nuove,
capaci di relazione con un contesto mutato. A questo ha certamente contribuito l’articolazione della riflessione in ambiti esistenziali e non nei tradizionali settori pastorali rispondenti alla struttura della Chiesa.
L’aderenza alla vita e alle sue dimensioni si è mostrata dunque positiva e
utile: un’impostazione da non lasciar cadere, da portare fino in fondo, nel
ripensamento complessivo dell’impostazione della pastorale che lascia
intuire.
Verona è stata un grande esercizio di dialogo e di confronto; schietto e
fraterno; aperto e senza asprezze. Qualcuno penserà che questo è segno di
appiattimento; io penso che sia frutto di un lungo e duro tirocinio ecclesiale, esito di una maturazione che ha reso tutti più saldi nell’appartenenza ecclesiale e nella responsabilità. A Verona si è vista una Chiesa che ha
superato la fase (un po’ adolescenziale!) della conflittualità tra diverse
anime e della insofferenza verso l’autorità e mostra oggi di essere capace di
progetto, di confronto, di proposta. Nel confronto pacato e costruttivo
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del Convegno mi pare di poter scorgere i frutti dello sforzo caparbio compiuto in questi anni, soprattutto da parte dal laicato organizzato, per
superare chiusure e contrapposizioni e per mettersi in relazione. Molto
resta ancora da fare, ma la strada è aperta: non quella dell’omologazione,
ma piuttosto quella evangelica della comunione e del confronto.
Molti giornali si sono esercitati a collocare gli intervenuti nella scia
dell’uno o dell’altro, di Tettamanzi o di Ruini, del Papa o dei vescovi. Ma
c’è bisogno necessariamente anche di un bipolarismo ecclesiale? Mi pare
che a Verona la Chiesa italiana abbia mostrato di essere corale, di sapersi
esprimere con tante voci nessuna delle quali è diventata l’anima destinata
ad aggregare opinioni e aderenti attorno a sé, ciascuna libera di esprimersi nella polifonia convergente di voci che fanno ricca un’armonia.
I giornali – a parte Avvenire − hanno raccontato un altro convegno, nel
quale sembrava che l’unico tema fosse quello della politica e del rapporto
che i cattolici intendono avere con essa in questa fase della vita del nostro
Paese. Senza nulla togliere al valore di questo tema, alle responsabilità che
esso comporta anche per i credenti, tuttavia non si può consentire che
esso divenga un’ossessione. Oggi le comunità e i singoli cristiani sono ben
consapevoli che la responsabilità che essi hanno verso la società e verso il
mondo non passa solo attraverso la politica, ma piuttosto attraverso una
più autentica testimonianza al Vangelo. Quella della fede non smette di
essere la vera questione del cattolicesimo del nostro Paese. Questione della
fede dice questione della significanza del Vangelo per persone che vivono
e faticano, cercano e lottano in questo tempo, nelle nostre città, nelle
nostre famiglie, nei luoghi di lavoro... La questione della fede non è quella delle statistiche dei praticanti o dei sacramenti, ma quella del mettere la
fede in rapporto con la cultura diffusa oggi, che significa ancor prima con
le attese che le persone oggi si portano nella coscienza. Per far questo, la
Chiesa ha mostrato di essere consapevole che le serve una fede più essenziale, più libera, purificata da elementi esteriori o secondari che possono
offuscarne il cuore; e al tempo stesso ha bisogno di una comprensione
empatica dell’esistenza quotidiana. Questo esercizio a Verona è stato
avviato con convinzione: mi sembra questo il segno più bello di speranza
per le nostre comunità e per le persone che vivono accanto a noi.
Questo esercizio ha bisogno di una Chiesa plurale e corale: ha bisogno
di preti e laici insieme; religiosi e vescovi; uomini e donne. Va da sé che
alcune di queste presenze sono tradizionalmente più coinvolte di altre. Per
una nuova relazione con il contesto di oggi, è urgente la presenza dei laici.
È vero che qualcuno afferma che il discorso sui laici è vecchio di 40 anni
(del resto anche tanti altri discorsi, eppure continuiamo a farli!), ma oggi
esso si pone in termini nuovi e più urgenti, come bene il Convegno, in
maniera unanime, ha affermato. Il coinvolgimento dei laici a Verona sem-
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SAVINO PEZZOTTA
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brerebbe smentire l’urgenza della questione, ma occorre leggere la vita
delle comunità cristiane nel loro versante quotidiano: quello delle parrocchie, dei luoghi poveri di risorse. Non bisogna commettere l’errore di
scambiare la vita della Chiesa italiana con quella di alcune élites – e anche
i partecipanti al Convegno ecclesiale lo erano!−. Oggi il giovane che cerca
un senso alla sua vita non incontra il vescovo illuminato, ma il parroco
della sua parrocchia o il suo insegnante di religione; il laico che si porta
dentro domande difficili sulle sue scelte in ambito secolare incontra, dove
esiste, un gruppo formativo che fa una catechesi dottrinale e astratta; la
giovane donna che ha bisogno di qualcuno con cui confrontarsi sulla sua
esperienza di vita trova comunità in cui si può solo ascoltare… l’elenco
dei casi di vita potrebbe essere lunghissimo.
Quando incontreranno la Chiesa bella in cui noi crediamo le persone
comuni che tutti noi abbiamo in mente e cui vogliamo bene? Quando
potranno non solo conoscerne, ma sperimentarne la maternità? Quando
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Savino Pezzotta
già Segretario generale
della Cisl, è presidente
della Fondazione “Ezio
Tarantelli”.
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potranno toccare con mano che il Vangelo è una bella notizia che esalta la
loro umanità e apre la strada della felicità?
Pur riconoscendo tutta la bellezza di ciò che abbiamo vissuto e il valore positivo delle riflessioni e delle indicazioni emerse a Verona, mi porto
dentro un’inquietudine: come tutto questo raggiungerà la dimensione
quotidiana? Sono convinta che il futuro della fede e della Chiesa vincerà o
perderà la sua sfida nella realtà del quotidiano. E per esso, oggi i segni di
speranza sono ancora troppo pochi.
Spendersi per l’“oggi”. Senza tirarsi indietro
Savino Pezzotta
A Verona ci siamo ritrovati con una Comunità cristiana più matura,
capace di discutere, di dialogare e di confrontarsi senza grandi tensioni. Si
è respirato un clima di grande serenità e di profonda consapevolezza che
quel convenire, nella bella città veneta, delle Chiese italiane, rafforzava il
percorso ininterrotto di attuazione del Concilio Vaticano II. Una Chiesa
in cammino, cosciente della sua missione religiosa, ma non dimentica del
suo ruolo civile e sociale. Si è molto ragionato e discusso sul come essere
testimoni della speranza in Cristo Risorto, senza pietismi o intimismi, ma
spingendosi con decisione e a volte con estremo coraggio sul come questa
speranza si doveva declinare nella testimonianza quotidiana, nella dimensione della carità e della fraternità, senza dimenticare le responsabilità dei
cattolici nei confronti della nazione, dell’Europa e del mondo. È emersa
una sollecitazione forte all’impegno sociale e politico senza che la Chiesa
si ponga come attore politico, ma come un soggetto che ha un interesse
profondo per il bene della comunità politica. Tocca ai laici decidere dove
impegnarsi, ma sono stati anche richiamati a essere attenti alle modalità e
a come alcune attenzioni di fondo si declinano nell’agire concreto; attenzioni che si ritrovano nei documenti dei cinque ambiti su cui si è articolato il Convegno e che riguardano in modo puntuale e preciso i temi della
vita affettiva, del lavoro e festa, la fragilità della vita e trasmissione culturale e la cittadinanza.
Questa nuova attenzione all’impegno politico e sociale non può prescindere da una rinnovata testimonianza cristiana. I cristiani sono chiamati a spendersi, a uscire dalle loro nicchie protettive, dalle nostalgie e
rimettersi in cammino. Non si tratta di mettersi nell’ottica di una “riconquista”, ma in quella di un dialogo attento, passionale e paziente con tutte
le donne e gli uomini che vivono in Italia per rendere conto della speranza che è nei cuori e restituire alla fede cristiana una presenza piena e fattiva nella società del nostro tempo. La fede non deve essere privatizzata, rinchiusa nell’individuale: essa deve esplicitarsi in modo pubblico. Si tratta,
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SAVINO PEZZOTTA
come ha detto il Papa, di «rendere visibile il grande “sì” della fede».
Tocca oggi ai cristiani rendere visibile con la fede e le azioni questo
aderire all’incontro con Cristo. Mettersi in cammino con Lui per incontrare le donne e gli uomini del nostro tempo, per richiamarci insieme alla
dimensione dell’amore, alla libertà e alla dignità della persona umana.
È un andare contro corrente, è uscire da un “politicamente corretto”
che annacqua, inibisce, svilisce per affrontare le grandi sfide che la dimensione post-moderna pone sul piano dell’etica, dell’economia, della politica e delle relazioni sociali.
La testimonianza esige concretezza e pertanto deve essere attenta alla
realtà in cui è immerso l’umano e alle sfere in cui si manifesta, è questa
consapevolezza che da Verona emerge una spinta verso una trasversalità
pastorale, una pastorale aperta agli intrecci in cui s’intesse il vivere delle
persone.
Il documento finale pur nella sua stringatezza è molto chiaro e indica un
percorso; ci sono concetti chiave che vale la pena riprendere: il richia-mo
alla gioia per avere vissuto un momento di Chiesa e di Comunione. Sono convinto che non siamo buoni testimoni del Cristo Risorto se non riusciamo a
comunicare la gioia. Come si può essere portatori di speranza se i nostri
volti sono tristi, se i nostri discorsi volgono sempre al negativo, se siamo usi
più a condannare che a perdonare. Oggi il mondo ha già dentro di sé tante
e tante tristezze che noi siamo chiamati ad alleviare e non certo ad appesantire; per farsi prossimo occorre scendere da cavallo, mettersi nella condizione del capire più che del giudicare; l’invito a ravvivare le ragioni della
speranza. In un mondo che sembra temere il futuro siamo chiamati ad
annunciare la possibilità, l’andare oltre, ad alzare continuamente lo sguardo.
Nei tempi moderni in molti si sono avventurati nella ricerca della speranza,
per questo hanno costruito utopie, ideologie, fatto battaglie politiche e
sociali, ma molte volte la loro speranza si poggiava su basi poche solide, la
nostra è una speranza che scaturisce da una Persona, dalla sua tenerezza, dal
come egli ha amato il mondo. Una speranza che non vive nella solitudine,
ma si alimenta nella comunione, nello stare insieme, nell’accompagnarsi,
nell’avere cura, nell’essere Chiesa; tenere lo sguardo rivolto ai nostri santi, a
coloro che nelle nostre comunità hanno vissuto il Vangelo, senza paura e
timori, senza cercare il gesto eroico ma immergendosi nella quotidianità,
nella vita giornaliera con un’attenzione amorevole verso coloro che
devono ogni giorno conquistarsi la vita, attraversare le sofferenze fisiche,
psichiche, morali, sociali ed economiche. La santità proposta come tensione, come ricerca, come avvicinamento a quella persona che è il Signore
Gesù, morto e risorto; vivere la promessa di Cristo Risorto, è dentro questa
luce che ci dobbiamo collocare e su cui siamo chiamati ad impegnarci. Un
impegno che non si accontenta di un dedicarsi, ma che chiede di divenire
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esso stesso vita. Vivere gli affetti, il lavoro e la festa, la fragilità, la
tradizione, la cittadinanza, è diverso dall’assumerli come questioni o
problemi, è un farsi prossimo delle donne e degli uomini del nostro
tempo: vivere per costruire momenti di amore, di esistenza compiuta, di
solidarietà liberando tutte le potenzialità e mettendo in campo i doni, i
carismi, la grazia di stato per orientare il tutto verso la verità e il bene, per
costruire diritti e responsabilità, giustizia e pace.
Dopo Verona nessun cristiano può più tirarsi indietro, c’è la vita da
promuovere, garantire, tutelare; la famiglia da sostenere, la cittadinanza
da ampliare e spingere verso modelli di interculturalità, il deposito della
fede da trasmettere, il dialogo con le altre culture e religioni da sostenere,
la pace e la giustizia sociale da affermare e dirigersi verso stili di vita sobri,
trasparenti e rispettosi di sé e dell’ambiente.
Soprattutto i laici sono chiamati ad agire con maggior coraggio e
determinazione, in quanto uomini di Chiesa: sul campo educativo, economico, politico; sul terreno della buona vita, della salute, della carità; sul
piano sociale, rafforzando le sinergie di presenza testimoniale tra movimenti, associazioni e aggregazioni; sul terreno del lavoro, della famiglia, di
una crescita economica in grado di superare i divari sociali e territoriali e
inquadrata in un orizzonte di sostenibilità umana e ambientale; sul terreno delle nuove forme di economia civile, dal non profit alla banca etica,
dalla cooperazione al volontariato, dalla mutualità alle attività sociali di
cura e di accompagnamento, ma anche sul terreno della formazione e dell’istruzione.
L’azione dei cristiani deve pertanto orientarsi a ricercare, cogliere, valorizzare, custodire, costruire e alimentare i luoghi della Speranza. Se Cristo
è veramente risorto, ed è risorto, il mio modo di essere e di vivere lo deve
dimostrare. Essere testimoni del Risorto non è facile, soprattutto quando
deve essere evidenziato nella realtà del mondo attuale dove domina lo
scientismo, il relativismo, lo scetticismo. L’attestazione assume certo un
carattere solenne, ma si deve sapere che essa prelude sovente alla incomprensione. La testimonianza avanza sempre all’interno di due elementi:
quello della gioia, è risorto, e quello della sofferenza, del non essere compresi e accolti.
“Sono cristiano” è l’energica risposta che, in maniera esplicita o attraverso sinonimi, è risuonata molte volte, anche in questi nostri tempi,
davanti ai tribunali di varia specie, non solo quelli giuridici, politici, filosofici, culturali, sociali, religiosi, ogni qualvolta il seguace di Cristo è chiamato a rinnegare la propria fede. “Sono cristiano”, definisce l’identità del
testimone davanti alle minacce, alle lusinghe o agli inviti di reprimere
dentro il privato la dimensione di fede. Quante volte c’è stato ricordato
che non era “bello” manifestare la propria identità, anzi siamo stati invita-
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ti a nasconderla quasi fosse un disturbo.
Non dobbiamo lasciarci turbare perché sappiamo che il termine testimone significa anche “confessore” e “martire”, ma non è su questo che ci
dobbiamo soffermare; quello che c’interessa è la dimensione “cristologia”
dell’esperienza testimoniale. L’incontro con il Signore Gesù risorto rimane l’esperienza determinante del cristiano.
Essere testimoni oggi significa scegliere di “ripartire da Cristo”, per
recuperare il radicalismo della sequela, con il desiderio di fare un’esperienza appassionata di un rapporto d’amore con Lui che sia coinvolgente.
I cristiani devono dare ragione della speranza che è in loro. Un compito
importante anche per le nostre società, per le donne e gli uomini, per le
giovani e i giovani e per i nostri adolescenti che iniziano a osservare con
occhi attenti il mondo. La speranza è fondamentale nell’educare, nel crescere e nel divenire adulti, nel partecipare, nell’impegnarsi e nel coinvolgersi nella passione per l’uomo e il suo futuro.
Non imprigionare Verona
Luigi Alici
Non dobbiamo “imprigionare Verona”. Ha cercato di farlo una (certa)
stampa, che si lamenta sempre di una Chiesa troppo clericale e poi racconta tutto come se si fosse trattato di un incontro del Papa con un paio
di cardinali per parlare dei “teocon”. Ma anche noi possiamo imprigionare il Convegno ecclesiale, anestetizzandolo lentamente e riducendolo a
qualche slogan: questione antropologica, pastorale integrata, Chiesa di
popolo, corresponsabilità, progetto formativo... Si fa presto ad affezionarsi alle parole, fino a farle diventare usurate e inoffensive. Non dobbiamo
schematizzare, sterilizzare, liofilizzare Verona. Come tutti i grandi eventi
dello spirito, ci sono ottiche diverse, a volte diametralmente opposte, che
tendono a imporre la loro ermeneutica semplificata e unilaterale. Credere
è come camminare su un crinale impervio: basta deviare di poco, per precipitare e smarrire il panorama che si gode dall’alto.
Il Convegno ecclesiale si può leggere con l’occhio umano troppo umano
del calcolo costi-benefici, che si compiace dell’efficienza organizzativa, che
misura le nuove geometrie della geografia ecclesiale: chi sale e chi scende,
chi vince e chi perde, chi ha fatto un passo falso e chi ha fatto il passo giusto... Oppure, al contrario, il Convegno si può leggere con occhio angelicato, come un atto di pura ritualità assembleare, indolore e inconcludente: è
stato bello aver pregato insieme e ascoltato il Papa, non sono emerse tensioni laceranti, tiriamo un sospiro di sollievo, di più non ci si può attendere.
Ottiche diverse, che ci fanno dimenticare l’altra metà del cielo.
Solo la fede riesce a tenere insieme i due lati incommensurabili del
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Luigi Alici
è Presidente nazionale
dell’Azione cattolica
italiana e professore
ordinario di Filosofia
morale presso
l’Università di Macerata.
Tra le sue pubblicazioni
più recenti: Il terzo
escluso, San Paolo,
Cinisello Balsamo 2004;
La via della speranza.
Tracce di futuro possibile,
Editrice AVE,
Roma 2006.
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mistero cristiano, donandoci occhi nuovi, capaci di liberarci dal nostro
inguaribile strabismo. Gli occhi “suoi”, occhi del Risorto. Allora si capovolge tutto, si riscrive da cima a fondo la gerarchia dell’essenziale.
L’essenziale è che il finito è abitato dall’Infinito, è stato chiamato all’essere
dal nulla, è stato persino visitato e guarito da un evento straordinario, e da
allora nulla è più come prima. Quello che è stato riunificato una volta per
sempre ci viene offerto nella forma di una promessa, custodita e coltivata
dalla speranza; non continuiamo a pensare a una Chiesa sdoppiata, in cui
i pastori dovrebbero essere disincarnati specialisti del sacro e i laici liberi e
onesti artigiani della storia. L’anima e il corpo, il tempo e l’eternità, la
Chiesa e il mondo: quanta fatica, poi, a gestire le congiunzioni!
Torniamo da Verona con questo messaggio e con il proposito di non
lasciarlo marcire; lo si potrebbe esprimere prendendo a prestito, in un
senso diverso, le parole del vangelo: l’uomo non separi quello Dio ha
unito. Questo messaggio attraversa e compagina i vari piani nei quali si
sono distribuiti i lavori del convegno. A livello teologico, anzitutto, abbiamo vissuto un evento di Chiesa che ha messo in pratica l’invito, centrale
nelle Linee pastorali Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, a
tenere lo sguardo fisso su Cristo, l’Inviato del Padre, colui che è risorto e
che viene. La sua risurrezione, che è «il fondamento della nostra fede e della
nostra speranza» (n. 24), «fa della storia umana lo spazio dell’incontro possibile con la grazia di Dio» (n. 26).
In Cristo ogni credente trova l’unica forma possibile di incontro tra la
terra e il cielo, che libera la creatura dal peccato e dalla morte, restituendole la speranza di cieli nuovi e terra nuova. La resurrezione di Cristo, ci
ha ricordato il Papa, «non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo
verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con
Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo».
Un secondo livello si può definire antropologico: l’attenzione alla centralità dell’uomo e dell’umano ha riproposto in modo appassionato e unanime il mistero della sua irriducibile duplicità. Lo si potrebbe dire con le
parole di Lonergan: «Essere solo uomo è quanto l’uomo non può essere».
Il cristianesimo non vuole cucire un vestito soprannaturale addosso ad un
agglomerato biologico neutro. L’unico modo per restituire l’uomo a se
stesso è restituirgli una verticalità infinita. È possibile articolare una cultura, una gerarchia di valori, un sistema di vita escludendo pregiudizialmente nell’essere umano una porta aperta sulla trascendenza, declassandola a
un optional privato e socialmente irrilevante? Certo, solo la fede può guardare oltre quella porta, ma basta una porta aperta nell’edificio “naturale”
dell’umano per riconoscere la dignità antropologica della speranza.
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dialoghi n. 4 dicembre 2006
LUIGI ALICI
Tutto l’insegnamento più recente del Papa (da Regensburg a Verona)
ci sta richiamando instancabilmente all’importanza di vigilare su questa
porta aperta, grazie a una costante purificazione dell’intelligenza. È la
consegna più alta e impegnativa per i laici cristiani. Non avviliamo il
dibattito sulla vocazione del laico, riducendolo solo a una negoziazione di
spazi pastorali: prima di tutto, occorre restituire profondità verticale al
volume appiattito e mortificato dell’umano, e il laico può farlo aiutando
l’intera comunità cristiana a intrecciare un dialogo ravvicinato con gli
ambiti concreti del vissuto. La testimonianza della vita ha bisogno di una
fede “amica dell’intelligenza”, capace di “rendere ragione” della speranza,
onorando quelle domande grandi che consentono alla persona umana di
vivere all’altezza della propria vocazione.
Un terzo livello riguarda l’ambito più propriamente pastorale. Come
tradurre l’eccedenza del Vangelo, che illumina, promuove e riscatta l’umano, nella prassi ecclesiale ordinaria? Come annunciare l’essenziale del
mistero cristiano senza inseguire la complessità, la banalità, la frammentazione, che sembrano le cifre più diffuse del nostro tempo? Da Verona è
venuto un messaggio chiaro in questa direzione: la comunità ecclesiale
deve “scomplicarsi”, deve ritrovare una capacità nuova di fare sintesi; una
sintesi dinamica, centrata sul primato dell’evangelizzazione, radicata nel
tessuto vivo della Chiesa locale, capace di parlare al cuore e all’intelligenza
della gente. Occorre, a tale scopo, evitare l’autogol di uno stile e un metodo pastorale che disinnesca il paradosso cristiano, sbriciolandolo nei mille
rivoli di iniziative frammentarie e autoreferenziali, che parlano il linguaggio burocratico della routine o cercano di rincorrere la logica mondana
dell’“evento”.
C’è una buona notizia che la comunità deve custodire e comunicare,
imparando a camminare sul difficile crinale tra finito e Infinito, dove soltanto si può sperimentare quella «misura alta della vita cristiana ordinaria»
(NMI, 31) che è la santità. L’attenzione all’eccellenza della santità e alla
popolarità della proposta cristiana non sono in alternativa; solo una pastorale capace di crescere in altezza può crescere anche in larghezza. Non a
caso, la perdita di tensione comunionale e di slancio missionario va di pari
passo con l’allontanarsi della Chiesa dalla vita concreta delle persone. Solo
una rinnovata progettualità formativa può realizzare questa difficile sintesi. Il clima di straordinaria maturità e sintonia cooperativa che si è sperimentato a Verona è un dono straordinario dello Spirito: non sotterriamo i
talenti, non trasformiamo la manna in camomilla.
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COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA
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La comunicazione è sempre un fatto dinamico: è trasmissione
che matura nella relazione e nel dialogo, nell’ascolto e nella
parola. La Chiesa declina sempre più il “comunicare” come
“testimoniare”, invitando a riconsiderare in modo nuovo lo
stile dell’annuncio.
Comunicare
il lieto annuncio
I
Piermarco Aroldi
l documento contenente gli Orientamenti pastorali
dell’Episcopato italiano per il primo decennio del 2000 sul quale il
Convegno di Verona, sia nella sua fase preparatoria sia – soprattutto − nei lavori dello scorso ottobre, ha richiamato l’attenzione della Chiesa italiana si intitola, come si ricorderà,
Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Nelle pagine che
seguono vorrei tentare una riflessione proprio sulla dimensione
della comunicazione nel quadro dell’evangelizzazione, così come
emerge dagli orientamenti pastorali, dai documenti preparatori
del Convegno e dalle relazioni presentate a Verona, cercando di
evidenziare la dinamica con cui questo tema è stato sviluppato e
alcuni snodi ad esso pertinenti che, nell’attuale contesto del
nostro paese, mi appaiono particolarmente significativi.
Lo sviluppo del tema comunicazione
Negli Orientamenti pastorali, la missione della Chiesa è
«intesa in senso ampio come comunicazione del Vangelo nel
mondo odierno»1; in questa prospettiva, comunicare il Vangelo
risulta chiaramente un sinonimo di evangelizzazione, l’annuncio della buona notizia della incarnazione, morte e resurrezione
di Cristo che ci rivela il volto della misericordia di Dio. In
modo speculare, l’introduzione del documento ricorda come il
«compito assolutamente primario per la Chiesa […] sia e resti
sempre la comunicazione della fede, della vita in Cristo sotto la
guida dello Spirito, della perla preziosa del Vangelo»2.
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Piermarco Aroldi
è docente di Sociologia
della comunicazione e
dei media presso la
Facoltà di Scienze
della Formazione
dell’Università Cattolica
di Milano e vicedirettore
dell’“Osservatorio sulla
comunicazione” della
stessa Università. Tra le
sue pubblicazioni: La TV
risorsa educativa: uno
sguardo familiare sulla
televisione San Paolo,
Cinisello Balsamo 2004.
dialoghi n. 4 dicembre 2006
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dialoghi n. 4 dicembre 2006
PIERMARCO AROLDI
Il documento mette sin dall’inizio questa missione in relazione alle
parole di Giovanni (1Gv 1,1-4): «Ciò che era fin da principio, ciò che noi
abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi
abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il
Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di
ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso
il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi
lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi.
La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose
vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta». Il prologo della prima lettera viene presentato, d’altra parte, come un modello che descrive fenomenologicamente l’itinerario eloquente tipico della fede cristiana: ascolto,
contemplazione, esperienza, testimonianza, annuncio, comunione. Sono,
questi, sei tratti che costituiscono la comunicazione del Vangelo come una
dinamica complessa, la cui radice è nell’ascolto della Parola di Dio e nella
contemplazione del volto di Cristo, “la vita che si è fatta visibile”, che si è
fatta carne e di cui è possibile storicamente fare esperienza tangibile, fisica
e concreta − ancora oggi − nella compagnia della Chiesa. Questa radice
richiede a ogni cristiano di farsi testimone e di annunziare «Ciò che era fin
dal principio […] ossia il Verbo della vita»; come ci ricorda la sua etimologia, poi, fine della comunicazione è la comunione, la condivisione gratuita dello stesso bene.
La centralità del comunicare si qualifica così, nel documento episcopale, come la cifra sintetica della missione affidata alla comunità cristiana;
«comunicare il Vangelo è il compito fondamentale della Chiesa»3 che lo
realizza in modo “paradossale” prestando contemporaneamente ascolto
«alla cultura del nostro mondo» e alla «trascendenza del Vangelo».
Nella Traccia di riflessione in preparazione del Convegno Ecclesiale di
Verona, dal titolo significativo Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo,
il tema della comunicazione subisce una prima piegatura interessante; seppure i titoli dei documenti non possano essere presi alla lettera come sintesi assolute dei rispettivi contenuti, appare significativo il passaggio strutturale dall’accento posto sul comunicare a quello posto sulla testimonianza.
Esso, infatti, finisce per mettere a fuoco una forma specifica e privilegiata
della comunicazione, un tratto peculiare tra i sei che si possono desumere
dalla sintesi giovannea. Riletto alla luce della testimonianza, il comunicare
diviene, più radicalmente, un «introdurre gli uomini alla relazione viva con
il Risorto», e la sua figura adulta «la fede che opera per mezzo della carità»4
in una prospettiva «agonistica», aperta alla possibilità del «martirio», cioè
della testimonianza «fino all’effusione del sangue»5.
Contemporaneamente, il documento declina la testimonianza in alcuni ambiti di vita a partire dalla cosiddetta “questione antropologica”. In
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questa declinazione ulteriore, la comunicazione subisce altre piegature e si
qualifica soprattutto secondo due modalità operative: come educazione
(alla vita affettiva, all’accoglienza etc.), da una parte, e, dall’altra, come
«tradizione, intesa come esercizio del trasmettere ciò che costituisce il patrimonio vitale e culturale della società»6. L’impegno formativo e quello culturale costituiscono così le due leve privilegiate dell’agire testimoniale nella
trama quotidiana della vita della Chiesa.
I lavori del Convegno si spingono oltre su questa medesima strada; ne
sono documentazione tanto le relazioni presentate a Verona quanto i
discorsi su cui si è concentrata l’attenzione del grande pubblico: la prolusione del cardinal Tettamanzi, il messaggio di Benedetto XVI e l’intervento conclusivo del cardinal Ruini.
Nella loro polifonicità, mi sembra che gli esiti del tema comunicazione
messo a fuoco attraverso la prospettiva della testimonianza, all’indomani di
Verona, siano sostanzialmente tre; il primo è sintetizzato negli ultimi passaggi della Prolusione dell’Arcivescovo di Milano, quando ricorda che «la
risposta propria della testimonianza cristiana è la coerenza con la grazia e le
responsabilità che ci vengono dall’incontro vivo e personale con Gesù Cristo
morto e risorto, dall’obbedienza alla sua parola, dalla sequela del suo stile di
vita, di missione e di destino»; è l’esercizio del cristianesimo, il vissuto esistenziale, concreto, quotidiano, che permette di portare il Vangelo nei luoghi della vita e che, quasi provocatoriamente, il cardinal Tettamanzi esprime con le parole di S. Paolo: «Quelli che fanno professione di appartenere
a Cristo si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una
professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede sino
alla fine. È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo»
(Ignazio di Antiochia Lettera agli Efesini).
Un secondo esito del tema comunicazione è rappresentato dalla sfida
educativa; qui l’accento è posto soprattutto sul dialogo tra le generazioni,
sia dentro che fuori dalla comunità ecclesiale: «In concreto,
Un secondo esito del perché l’esperienza della fede e dell’amore cristiano sia
tema comunicazione è accolta e vissuta e si trasmetta da una generzione all’altra,
rappresentato dalla una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educasfida educativa; qui zione della persona»7.
Come ha ricordato nel suo intervento il Rettore
l’accento è posto
soprattutto sul dialogo dell’Università Cattolica Lorenzo Ornaghi, è l’unitarietà
tra le generazioni, sia della persona umana che richiede questa costante attenzione
dentro che fuori dalla formativa: «Educazione e formazione, in un tale orizzonte,
comunità ecclesiale. sono la risorsa più grande di cui disponiamo per bloccare e
rovesciare quei processi, all’apparenza inarrestabili, di scomposizione dell’esperienza umana e di contestuale, connessa pluralizzazione
parossistica delle convinzioni e convenzioni, delle mentalità e più confor-
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mistiche rappresentazioni, dei comportamenti e degli stili di vita più
banali e superficiali della società».
Infine, la comunicazione-testimonianza deve affrontare la sfida del confronto culturale: la Prolusione, infatti, ricorda come la testimonianza trovi
«nella cultura lo strumento e insieme la forza per “aprirsi” e “dialogare”
con i linguaggi e le esperienze della vita dell’uomo d’oggi”, nell’intento di
offrirgli “un orizzonte di senso». Anche il «rendere ragione della speranza», cioè l’apologia, è più volte calato nel contesto del dibattito pubblico,
dell’agone culturale, del confronto di idee e opinioni in cui diverse antropologie si incontrano e si misurano.
La ricchezza del comunicare
Vorrei proporre, ora, alcune riflessioni sulla dinamica con cui il tema
comunicazione si è sviluppato attraverso i documenti che ho così sinteticamente ripercorso, e sulle conseguenze di tale sviluppo, soprattutto in relazione ad alcune questioni di maggior rilievo.
Una prima considerazione riguarda il già citato spostamento di accento dal comunicare alla testimonianza8: sotto molti aspetti, esso rappresenta
una precisazione e una specificazione sia di metodo che di merito, in
grado di meglio qualificare la comunicazione del Vangelo in termini non
solo esistenziali ed esperienziali ma anche storici; probabilmente questa
focalizzazione permette di superare il rischio di una possibile assolutizzazione dell’opzione comunicativa o, se si preferisce, la tentazione – un po’
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di moda − di leggere l’intera realtà della Chiesa di Cristo sub specie communicationis. Questa tentazione si manifesta in altri ambiti (politica,
amministrazione pubblica, economia, management etc.) con una sorta di
privilegio riservato al dire rispetto al fare, al sembrare piuttosto che all’essere; o, se si preferisce, con la tendenza a considerare la comunicazione una
parola magica, un’area totalmente simbolica o virtuale dell’interazione
sociale in grado di produrre autonomamente, per sola forza di discorso, le
realtà che essa mette in scena o rappresenta. In altri termini, la prospettiva
della testimonianza mi sembra aver disinnescato una possibile deriva linguistica o retorica che ponesse l’evangelizzazione solo nei termini della sua
efficacia persuasiva o dell’adeguatezza delle sue forme espressive.
Nello stesso tempo, però, la prospettiva della testimonianza costituisce,
di fatto, un ritaglio particolare – e in parte riduttivo − nel tessuto del comunicare, e suggerisce l’opportunità, in sede analitica, di recuperare alcune
potenzialità e alcune caratteristiche proprie dell’agire comunicativo, per
poi tornare a meditare sulle indicazioni emerse dal Convegno di Verona.
D’altra parte vale la pena precisare che già nel documento Comunicare
il Vangelo la comunicazione sembra mostrare almeno due volti diversi; il
primo, più ricco e articolato, adombrato come si è detto nel prologo di
1Gv 1, 1-4, è la cifra di un’esperienza profonda, cui rimandano tutte le
analisi etimologiche del termine stesso: partecipazione, accoglienza reciproca, scambio mutuo e reciproco di doni, condivisione grata di un bene9. La
comunicazione più autentica implica dunque pariteticità, benevolenza
reciproca, atteggiamento dialogico di ascolto e di comprensione, cooperazione in vista di uno scopo (almeno discorsivo) comune. Senza voler
costruire su questo valore etimologico un’utopia della comunicazione (tantomeno della comunicazione pubblica10), resta il fatto che il modello più
utile a rappresentare la complessità dei fenomeni e dei processi comunicativi è un modello bidirezionale, conversazionale11, ermeneutico, nel quale il
significato non è semplicemente trasmesso ma è generato dall’incontro di
due progetti interpretativi e di due soggettività interessate l’una all’altra.
Questa progettualità implica, da parte di chi assume in prima persona
la responsabilità di comunicare, anche l’assunzione di un rischio (quello
di essere frainteso o ignorato) e il riconoscimento di una libertà, almeno
di quel margine di libertà nel quale solo si colloca la possibilità di una
risposta (la responsabilità dell’interlocutore). Implica anche la predisposizione, per l’interlocutore stesso, di un percorso logico e retorico (pragmatico, per meglio dire) che renda possibile l’incontro dei significati; e, in
ultima analisi, implica l’immaginazione di un destinatario ideale in cui i
singoli, reali interlocutori si possano riconoscere e sentirsi accolti, per
essere da esso guidati alla formulazione del senso. Per questo la comunicazione implica sempre anche un’antropologia e un’etica.
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A ridurre questa ricchezza sembra, talvolta, riemergere nei documenti
– a partire ancora da alcuni passi di Comunicare il Vangelo − un volto più
povero della comunicazione, quello equivalente al semplice passaggio di
informazione, obbediente a un modello lineare, unidirezionale e quasi
matematico17, al massimo diffusivo, come se si trattasse di un semplice
processo di disseminazione, di amplificazione o di distribuzione, la cui
unica pertinenza valutativa potrebbe essere il criterio di efficacia o quello
di economia.
Sarà forse chiaro, a questo punto, dove vorrei condurre questa riflessione: l’opzione per la testimonianza, per la formazione e per l’impegno culturale che mi sembra emergere con chiarezza dai lavori di Verona sarà
tanto più illuminante e preziosa quanto più, nel precisare e meglio definire operativamente la vocazione ecclesiale alla comunicazione del Vangelo,
sarà in grado di salvaguardare e approfondire tutta la ricchezza implicita
nella accezione più alta del termine comunicare.
Questa preoccupazione di ordine generale, di cui i lavori del
Convegno di Verona mi sembra abbiano tenuto conto in larga misura,
seppur con un grado di consapevolezza non sempre ugualmente condiviso, riecheggia − per esempio − nell’intervento conclusivo del Card. Ruini:
la testimonianza «apre al mistero di Dio che liberamente si
dona a noi e mette in gioco, insieme con la nostra ragione,
La prima questione è,
tutta la nostra vita e la nostra salvezza. Non si impone quinper così dire,
di con evidenza cogente ma passa attraverso l’esercizio della
nostra libertà». La testimonianza-comunicazione è dunque ecclesiologica: quale
sempre un rischio, e richiede la partecipazione di entram- comunicazione può
contribuire a edificare
be le libertà coinvolte.
la Chiesa in quanto
“comunità di popolo”?
Alcune questioni comunicative
Ma questa attenzione comunicativa si traduce anche in Come sviluppare e far
alcune questioni più specifiche, emerse nel corso dei lavo- maturare gli spazi
ri, e che vorrei provare a proporre sotto forma di domande. della comunicazione
La prima questione è, per così dire, ecclesiologica: dentro la Chiesa ?
quale comunicazione può contribuire a edificare la Chiesa
in quanto “comunità di popolo” (F. G. Brambilla)? Come sviluppare e far
maturare gli spazi della comunicazione dentro la Chiesa? E quale comunicazione ecclesiale è in grado di alimentare la caratteristica “popolare” del
cattolicesimo italiano sfuggendo al rischio intellettualistico di un “cristianesimo minimo”, da una parte, senza per questo adeguarsi intimamente
alle forme di rappresentazione e ai linguaggi più corrivi, dall’altra?
La seconda questione mira a cogliere la pertinenza della dimensione
comunicativa rispetto alla “questione antropologica”: quest’ultima, infatti, non può risolversi solo nella definizione e nella riproposizione di un
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paradigma umano come contenuto della comunicazione ma è necessario
che informi la stessa dinamica comunicativa, sollecitando il “rendere
ragione della speranza” a interrogarsi sulla dimensione umana del proprio
interlocutore, sui suoi bisogni, sulle sue domande, sulla sua attesa di
senso. Come si traduce, altrimenti, dal punto di vista delle scelte comunicative, quel «parlare con speranza» come «stile virtuoso», come «anima,
clima interiore, spirito profondo − prima ancora che come contenuto»
richiestoci dall’arcivescovo di Milano nella sua Prolusione? Cosa c’è, per
esempio, al cuore di quel processo di «alleggerimento che tende a rendere
fragili e precari sia la solidarietà sociale sia i legami affettivi» (Card. C.
Ruini)? O quali aspettative sollecita la dittatura del desiderio e come possono essere opportunamente valorizzate − in quanto posizioni umane
“storiche”− per poter dar loro una risposta più autentica?
Una terza questione è dunque culturale: come argomentare «una rinnovata figura antropologica sotto il segno della speranza» (Card. D.
Tettamanzi) nell’ambito del discorso pubblico, del confronto tra i diversi
“sensi comuni” in cui riposano implicitamente le diverse visioni dell’uomo che necessariamente convivono in una società pluralista e multiculturale? Quale contributo può dare, da questo punto di vista, il Progetto
Culturale orientato in senso cristiano che celebra il suo decimo compleanno proprio in questi giorni e che, da più voci a Verona, è stato sollecitato
a entrare in una “seconda fase”? Soprattutto, forti di quali strumenti critici si pensa di poter “fare i conti” con un pensiero che non ha più la coerenza e la sistematicità del progetto moderno ma che – seppur non vogliamo definire post-moderno − sembra farsi forte proprio delle originali contraddizioni della modernità?
Un ultimo aspetto riguarda, infine, il ruolo dei media nel nostro contesto sociale, la loro valenza culturale e la loro responsabilità formativa. La
riflessione mass-mediologica è stata, infatti, accolta spesso con grande
intelligenza dalla Chiesa, soprattutto in prospettiva pastorale e – forse con
meno tempismo − culturale; lo stesso insieme dei documenti di Verona
rende conto delle diverse metafore con cui i media sono stati interpretati
all’interno dell’esperienza ecclesiale: da quelle più “datate” (media come
canali o mezzi di diffusione) a quelle più recenti (media come linguaggi) o
attuali (media come ambienti). Prendere sul serio queste metafore significa tornare a riflettere sulla testimonianza: non solo un contenuto della
comunicazione ma piuttosto uno stile, un linguaggio, una presenza in
questi nuovi agorà virtuali che sono i media. Come tradurre oggi, nella
cultura dell’immagine e della chiacchiera, il discorso di San Paolo
nell’Areòpago di Atene (At 17, 22-33), che prendendo spunto dagli idoli
e dal “dio ignoto” annuncia Gesù Cristo, Dio incarnato, crocifisso e risorto, resta la grande sfida del «comunicare il Vangelo nel mondo odierno».
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Note
1
Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (d’ora in poi CV), § 33.
2
CV, § 4.
3
CV, § 32.
4
Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo (d’ora in poi TGR), § 5.
5
TGR, § 8.
6
TGR, § 15.
7
S. S. Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno Ecclesiale di Verona, 19
ottobre 2006.
8
Solo un dato a questo proposito: a una analisi del contenuto lessicale delle relazioni e dei discorsi pronunciati a Verona, i termini riconducibili alla radice della
“testimonianza” fanno registrare un’occorrenza pari a cinque volte quelli riconducibili alla radice della “comunicazione”.
9
Cfr. per tutte R. Bracchi, “Comunicazione (etimologia)” in F. Lever, P. C.
Rivoltella, A. Zanacchi, La comunicazione. Il Dizionario di scienze e tecniche,
Pas/Elledici, Roma 2002.
10
Vd. a questo proposito J.Habermas, Etica del discorso, Laterza, Bari 1989.
11
Cfr. G. Bettetini, La conversazione audiovisiva, Bompiani, Milano 1984.
12
Cfr. C. Shannon e W. Weaver, The mathematical theory of communication,
University of Illinois Press, 1949.
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A Verona il Papa è ritornato sul progetto culturale della Chiesa
italiana, stimolando ad «allargare gli spazi della nostra
razionalità». Le sfide del mondo di oggi sono tante: ecco perché
dobbiamo dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo
per restituire alla fede cristiana piena cittadinanza.
Il Concilio, bussola
del nostro orientamento
I
Francesco Lambiasi
n un primo tempo sembrava dovesse essere una sorta di
grande convention sul laicato. Poi, a un certo punto, ha rischiato di diventare un convegno teologico-pastorale sulla speranza.
Di fatto il IV Convegno Ecclesiale, tenutosi a Verona dal 16 al
20 ottobre scorso, non è stato né l’una né l’altro. Nelle intenzioni dei vescovi italiani, espresse dal presidente del Comitato
preparatorio nella introduzione alla Traccia di preparazione,
card. Dionigi Tettamanzi, l’evento di Verona si proponeva di
«dare un nuovo impulso allo slancio missionario scaturito dal
grande Giubileo del 2000 e di compiere una prima verifica del
cammino pastorale svolto in questo decennio e di essere occasione di ripresa e di rilancio verso gli impegni che ancora ci
attendono».
Verona come verifica, ripresa e rilancio degli Orientamenti
pastorali per il primo decennio del 2000, Comunicare il vangelo
in un mondo che cambia (Cvmc): è stato effettivamente così?
Il primato dell’adorazione
Dalla contemplazione alla missione, sulla strada della formazione, nel segno di una comunione partecipata e corresponsabile, assumendo il Concilio come “bussola” di orientamento, nell’orizzonte vitale della speranza: in sintesi, questo è il cammino
prospettato alle Chiese in Italia da Cvmc.
Come si ricorderà, il documento rappresentava una novità
rispetto ai precedenti, perché non era impostato secondo l’abi-
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Francesco Lambiasi
è Assistente
Ecclesiastico Generale
dell’Azione Cattolica
Italiana. È stato VicePresidente del Comitato
Preparatorio per
il Convegno Ecclesiale
di Verona.
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FRANCESCO LAMBIASI
tuale scansione tripartita: vedere-giudicare-agire, ma si apriva con un
primo capitolo interamente dedicato a motivare l’invito rivolto alle comunità cristiane a tenere «lo sguardo fisso su Gesù, l’Inviato del Padre». La
seconda parte trattava de La Chiesa a servizio della missione di Cristo, cui
seguiva una conclusione, significativamente intitolata Una vita di comunione. Già questo impianto lineare e organico parla da sé, e dice che la
Chiesa può affrontare il compito dell’evangelizzazione ponendosi anzitutto e sempre di fronte a Gesù Cristo, il Testimone del Padre. Solo seguendo l’itinerario della missione del primo e più grande Evangelizzatore e
ispirandosi al suo stile, sarà possibile per la Chiesa imprimere alla sua azione un orientamento decisamente missionario. Pertanto il primo capitolo
di Cvmc ripercorre le quattro tappe dell’unica missione del Figlio di Dio:
il suo invio dal Padre, la sua venuta in mezzo a noi, la sua morte e risurrezione, la sua venuta gloriosa alla fine dei tempi.
“Verona” ha confermato e ripreso questa impostazione. Fin dalle
prime battute il Convegno si è presentato non (solo) come una riflessione
su Cristo speranza del mondo, ma come un vero incontro con Cristo,
Signore della storia, e come una “rinnovata effusione dello Spirito Santo”.
È stato Benedetto XVI a esplicitare questo nesso inscindibile e vivo dei
testimoni della speranza con il Risorto, dedicando un passaggio di rara
efficacia comunicativa della sua omelia nello stadio “Bentegodi” alla paroletta più minuta del motto del Convegno: Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo. Quel di – sottolineava il Papa – va capito bene. Vuol dire
che il testimone è di Gesù risorto, cioè appartiene a Lui. «Quel di non
indica riferimento, come la preposizione del mondo. Solo se, come Cristo,
non sono del mondo, i cristiani possono essere speranza nel mondo e per
il mondo».
Nel suo lungo e fondamentale intervento alla Fiera, il Papa aveva dedicato il primo paragrafo proprio alla contemplazione del Signore Risorto
che fa di ogni battezzato un soggetto nuovo, un io liberato dall’isolamento. «“Io e non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata
nel battesimo, la formula della risurrezione dentro al nostro tempo, la formula della novità cristiana chiamata a trasformare il mondo». Per questo
«prima di ogni nostra attività e di ogni nostro programma... deve esserci
l’adorazione, che ci rende davvero liberi e ci dà i criteri per il nostro agire».
Questo diventa pertanto il primo obiettivo a cui puntare per il dopoConvegno: la contemplazione come esperienza indispensabile per un
autentico cammino di santità, definita da P. Bignardi «l’unica misura
secondo cui vale la pena essere cristiani».
Forse è il caso di esplicitare l’impatto che da questo fondamento e dalla
conseguente centralità cristologica risulta per il modo della Chiesa di rapportarsi al mondo e alla sua storia. È un atteggiamento troppo ricco e
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complesso, che non si può ridurre alla semplice categoria (idea-azione) di
“dialogo”, ma che si traduce in un obiettivo fondamentale e in diversi
strumenti da utilizzare per raggiungerlo. L’obiettivo è quello di rendere
sempre più trasparente l’imprescindibile carattere “cristiano” della Chiesa:
il fatto cioè che la Chiesa è da-in-per Cristo. Questo volto cristiano della
Chiesa deve apparire nell’annuncio, nella celebrazione, nel servizio della
carità; deve trasparire nella testimonianza dei credenti e nel modo di
attuare la presenza della Chiesa, nel suo ruolo e nel suo stile; deve potersi
leggere nel discernimento comunitario dei segni di Dio nella storia; deve
lasciarsi decifrare dal nostro atteggiamento verso il mondo: un atteggiamento di amore e non di compiacimento; di servizio gratuito, per fare
strada a Cristo senza farsi strada; di testimonianza al vangelo senza complessi e senza reticenze, senza ripiegamenti e senza recriminazioni; di contestazione degli idoli del mondo, ma senza mai ricorrere a forme di violenza o di subdola pressione; di accoglienza dei “semi del Verbo” e di difesa (“apologia”) della speranza che è in noi, ma sempre “con dolcezza e
rispetto” (1Pt 3,15).
La “nuova fase” del progetto culturale
Gli Orientamenti pastorali per questo decennio avevano
parlato non solo di “conversione missionaria”, ma anche di
Questo volto cristiano “conversione culturale”, in modo che il vangelo sia incarnato
della Chiesa deve nel nostro tempo per ispirare la cultura e aprirla all’accoglienapparire nell’annuncio, za integrale di tutto ciò che è autenticamente umano” (n. 50).
nella celebrazione, nel
A Verona il Papa è ritornato sul Progetto culturale della
servizio della carità; Chiesa italiana, stimolando ad «allargare gli spazi della
deve trasparire nella nostra razionalità», e facendo presente che siamo ora di
testimonianza dei fronte a una nuova opportunità, quella di «riaprirla alle
credenti e nel modo di grandi questioni del vero e del bene, di coniugare tra loro la
attuare la presenza della teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro
Chiesa, nel suo ruolo e metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche
nel suo stile. nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme. È questo un compito che sta davanti a noi, un’avventura affascinante nella quale merita spendersi, per dare nuovo slancio alla
cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana piena
cittadinanza. Il Progetto culturale della Chiesa in Italia è senza dubbio, a tal
fine, un’intuizione felice e un contributo assai importante».
Ma il Papa ha anche offerto una interessante esemplificazione al
riguardo, proponendo una lettura della situazione dell’Italia di oggi
«come un terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole» per la testimonianza cristiana. Bisognoso perché anche l’Italia viene
investita da «una nuova ondata di illuminismo e di laicismo, per la quale
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sarebbe razionalmente valido solo ciò che è sperimentabile e calcolabile».
Da ciò deriva anche la riduzione dell’etica entro i confini dell’individualismo, del relativismo e dell’utilitarismo. D’altra parte l’Italia rappresenta
un terreno favorevole per la testimonianza cristiana, come risulta dalla sua
presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione; dalla vitalità della tradizione cristiana; dal grande sforzo di evangelizzazione e catechesi; dalla consapevolezza dell’insufficienza di una razionalità chiusa in
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se stessa; dal rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà.
Oltre a questa diagnosi nitida e perspicace, il Papa ha dischiuso una
prospettiva stimolante e assai avvincente, e ha proposto una osservazione
metodologica convincente e motivata. La prospettiva è quella della fede
come “il grande sì”: Cristo è il grande sì che Dio ha detto all’uomo e alla
vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza. Ciò
comporta una visione positiva, fiduciosa e creativa dell’antropologia cristiana, che senza dimenticare i tratti di fragilità della natura umana, senza
trascurare le tensioni e le contraddizioni della nostra epoca, guarda alla
fede come al fattore della più grande promozione umana, nella linea dei
padri della Chiesa di Oriente i quali non trovavano altra parola per dire
tutto questo che “divinizzazione”. Non si tratta di difendere un’identità
minacciata, ma di raccogliere l’eredità dei testimoni che hanno lasciato
tracce indelebili in ogni angolo della Penisola. Volti luminosi di una santità che è «quel comportamento perfettamente umano che è divino» (dom
F. Mosconi).
Infatti solo se crediamo che «chi segue Cristo uomo, si fa lui pure più
uomo» (GS 41), siamo in grado di reagire positivamente a una distorsione
ancora presente nell’immaginario collettivo, che continua a
pensare a “cattolico” come al “signor-no” e alla Chiesa come
Sul piano metodologico, ad un’acida matrigna o a una maestra triste e accigliata, e
va raccolto l’invito del riusciamo a presentare anche la croce come «il sì estremo di
Papa a evitare «ogni Dio all’uomo». Allora anche i “no” che il cristianesimo deve
rinunciatario pronunciare non saranno visti come sadica mutilazione
ripiegamento su noi della libertà umana, ma come amputazione necessaria,
stessi», che sarebbe come intervento risanante delle sue forme deviate e delle
autolesionismo sue pericolose contraffazioni, e quindi come dei veri “sì” a
patologico, e piuttosto a un umanesimo liberante, fecondo, plenario. Come si vede,
cogliere ogni opportunità, ritorna un tema molto caro a Papa Benedetto, da lui felicea valorizzare ogni risorsa, mente formulato fin dall’inizio del pontificato: «Cristo non
a non trascurare alcuna toglie nulla e dà tutto». Sovviene qui un’immagine, che il
delle energie che card. Ratzinger donò alcuni anni fa a un altro convegno
possono contribuire alla della Chiesa italiana. Noi siamo, disse, come i tagliatori di
crescita culturale e sicomori, alberi che fanno frutti abbondanti, ma insipidi; e
morale dell’Italia. però insipidi fino a quando il coltivatore non ne incide con
cura la superficie e così li fa maturare fino a farli diventare
assai gustosi.
Sul piano metodologico, va raccolto l’invito del Papa a evitare «ogni
rinunciatario ripiegamento su noi stessi», che sarebbe autolesionismo
patologico, e piuttosto a cogliere ogni opportunità, a valorizzare ogni
risorsa, a non trascurare alcuna delle energie che possono contribuire alla
crescita culturale e morale dell’Italia. In questo spirito va promosso un
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atteggiamento di dialogo con tutti, anche con «coloro che non condividono o almeno non praticano la nostra fede», eppure avvertono «la gravità
del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà».
A Verona, già nella prolusione, il card. Tettamanzi aveva parlato di
“seconda fase” del Progetto culturale, uno spunto poi ripreso e rilanciato
dal card. Ruini nella conclusione: questa fase «va compiuta nella linea del
sì all’uomo, alla sua ragione e alla sua libertà. Abbraccia le molteplici articolazioni del pensiero e dell’arte, il linguaggio dell’intelligenza e della vita,
ogni fase dell’esistenza della persona e il contesto familiare e sociale in cui
essa vive. È affidata alla responsabilità dei vescovi e al lavoro dei teologi,
ma chiama ugualmente in causa la nostra pastorale, la catechesi e la predicazione, l’insegnamento della religione e la scuola cattolica, così come la
ricerca filosofica, storica e scientifica e il corrispondente impegno didattico nelle scuole e nelle università, e ancora lo spazio tanto ampio e pervasivo della comunicazione mediatica. Di più, la sollecitudine specifica per la
questione della verità è parte essenziale di quella missionarietà a cui i cristiani laici sono chiamati nei molteplici spazi della vita quotidiana, familiare e professionale».
Formazione, testimonianza, missione
«Dopo aver privilegiato negli orientamenti pastorali dello scorso
decennio la virtù teologale e l’esperienza concreta della carità al centro del
nostro interesse si colloca ora la speranza»: così si legge nell’Agenda pastorale, in appendice a Cvmc. In un mondo appiattito sul presente, le nostre
comunità vanno avvertendo in modo sempre più acuto che, per l’albero
dell’antropologia cristiana, se la radice è la cristologia, l’escatologia è il
suo ossigeno. E se è vero che la fede senza la carità è morta, è altrettanto
vero che senza la speranza è cieca. Ma sappiamo che oggi, nel clima relativistico dominante, la speranza è la virtù più difficile: la carità è generalmente apprezzata e la fede – purché ricondotta alla sfera soggettiva – viene
tollerata, ma la speranza è incompresa e per lo più snobbata.
La comunità cristiana non può dare conto della speranza che la abita
senza la testimonianza dei cristiani laici. Proprio i laici hanno mostrato il
volto sereno e maturo dell’assemblea veronese e ne sono stati i protagonisti
umili, responsabili, costruttivi. «È venuta l’ora – aveva detto il card.
Tettamanzi, riprendendo CfL 2 – in cui la splendida teoria conciliare sul laicato diventi un’autentica prassi ecclesiale». Cosa manca? Il trinomio indicato dallo stesso arcivescovo di Milano: comunione, collaborazione e corresponsabilità. Nonostante i molti passi in avanti, subiamo ancora gli effetti di
un’anacronistica frammentazione e dello scarso riconoscimento dell’esperienza “mondana” dei laici nel pensare e interpretare la missione cristiana.
Su di essi il Convegno ha concentrato fiducia e attesa; non rispondere con
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IL CONCILIO, BUSSOLA DEL NOSTRO ORIENTAMENTO
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maturità sarebbe sprecare la grazia di questo momento.
La condizione per questo obiettivo, che in gran parte resta ancora
davanti a noi, è la formazione. Indicata nel cammino preparatorio come
una vera e propria emergenza – in tutti gli ambiti: dalla sfera affettiva a
quella sociale, passando attraverso la partecipazione e il dialogo – la formazione delle coscienze è l’unica via in grado di «risvegliare il coraggio
delle decisioni definitive». Le sintesi dei gruppi di lavoro al Convegno ne
sono una chiara conferma: educare l’intelligenza, la libertà e la capacità di
amare costituiscono i grandi capitoli di un “progetto formativo permanente” in cui la parrocchia è la prima scuola di educazione e di comunione, luogo di confronto e di rigenerazione del linguaggio credente.
Un territorio del vissuto che non può essere lasciato sguarnito del fermento della testimonianza laicale è quello della politica. Una ripresa di
soggettività del laicato non è essenziale solo per rispondere alla fondamentale esigenza dell’evangelizzazione. Anche la qualità della convivenza civile ne trae vantaggio. La Chiesa – ha ricordato il Papa – ha un interesse
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FRANCESCO LAMBIASI
profondo per il bene della comunità politica, ma «non è e non intende
essere un agente politico», per cui non tocca a essa in quanto tale ma ai
fedeli laici, «sotto la propria responsabilità», agire in questo ambito per
costruire una società più giusta. La comunità ecclesiale, da parte sua, ha
un duplice contributo da offrire alla vita pubblica: aiutare la ragione ad
essere fedele a se stessa e radicare nelle coscienze le energie morali e spirituali necessarie alla costruzione del bene comune.
Organizzare la speranza è un compito molto concreto: significa affrontare la questione demografica, la precarietà lavorativa dei giovani e i problemi dell’immigrazione; contrastare le povertà e superare i divari interni
al Paese; accrescere la dimensione relazionale dell’economia e riconoscere
il ruolo sociale della famiglia.
In conclusione, qualche appunto veloce sull’agenda pastorale di questa
seconda metà del decennio in corso. Quella in appendice a Cvmc esce da
Verona confermata e rilanciata. Attendiamo il documento dei vescovi, ma
intanto sarà bene scrivere in rosso sull’agenda: continuare la traduzione
del Concilio in italiano; portare avanti la riforma della Chiesa, nel segno
della comunione e della corresponsabilità; decomplessificare la pastorale,
troppo burocratizzata, dispersa e affannata, e renderla più “integrata” e
più centrata sulle persone e sulle relazioni; promuovere una formazione
dei laici con cammini non finalizzati a cose da fare; riprendere il tema dei
luoghi della corresponsabilità ecclesiale (vedi consigli pastorali) ecc. Ma
soprattutto fare il passo decisivo: quello della conversione missionaria,
concretamente del primo annuncio.
Una Chiesa con una Speranza per tutti, a cominciare da quelli di fuori:
questo è stato il sogno di Verona. Verso questa meta alta ed esigente il
cammino intrapreso da Cvmc continua. Ora, accelerarlo si deve. E si può.
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COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA
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L’ambito delle relazioni intergenerazionali sembra iscriversi
tra i luoghi di fragilità nella trasmissione della fede. È
urgente ritrovare il concerto tra testimonianza e racconto, in
contesti di vita ed esperienze di comunità. È nella dimensione
comunitaria che padri e figli possono elaborare e declinare
insieme le ragioni del credere.
Se la fede diventa
dialogo tra le generazioni
Monica Amadini
’
L
Le nostre speranze sono riposte sempre
nella novità di cui ogni generazione è apportatrice1.
incontro tra le generazioni soffre oggi di una profonda difficoltà relazionale, frutto d’incomprensioni e di dissensi, ma
anche di chiusure e silenzi. Risulta sempre più impellente, in tal
senso, accogliere le istanze di disagio che emergono a livello di
dialogo intergenerazionale e configurare scenari pedagogici atti
a rilanciare un autentico incontro tra le diverse generazioni. Si
tratta non tanto di pensare a nuovi elementi contenutistici ma
piuttosto d’individuare inedite modalità relazionali, affinché
non vada disperdendosi l’eredità di valori che innerva il legame
intergenerazionale e il senso di appartenenza che da quest’ultimo scaturisce2.
La fragilità di un ponte tra le generazioni priva in particolare i giovani di una matrice di senso con cui identificarsi, per elaborare i tratti del proprio sé in modo originale ma altresì robusto, attingendo dal passato i riferimenti necessari per progettare
il futuro. Un’esile trasmissione del passato, infatti, «indebolisce
anche il futuro, poiché sottrae la possibilità di interrogare la
memoria, di concepire sé stessi nella trascendenza del presente e
di attuare confronti, individuare analogie e differenze, elaborare
il proprio tempo»3.
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Monica Amadini
è docente di Pedagogia
delle Risorse Umane
presso l’Università
Cattolica di Brescia.
Tra le sue pubblicazioni:
Ontologia della
reciprocità e riflessione
pedagogica. Saggio sulla
filosofia dell’amore di
Maurice Nédoncelle, Vita
e Pensiero, Milano 2001;
Memoria ed educazione.
Le tracce del passato
nel divenire dell’uomo,
La Scuola, Brescia 2006.
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MONICA AMADINI
La costruzione dell’identità personale si avvale della scoperta di avere
origini, radici, indizi da cercare, tracce di un percorso umano più ampio
che ci avvolge. Ciò assume maggior rilevanza se si pensa all’esplosione
delle nuove e sempre più marcate manifestazioni della soggettività, in relazione alle quali l’individuo tende a definirsi come soggetto distinto, indipendente dalle eredità e dalle appartenenze.
L’esser parte di una comunità, che ci precede e accoglie la nostra storia,
dà radici alla biografia personale. Questo radicamento è fonte di consapevolezza e di speranza. La trama delle relazioni che, entro il contesto comunitario e sociale, s’instaurano tra le giovani generazioni e le generazioni
più attempate permette a ciascuno di situarsi in un “noi”, rispetto al quale
configurare la propria identità, tra appartenenza e differenziazione.
I modelli trasmessi dalle generazioni precedenti non vanno pertanto
assunti passivamente dalle nuove generazioni: devono invece favorire un’elaborazione personale, essere ricchi di spunti d’azione creativa. Pur nella continuità, tali modelli devono aprire al cambiamento. L’assunzione responsabile e personale delle scelte avviene in un confronto critico con i criteri
assiologici “tramandati”. Non a caso, il pensiero di H. Arendt, citato in
esordio al presente articolo, si traduce in un appello affinché la novità introdotta dalle nuove generazioni non sia assoggettata alle condizioni dettate dai
“vecchi”. L’educazione ha il preciso compito di conservare proprio «quanto
c’è di nuovo e rivoluzionario» in chi si affaccia alla vita4.
I giovani non sono soltanto “dentro” la storia, ma hanno l’impegno
esistenziale di produrre in prima persona la propria storia e quella dell’umanità: è in questo modo che il mondo si trasforma. «Ogni nuova generazione introduce l’inaspettato e l’imprevisto, rompe la continuità portandovi la novità della propria presenza; è l’inizio di una nuova storia, che
deve far leva, per dispiegarsi, sull’eccedenza di ogni uomo che giunge in
un mondo già esistente»5, ma non per questo già compiuto.
La rielaborazione è quindi un processo indispensabile che va promosso e accompagnato nei giovani, impegnati a dare risposta alle esigenze e
alle questioni esistenziali del presente. Credere nelle possibilità di rielaborazione originale insite nei giovani significa al tempo stesso infondere in
loro speranza, contrastando il senso d’indifferenza e d’impotenza che
spesso li attanaglia, dinanzi ad un mondo che li sovrasta.
Comunicare esperienze di fede tra le generazioni
L’erosione del senso di appartenenza ha pesanti ripercussioni anche
nell’ambito dell’educazione alla fede. I giovani oggi risultano infatti più
esposti all’incertezza dei riferimenti morali e religiosi, all’ambivalenza e
all’imprevedibilità dei modelli sociali. L’indebolimento dei fondamenti
metafisici ha ragioni di varia natura: le mutate condizioni di vita, le tecdialoghi n. 4 dicembre 2006
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SE LA FEDE DIVENTA DIALOGO TRA LE GENERAZIONI
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nologie d’avanguardia, i cambiamenti in campo economico e politico, i
problemi epocali. Tuttavia, l’impoverimento del tessuto etico-morale e
religioso trova origine anche in una lacerazione del legame intergenerazionale. La ricerca di un orientamento da conferire alla propria esistenza s’inscrive in contesti relazionali di annuncio e trasmissione della fede.
Accogliere la novità e la discontinuità che i giovani introducono è pertanto un compito fondamentale, che attiene agli adulti impegnati ad accompagnare i cammini di fede.
È indispensabile invocare con forza un impegno formativo in direzione di un ritorno dell’uomo alla propria capacità di fare e proporre esperienze di fede. Non a caso, la crisi della continuità tra le generazioni pare
configurarsi come una crisi più profonda della capacità di “scambiare
esperienze”, trovando le parole adatte affinché l’esperienza, anche quella
religiosa, sia comunicata. La crisi in cui versa oggi un’efficace trasmissione
del messaggio religioso è quindi dovuta in modo rilevante alla difficoltà di
elaborare i vissuti di fede attraverso un linguaggio condiviso, capace di
mediare i significati del singolo con quelli della collettività, dei padri con
quelli dei figli.
Per ovviare a tale crisi, la ricerca di senso necessita di prendere avvio
entro particolari contesti educativi in cui è possibile convergere verso
domande comuni di significato, alla ricerca di “simboli collettivi” che
avvicinano e tengono insieme6. È un’esigenza di chiara natura pedagogica,
per rispondere alla quale è auspicabile un rinnovamento del dialogo intergenerazionale.
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MONICA AMADINI
I giovani hanno bisogno d’incontrare e condividere proposte di senso,
attestanti consapevolezza nella scelta e nell’individuazione dei valori a cui
ispirare le azioni. Il dialogo tra generazioni educa alla fede anche ponendosi
come opportunità di proporre fini e progetti, attraverso il confronto con
esperienze personali di storicizzazione e contestualizzazione della fede.
La fede, infatti, nutre ma si nutre essa stessa della capacità personale di
assumere coscienza di sé per progettare l’esistenza, prendendo posizione
dinanzi agli eventi storici. Laddove, invece, si trovano solo risposte parziali e provvisorie alla propria ricerca di senso, si procede senza punti di riferimento. Affinché la proposta di fede non sia astratta o disincarnata, deve
assumere una rilevanza esistenziale ed essere strettamente connessa con il
vivere-la-vita.
Proprio per trovare conforto e confronto rispetto a questa ricerca esistenziale, che è anche di natura religiosa, le giovani generazioni lanciano
alle generazioni attempate un monito alla responsabilità della testimonianza. Gli adulti sono investiti da tale appello nella duplice veste di credenti (impegnati nell’evangelizzazione) e di adulti (impegnati nell’educazione). Gli interrogativi di Paolo, riguardanti coloro che non conoscono
Cristo, sono particolarmente pertinenti: “Come potranno invocare Cristo
senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne
sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo
annunzi? E come lo annunzieranno senza essere prima inviati? […] La
fede dipende dunque dalla predicazione” (Rm 10, 14-17).
I giovani chiedono certamente spazi e tempi per affermare la propria
identità e sperimentare personali percorsi di fede. Per far ciò hanno però
bisogno della presenza disponibile di un modello adulto con cui confrontarsi, pur secondo le modalità del distanziamento e della differenziazione.
Diversamente, in assenza di riferimenti, l’alternativa è il disorientamento,
«come avverrebbe a naviganti in mezzo all’oceano senza bussola né stelle
per stabilire la rotta»7.
Inoltre, attraverso questa relazione educativa improntata alla testimonianza, le nuove generazioni impegnano quelle più attempate ad una continua ridefinizione del senso: il confronto autentico esige un interrogarsi
incessante e promuove una flessibilità relazionale. Il dialogo educativo,
infatti, «quando è ben condotto, acquista una forza “dirompente”, nel
senso che modifica di continuo la struttura percettiva degli interlocutori e
suscita nuove prospettive»8.
Narrare per dar voce alla fede
L’interazione educativa e la condivisione di significati attinenti alla
fede prendono forma nell’ambito di relazioni interpersonali e intergenerazionali forti; diversamente, si ha una mera ricezione (o un netto rifiuto) di
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SE LA FEDE DIVENTA DIALOGO TRA LE GENERAZIONI
contenuti omologhi ed omologanti. Per costituirsi come vero e proprio
luogo relazionale e affettivo, l’incontro tra generazioni deve assumere i
tratti di uno spazio dialogico, in cui raccontare e raccontarsi.
La narrazione rappresenta una feconda occasione pedagogica di educazione alla fede e attraverso la fede. Riproporre su basi nuove un tempo
della narrazione appare oggi cruciale per permettere ai giovani di confrontarsi con storie di vita dense di significato, con esempi viventi di desiderio
e ricerca di Dio. Gli adulti che rendono partecipi le giovani generazioni
delle risposte che hanno dato alle domande profonde della vita pongono
in essere un’importante esperienza formativa. Colui che narra, infatti, non
mira «a comunicare il puro in-sé dell’accaduto, ma lo cala nella vita del
relatore, per farne dono agli ascoltatori come esperienza»9.
Nell’apertura al confronto e alla narrazione si possono rintracciare le
ragioni profonde delle proprie scelte religiose e i valori di riferimento.
D’altro canto, la ricerca della verità avviene sempre in un contesto di condivisione e narrazione reciproca.
Un’attenzione specifica va quindi riservata allo “stile”: uno stile partecipativo nel proporre il Vangelo, che favorisca l’incontro tra la Parola e la
vita dei giovani, attraverso un dialogo che scaturisce dal terreno dell’esperienza. Proporre messaggi credibili, legati alla significatività dei vissuti,
significa uscire dall’autoreferenzialità e accettare la fatica (e il rischio) di
dare nome e storia, cuore e corpo, alle ragioni della fede.
La narrazione è anche esercizio di auto-formazione e di apertura esistenziale. La consapevolezza che si conquista rispetto a sé stessi e al proprio cammino di fede favorisce tanto per gli adulti quanto per i più giovani una maggior com-prensione dei percorsi esistenziali degli altri e delle
risposte che hanno saputo dare alla propria ricerca del senso.
La pedagogia narrativa può offrire molto a chi s’interroga oggi sulle
strategie più efficaci per promuovere un autentico incontro tra generazioni distinte. La narrazione aiuta a ordinare le esperienza, genera condivisione, sollecita la capacità di ascolto, insegna la reciprocità.
Attraverso la narrazione, è possibile altresì sperimentare una varietà di
modi per poter “dire Dio”. La portata metaforica dei vissuti religiosi si
presta a diverse forme di narrazione e risponde anche alla ricchezza espressiva dei giovani. Aprirsi alla polisemia del messaggio religioso permette
inoltre di dischiuderne le potenzialità incompiute, lasciando spazio all’originalità delle espressioni personali. Le nuove generazioni rappresentano in
questa prospettiva per la comunità ecclesiale una preziosa risorsa, perché
offrono al messaggio evangelico nuove vie di attuazione.
Ascoltare le parole dei giovani significa al tempo stesso corrispondere
ad un loro radicato bisogno relazionale. La costruzione del senso di appartenenza si fonda sulla possibilità non solo di ascoltare, ma anche di essere
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ascoltati. Un comunità attenta e pronta a recepire le istanze di senso dei
giovani testimonia una presenza responsabile, suscita identificazione e si
rinnova al tempo stesso.
In ogni caso, il dar spazio a nuove interpretazioni rende dialettico l’incontro intergenerazionale. La trasmissione della fede avviene quindi
all’insegna della continuità e della dispersione al tempo stesso. Il concetto
di trasmissione non coincide con quello di mera “trasfusione”; più che
l’assimilazione, implica la rielaborazione. La fedeltà s’intreccia con il rinnovamento: non è fissità di adesione bensì “restituzione” responsabile, tra
ricordo e novità. Solo se intesa in questa accezione evolutiva e dinamica,
la trasmissione della fede assume una valenza educativa, atta a delineare
cornici di senso per la costruzione tanto dell’identità personale quanto
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dell’identità collettiva e comunitaria.
L’eredità religiosa consegnata alle nuove generazioni è sottoposta a inedite attualizzazioni, se si decide di lasciar spazio alle narrazioni dei giovani, ammettendo una certa dose d’incertezza, ma anche di novità. La
fedeltà al messaggio religioso non è minacciata laddove un “erede” la assume su di sé con consapevolezza, ma anche con libertà.
La fatica del “discernimento” va esercitata nei confronti delle nuove
esperienze di fede dei giovani, per saper raccogliere da un lato i valori
umani ed evangelici del passato e dall’altro per saperli metabolizzare con la
freschezza delle nuove forme di incarnazione che le nuove generazioni
offrono nel presente e per il futuro. Attraverso esperienze narrative, è possibile trovare nuovi modi di con-vergere e di intendere l’universo della fede.
Orientamenti conclusivi
Una ricerca aperta e condivisa del discorso di fede scaturisce dal dialogo e dall’ascolto reciproco, attraverso una continua comunicazione delle
ragioni fondanti. Questi sono i presupposti non solo per educare alla fede
le nuove generazioni, ma anche per edificare la comunità. La capacità di
interrogare le ragioni del proprio agire permette alla comunità ecclesiale
di rimanere fedele alla propria tensione formativa, promuovendo sia la
vita di fede sia la crescita delle persone nella loro integralità.
La comunità, di giovani e adulti insieme, che condivide momenti di
vita e aiuta ad aprirsi alla verità è una “comunità educativa”. È altresì una
“comunità credente”, che sa elaborare un progetto educativo-pastorale
volto alla promozione umana, secondo uno stile di presenza e testimonianza attiva nell’annuncio del Vangelo10.
Infine (ma non ultimo), fare esperienza di Dio e proporla alle nuove
generazioni significa aver fiducia nella presenza attiva e feconda di Dio
tanto nella storia personale quanto in quella dell’intera comunità. Si tratta di una via principale di testimonianza del senso autentico della fede in
Dio. Il dialogo intergenerazionale che affonda le radici in Dio sa dare
dignità alle diverse esperienze di fede, riconoscendo all’opera lo Spirito
Santo nei molteplici cammini di ricerca del senso.
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Note
1
H. Arendt, Tra passato e futuro (trad. dall’inglese), Garzanti, Milano 2001, p.
250.
2
Cfr. L. Pati, Progettare la vita. Itinerari di educazione al matrimonio e alla famiglia, La Scuola, Brescia 2004; in particolare pp. 44-57.
3
V. Iori, “Implicazioni educative della moratoria psicosociale”, in Pedagogia e Vita,
2001, 6, p. 23.
4
H. Arendt, Tra passato e futuro, pp. 250-251.
5
M. Amadini, “Percorsi educativi intergenerazionali. La funzione pedagogica del
far memoria”, in Pedagogia e Vita, 2005, 3, p. 138.
6
A. Chionna, Pedagogia della responsabilità. Educazione contesti sociali, La Scuola,
Brescia 2001, p. 118.
7
Cfr. V. Iori (a cura di), Generazioni. Mutamenti nelle classi di età e nelle fasi della
vita familiare, Collana Strumenti, Reggio Emilia 1999, pp. 78-79.
8
N. Galli, “I giovani: un nuovo impegno per la pedagogia e l’educazione”, in AA.
VV., La giovinezza, un nuovo stadio per l’educazione, La Scuola, Brescia 2000, p.
77.
9
W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1995, p. 93.
10
Cfr. al riguardo le suggestive riflessioni sviluppate da D. Maggi in Educazione e
pastorale, Una scelta di Chiesa, Elledici, Torino, 2003. «La pastorale “educativa” –
scrive – non si riduce mai alla sola catechesi o alla sola liturgia, ma spazia in tutti i
concreti impegni della persona e della sua condizione. Si situa all’interno del processo di umanizzazione nella convinzione che il Vangelo deve proprio essere seminato lì per portare ogni persona ad impegnarsi generosamente nella storia. Niente
di quello che la persona si porta dentro è indifferente all’educatore». Ibid. p. 81.
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Ogni comunicazione fa leva sull’esperienza, su realtà
sperimentate che diventano spunto per altre riflessioni. Ma
cosa accade nel caso dei contenuti della fede? Ci sono “parole
difficili” che fatichiamo – oggi più che un tempo – a proporre,
specie ai più piccoli? Talvolta le parole della rivelazione devono
servirsi della creatività dei simboli o di quella della poesia.
Le parole difficili
della Rivelazione
U
Anna Peiretti
n ragno tesse la sua ragnatela lassù, in un angolo delle pareti
dello studio. Ha trovato un appiglio. Sta costruendo la sua
dimora. È affascinante; così sicuro di sé, si muove senza esitazioni. La sua tela è una trama finissima, perfetta. È osservando
un ragno che il teologo brasiliano Rubem Alves1 dà inizio alla
riflessione sulle parole. Il ragno cerca un punto di appoggio,
lega la tela ad un elemento sicuro, resistente. Nessuna ragnatela
potrebbe sussistere se sospesa nell’aria. Così avviene per le parole; devono legarsi alle cose per avere significato. Nessun discorso può essere sospeso nel vuoto. Dunque le parole sono legate
alla realtà delle cose. Da esse dipendono, per esistere.
La scrittrice americana Flannery O’Connor (1925-1964)
riuscì a dare nella maniera più compiuta l’idea che la letteratura
ha valore concreto e tangibile. Nei suoi testi sostenne infatti che
la natura delle parole è in gran parte determinata dalla natura
del nostro apparato percettivo. La concretezza della narrazione
deriva dal fatto che il materiale alla base delle storie deve per
forza essere desunto dal reale tramite i sensi, tutti e cinque i
sensi, che determinano il nostro apparato percettivo. Del resto
come impara un bambino? Prima di poter denominare correttamente un oggetto, egli deve farne la scoperta sensoriale. Le
parole iniziano dunque quando inizia la percezione umana. La
comunicazione agisce attraverso, e prima di tutto, i sensi, e sui
sensi nulla possono le astrazioni. Si dovrebbe tener presente che
il processo conoscitivo attraverso cui il bambino scopre le paro-
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Anna Peiretti
è caporedattore della
rivista “La Giostra”. Tra le
sue pubblicazioni:
Ragazzi a tre dimensioni,
Effatà, Cantalupa (TO)
2006; La morte
Raccontata ai bambini,
Elledici, Leumann (TO)
2005.
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ANNA PEIRETTI
le del suo credo religioso è questo, lo stesso.
Chi oggi comunica la fede ai bambini − genitore, insegnante o catechista egli sia − deve compiere lo sforzo di legare le sue parole alla materia,
di ancorarle alla realtà. Dovrebbe essere capace di abbandonarsi al mondo
che lo circonda, fatto di cose e persone, più, e prima, che di idee astratte,
di filosofia, di principi. Le parole divengono significative solo se desunte
dal reale, tramite i sensi. Ecco perché le parole dell’escatologia, per le quali
un bambino non riesce a trovare nulla di reale a cui si legano, risultano del
tutto prive di significato.
Non è soltanto nel rapporto con le cose (il mondo materiale conoscibile attraverso i sensi) che le parole acquistano significato e valore, ma
anche nella relazione interpersonale in cui le parole vengono ascoltate e
ripetute, comunicate. È chi mi parla, anche soltanto con la voce e nello
sguardo, a donare senso alle parole. Alcune parole sono legate ad una persona particolare, rimandano ad una situazione, evocano sentimenti unici.
Alla nascita il bambino scopre la voce della madre che gli parla. Entra in
relazione con lei ricevendo oltre al latte, al calore e alle lacrime, parole.
Quale madre non nutre di parole il figlio? Nei primi mesi di vita il bambino è del tutto indifferente al suono e al contenuto di quel che le sue
orecchie sentono; quello che conta, per lui, è il volto della mamma che
parla, più del senso delle sue parole. Non è consapevole che quei suoni
contengono significati profondi e simbolici che egli stesso si porterà nel
cuore per il resto della propria vita. Il linguaggio si origina nella relazione;
unicamente in essa acquista senso e valore.
Ora, il problema del linguaggio della fede non si risolve dimenticando
che anche le parole della rivelazione hanno un legame con la realtà, si
comunicano nella relazione. Non possono restare sospese nel vuoto, nell’astrazione dei concetti, pena la loro comprensione. Le prime parole di
fede che un bambino ascolta e percepisce hanno un forte aggancio con l’esperienza quotidiana. Rimandano a cose familiari. Padre, per dire Dio.
Madre: Dio ama come una madre ama il suo bambino. Maria, la mamma
di Gesù. Pane. Vino. Acqua. Sono vocaboli che appartengono al nucleo
originario di una lingua. Non sono lontani dalla vita. In una famiglia in
cui si vive l’esperienza religiosa (piccoli gesti, il segno della croce, la preghiera della sera, la lettura di un libro, la messa della domenica…) queste
parole riescono ad evocare la presenza di Dio. Non tutte le parole della
fede però offrono il loro senso con tale naturalezza. Quante parole risultano difficili! Senza andarsi a impelagare nella liturgia, in cui troviamo la
“transustanziazione” (che cosa sarà mai?) o l’epiclesi, basta fermarsi a considerarne altre, come benedizione, ascesa, dogma, confessione, peccato,
trasfigurazione, virtù... Le parole dell’escatologia, poi...
A questo punto della riflessione ci si domanda: «Queste parole potran-
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LE PAROLE DIFFICILI DELLA RIVELAZIONE
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no far parte del linguaggio religioso di un bambino? A lui potrà essere svelato il loro senso? Saprà esprimersi ricorrendo ad esse?».
Intorno ai dodici anni si sviluppa nel ragazzo il pensiero astratto.
Scopre, non senza difficoltà, l’esistenza di parole che non si legano a cose
della realtà tangibile, inarrivabili per la percezione sensoriale. Evocano
anche realtà non terrene: il paradiso, l’inferno, il purgatorio. Parole per
dimensioni interiori misconosciute quali la coscienza, l’anima. Il ragazzo
non trova nella sua esperienza nulla che sia gancio per questi termini,
offrendogli un significato possibile per essi. «Il tempo in cui viviamo soffre
di afasia, dell’incapacità cioè di esprimere e comprendere le parole: un male
oscuro che attacca anche le zone più profonde dell’animo umano. Nella
società della comunicazione si assiste ad un paradosso: pur aumentando
vertiginosamente la quantità di informazioni disponibili, si impoverisce il
linguaggio, riducendosi in percentuale esponenziale il numero di parole
atte a esprimere sentimenti, emozioni, valori, slanci della mente e del
cuore»2. Sicuramente dovremmo accogliere oggi la sfida di Padre David
Turoldo, che condannava il nostro tempo dal «linguaggio consumato» e
dalle «parole frustre». «Si parla a vuoto, il mondo è pieno di parole, ma nessuno ascolta e forse questo è il male maggiore di cui siamo malati...» È attuale
ancora oggi la sua denuncia del logorio in cui è racchiuso il nostro alfabeto: «Il nostro vocabolario è un tormento, piuttosto che un aiuto al mistero».
Oggi il problema della catechesi presenta aspetti simili all’apprendimento di una lingua straniera. Il bambino ha appreso la lingua madre nel
contesto familiare, in una comunità di appartenenza e entro la cultura di
riferimento. Imparare una lingua è un processo legato a persone, a luoghi
e ad un tempo. La lingua è identità e contemporaneamente
pensiero e rappresentazione della realtà circostante. La perNella società della cezione uditiva dei nomi induce nel bambino una rielaboracomunicazione si zione a tre livelli: sul piano individuale (la storia esistenziale
assiste ad un paradosso: della persona che comunica); sul piano relazionale, dei valopur aumentando la ri e dei significati che il gruppo familiare e di appartenenza
quantità di informazioni danno a quelle parole come simbolo della propria storia,
disponibili, si valori e miti; sul piano culturale, dei simboli con cui un
impoverisce il gruppo esprime modelli, stereotipi, valori. La lingua dunlinguaggio, riducendosi que è carica di aspetti inconsci e simbolici che vanno consiil numero di parole atte a derati, valorizzati e rispettati.
esprimere sentimenti,
L’insegnamento di una lingua in realtà è anche una
emozioni, valori, slanci pedagogia simbolica. Al ragazzo non basta più il linguaggio
della mente e del cuore. aneddotico che descrive le cose reali. L’uso descrittivo della
parola risulta un limite per la crescita spirituale. Per le cose
invisibili, trascendenti, non può funzionare il meccanismo: indico la cosa
e dico il nome. La parola ha un altro uso, quello simbolico. Si tratta di
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ANNA PEIRETTI
scoprire come dire Dio con le parole di quaggiù.
Forse basterebbe tornare alla mentalità simbolica del medioevo e,
prima, dei Padri. Nella concezione medievale il mondo veniva considerato un sistema di simboli. Lo sguardo verso le cose veniva nutrito con la
convinzione che anche la più infima realtà non può limitarsi alla sua funzione immediata, ma si estende all’aldilà. «È la differenza che passa fra
guardare una persona che non si ama e guardarla quando la si ama», ebbe
modo di dire lo storico Huizinga nel descrivere lo spirito della simbologia
medievale. Leggendo in ogni cosa un significato di ordine superiore,
appartenente alla sfera spirituale, tutto rimanda a Dio, tutto è immagine
del suo Amore. Dio creatore ha trasformato in materiale lo spirituale; il
linguaggio di oggi dovrebbe trasformare il materiale in spirituale, riportando le cose al cielo...
Il simbolo è custodito nell’analogia, che è una categoria dell’essere:
segue l’idea che tutte le realtà possiedono un’intima connessione, rimandando l’una all’altra. Se non vedessimo la bellezza creata non potremmo
nominare Dio Perfetto; se non conoscessimo persone buone non potremmo chiamarlo Padre Buono. Si arriva alla causa universale attraverso la
conoscenza analogica delle cose. Dio si dona a misura delle nostre capacità... Così Zeno di Verona riesce a parlare della resurrezione come del
risveglio della natura: «In questo giorno, allontanata la melanconia del
passato inverno, sotto il soffiare mite del carezzevole vento Favonio, i prati
germogliano ovunque, profumando di fiori... Chi non capisce che tutto
questo è un simbolo dei misteri celesti?»3. La Bibbia stessa usa questo linguaggio. Che cosa possiamo dire della trasfigurazione? Henri Nouwen
guardando il rosone della Cattedrale di Notre Dame ebbe una nuova
intuizione della trasfigurazione avvenuta sul monte Tabor: la luce di Dio
che splende nel corpo di Gesù. «Sei secoli fa fu fatto un rosone che oggi
mi aiuta a vedere la gloria di Cristo in modo nuovo», scrisse nel suo diario
il 23 febbraio 1985.
Quando un simbolo è appropriato, azzeccato, aderente alla realtà
eppure aperto alla trascendenza, ha la capacità di prendere per mano il
ragazzo e fargli vedere anche tutto quello che le parole non dicono, di
mostrargli quel significato che, pur nascosto, vive e dà vita alla fede. Il
simbolo non ha mai l’evidenza del segno, anche quando è chiaro.
Pensiamo all’icona del computer; è segno che immediatamente rimanda
alla cosa, comunica il messaggio per automatismo. Il simbolo invece
richiede partecipazione e coinvolgimento nella ricerca di un senso personale. Quando un ragazzo entra nel mistero della rivelazione cristiana è un
po’ come se entrasse in una galleria di opere d’arte. L’arte, come il simbolo, non descrive neanche quando è naturalistica; è sempre portatrice di un
significato aggiunto al dato reale. Di per sé ogni opera d’arte, così come
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LE PAROLE DIFFICILI DELLA RIVELAZIONE
ogni parola di fede, per sua natura, coinvolge e invita alla partecipazione
nella ricerca dei suoi stessi significati. «Che cosa significa... per te?» Il simbolo provoca la riflessione, sprona alla ricerca. Il solo fatto di testimoniare
questo atteggiamento ha un valore educativo, soprattutto oggi: i ragazzi
percepiscono un’enorme quantità di immagini, acquisite con estrema
velocità, in un susseguirsi che non permette l’azione del pensiero e dello
spirito critico. La dialettica del simbolo è quella del vicino-lontano, dell’uguale eppure diverso, del reale e dello spirituale; solo in questo orizzonte è possibile comprenderne il senso. I ragazzi dovrebbero essere messi in
condizione di prendere la parola su ciò che ascoltano. La linguistica
moderna insegna che la produzione di un linguaggio personale è necessaria all’acquisizione. Deve essere possibile una presa di parole sulle parole
perché esse possano diventare significative. Se molti nomi hanno perduto
il loro significato è anche perché i ragazzi sono raramente provocati a utilizzarli in un discorso. Quando l’uomo si scopre capace di pensiero e di
parola scopre di avere una capacità infinita di riformulare le cose che vede
e apprende, e queste cose infinite, eterne, che percepisce, quando lui stesso le racconta, diventano una sorta di creazione. C’è una parola in aramaico che suona ibra k’dibra che letteralmente vuol dire “io creo attraverso il
mio parlare” (da cui il nostro abracadabra). Con la parola, in un certo
modo, diveniamo con-creatori, generiamo stati d’animo, sveliamo cose
che prima non erano visibili. Un bambino sarà capace di possedere le
parole (comprenderne il significato, ricorrere ad esse nei suoi discorsi)
tanto più avrà avuto la possibilità di raccontarle con la sua esperienza. Per
un bambino la parola “morte” (molto prima che la parola “resurrezione”)
non avrà nessun significato se non avrà avuto modo di lavorare interiormente per cercare e formulare un racconto del suo vissuto, un’esperienza.
Ma i bambini non vengono accompagnati ai funerali dei nonni; sono
troppo piccoli... Si dice... Quante occasioni hanno i ragazzi di prendere la
parola, nelle nostre chiese? La catechesi è purtroppo ancora considerata
trasmissione della fede; i ragazzi interlocutori muti e ascoltatori passivi.
L’educatore non è colui che dispiega il significato delle parole, nel senso
che non le “spiega”, piuttosto le illumina. Resterà su di loro sempre una
zona d’ombra, tale è il mistero che comunicano. Se la catechesi fosse più
narrazione che spiegazione (dottrina) le parole avrebbero modo di svelarsi, di dispiegare il loro senso profondo.
I sensi ci portano alla realtà delle parole, l’immaginazione ci conduce
al loro significato simbolico. Attraverso l’immaginazione infatti è possibile creare immagini che non vengono dai sensi, quindi conducono la conoscenza a livelli più profondi. È l’immaginazione il deposito del senso ultimo, partecipazione alla verità del mondo. «Ogni discorso su Dio dev’essere
introdotto dalla parola che usavano gli antichi rabbini ki-vjakhol, come si
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potesse dire”, “se così si può dire”, perché non c’è linguaggio su Dio, neppure
quello metafisico, neppure quello del “totalmente altro” che non sia mitico»4.
Italo Calvino, nelle sue Lezioni Americane, definì l’immaginazione «deposito del senso ultimo, partecipazione alla verità del mondo». Ignazio di
Loyola trasformò la Parola − le parole − in vedute, in visioni. Il suo procedimento conoscitivo prevedeva che il fedele immaginasse interiormente la
parola, come se dovesse dipingere sulla parete della propria mente affreschi. Se questa parola fosse un’immagine, che immagine sarebbe? Ai Padri
l’esercizio veniva facile... Qualche volta l’etimologia veniva loro in soccorso... Si può interpretare il termine “peccato” (l’etimologia è greca) come
l’atto di chi sbaglia il bersaglio. È nel peccato chi vive al minimo la possibilità della vita umana. La conversione libera possibilità di crescita, sviluppa le potenzialità. In questo esempio il senso della parola si svela nell’etimologia, nell’immagine simbolica, nella realtà concreta di un atto,
quello del centrare il bersaglio.
Credo che le parole della rivelazione abbiano in un certo senso la caratteristica del linguaggio poetico. La poesia non è per la chiarezza scientifica, ma per la ricerca dei significati delle parole. La poesia rende in qualche
modo a chi legge la consapevolezza che la verità dimora al di là del visibile, dell’evidente... di questa realtà. Proprio nella fatica della ricerca dei
significati si svela l’essenziale. L’immaginazione si purifica nel crogiolo
della ricerca, si affina, si perfeziona. Più è profonda l’esperienza spirituale
più le parole della fede acquistano forza e potere. Le immagini simboliche
diventano culla della Verità. Lo insegna Simone Weil: «Quando si è al
limite della sete, quando si è ammalati di sete, non ci si raffigura più l’atto del bere i rapporto a se stessi e nemmeno l’atto del bere in generale; ci
si raffigura soltanto l’acqua, l’acqua in se stessa, ma questa raffigurazione
dell’acqua è come il grido di tutto l’essere»5. Il linguaggio religioso dovrebbe mobilitare tutte le capacità di comprensione, sollecitare l’immaginazione, ammonire a cercare oltre. Voler vedere la faccia Dio è l’equivalente di
voler parlare di Lui.
Note
1
R. A. Alves, Parole da mangiare, Edizioni Qiqajon, Bose 1998.
2
A. Peiretti (a cura), D. M. Turoldo. Dizionario spirituale, Piemme, Casale
Monferrato 2002.
3
S. Zeno di Verona, Tractatus I, 33 (CCL, 22).
4
P. De Benedetti, Quale Dio, Morcelliana, Brescia 1996.
5
S.Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1999.
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La “questione antropologica” va affrontata in termini positivi e
propositivi: al centro vi è un annuncio di liberazione da dare, non
certo una disciplina morale da imporre. Questa consapevolezza
invita a un deciso sforzo di creatività nel cogliere a ogni livello i
riverberi della questione: è uno sforzo di lettura dei segni tempi o,
come si è ripetuto al Convegno ecclesiale, di discernimento
comunitariochecertamenteneiprossimitempiimpegneràicristiani.
La “questione antropologica”
L
Giovanni Grandi
a “questione antropologica” è riecheggiata ripetutamente nel
corso del Convegno ecclesiale di Verona, diventando un autentico snodo attorno a cui è invitata a riorganizzarsi l’azione della
Chiesa stessa. Si tratta – ha rilevato il cardinale Camillo Ruini
nel discorso di chiusura – di «una novità di grande spessore e
implicazioni che ha guadagnato molto spazio nell’ultimo
decennio», una tematica che «nei lavori del nostro Convegno è
stata, giustamente, assai presente»1.
Il termine “questione” è di quelli nobili, che alludono a
snodi irrinunciabili e cruciali: “questione sociale”, “questione
morale”, “questione meridionale”... quando si mette in campo
l’idea di “questione” si evocano le problematiche epocali, quelle
che non possono lasciarci indifferenti perché riguardano tutti.
Sollevare una questione significa di fatto operare un discernimento sulla realtà; significa leggere i fatti sociali e culturali e trovarvi dei segnali che destano preoccupazione e che quindi vanno
riconsiderati attentamente, coinvolgendo nella riflessione quanti più soggetti possibile. È importante evidenziare questa dinamica, perché sollevare una questione significa in primo luogo
aprire un dibattito, non chiuderlo. È questo il modo in cui la
Chiesa si fa compagna di strada di ogni uomo, anzitutto invitando a sostare sui problemi, a non liquidarli sbrigativamente,
stimolando anzitutto a cercare.
La questione antropologica si pone indubbiamente a partire
da certi fatti, tra cui spiccano senz’altro tutte le vicende legate
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Giovanni Grandi
è vice-direttore del
Centro Studi e Ricerche
dell’Istituto Internazionale
“Jacques Maritain”; tra le
ultime pubblicazioni:
L’Oriente e l’Occidente,
Rubbettino, Soveria
Mannelli 2004 e
Rileggere Maritain,
Rubbettino, Soveria
Mannelli 2004; coordina
la redazione di Dialoghi.
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alle frontiere della vita umana, ma appunto questi fatti vengono letti
come segni, come indicatori di un problema più radicale: questione antropologica è il problema di un’umanità sempre più titubante e confusa
dinanzi all’interrogativo sulla propria natura e sulla diversità dell’umano
dal resto del vivente.
Si delineano in particolare due fronti tra loro collegati: il rinvenimento di un senso per la vita dell’uomo e le risorse da mettere in campo per
poterlo attingere. Questione antropologica è, per un verso, riportare alla
luce i grandi interrogativi esistenziali e, per un altro, discernere a che livello è decisiva la rivelazione cristiana, a che livello l’annuncio risuona proprio come la buona notizia che, da se stesso, l’uomo non è in grado di rinvenire. Di qui l’insistenza del Papa sulla attenta composizione di ragione e
fede, una composizione che chiama in causa il concerto delle scienze2 e
che mira ad evitare due eccessi ugualmente perniciosi: l’esilio della fede
dal sapere – quasi che non ci sia altro oltre a ciò che le scienze sperimentali ci offrono – e l’esuberanza del fideismo – quasi, all’opposto, che tutto
sia risolvibile con un atto di fede e senza impegno per la ragione sperimentale e filosofica. I ripetuti interventi di Benedetto XVI sul tema del
rapporto tra fede e ragione e sulla irriducibilità del sapere alla sola dimensione delle scienze sperimentali andrebbero quindi a loro volta riportati
proprio alla questione antropologica: «L’uomo non può riporre nella scienza e nella tecnologia una fiducia talmente radicale e incondizionata da credere che il progresso scientifico e tecnologico possa spiegare qualsiasi cosa
e rispondere pienamente a tutti i suoi bisogni esistenziali e spirituali. La
scienza non può sostituire la filosofia e la rivelazione rispondendo in
modo esaustivo alle domande più radicali dell’uomo: domande sul significato della vita e della morte, sui valori ultimi, e sulla stessa natura del
progresso»3.
Per meglio focalizzare la concretezza della questione, conviene ripartire dai fatti riconsiderandoli nel loro valore di segni. Si diceva degli accesi
dibattiti sulle frontiere della vita umana, dibattiti che ruotano attorno ad
una questione precisa: «chi è uomo?» – per i più accorti, «chi è persona?»
–. È persona l’embrione? Lo è il malato terminale? Lo è l’incosciente?
Occorre chiedersi perché la cultura sollevi questo interrogativo di inclusione/esclusione dall’umano.
Alle sorgenti di queste domande c’è infatti un dilemma, che potremmo visualizzare in questo modo: tutti avvertiamo che l’umano è inviolabile. Se guardiamo a noi stessi, non ci consideriamo come uno strumento a
disposizione di altri. Allo stesso tempo però si profilano condizioni per cui
una violazione dell’umano può diventare utile per ottenerne vantaggi
(terapie o altro) o per minimizzare costi di tempo e denaro (cura, struttudialoghi n. 4 dicembre 2006
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re di assistenza, ospitalità...). Il dilemma è evidente: potrebbe essere utile
violare ciò che tuttavia avvertiamo come inviolabile. Ma nessuno se la
sente – è ovvio – di sposare una posizione di questo tipo. Allora ecco la via
soft: se ci sono i margini per escludere qualcuno dalla cerchia degli inviolabili, il problema cade e si può procedere. Di qui la discussione per stabilire se e quando un vivente che appartiene alla nostra stessa specie – da una
donna ed un uomo nascono sempre, e non per coincidenza, un altro
uomo ed un’altra donna, non un cavallo o un canarino – abbia le carte in
regola per essere incluso o escluso dall’umano. La persona diventa così
una dignità da attribuire discrezionalmente e non una realtà da riconoscere
universalmente. Il problema non è tanto il sofisma della via soft, che fa leva
in modo spregiudicato sulle situazioni di frontiera più problematiche. Il
problema piuttosto è che progressivamente sembrano venir meno gli anticorpi culturali ed intellettuali, prima ancora che morali, contro le vie soft
dell’esclusione. E precisamente questo è il segnale preoccupante, il segna-
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le che non siamo più così convinti che la persona sia una questione di
realtà da riconoscere: si fa convincente l’idea che si tratti piuttosto di
dignità da attribuire.
È il segnale di un conflitto tra la percezione della radicale diversità dell’umano – da cui discende una non-strumentalità dell’umano e quindi la
sua inviolabilità – e la visione del vantaggio che potremmo trarre da alcune violazioni, magari selettive, magari soft. La percezione della radicale
diversità sembra perdere il match con la visione del vantaggio: si rivela
debole, precaria, non ci convince. Accade che, se dobbiamo scegliere tra
l’affermare un valore assoluto (rinunciando con questo a qualcosa che è a
portata di mano) e il trarre un vantaggio (stendendo la mano), optiamo
per la seconda soluzione. Sollevare la questione antropologica significa
scorgere, come ha osservato il cardinal Ruini, un problema nuovo, una
nuova radice per questa crescente affermazione del primato del vantaggio:
è come riconoscere che non si tratta soltanto di una questione di crisi
morale, ma di una questione di crisi di coscienza, di crisi dell’intelligenza.
In altri termini, non ci scopriamo utilitaristi (e, deteriormente, edonisti)
perché siamo tutti più cattivi o spregiudicati: ci scopriamo piuttosto catturati dalla logica del vantaggio immediato perché questa sembra l’unica
strada rimasta, perché l’alternativa – l’agire a partire dalla percezione della
radicale indisponibilità di ogni uomo – appare debole, poco convincente,
forse irragionevole o forse poco sponsorizzata. Ci muoviamo nella luce
crepuscolare del tramonto delle «grandi narrazioni» (F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere. 1979), navighiamo a vista avendo
perso quelle coordinate che per millenni hanno consentito all’uomo di
orientarsi. Ora quelle coordinate ci sembrano favole: favola è l’idea che
l’uomo sia diverso dagli altri animali, favola è l’idea che il destino personale non si compia allo scadere del tempo biologico, favola è l’idea che esista una natura dell’uomo che dice – sempre e dovunque – cosa l’umano
sia, cosa gli sia proprio, cosa gli sia dovuto. Ed anche cosa non gli appartenga. «Ha luogo – per dirla con le parole di Benedetto XVI – una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura,
come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato
come ogni altro animale. Si ha così un autentico capovolgimento del
punto di partenza di questa cultura, che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà»4.
Questione antropologica è l’affievolirsi delle ragioni della dignità, è il
legare la percezione della diversità (e perciò della dignità) alla vaghezza del
sentire, è il ridurre questa percezione a favola. Il rango di “questione” è
dato proprio dalla radicalità del problema: se l’umano non è effettivamente altro dall’animale, il principio di discrezionalità nell’inclusione/esclusione dal personale è pienamente giustificato; non escludiamo qualcuno
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perché siamo più cattivi, ma perché in fondo non ci sono ragioni valide
per non farlo, se ciò dovesse rivelarsi utile. Tutto dipende allora, lecitamente, dai nostri accordi, dalla nostra cultura, dalla nostra sensibilità,
anche dalla nostra posizione di potere.
La “questione” non è allora riorientare la moralità ed il costume, non
in prima battuta per lo meno. È anzitutto ridare spessore alla percezione
della diversità e della dignità dell’umano rispetto al comune animale: è un
compito alto, perché siamo dinanzi a quegli interrogativi che giustamente
si dicono esistenziali; è un compito concreto perché sono in gioco tante
scelte che dipendono dalle risposte che sapremo trovare. È un compito
urgente, perché almeno nella società occidentale sembrano moltiplicarsi i
segnali di una fragilità nel discernere le grandi domande di senso che
albergano in ogni uomo.
Dobbiamo allora interrogarci sul ruolo dell’annuncio cristiano dinanzi a questi orizzonti: testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. La rivelazione cristiana ha una parola originale ed irrinunciabile circa la questione antropologica? Possiamo venire a capo di quella percezione di diversità
dell’umano con le nostre sole risorse, senza alcuna luce ulteriore? Ci basteranno le forze delle scienze e delle filosofie? L’aria di crisi di coscienza suggerisce una risposta negativa. «Privo del suo riferimento a Dio, l’uomo
non può rispondere alle domande fondamentali che agitano e agiteranno
sempre il suo cuore riguardo al fine e quindi al senso della sua esistenza.
Conseguentemente neppure è possibile immettere nella
società quei valori etici che soli possono garantire una conQuando il Papa invita a vivenza degna dell’uomo. Il destino dell’uomo senza il suo
non separare fede e riferimento a Dio non può che essere la desolazione dell’anragione ci suggerisce goscia che conduce alla disperazione»5. Con queste parole il
che il messaggio della Papa ci invita a fare il punto: le questioni morali si dirimorivelazione non ci no solo a partire dalle posizioni esistenziali. Altrimenti le
indirizza verso l’assurdo regole che ci daremo si ridurranno a opprimente moralio l’irrazionale: ci porta smo. Ma non dobbiamo trascurare che una risposta adeguainvece a discernere ciò ta alle domande esistenziali viene solo dalla Rivelazione: è il
che, ai nostri occhi, è grande messaggio dell’uomo imago Dei, è il grande annunindecidibile proprio cio che i Padri declinavano dicendo «Dio si è fatto uomo
perché ugualmente affinché l’uomo potesse diventare Dio»6, è quella parola
ragionevole. inaudita secondo cui siamo «chiamati figli di Dio e lo siamo
realmente!»7.
La diversità dell’uomo dagli altri esseri viventi è una notizia che può
solo essere accolta, una buona notizia che viene da altrove, ma che – e qui
occorre davvero fare attenzione – non per questo è favola per creduloni.
Quando il Papa invita a non separare fede e ragione ci suggerisce anche –
nel solco della millenaria tradizione del pensiero cristiano – che il messag-
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gio della rivelazione non ci indirizza verso l’assurdo o l’irrazionale: ci porta
invece a discernere ciò che, ai nostri occhi, è indecidibile proprio perché
ugualmente ragionevole. Il credere non si sostituisce al pensare, ma –
dinanzi ai bivii che la ragione da sola non saprebbe sciogliere – incoraggia
a procedere in una direzione piuttosto che nell’altra. È ragionevole pensare che il successo dell’uomo nel cammino dell’evoluzione sia un semplice
fatto fortuito, sorprendente ma fortuito; così come è ragionevole ritenere
che il successo dell’uomo nell’evoluzione sia il senso stesso di tutto il processo, e che quindi l’uomo sia radicalmente diverso, sia un fine e non un
anello di una catena senza capo né coda. La questione antropologica si
accende perché, dinanzi a due opzioni entrambe razionalmente plausibili,
l’uomo sembra oggi più rassegnato alla visione minimalista ed alle sue –
talvolta, ma non è detto sempre, vantaggiose – conseguenze. La buona
novella giunge proprio incoraggiando verso l’altra direzione.
Entrare da cristiani nel cuore della questione antropologica significa
allora anzitutto risvegliare le domande, le attese profonde, aiutando l’uomo ad accorgersi che la buona notizia è proprio ciò che intimamente desidera ricevere e – più spesso di quanto non si creda – la scommessa stessa
che anima tanti gesti, tante attenzioni. Sarebbe infatti interessante interrogare la concretezza della vita, per scovare il perché di tante scelte: perché
prendersi cura dei più deboli? Perché lottare contro le ingiustizie? Perché
essere fedeli alle amicizie? Perché onorare quelli che oggi non sono più tra
noi? Non sono questi, assieme a tanti altri, i segni feriali di un continuo
affermare la diversità dell’umano, la sua irriducibilità al dato biologico?
Non tradiscono, questi segni, una richiesta profonda di liberazione, di
liberazione proprio dalla ragionevole ipotesi che tutto questo sia solo illusione? Risvegliare la domanda è risensibilizzare alla buona notizia, e fare
spazio all’annuncio che sì, l’uomo è diverso dal resto del vivente perché è
figlio di Dio e chiamato e vivere la sua stessa vita.
La buona notizia raggiunge ogni uomo nell’attestargli che certe sue
scelte sono sensate, sono consistenti, sono ben fondate e lo sono proprio
perché la percezione di irripetibilità dell’umano che in fondo le anima
risponde al vero. La buona notizia riscatta dalla precarietà tutto ciò che
afferma la nobiltà dell’umano e la promuove. Riscatta, quindi libera e
accende speranza, perché invita di conseguenza a coltivare quei percorsi
che affermano la differenza dell’umano ed a diffidare da quelli che la riducono, che la mettono in dubbio o ne fanno una questione di convenzione
o di sola sensibilità.
La buona notizia accende il nuovo anzitutto liberando ciò che già cova
sotto la cenere: l’annuncio sorprende, ma – in qualche misura – è atteso. In
questo senso, forse, dovremmo iniziare seriamente a pensare che ciascun
uomo, nelle scelte umane che compie, è il primo testimone a se stesso di
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una diversità radicale dell’umano affermata spontaneamente. Liberazione è
passare dalla spontaneità – talvolta episodica – alla scelta consapevole, dall’occasionalità allo stile di vita, dalla scintilla al fuoco ardente.
Che l’annuncio di Cristo risorto, in cui Dio rivela l’uomo all’uomo, sia
una notizia liberante nel contesto della “questione antropologica” è apparso chiaramente dall’esortazione di Benedetto XVI a far risuonare anzitutto i “sì”» dell’esperienza cristiana: è a partire dalla conferma di quella percezione della diversità dell’umano, che tutti presentiamo, che ogni gesto
assume una configurazione nuova; è a partire da lì che si aprono gli spazi
per far maturare anche quelle risorse morali che rovesciano le sorti del
confronto tra l’affermazione dei valori e il raggiungimento di un vantaggio. «Per parte mia – ha detto ancora il Papa – vorrei sottolineare come
debba emergere soprattutto quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha
detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla
nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti
la gioia nel mondo. Il cristianesimo è infatti aperto a tutto ciò che di giusto, vero e puro vi è nelle culture e nelle civiltà, a ciò che allieta, consola e
fortifica la nostra esistenza»8.
La “questione antropologica” va allora impostata ed affrontata in termini nettamente positivi e propositivi: al centro vi è un annuncio di liberazione da dare non certo – non come radice – una disciplina morale da
imporre circa questo o quell’altro tema all’ordine del giorno delle diverse
agende politiche. Questa consapevolezza, che muove da Verona con vigore rinnovato, invita a un deciso sforzo di creatività nel cogliere a ogni livello i riverberi della questione: è uno sforzo di lettura dei segni tempi o,
come si è ripetuto al Convegno ecclesiale, di discernimento comunitario
che certamente nei prossimi tempi impegnerà i cristiani.
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S. Em. card. Camillo Ruini, Intervento conclusivo al Convegno Ecclesiale di
Verona.
2
«Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra
razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la
teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della
loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità
che le tiene insieme». Cfr. Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno
Ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006.
3
Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla plenaria della pontificia accademia
delle scienze, 6 novembre 2006.
4
Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno Ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006.
5
S. S. Benedetto XVI. Discorso in occasione della Visita alla Pontificia Università
Gregoriana, 3 novembre 2006.
6
S. Ireneo, Adv. haer., V, praef.
7
Cfr. 1 Gv 3,1
8
Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno Ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006.
dialoghi n. 4 dicembre 2006
GIOVANNI GRANDI
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L’omelia rimane uno dei principali spazi comunicativi nella
dimensione ecclesiale. Ma non si tratta di tenere conferenze di
argomenti religiosi, quanto piuttosto di aprire uno spazio per
offrire a Dio l’opportunità di parlare. Un clima di preghiera e
la cura nel suscitare in chi ascolta un cambiamento sono le
coordinate fondamentali per questa forma del comunicare.
L’omelia tra Parola
e preghiera
’
L
Chino Biscontin
ultima pubblicazione sull’omelia1, che ha ottenuto una certa
attenzione dai media, è una ennesima lunga lamentela, in parte
denigratoria, sulla situazione della predicazione omiletica corrente. Perché la buona predicazione non è poi così rara, solo che
è più facile scrivere su quella mediocre, che purtroppo non
manca. Si deve, ad ogni modo, riconoscere che la predicazione
sta attraversando un periodo non facile, dovuto a tanti fattori,
tra i quali anche i mutamenti culturali così rapidi che ci coinvolgono.
La qualità religiosa dell’omelia
Se dovessi indicare alcuni dei problemi più seri, come mi è
stato chiesto, comincerei con il parlare di un inadeguato livello
religioso di non poca predicazione. L’affermazione sembra paradossale: le prediche non sono tutte intessute di argomenti di
carattere religioso? È vero. Ma si possono trattare argomenti
religiosi in maniera inadeguata proprio dal punto di vista religioso. Quanti predicatori, ad esempio, sono consapevoli che
parlano di Gesù alla presenza di Gesù? Poiché è questo che accade quando un prete tiene l’omelia. E se si è consapevoli della
presenza del Signore, se ne parla con un coinvolgimento personale molto forte e non senza una percepibile commozione o
comunque passione. Allora i destinatari avvertiranno una presenza, che si manifesta proprio attraverso il parlare del predicatore, e l’omelia sarà la mediazione di un incontro, il nutrimento
72
Chino Biscontin
è docente presso il
Seminario di Pordenone,
gli ISSR di Portogruaro
(VE) e Padova e presso la
Facoltà Teologica del
Triveneto.
Dirige la rivista di sussidi
per la predicazione
“Servizio della Parola”,
dell’Editrice Queriniana.
Tra le sue pubblicazioni:
Predicare oggi: perché e
come, Queriniana,
Brescia 2001;
Come è fatto un
cristiano, Biblioteca
dell’Immagine,
Pordenone 2006.
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di una relazione. Perché l’identità dell’omelia è questa: assieme al contesto
immediato di cui fa parte, la liturgia della parola, è mediazione del parlare di Dio, oggi, a questa assemblea radunata nel suo nome. «La predicazione della parola da parte dei ministri sacri partecipa in un certo senso
del carattere salvifico della Parola stessa non per il semplice fatto che essi
parlino del Cristo, bensì perché annunciano ai loro uditori il Vangelo, con
il potere di interpellare, che proviene dalla loro partecipazione alla consacrazione e missione dello stesso Verbo di Dio incarnato. All’orecchio dei
ministri risuonano ancora quelle parole del Signore: “Chi ascolta voi,
ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me” (Lc 10, 16), e possono dire
con Paolo: “Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito
di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi
parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma
insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali”
(1Cor 2, 12-13). La predicazione rimane così configurata come un ministero che sgorga dal sacramento dell’Ordine e che si svolge per autorità di
Cristo»2.
Il prete non si trova, dunque, davanti al compito di tenere una breve
conferenza su argomenti religiosi, ma si mette a disposizione del Dio
vivente, perché Egli possa, anche attraverso il discorso omiletico, parlare
ai suoi alleati radunati in assemblea. Perciò l’omelia dovrebbe nascere,
anzitutto, da un atteggiamento di preghiera, e precisamente la preghiera
di ascolto, per offrire a Dio l’opportunità di poter parlare. Esiste quindi
un rapporto essenziale tra orazione personale e predicazione. Dalla meditazione della Parola di Dio nella preghiera personale dovrà anche sgorgare
spontaneamente il primato della «testimonianza della vita, che fa scoprire
la potenza dell’amore di Dio e rende persuasiva la sua parola». Frutto
anche della preghiera personale è una predicazione che diventa incisiva
non soltanto in virtù della sua coerenza speculativa, ma perché nata da un
cuore sincero e orante, consapevole che il compito del ministro «non è di
insegnare una propria sapienza, bensì la Parola di Dio e di invitare tutti
insistentemente alla conversione e alla santità». La predicazione dei ministri di Cristo richiede dunque, perché diventi efficace, che sia saldamente
fondata sul loro spirito di preghiera filiale: «Sit orator, antequam dictor»3.
Nel Messale si trova una bella e ardita colletta: «O Dio, che nel tuo Figlio
fatto uomo ci hai detto tutto e ci hai dato tutto, poiché nel disegno della
tua provvidenza tu hai bisogno anche degli uomini per rivelarti, e resti
muto senza la nostra voce, rendici degni annunziatori e testimoni della
parola che salva»4. Il ministero della parola di Dio, è anzitutto servizio reso
a Dio perché non sia costretto a restare muto! A voler migliorare la predicazione bisogna fare il necessario per innalzare nei predicatori la consapevolezza di questo valore “sacramentale” del loro parlare, con tutte le con-
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seguenze che ne derivano: la preghiera d’ascolto anzitutto, e poi la grande
cura nella preparazione sia remota che diretta. E tuttavia, nonostante i
tanti limiti, l’omelia è pur sempre una opportunità di cui Dio si serve per
continuare a rivolgerci la sua parola. Nei rilevamenti statistici è interessante notare come, a fronte della severità degli specialisti, i giudizi dei
fedeli sono generalmente più benevoli.
L’omelia come potenza che trasforma
Un secondo problema della predicazione corrente è che, in una percentuale non insignificante di casi, l’omelia tende a ridursi a intrattenimento
religioso. Vi sono una decina di minuti da occupare, e dentro questo contenitore vengono messi dei contenuti religiosi, che intrattengono gli ascoltatori, ma lasciano la loro situazione immutata. Ciò può dipendere dal
fatto che diversi preti concepiscono l’omelia come una breve conferenza, e
perciò trattano la parola come semplice veicolo di informazioni. È urgente
riprendere la comprensione biblica della parola, come forza che interviene
sulla realtà per modificarla: «La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e
i pensieri del cuore» (Eb 4, 12). Il già citato documento della
Congregazione per il Clero afferma: «La predicazione della Parola non è
mera trasmissione intellettuale di un messaggio, ma “potenza di Dio per la
salvezza di chiunque crede” (Rm 1, 16), attuata una volta per sempre in
Cristo». Nota acutamente S. Agostino: «Se non mi rendi migliore di quello che ero, perché mi parli?». Da un punto di vista pratico, ciò significa che
i predicatori dovrebbero concepire il loro ministero come un lavoro che si
propone di intervenire sui destinatari, per provocare un cambiamento.
Ancora più concretamente: quando il predicatore prepara la sua omelia,
dopo l’analisi preliminare dei testi biblici e del contesto liturgico, sulla base
della situazione pastorale della comunità a cui si rivolge, dovrebbe fissare
l’obiettivo della sua omelia. Dovrebbe chiedersi non, anzitutto: «Che cosa
vado a spiegare domenica in chiesa?», quanto piuttosto: «A quale cambiamento la nostra comunità è chiamata dal Signore, nella celebrazione a cui
mi sto preparando?». La preparazione di un’omelia, infatti, consiste in una
serie di scelte che hanno lo scopo di intessere questa predica. Ma in base a
quale criterio si faranno le scelte? L’aver presente con chiarezza fin dall’inizio l’obiettivo, al cui servizio si pone il proprio discorso, impedisce che il
criterio della scelta sia lasciato o al caso o a ciò che risulta più agevole e gradevole al predicatore. E l’obiettivo, come abbiamo visto, deve essere una
trasformazione da provocare nei destinatari.
Certo, adottare questo punto di vista, significa trovarsi davanti ad un
compito esigente, che richiede meditazione della Parola, preghiera perso-
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nale di ascolto e discernimento pastorale. E ciò comporta che alla preparazione dell’omelia va dato un tempo adeguato. Naturalmente conosco bene,
anche per esperienza pastorale, quale sia il carico di impegni di un prete
nella situazione odierna, e tuttavia credo che alla predicazione vada data
una priorità molto alta. Come viene continuamente ricordato, per la maggior parte dei fedeli è proprio la predica l’unica, o quasi, occasione di nutrimento sostanzioso della fede a cui attingere: merita dunque ogni cura. La
mia osservazione diretta sul campo mi porta a ritenere che alla preparazione dell’omelia viene dato un tempo inadeguato di preparazione: nei casi
peggiori tale preparazione si limita a un’occhiata al brano di vangelo assegnato per la celebrazione e a qualche riflessione affrettata su come organizdialoghi n. 4 dicembre 2006
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zare su di esso un qualche discorso. Mi ha molto colpito un colloquio con
un pastore protestante: nel contratto di servizio stabilito con la comunità
di cui era al servizio gli veniva concessa un’intera giornata per preparare il
sermone. Pur tenendo conto che l’omelia cattolica non coincide in tutto
con il sermone protestante, è auspicabile che i preti possano dedicare un
tempo adeguato per preparare l’omelia, attribuendo a tale ministero tutta
l’importanza, e di conseguenza la cura, che esso richiede.
L’esigenza di una adeguata preparazione appare ancora più urgente se
si tiene conto che l’omelia va concepita e preparata come parte integrante
della celebrazione liturgica5. Ora il Messale del Concilio Vaticano II non è
come quello che lo ha preceduto: esige che la celebrazione venga adeguata
alla concreta comunità celebrante mediante tutta una serie di scelte di
grande importanza, che riguardano il prefazio e la preghiera eucaristica,
l’orazione iniziale (colletta) e l’atto penitenziale, eventuali monizioni e
introduzioni e tanto altro ancora. Tra coloro che si occupano di pastorale
liturgica si parla correntemente di “regia liturgica” per indicare questa
responsabilità che ha colui che presiede la celebrazione e i suoi collaboratori. Ora, essendo l’omelia non un corpo a sé stante, ma come s’è detto,
parte integrante della celebrazione, la preparazione dell’omelia deve avvenire in costante dialogo con le scelte di regia liturgica. Non basta l’attenzione alle letture bibliche, anche se il rapporto con esse qualifica in maniera prioritaria l’omelia, ma a tutta la celebrazione: la predica deve assecondarne il contesto, così come le scelte del contesto devono tener conto di
quella che sarà l’omelia. Solo così si eviterà che si crei una situazione nella
quale l’omelia apparirà come una breve conferenza, con una cornice di riti
avvertiti come meno significativi. Al contrario, la celebrazione nel suo
insieme trasmetterà all’omelia il suo alto livello religioso di
mediazione del parlare di Dio, mentre l’omelia sarà un fatLa celebrazione nel suo tore determinante perché la parte rituale non decada in
insieme trasmetterà ritualismo svuotato del suo significato.
all’omelia il suo alto
livello religioso di L’omelia come comunicazione
mediazione del parlare
I ragionamenti sulla necessità di fissare un obiettivo per
di Dio, mentre l’omelia l’omelia, e la collocazione di questo obiettivo dentro i destisarà un fattore natari, ci porta a sottolineare un terzo problema con cui la
determinate perché la predicazione deve misurarsi. Si tratta della qualità comuniparte rituale non decada cativa della predica. Il Concilio Vaticano II ha comportato
in ritualismo svuotato una profonda, e benefica, trasformazione della preparazione
del suo significato. dei futuri preti. Ciò ha richiesto una dilatazione sia in quantità che in profondità delle materie di insegnamento, e si
sono dovute fare delle scelte. Una è stata quella di togliere l’insegnamento,
che generalmente c’era anche se non sempre in maniera adeguata, di quel-
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la che veniva chiamata “oratoria sacra” o “sacra eloquenza” o con altro
nome. Ci stiamo accorgendo che è stata una scelta affrettata e mentre scrivo ho motivo di credere che il nuovo ordinamento degli studi nei seminari, che è in procinto di essere pubblicato, reintrodurrà questo insegnamento. Non è vero che se si sa quello che si vuole dire, certamente si riesce a dirlo anche in maniera adeguata ed efficace. A partire dalla metà del
secolo scorso, gli studi sulla comunicazione si sono moltiplicati in maniera tumultuosa, accumulando una notevole quantità di competenze e di
saperi, al punto che sono sorte Facoltà di Scienze della comunicazione.
Un caporeparto di azienda, un impiegato di banca che sta allo sportello,
una telefonista di una organizzazione, per non parlare di giornalisti e di
speaker della radio o della televisione, fanno dei corsi di addestramento ad
una comunicazione efficace e corretta. Ebbene, per quanto la cosa risulti
sorprendente, la grande maggioranza dei preti non è entrata in contatto
con questo patrimonio che dovrebbe essere così importante per chi deve
comunicare continuamente per lo svolgimento del proprio ministero e,
naturalmente, anche nella comunicazione.
Parlavo del tempo inadeguato dedicato da molti preti alla preparazione dell’omelia. Ma se ad un prete si chiede: del tempo che dedichi a preparare la tua predica, quanto ne impieghi a decidere quale sarà il contenuto del tuo messaggio, e quanto a decidere quale deve essere la forma più
adeguata per far passare quel messaggio, normalmente ci si trova davanti a
una espressione tra il sorpreso e l’imbarazzato. Segno che il problema del
come comunicare in maniera efficace e non è tenuto nella debita considerazione. Data la mia attività di insegnamento e di animatore di corsi di
aggiornamento del clero riguardanti la predicazione, ho esaminato molte
centinaia di omelie, registrate, a volte anche videoregistrate, e trascritte.
L’onda della riforma del Vaticano II ha portato, generalmente, ad un livello accettabile un numero rilevante di omelie, se le si considera dal punto
di vista del contenuto. Ma dal punto di vista della comunicazione non si
può dire altrettanto. Accettando come progetto il medesimo contenuto,
se si interviene sulla qualità comunicativa, molte omelie migliorerebbero
in efficacia in maniera considerevole. Faccio un solo esempio, tra i molti
possibili. L’inizio di un’omelia, come sottolineano tutti gli studi sulla
comunicazione in pubblico mediante la parola, decide di quanta attenzione verrà accordata a quanto segue. Le prime frasi, il primo minuto e
mezzo di una predica dovrebbe essere concepito per destare e attirare l’attenzione, per motivare l’ascolto e per orientare i destinatari verso quello
che sarà il messaggio che si intende comunicare. Per fare ciò l’inizio dell’omelia deve essere concepito con alcune caratteristiche che non sono le
medesime di un passaggio a metà omelia o della sua conclusione.
L’osservazione può apparire ovvia, e in parte lo è. Ebbene, nella gran parte
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dei casi delle molte omelie che ho potuto esaminare, il predicatore sembra
o non essere avvertito del problema o di non saperci fare. Il risultato inevitabile è la perdita di attenzione e la riduzione di efficacia della sua fatica.
Quando ci si occupa di questo aspetto ci si imbatte in una certa resistenza in molti preti: essi hanno quasi l’impressione che imparando il
“mestiere” di come si comunica in maniera efficace, si finisce per diventare manipolatori delle coscienze altrui. Naturalmente chi vuole manipolare
il prossimo approfitterà delle molte conoscenze sulla comunicazione che
possediamo. Ma la preoccupazione di diventare “professionisti” della
comunicazione dovrebbe far parte di quella che viene chiamata la “carità
pastorale”, e cioè l’atteggiamento e la volontà di servizio nella fede che
deve caratterizzare l’impegno di un prete6. Mentre prepara la sua predica,
egli, mentre opera le scelte necessarie a costruire il suo discorso, deve continuamente chiedersi: «Perché coloro a cui mi rivolgerò, tenendo conto
della loro situazione reale, dovrebbero provare interesse per quello che mi
propongo di dire loro, così da starmi ad ascoltare?»; e ancora: «Se mi concederanno la loro attenzione, quale vantaggio ne avranno per la loro esistenza concreta?»; e ancora: «Quali domande potrebbero sorgere in loro
mentre svolgo questo passaggio della mia predica, e come posso andare
loro incontro con delle risposte adeguate e persuasive?». Data la formazione dei preti, che prevede studi filosofici e teologici fortemente orientati al
contenuto, l’attenzione alla forma del comunicare risulta debole. Se, esaminando l’omelia di un prete, gli si chiede: «Quale era lo scopo della sua
predica»? Nella quasi totalità dei casi la risposta indicherà i contenuti dell’omelia. Ora dovrebbe essere chiaro che i contenuti sono gli strumenti di
quell’azione che è l’omelia, mentre lo scopo va individuato dentro coloro
che ascoltano e a servizio dei quali l’azione omiletica deve essere svolta.
Non che il contenuto non sia importante, al contrario, ma esso va pensato in funzione e a servizio dei destinatari, e come tale va pensato. È questo
spostamento di attenzione dal predicatore, dai suoi stati d’animo, e dai
contenuti in cui egli si ritrova più agevolmente, verso i destinatari della
predica, verso le loro gioie e le loro speranze, le loro tristezze e le loro
angosce7, che può provocare un notevole miglioramento qualitativo della
predicazione. Poiché essa è a servizio di una Parola che è «per noi uomini
e per la nostra salvezza».
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Note
1
R. Beretta, Da che pulpito... Come difendersi dalle prediche, Piemme, Casale
Monferrato, 2006.
2
Congregazione per il clero, Il presbitero, maestro della parola, ministro dei sacramenti e guida della comunità in vista del terzo millennio cristiano, 19 marzo 1999,
cap. II, n. 1.
3
Ivi (“Sia uno che prega prima di mettersi a parlare”).
4
Messale Romano, preghiera colletta XIV per le ferie del tempo ordinario, p.
1020.
5
Cf n. 52 della Costituzione conciliare sulla Liturgia: Sacrosantum concilium.
6
Nella rivista che dirigo, Servizio della Parola, sto pubblicando una serie di articoli che applicano alla predicazione le regole per una comunicazione efficace
mediante la parola rivolta ad un “pubblico”.
7
Cfr. la Costituzione conciliare Gaudium et spes, n. 1.
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Testimonianze/ Riaccendere la speranza in mezzo ai conflitti,
tra memorie ferite da guerre troppo recenti, nel cuore delle
differenze etniche e religiose: un’esperienza di prossimità
internazionale suggerisce una riflessione sulle vie concrete
della testimonianza di Gesù risorto. E spesso si tratta di vie su
cui si infrangono le armonie troppo geometriche di un dialogo
concepito astrattamente.
Come comunicare
la speranza?
S
Mario Ravalico e Stefano Ravalico
i parla con molta facilità oggi di dialogo, soprattutto di dialogo interculturale e anche interreligioso; si parla molto di speranza e di come comunicare questa agli uomini di oggi nel concreto della loro vita e della loro storia. Ma la comunicazione e il
dialogo non possono essere costruiti a tavolino, attraverso le
discussioni, nelle tavole rotonde o in altri consessi, pur importanti. Il dialogo va invece costruito entrando nella vita degli
uomini d’oggi, partendo dalla loro situazione e dalla loro storia,
dalle vicende che hanno segnato la loro vita. È da qui che può e
deve partire un messaggio di speranza. È una grande fatica, questa, che ha bisogno di molta pazienza, di grande rispetto unito a
tanta perseveranza.
Ci attardavamo in queste semplici riflessioni riconsiderando
una esperienza internazionale che ancora stiamo vivendo con
passione assieme ad altri operatori della Caritas diocesana di
Trieste, un’esperienza non spettacolare, feriale, come tante altre
che fioriscono nelle Caritas di tutta Italia e certo non esclusivamente in questi contesti, in cui le Chiese locali si fanno carico
di povertà vicine e lontane. È un’esperienza che tuttavia può
essere un banco di prova stimolante proprio perché ci invita a
misurare la testimonianza con parametri non nostri, con parametri stranieri. La terra straniera con cui misurarsi è in questo
caso quella tormentata di Bosnia ed Erzegovina, è la città di
Mostar, luogo di un’esperienza che appunto ci ha segnato e continua a segnarci nella nostra mentalità e nello stile del nostro dia-
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Mario Ravalico
è direttore della Caritas
di Trieste. È stato
presidente diocesano
dell’AC di Trieste.
Stefano Ravalico
segue il progetto
Caritas-Mostar.
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MARIO RAVALICO E STEFANO RAVALICO
logo, ma che anche ci aiuta a interrogarci continuamente sul senso del
nostro servizio e sul significato del nostro “andare” in una realtà così
diversa dalla nostra, diversa per storia, cultura, sensibilità, anche per religione.
Siamo presenti anzitutto in una “realtà di Chiesa” – come è la Caritas,
anche a Mostar –, offrendo una contributo a una delle tante opere-segno
che quella diocesi sta portando avanti non senza fatica. Si tratta di una
struttura di accoglienza per bambini e ragazzi disabili gravi (psichici e fisici), che concretizza l’impegno della Chiesa locale verso gli ultimi. Le persone che incontriamo a Mostar sono sì bisognose di molto, soprattutto di
tanta amicizia, comprensione, prossimità, anche aiuto materiale; soprattutto però bisognose di trovare e incontrare altre persone che sappiano
“capire”, che sappiano amare e perciò che sappiano condividere, da pari –
non da insegnanti, non da vincenti – cammini concreti, anche se faticosi.
Cammini che conducano anzitutto verso una piena cittadinanza, e forse,
domani, anche verso la riconciliazione: con le persone, ma anche con la
loro storia presente e passata.
Quando nel 2002 siamo andati per la prima volta in Bosnia ed
Erzegovina, ospiti del vescovo di quella Chiesa locale, non sapevamo che
cosa avremmo trovato in quella realtà, che pensavamo di conoscere, almeno un po’, dai giornali, dai libri, dalle tante testimonianze scritte e che ci
erano state raccontate. Sapevamo soprattutto che in quella realtà, che sbrigativamente dicevamo Bosnia (e non invece Bosnia ed Erzegovina, come
realmente è), dopo la tremenda guerra – che era stata scatenata dai
Grandi, non dalla gente sicuramente, e dopo gli “accordi di pace” imposti
– c’era bisogno di pace vera, più ancora di riconciliazione dei cuori; magari inconsapevolmente, forse ingenuamente pensavamo che avremmo
dovuto andare là a “parlare” il linguaggio appunto della riconciliazione,
portando la nostra testimonianza e dicendo che dovevano convivere assieme i tre popoli costitutivi di quel Paese: i croati, i serbi, i mussulmani; tre
popoli, ma anche tre storie profondamente diverse e tre religioni. Poi,
invece, arrivati sul posto, finalmente immersi nella concretezza, frequentando a lungo e con continuità quei luoghi, incontrando persone della
nostra stessa fede o anche di fedi e culture diverse dalla nostra, ci siamo
accorti che le cose stavano molto diversamente da come ce le avevano raccontate, diverse da come ce le eravamo immaginate: chi aveva subito
dolori, lutti, fatiche, disagi inenarrabili, a prescindere dalla sua etnia e il
più delle volte non per causa propria, non poteva essere giudicato; non si
potevano spendere con sufficienza parole come “dialogo” tra diversi,
“riconciliazione” o simili; quelle persone, quelle realtà, quei popoli andavano semplicemente amati così com’erano, con le ragioni e i torti che
potevano avere, con i lutti e le morti che portavano nel loro animo; non si
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poteva «insegnare» loro la pace, il guardare avanti parlando di «convivenza»
e di «interculturalità». Certe parole andavano usate con parsimonia, anche
nel positivo tentativo di comunicare un po’ di speranza per il domani.
Era urgente quindi ascoltare e accogliere le persone come erano, con
pazienza appunto, con rispetto, con umiltà, donando loro quel poco di
cose che potevamo e quel tanto di attenzione prima e di amicizia poi che
hanno fatto il vero miracolo della nostra esperienza di missione a Mostar;
lì l’impegno si è articolato su vari livelli: il sostegno all’accoglienza di alcuni bambini al Centro di riabilitazione “Sacra Famiglia”, il sostegno economico garantito nel tempo per qualche operatore locale, la costruzione di
un ambulatorio dentistico completo per la cura dei denti dei ragazzi disabili ospiti di quel Centro, l’accompagnare da Trieste verso Mostar una
equipe medica che, con continuità, andava e va ancora per la cura dei
denti; ma anche l’ospitare qui, da noi, in Italia, alcuni gruppi di giovani
venuti ad animare nelle nostre parrocchie le esperienze estive dei nostri
ragazzi, offrendoci – tra l’altro – una esemplare esperienza di fede; il favo-
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rire il contatto con le nostre esperienze di carità presenti in diocesi… Un
lavoro basato soprattutto sulla reciprocità, sullo scambio dei doni, non
sull’assistenza e sull’aiuto materiale soltanto, un lavoro che ha inteso scardinare un modello unilaterale di prossimità (noi-verso-loro) che il più
delle volte rischia di umiliare e di ferire.
Ed è stata per noi una grande lezione di vita perché abbiamo capito
che il linguaggio che ci univa, attraverso il quale si poteva “comunicare” e
lavorare assieme, era ed è proprio quello della testimonianza e della speranza. Un linguaggio pratico, concreto, che nel tempo ci ha permesso di
costruire “ponti” (non il ponte vecchio di Mostar) là dove c’erano solchi
anche profondi, «vicinanza» là dove prima c’erano diffidenza e forse anche
sospetto, sicuramente durezza e incomprensione. Sono questi, forse, i veri
miracoli della Provvidenza che arriva là dove noi non pensiamo di poter
arrivare o, meglio, non siamo – da soli – capaci di arrivare.
L’esperienza ci ha aiutato anche a rimeditare le coordinate reali della
dimensione interreligiosa e interculturale. Certamente il progetto della
Caritas diocesana di Trieste, andando a Mostar, presso la locale Caritas,
era quello di “andare ad aiutare”, forse non sapendo bene dove e in che
cosa; certamente si intendeva aiutare le realtà ecclesiali prima di tutto,
realtà che in qualche modo sentivamo “nostre”, più vicine a noi. Me si
trattava di una preferenza quasi obbligata, perché – ci fu detto e fatto capire, inizialmente – che non era opportuno pensare di aiutare anche altre
realtà presenti in quei territori: i musulmani, i serbi, i Rom, ad esempio.
Si capiva che ciò non era gradito, o meglio non sarebbe stato capito il perché della nostra iniziativa. Vedevamo che non c’erano rapporti strutturati
con realtà istituzionali del territorio, e non capivamo il
perché di questa situazione – che per certi versi era persino
una scelta – che avevamo trovato; una sorta di dialogo ine- In questo contesto
sistente, di rapporti anche di vicinato mancati, di presenza eravamo chiamati a
dell’altro non vista... La separatezza, ai nostri occhi era parlare di pace, di
marcata, vistosa, una separatezza non solo dovuta alla pre- dialogo, a pronunciare
senza del fiume – la Neretva – che separa la parte Est della proprio quella parola –
città, quella più vecchia abitata dai musulmani, dall’altra riconciliazione – forse
parte della città, quella abitata più densamente dai croati. senza capire mai fino in
C’era un solco, e lo si capiva, nei rapporti tra persone, fondo la sua durezza e la
nella loro storia, nella loro vita passata attraverso prove difficoltà a viverla fino in
durissime. C’erano silenzi assordanti. Ad esempio, a noi fondo con coerenza, ad
sembrava impossibile che nessuno a Mostar, ma proprio incarnarla.
nessuno, ci parlasse e ci dicesse dove era il luogo in cui,
nella città vecchia, tre operatori della Rai, nostri concittadini, per proteggere un bambino, erano stati uccisi il 28 gennaio del 1994, mentre quel
bambino raccontava loro come vivevano i ragazzi durante quella guerra.
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COME COMUNICARE LA SPERANZA
Perché, questi silenzi, queste assenze di memoria, queste divisioni, questi
rancori, forse? Perché? Noi non capivamo. In questo contesto eravamo
chiamati a parlare di pace, di dialogo, a pronunciare proprio quella parola
– riconciliazione – che tante volte, qui da noi, anche nei nostri percorsi
formativi abbiamo sicuramente ripetuto, forse senza capire mai fino in
fondo la sua durezza e la difficoltà a viverla fino in fondo con coerenza, ad
incarnarla. Questo, per noi, era il banco di prova della nostra umanità e
fraternità, prima di tutto, ma anche della nostra fede, che su questo crinale interreligioso, interculturale ed interetnico veniva messa in discussione.
Ma come comunicare speranza, in questa situazione?
Dicevamo però del “miracolo”, del cambiamento a cui abbiamo assistito e che, noi e loro, stiamo tuttora vivendo, negli atteggiamenti, nella
prospettiva e nelle attenzioni diverse; possiamo parlare di un cambiamento culturale, di un clima nuovo che si sta sviluppando: abbiamo visto crescere piano piano, ma con vigore, la voglia di aprirsi anche all’altro,
“diverso” per cultura, storia, fede. E non è poco, questo. Abbiamo visto
un impegno nuovo di dialogo e di collaborazione nascente tra la realtà dei
nostri amici cattolici di Mostar ed altre realtà religiose di quel Paese che,
come loro, sono impegnate ad esempio nella cura dei bambini disabili;
abbiamo visto nascere un rapporto di leale compartecipazione delle strutture sanitarie statali – laddove ieri nemmeno si poteva immaginare – alle
strutture similari della Chiesa locale e della Caritas. Al centro, come
“ponte”, per l’aiuto alle persone e famiglie deboli e povere. In tutto questo
la stessa Caritas di Mostar sta maturando attenzioni nuove, verso realtà
che prima non venivano prese in considerazione.
Certo, il loro non è un cammino semplice, non concluso ancora, spesso a rischio, che però si sta sviluppando con impegno e grande passione; è
un cammino che mette veramente al centro la persona – qualunque sia la
sua provenienza – e la sua dignità, che tenta di andare oltre alla semplice
tolleranza, facendo del dialogo e dell’accoglienza reciproca uno strumento
nuovo di sviluppo per il domani. Il domani rimane ancora fortemente
incerto, ma il dialogo fatto anzitutto di gesti, di opere-segno e solo poi di
elaborazione e di parole resta l’unico metodo umano possibile per percorrere il cammino della storia degli uomini e delle donne di quel paese.
Il dialogo si sta facendo testimonianza, e si sta sviluppando anche
all’interno della Chiesa che è in Bosnia ed Erzegovina, concretizzandosi in
messaggi operativi di speranza (pensiamo alle scuole interetniche fondate
a Sarajevo dal vescovo ausiliare mons. Pero Sudar), in processi lenti e
pazienti di reciproco riconoscimento che tengono conto dei vissuti delle
persone, soprattutto delle persone più provate, com’è per quasi tutti coloro che vivono in quel territorio; perché là tutti – cattolici, ortodossi,
musulmani – hanno avuto i propri morti e i propri dolori. Il dialogo ha
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MARIO RAVALICO E STEFANO RAVALICO
quindi anche il volto di un grande rispetto dei tempi umani dell’elaborazione della sofferenza, ben sapendo che i tempi della riconciliazione non
sono i tempi della storia. Talvolta, se ripensiamo alla nostra stessa storia di
persone nate e vissute su una frontiera tormentata – che ha visto protrarsi
gli effetti della seconda guerra mondiale ben oltre le date storiche che ne
hanno segnato la fine – ci stupiamo della fretta che oggi vorremmo mettere ad altri popoli nei processi di riavvicinamento.
Riflettendo su tutto questo ritornavano in mente le parole dette dal
vescovo ausiliare di Sarajevo, mons. Sudar, nell’omelia della S. Messa in
occasione della sua ordinazione episcopale, quando allora pochissimi
vedevano un senso nella collaborazione e nella convivenza tra popoli in
guerra in Bosnia; allora, dire qualcosa a favore degli altri era considerato
tradimento del proprio popolo. In quel clima il vescovo invitava a meditare: «La Chiesa cattolica in questo paese non ha né argento né oro per comperare i corruttibili, né la forza per fermare i violenti e così proteggere gli
innocenti. Però, ciò che abbiamo, vogliamo darlo a tutti senza distinzioni
e separazione tra loro. Vogliamo offrire a tutti la nostra disponibilità a soffrire con voi e per voi... solo unione e collaborazione nel bene ovunque
possiamo e rifiuto della logica dell’odio imposta può portarci alla pace e
libertà. Noi oggi non possiamo pregare per la Chiesa e non pregare per
questo paese, non possiamo e non vogliamo pregare per i cattolici senza
nello stesso tempo pregare e lavorare per il bene di tutti gli uomini, con
cui in questa terra da secoli condividiamo il bene e il male». Queste parole forti dette allora – era il gennaio 1994 – oggi hanno ancora un profondo significato: sono per noi il faro che orienta la nostra azione e la nostra
testimonianza in quel paese, sono per noi l’emblema di quel seme che
deve morire perché poi porti frutto. Ancora una volta il dialogo da
costruire e la speranza da trasmettere solcano le vie umili e spesso fangose
della concretezza della vita. Anche questa, forse soprattutto questa, è
incarnazione.
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La ricerca scientifica promette soluzioni ragionevoli per la
produzione di energia da fonti alternative.Tuttavia, nessuna fonte
energetica da sola sarà in grado di soddisfare tutto il fabbisogno
mondiale; piuttosto, una diversificazione basata su fonti
rinnovabili e pulite, che rispondano alle caratteristiche locali
delle varie comunità, sarà la chiave per una soluzione duratura.
Energia,
la sfida del Sole
EVENTI
& IDEE - ENERGIA, LA SFIDA DEL SOLE
E& I
Vanni Lughi
L
a questione energetica è un tassello fondamentale del complesso intreccio di relazioni tra salute, stabilità economica,
disponibilità di acqua e cibo, educazione, stabilità demografica e, appunto, energia. Per quanto qui nel nostro guscio sicuro ciò non si percepisca, su scala globale la disponibilità di energia è
oggi scarsa, generando conflitti armati legati al dominio sulle risorse
energetiche, o lasciando due miliardi di persone senza accesso ad illuminazione adeguata, con conseguenze gravissime in termini di educazione, sicurezza e salute.
Ma il quadro futuro sembra ancora più problematico: la domanda
energetica globale è destinata ad
aumentare1, e mantenendo il corso Vanni Lughi
attuale delle cose l’offerta non potrà è ricercatore post-dottorato al
reggere questo tasso di crescita, Dipartimento di Materiali dell’Università
nemmeno contando sul probabile della California a Santa Barbara. Ha
futuro incremento dell’efficienza pubblicato, con D. R. Clarke, Defect
nella produzione2. Su questo fronte, and Stress Characterization of AlN Films
tuttavia, ricerca e sviluppo si stanno By Raman Spectroscopy. Applied
dando da fare: celle a combustibile Physics Letters (in stampa); e High
o motori e turbine più efficienti, Temperature Aging of YSZ Coatings
per esempio, sono argomenti molto and Subsequent Transformation at
caldi in tutti i settori delle scienze e Room Temperature. in “Surface
delle ingegnerie. Ma alla fin fine Coatings and Technology”, 200 [5-6]
produrre energia bruciando meno 1287-1291 (2005).
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VANNI LUGHI
petrolio, carbone o gas è – nel caso migliore – soltanto una soluzione
temporanea (nessuno sa dire con precisione quando, ma tutti concordano che queste risorse si esauriranno), ed anche nel breve periodo
potrebbe non essere la via d’uscita in grado di soddisfare la crescente
sete di energia. Questo vale in particolare nei paesi in via di sviluppo,
dove è scarsa la disponibilità sia di combustibili fossili che di capitale
per l’acquisto o la produzione di tecnologie avanzate. Considerato che
proprio nei paesi in via di sviluppo si concentrerà la maggior parte della
crescita del bisogno energetico nel prossimo futuro, è necessario analizzare le varie soluzioni alla questione energetica anche alla luce della loro
applicabilità in tali paesi. Osserviamo subito che affidarsi pesantemente ai combustibili fossili (oggi forniscono circa l’80% del fabbisogno
energetico mondiale) non risponde certo a questo criterio.
Una drastica riduzione dell’uso dei combustibili fossili è pure resa
urgente dalla necessità di diminuire le emissioni di anidride carbonica
nell’atmosfera, probabilmente causa primaria dell’anomalo aumento
della temperatura media della terra con effetti potenzialmente drastici
e duraturi sul clima terrestre3. Altri sottoprodotti dell’uso di combustibili fossili, come pulviscolo ed ossidi di azoto e zolfo, sono associati a
severe conseguenze sulla salute della popolazione oltre che sull’ambiente. I costi sociali di questi effetti, per esempio quelli sanitari, sono
incalcolabili.
Quest’ultima serie di considerazioni richiama il legame spesso
dimenticato tra ambiente, società ed economia: se da un lato il prezzo
di mercato dell’energia prodotta da combustibili fossili è oggi il più
conveniente, dall’altro questo non tiene conto dei costi sociali ed
ambientali che in qualche modo siamo costretti a pagare comunque, ad
esempio attraverso tasse o premi assicurativi più alti per finanziare costi
sanitari maggiori.
Ma se l’orizzonte dei combustibili fossili è così grigio, qual è lo stato
attuale dell’energia prodotta da fonti alternative, e quali le prospettive
di breve e lungo termine? Nel seguito ho scelto di non ragionare né
sulla promettente e controversa energia nucleare, né di fonti rinnovabili relativamente mature come biomassa, energia eolica ed idroelettrica,
né di idrogeno, in quanto vettore piuttosto che fonte di energia. Per
quanto questi siano argomenti fondamentali nel comprendere a fondo
la questione energetica, ho preferito concentrarmi sulla fonte che ritengo abbia il maggior potenziale di sviluppo nel futuro a breve e lungo
termine: l’energia solare.
La conversione diretta di radiazione solare in elettricità, basata sull’effetto fotovoltaico, contribuisce oggi solo per una percentuale minima del fabbisogno energetico. Tuttavia, la crescita dell’industria del
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&I
fotovoltaico è stata in anni recenti del 35% annuo, indicando chiaramente che l’energia solare sarà un’importante pedina nello scacchiere
energetico dei prossimi decenni. Il sole è accessibile ed abbondante, particolarmente nelle zone geografiche dove si trova la maggior parte dei
paesi in via di sviluppo; la produzione di energia solare può essere distribuita piuttosto che concentrata in grandi centrali (ovunque nel mondo
gli edifici potrebbero avere pannelli solari sul tetto), con vantaggi di stabilità della produzione e di riduzione delle perdite di trasporto, oltre che
strategici. Inoltre, una volta assorbiti i costi di installazione dell’impianto solare, l’energia prodotta è essenzialmente gratuita.
Tuttavia la diffusione su larga scala, soprattutto nei paesi in via di
sviluppo, dovrà attendere ancora, giacché la produzione di celle solari
richiede infrastrutture e supporto tecnico molto raffinati, ed il costo
iniziale delle celle in sé è ancora elevato. Queste limitazioni, comunque, sono attribuibili alla relativa immaturità della tecnologia fotovoltaica, ed a differenza della maggior parte delle altre fonti di energia,
dove le tecnologie sono relativamente mature e vicine ai propri limiti
teorici, lo sfruttamento dell’energia solare offre ancora enormi margini
di miglioramento: le migliori celle solari ottenibili sul mercato (in silicio cristallino) convertono meno del 20% dell’energia solare che li
investe, a fronte di un 40% teoricamente possibile. Prototipi da laboratorio basati su raffinate architetture dei dispositivi, teoricamente capaci
di efficienze superiori al 60%, raggiungono oggi circa il 40% di efficienza, ma a costi proibitivi per la diffusione su larga scala. Il compromesso illustrato qui tra efficienza e costo rispecchia in effetti lo stato
attuale delle cose, ma non è un limite intrinseco di questa tecnologia, e
la buona notizia è che ci sono soluzioni in vista4.
Un’idea è quella di ridurre i costi riducendo la quantità di materiale “attivo” (in generale un semiconduttore, il quale media la conversione della radiazione solare in corrente elettrica) necessaria alla fabbricazione della cella fotovoltaica. Alcuni moduli solari basati su film sottili
(fino a millesimi di millimetro o meno) di semiconduttore sono già in
commercio, anche se il costo per unità di potenza non è ancora tale da
renderli competitivi rispetto all’energia convenzionale. In un altro
approccio il materiale attivo è un polimero semiconduttore; il vantaggio è che i polimeri (essenzialmente plastiche) sono economici ed i processi di lavorazione semplici. Celle solari basate su questa tecnologia
esistono già come prototipi5, e possono anche venire fabbricate su fogli
di plastica flessibile, prestandosi ad essere montate ovunque con facilità. La limitazione attuale di questo approccio è la bassa efficienza, che
si attesta a circa il 5%. Tuttavia, considerato il bassissimo costo della
materia prima, anche raggiungere un obiettivo come l’8-10%, ragione-
EVENTI
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VANNI LUGHI
vole nei prossimi 3-5 anni, renderà questa tecnologia molto competitiva ed adatta alla diffusione su larga scala anche in paesi in via di sviluppo. Infine, è importante menzionare l’utilizzo di materiali in cui le
strutture caratteristiche sono su scala nanometrica (nanometro: un
milionesimo di millimetro). Questo approccio è tra i più promettenti,
essenzialmente per la ragione che i meccanismi fisici che sottendono
all’effetto fotovoltaico avvengono a livello nanometrico, sicché la
recente capacità che i ricercatori hanno acquisito di controllare la
materia a questa scala può essere capitalizzata, offrendo un intero orizzonte di nuove possibilità.
Dunque, pur senza aver in alcun modo esaurito l’argomento, si può
dire che la ricerca scientifica sembra davvero promettere soluzioni
ragionevoli per la produzione di energia da fonti alternative in tempi
relativamente brevi. Tuttavia, nessuna fonte energetica da sola sarà in
grado nei prossimi decenni di soddisfare tutto il fabbisogno mondiale;
piuttosto, una diversificazione basata su fonti rinnovabili e pulite, che
rispondano alle caratteristiche locali delle varie comunità, sarà la chiave
per una soluzione duratura. Infine, la questione energetica non può
essere risolta guardando alla sola produzione: è fondamentale avviare
un rallentamento dei consumi, sia attraverso soluzioni tecnologiche
(apparecchiature, illuminazione, automobili, eccetera, ad alta efficienza), sia attraverso programmi di educazione, sensibilizzazione ed incentivi. Il coinvolgimento dei governi in questo necessario cambiamento
di rotta, per esempio con un sistema di tassazione ed incentivi che
favorisca il risparmio energetico e l’utilizzo di fonti rinnovabili e pulite,
sarà fondamentale e dovrà riconoscere l’inscindibilità delle ricadute
economiche, sociali ed ambientali della propria politica, sia energetica
che generale.
Note
1
Cfr. Rapporto del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (2005), disponibile su www.sc.doe.gov/bes/reports/files/SEU_rpt.pdf.
2
M. I. Hoffert et al., “Energy Implications of Future Stabilization of
Atmospheric CO2 Content”, in Nature 395, p. 881 (1998).
3
Ibidem.
4
Cfr. Rapporto del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (2005), cit.
5
Rif. Fraunhofer Institut für Solare Energiesysteme.
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EVENTI & IDEE - IL CASO TELECOM...
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L’economia di mercato e il valore della concorrenza non sono
nel Dna degli italiani. Segno che c’è ancora molto do ut des tra
mondo delle imprese e politica. La vicenda Telecom ha
ulteriormente evidenziato questa realtà. In un paese normale,
il Parlamento si sarebbe occupato del futuro delle
telecomunicazioni e non di quanto s’erano detti il presidente
della Telecom e il capo del Governo.
Il caso Telecom
e il capitalismo italiano
Giacomo Vaciago
S
appiamo da tempo che il nostro è un paese di “ricchi che possiedono povere imprese”, dove i soldi abbondano ma le buone
regole del capitalismo non sono rispettate (ne ho scritto sul
Mulino, numero 1 del 2006: “Capitali senza capitalismo”).
Troppa evasione fiscale, troppo familismo amorale, troppe protezioni
politiche: non valgono i teoremi che gli economisti usano per dimostrare che un’economia di mercato produce un ottimo sociale, cioè una
situazione non più migliorabile.
L’affaire Telecom conferma questa diagnosi e permette di aggiornarla.
Tre sono gli aspetti che merita ancora sottolineare. Il primo riguarda il
modo con cui dieci anni fa iniziavamo a riformare il nostro capitalismo.
Il secondo aspetto riguarda i rapporti tra economia e politica. Il terzo è il
futuro di un settore vitale per il paese come sono le telecomunicazioni.
Liberalizzare e privatizzare
Dopo la crisi valutaria del 1992
e pressati dalla necessità di ridurre
debito e deficit pubblico per essere
accolti nell’Euro, dieci anni fa
abbiamo avviato una nuova fase del
nostro capitalismo tuttora di grande
importanza. Si pone termine ai
monopoli pubblici prevalenti in
numerosi settori – dalle telecomu-
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Giacomo Vaciago
è professore ordinario di Politica
Economica e direttore dell’Istituto di
Economia e Finanza presso l’Università
Cattolica di Milano. Tra le sue
pubblicazioni: Per tornare a crescere:
intervista sul futuro dell’Italia, Il sole
24ore, Milano 2005.
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GIACOMO VACIAGO
nicazioni all’energia – e se ne dismettono in tutto o in parte le principali aziende. Lo facciamo seguendo Direttive europee volte a favorire
l’integrazione dei vari settori in un unico grande mercato europeo. Ma
lo facciamo senza aver prima disegnato un quadro di riferimento generale, che fissi obiettivi e politiche da realizzare; e senza aver chiarito le
priorità tra settori, e soprattutto tra liberalizzazioni e privatizzazioni,
cioè tra cosa il Governo fa “per far soldi” e cosa dovrebbe invece fare
perché migliori il funzionamento dell’economia. Il risultato è quindi
stato di qualità casuale, e molti arricchimenti privati che si sono verificati non hanno avuto alcuna giustificazione (continuo a pensare che
secondo l’etica del capitalismo l’arricchimento privato è giustificato se
serve anche agli altri!). La vicenda Telecom, da quando la privatizzazione dei telefoni inizia nel 1997, è emblematica di un capitalismo che tra
i vari modelli nazionali esistenti non è dei migliori. Perché abbiamo
visto il ricorso a tutti gli escamotages che impediscono ad una economia
di mercato di funzionare bene, dai “noccioli duri” alle “scatole cinesi”.
Mentre il valore della società si è dimezzato (ma non a spese di tutti e
di ciascuno!).
Economia e politica
Come in molte nostre aziende si confonde proprietà (degli azionisti) e controllo (da parte di quei pochi che esercitano il potere), così nel
paese si confonde economia e politica. E lo vediamo non solo nei grandi servizi pubblici, ma anche in aziende in teoria del tutto private.
L’essere la società quotata in borsa non costituisce alcuna remora a confusioni di quel tipo. Né ci giustifica il fatto che analoghe commistioni
esistano anche altrove, perché noi riusciamo spesso a far peggio, come
in questo caso è stato dimostrato un po’ da tutti gli attori della vicenda,
compresa la manifestazione di goliardia di altri tempi che hanno fatto
gli onorevoli di destra alle Camere.
Merita riflettere su tre aspetti, in parte connessi. Anzitutto, l’indebita commistione (tipica dei paesi sottosviluppati) che in questo paese
ancora si fa tra cose molto diverse rispettivamente rappresentate da:
imprese, padroni e ricchi. L’impresa è una macchina produttiva indispensabile al benessere ed alla crescita del paese. Tutto ciò che la favorisce o l’ostacola si riverbera sul benessere dei cittadini. Il “padrone” è
una figura già più controversa da un punto di vista sociale ed è comprensibilmente oggetto di atteggiamenti anche molto diversi. Il “ricco”
è ancora differente in termini di giustificazione e immagine. Per l’economista, la ricchezza di ciascuno di noi è più o meno giustificata a
seconda della qualità delle regole (più o meno rispettate) che presiedono all’accumulazione. Diciamo che c’è una bella differenza tra il Bill
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Gates che arricchisce per l’innovazione (e quindi la crescita-paese) di
cui è responsabile e lo speculatore che fa i soldi a spese del prossimo, in
modo più o meno lecito.
La seconda riflessione riguarda un aspetto di cui alcuni analisti
hanno fatto analisi approfondite: come si sono distribuiti guadagni e
perdite della società Telecom negli ultimi 5 anni? Invito a leggere due
brevi pezzi giornalistici, rispettivamente di Massimo Mucchetti sul
Corriere della Sera del 15 ottobre 2006 e del prof. Alessandro Penati
sull’Espresso del 26 ottobre 2006.
Il primo riassume le minusvalenze che Telecom e la sua controllante Pirelli hanno accumulato negli ultimi 5 anni e conclude sottolineando soprattutto un aspetto: «Si è bruciata ricchezza a fronte di una politica retributiva per i dirigenti tra le più generose d’Italia». Il prof. Penati
affronta un secondo aspetto: Pirelli e Telecom hanno perso – dall’estate del 2001 – il 40 ed il 31 per cento, in un periodo nel quale l’indice
della borsa è invece salito del 33 per cento. Tutti ci hanno rimesso?
Niente affatto: la complessità societaria data dalla volontà di esercitare
il controllo senza avere i capitali necessari e la gestione del massiccio
ricorso al debito che si era allora fatto hanno significato la fortuna di
banche d’investimento, consulenti e avvocati, che si sono spartiti
miliardi di euro a fronte di tutte le operazioni fatte.
Ma Penati sottolinea un aspetto ancora più grave. Da un lato, parcelle miliardarie possono attutire il dovere di controllo che advisor e
banche di investimento dovrebbero avere nei confronti dell’interesse di
tutti gli azionisti e non solo del management e/o del gruppo di controllo. Inoltre, non si può escludere che le banche di investimento che
agivano come advisor abbiano sfruttato le conoscenze così acquisite per
loro attività di trading e di investimento diretto. In altre parole, non
solo avremmo avuto un immeritato arricchimento di alcuni, ma anche
un danno all’efficienza del mercato.
Queste riflessioni portano al terzo e ultimo aspetto qui meritevole
di attenzione: i rapporti che necessariamente si instaurano con la politica quando vi sono elementi di debolezza come quelli prima ricordati.
Perché il problema non è solo quello di corretti rapporti con il
Governo (e magari anche con il Parlamento) che ogni grande impresa
– a maggior ragione se è presente in settori strategici – deve pur avere.
Il problema, come in questo caso, è invece quello di una situazione per
più motivi fragile, e quindi bisognosa di “consenso politico”. Ma allora
si ricade in un altro problema tipico italiano, che è quello della scarsa
importanza che attribuiamo ad una buona economia di mercato caratterizzata da molta concorrenza. Ho scritto sul Mulino (numero 5 del
2006) che «l’economia di mercato e il valore della concorrenza non
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sono nel Dna degli italiani. Non sono neppure alla base della nostra
Costituzione». E in effetti, lo vedono tutti che ancora c’è molto do ut
des tra mondo delle imprese e politica. La vicenda Telecom ha ulteriormente consolidato questa opinione: tutte e due le Camere hanno
discusso di cosa s’erano detti il presidente della Telecom e il capo del
Governo! In un paese normale, le Camere si sarebbero semmai occupate del futuro delle telecomunicazioni.
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GIACOMO VACIAGO
Il futuro delle telecomunicazioni
In tutto il mondo, questo è un settore di grande importanza caratterizzato da profonde trasformazioni, e da molta innovazione tecnologica. Da questi punti di vista, la situazione nel nostro paese non è inferiore a quella di tanti altri paesi sviluppati. E bisogna riconoscere che
Telecom ha saputo ben difendere con l’innovazione la sua posizione di
incumbent pur destinata ad essere erosa come in parte è già avvenuto
per effetto della concorrenza e della regolazione.
Alla recente confusione sulle strategie di questa società (separare o
meno la rete), aveva peraltro già contribuito una serie di incertezze da
parte della società stessa, con particolare riferimento alla scelta di integrare o meno telefonia fissa e mobile o di integrare invece la telefonia
con possibili contenuti mediatici. Negli ultimi 5 anni, la priorità attribuita al “controllo” da parte di chi non aveva capitali sufficienti ha
spesso pregiudicato l’evoluzione della società in una direzione più
moderna, mentre la situazione debitoria da parte del gruppo di controllo portava a ridimensionare il ruolo internazionale di Telecom (al
contrario di quanto facevano le maggiori società).
Alla fine, l’evoluzione più recente è stata caratterizzata più dalle
polemiche (vedi la lite con Palazzo Chigi, poi ripresa alle due Camere)
e dagli scandali (compresi quelli delle intercettazioni illegali): un destino immeritato da un’azienda all’avanguardia tecnologica del paese.
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EVENTI & IDEE - GUANTANAMO: IL LUOGO DEL NON DIRITTO
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È necessario non far passare sotto silenzio alcuno dei
preoccupanti passi indietro che nel mondo contemporaneo si
compiono nel campo del rispetto della dignità della persona. E
augurarsi che la più grande democrazia del mondo mantenga
vivi gli anticorpi contro le violazioni dell’umano, di cui
talvolta si fa protagonista.
Guantanamo:
il luogo del non diritto
Roberto Cisotta
G
li Stati Uniti tengono reclusi nelle prigioni della loro base
navale di Guantanamo Bay a Cuba, fin dai primi mesi del
2002, alcune centinaia di prigionieri, sospettati di terrorismo. Con il lancio della guerra al terrore, si è deciso di
applicare a tutti questi casi una norma del diritto internazionale bellico
– anche se non tutti gli internati sono stati catturati nel corso di operazioni in teatro di guerra –, che permette di trattenere i prigionieri senza
un’accusa a carico fino alla fine delle ostilità (art. 118 della Terza
Convenzione di Ginevra del 1949 sul trattamento dei prigionieri di
guerra). Ma quando si concludono le ostilità nella guerra al terrore? È
stata una mossa unilaterale dell’Amministrazione statunitense: un’operazione carica di ambiguità tecnicogiuridiche e politiche. Ed anche
riguardo alle poco rassicuranti noti- Roberto Cisotta
zie, che già dai primi tempi trapela- è dottorando di ricerca in Diritto
vano sul trattamento dei prigionie- dell’Unione Europea nell’Università di
ri, l’Amministrazione aveva pronta Trieste; è membro del Comitato
una giustificazione al proprio ope- esecutivo dell’Istituto di Diritto
rato: l’installazione militare e le car- Internazionale della Pace “G. Toniolo”.
ceri si trovano nella parte sud Tra le sue pubblicazioni più recenti: Le
dell’Isola Caraibica, grazie ad accor- violazioni dei diritti umani e del diritto
di di affitto intercorsi in un lontano umanitario nelle prigioni di Guantanamo,
passato tra Cuba e Stati Uniti in “I Diritti dell’uomo - cronache e
d’America, e lo Stato non è obbliga- battaglie”, 2/2006, pp. 59-68.
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dialoghi n. 4 dicembre 2006
ROBERTO CISOTTA
to – sempre secondo l’Amministrazione – al rispetto dei diritti umani
se non su territori sui quali esercita una piena sovranità. Grazie ai
poteri speciali conferiti al Presidente dopo l’11 settembre 2001, è
stato emanato un presidential military order, e in seguito altri atti, di
provenienza quasi sempre governativa, secondo i quali la durata della
detenzione in quei campi di prigionia è rimessa alla discrezionale
valutazione del Presidente. Intanto i pochi reclusi sottoposti ad un
processo si ritrovano davanti a military commissions composte da soggetti con competenze legali non verificate e nominati dall’esecutivo.
Lo sconcerto cresce se si considerano le ordinarie condizioni di
detenzione. I detenuti sono sottoposti ad offese della loro sensibilità
religiosa, internamento in celle-gabbia, controllo forzato sui bisogni
primari della persona, restrizioni all’uso di quanto necessario per l’igiene personale, mantenimento in ambienti con “temperature estreme” ed esposizione forzata alla luce e al buio in modo tale da turbare
il ciclo sonno-veglia. Queste e altre torture hanno quasi sempre l’obiettivo di ottenere informazioni su Al-Qaeda, fornendo le quali si
viene ricambiati con condizioni di vita più miti (anche se non è stata
smentita l’antica regola secondo cui le informazioni ottenute sotto
tortura spesso non rispondono al vero). Questa prassi è ampiamente
documentata dalle indagini di diverse Organizzazioni non governative (Ong) e di recente si è anche aggiunta la pubblicazione di due
documenti che la confermano ulteriormente: si tratta del Rapporto
dei cinque esperti, incaricati dalla Commissione per i Diritti Umani
dell’Onu di indagare sulla condizione dei detenuti di Guantanamo,
pubblicato il 15 febbraio 2006 e delle Conclusioni e Raccomandazioni
rivolte agli Stati Uniti dal Comitato contro la tortura (istituito dalla
Convenzione contro la Tortura ed altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti del 1984 e su cui si basa un sistema internazionale di controllo della prassi degli Stati) pubblicate il 18 maggio
del 2006. Sono atti che non vincolano gli Stati Uniti. L’obiettivo delle
attività di tali di organi è quello di portare ad una conoscenza dei
fatti, cercare di instaurare un dialogo con gli Stati che compiono violazioni dei diritti umani, al fine di promuovere una cessazione delle
prassi “incriminate”. Essi contribuiscono, in tal senso, a fare pressione
a livello politico su questi Stati.
Per quanto riguarda il fronte interno, i giudici statunitensi hanno per
un certo periodo di tempo assecondato la prassi dell’Amministrazione.
La Corte Suprema però, nei casi Rasul et Al. v. Bush e Al Odah et Al. v.
United States ha riconosciuto la competenza delle corti federali a giudicare la legittimità della detenzione degli stranieri catturati all’estero e
detenuti a Guantanamo, benché poi nella pratica tali corti abbiano
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EVENTI & IDEE - GUANTANAMO: IL LUOGO DEL NON DIRITTO
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manifestato una certa ritrosia ad esercitare questa loro competenza. Il 29
giugno 2006 ancora la Corte Suprema, nel caso Hamdan v. Rumsfeld, ha
espresso la sua contrarietà a che le military commissions esercitino poteri
giurisdizionali, in quanto ciò appare in contrasto col principio della separazione dei poteri.
Di fronte a questo stato di cose non si è fatta attendere la reazione
di altri Stati e di Ong. Si è fatta sentire soprattutto l’Europa: agli interventi del Parlamento europeo (2002) e dell’Assemblea Parlamentare
del Consiglio d’Europa (2005) si sono affiancati – specie dopo la pubblicazione dei due documenti internazionali sopra richiamati – quelli
degli esponenti dei governi di molti paesi. Ma l’Amministrazione
Bush, malgrado qualche apparente e temporaneo ammorbidimento,
sembra proseguire sulla propria strada. Così ad esempio nel vertice UeUsa di Vienna del 21 giugno 2006, il Presidente americano ha chiesto
la collaborazione dei partners del Vecchio Continente per trovare una
via d’uscita; poi però il 17 ottobre scorso ha firmato una legge che pone
nel nulla gli effetti delle pronunce della Corte Suprema.
Inoltre, secondo i due atti internazionali citati, nonché secondo
molti giuristi, gli Stati Uniti, con il comportamento messo in atto a
Guantanamo, hanno violato norme di entrambi i tipi esistenti nel
diritto internazionale: i trattati, attraverso i quali uno Stato si vincola
ad un certo comportamento nei confronti dell’altra Parte contraente (o
delle altre Parti contraenti), e la consuetudine, cioè tutte quelle regole
che vengono seguite con costanza dagli Stati, nella convinzione di stare
adempiendo un obbligo giuridico. I trattati di cui sono parte gli Stati
Uniti e che sono stati violati sono: la Terza Convenzione di Ginevra e
la Convenzione contro la Tortura, già citate, e il Patto sui Diritti civili
e politici; probabilmente anche la Convenzione Internazionale sulla
eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965. Dal
punto di vista del diritto consuetudinario, la norma che in maniera più
evidente è stata trasgredita, è ancora il divieto di tortura: esso, pur consacrato in più di un trattato, è considerato anche una consuetudine.
E pare che gli Stati Uniti abbiano in realtà cercato anche di far affermare nuove regole, che consentano loro di sfuggire ai divieti imposti dal
diritto internazionale, anche i più perentori, come quello della tortura.
Con gli escamotages dell’extraterritorialità e della guerra al terrore –
nonché con altri, ugualmente carichi di ambiguità e poco convincenti
– si è fatto un tentativo di salvare la mera apparenza della legalità. Ma
secondo le interpretazioni più attendibili delle norme di tutela dei
diritti umani, queste vanno rispettate dagli Stati ovunque; secondo poi
le leggi che regolano lo svolgimento di operazioni belliche, è difficile
considerare un conflitto armato in senso convenzionale la guerra al ter-
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ROBERTO CISOTTA
rore. L’intento statunitense è quello di convincere la Comunità internazionale che certe norme vanno riviste e che, così come esse sono, non
sono idonee a disciplinare fenomeni nuovi come la lotta al terrorismo.
Ciò è in parte vero, ma intanto esse vengono trasgredite in modo arbitrario. Si spera poi, forse, che il consolidamento di una certa prassi, grazie alla forza politica, economica e militare degli Stati Uniti e all’appoggio di altri Stati, crei una norma consuetudinaria nuova, che renda
questi comportamenti leciti. Un’operazione piuttosto ardita, certamente; e del resto in linea con la filosofia che negli ultimi anni ha ispirato la
politica estera americana un po’ in tutti i campi. Ma è comunque lecito chiedersi: dove sta andando la Comunità internazionale? C’è un arretramento nella volontà di tutelare i diritti umani? La risposta non è
semplice, ma, allo stato attuale, le iniziative degli Stati Uniti non sembrano aver trovato seguito nella prassi internazionale generale, anzi
hanno suscitato una fiera opposizione.
Per tutti noi Guantanamo è la materializzazione di un incubo, che
speravamo di aver lasciato chiuso nelle più tetre memorie del secolo
scorso. È pertanto necessario non far passare sotto silenzio alcuno degli
inquietanti passi indietro che nel mondo contemporaneo si compiono
nel campo del rispetto della dignità della persona, ed attendere che la
più grande democrazia del mondo si risvegli dal torpore, carico di crudeltà e indifferenza per certi valori, in cui oggi appare avvolta.
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Fino a che punto è legittimo rappresentare i simboli di una
religione in forma dissacrante? Basta appellarsi alla libertà
di espressione per giustificare caricature del sacro? E che
fine ha fatto il rispetto dell’Altro?
Potere e rischi
delle immagini del sacro
Giacomo Canobbio
N
ell’agosto 2005 Flemming Rose, responsabile delle pagine culturali del maggior quotidiano danese, lo Jyllans-Posten, organizzava un
concorso di disegno sul Profeta. Dei quaranta disegnatori interpellati la
maggior parte rifiutò; dodici accettarono e inviarono i loro disegni, in
verità piuttosto mediocri e perfino volgari (il più famoso raffigura
Maometto con una bomba nel turbante), che il giornale pubblicò il 30
settembre con il titolo Muhammeds ansigt (i volti di Maometto). La
pubblicazione provocò alcune proteste soprattutto tra i rappresentanti
diplomatici di Paesi arabi presso il governo danese. Il 10 gennaio 2006
un piccolo giornale norvegese (il Magazinet: tiratura 5000 copie)
riprendeva le caricature, come il 1° febbraio faranno alcuni quotidiani
europei, giustificando la pubblicazione in nome della libertà di espressione. Il fatto provocò violente reazioni nel mondo islamico, che furono
rincarate quando un ministro del governo italiano osò mostrarsi in pubblico con una maglietta che riproduceva una delle caricature.
Il fatto qui appena richiamato
pone un problema: fino a che punto Giacomo Canobbio
è legittimo rappresentare i simboli è docente di Teologia sistematica
di una religione in forma dissacran- presso il Seminario di Brescia e la
te? Basta appellarsi alla libertà di Facoltà Teologica dell’Italia
espressione per giustificare caricatu- Settentrionale. È membro del Comitato
di direzione di Dialoghi. Tra le sue più
re del sacro?
A queste domande cerca di recenti pubblicazioni: Dio può soffrire?
rispondere il domenicano François Morcelliana, Brescia 2005.
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GIACOMO CANOBBIO
Bœspflug, professore di Storia delle religioni alla Facoltà di teologia cattolica dell’Università Marc Bloch di Strasburgo, nel libro Caricaturer
Dieu? Pouvoirs et dangers de l’image, Bayard, Paris 2006, 223 pp.
Prendendo avvio dall’episodio ricordato, l’Autore – che ha già pubblicato numerosi saggi sulla storia delle immagini di Dio nell’arte – traccia una storia delle raffigurazioni di Dio nelle tre religioni contigue:
Islam, Ebraismo e Cristianesimo. Dopo una introduzione nella quale
presenta un “lessico” utile per procedere nella lettura (immagini, iconismo, aniconismo, iconofilia, iconolatria, iconoclastia, caricature), considera prima i testi normativi delle tre tradizioni religiose e poi cosa è
accaduto nel corso della storia, non limitandosi al tema della raffigurazione della divinità e dei suoi inviati, ma allargando l’indagine pure alla
bestemmia, cioè a ogni forma di denigrazione della medesima divinità.
Si tratta di un’opera ricca di documentazione (324 note di rimandi
bibliografici) che permette di affrontare il problema in maniera serena,
oltre ogni polemica, ma nello stesso tempo con determinazione.
La lettura permette di conoscere il diverso modo di pensare il rapporto umano con la trascendenza nelle tre religioni monoteiste, che è
quanto dire il diverso modo di pensare la trascendenza.
Per quanto attiene all’Islam, la proibizione assoluta di raffigurare
Allah, non impedisce, soprattutto presso gli sciiti, immagini del Profeta
Maometto nell’atto di ricevere la rivelazione dall’arcangelo Gabriele,
anche se il suo volto non è delineato precisamente. A partire dal secolo
XVII poi si trovano rappresentazioni di scene bibliche, sia dell’Antico
sia del Nuovo Testamento, riprese dal Corano. Dal sec. XVIII sempre
negli ambienti sciiti si propongono pure raffigurazioni dei martiri
(Hussein, Ali), degli ayatollah, degli imam. Il Paese più “aperto”, a questo riguardo, è l’Iran, che è perciò anche il Paese nel quale si riscontra il
più alto numero di caricature di personaggi legati alla religione (ovviamente non del Profeta). Nella tradizione musulmana non mancano
neppure racconti dissacranti (vi sono attestazioni che risalgono al X-XI
secolo), ma in genere i loro autori sono stati tradotti in tribunale e perfino condannati a morte (il caso recente più noto è quello dei Versetti
satanici di Salman Rushdie). Ciò conferma un profondo rispetto per il
sacro. Forse paradossale per gli appartenenti ad altre tradizioni religiose:
una vita umana varrebbe meno di una immagine dissacrante, se questa
legittima l’uccisione di chi l’ha osata.
Relativamente all’ebraismo, sembra si possa dire che l’aniconismo
cultuale – forse mutuato dai Madianiti – sarebbe posteriore all’esilio e
funzionale a impedire l’idolatria, nei confronti della quale i testi biblici
non mancano di offrire caricature. Con il linguaggio attuale si potrebbe
dire che gli Ebrei non avevano alcun rispetto per le altre religioni (baste-
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rebbe leggere il Sal 115, 4-8 o Ger 10,1-16 per avere un esempio del
dileggio nei confronti delle divinità [idoli] delle genti).
L’aniconismo cultuale non ha però impedito il nascere di un’arte
giudaica, che si è sviluppata fin dai primi secoli dell’era cristiana.
L’esempio più famoso è quello della sinagoga di Dura-Europos (Siria)
che presenta più di cento metri quadrati di affreschi raffiguranti scene
bibliche, all’interno delle quali è visibile anche una mano che esce dal
cielo indicante la parola di Dio. Non si trovano però raffigurazioni di
Dio. Anche nell’arte contemporanea (si pensi a Marc Chagall) Dio non
è raffigurato; di lui si trova eventualmente un simbolo. Unica eccezione
pare sia presente nella scena della creazione dipinta dallo stesso Chagall,
dove si vede un angelo barbuto, evidente ripresa di un motivo tipico
dell’arte cristiana occidentale.
Non c’è bisogno di insistere nel ricordare le raffigurazioni di Dio e
dei misteri della salvezza nella tradizione cristiana: con il passare dei
secoli le immagini si moltiplicano, creando così una notevole distanza
con le altre due tradizioni monoteiste. La giustificazione del fenomeno
si trova nella fede cristologica: Dio si è reso presente nella storia in
forma umana in Gesù di Nazareth. È questa la ragione che viene addotta dal concilio di Nicea II (787) contro gli iconoclasti, dopo il quale le
raffigurazioni di Cristo, della Vergine, dei santi e degli angeli conosce un
singolare sviluppo, che sfocerà nel XII secolo nella rappresentazione non
più cristomorfica di Dio: il Padre e la Trinità (soprattutto nella forma
del “trono della grazia”) compaiono sempre più frequentemente man
mano passa il tempo; a volte senza alcun “canone”, al punto che papa
Benedetto XIV nel 1745 sentì il dovere di precisare con il Breve
Sollicitudini nostrae che Dio può essere rappresentato come le Scritture
attestano Egli si è degnato di apparire. La precisazione si rendeva necessaria a fronte di rappresentazioni dello Spirito Santo in forma umana.
Non si può certo dire che le disposizioni di papa Lambertini siano state
osservate: le raffigurazioni seguono un loro percorso, frutto più delle
intuizioni degli artisti o delle intenzionalità devozionali che non dei
testi scritturistici. Si potrebbe perfino osare una data a partire dalla
quale le immagini vanno per la loro strada rispetto ai testi: verso la fine
del XVIII secolo con il tramonto dell’arte barocca.
Contestualmente all’ampio uso delle raffigurazioni di Dio, compare
anche la repressione della bestemmia attraverso pene rigorosissime. Le
condanne non riusciranno però a fermare l’espandersi dell’ironia e della
derisione del sacro cristiano, fino alla bestemmia verbale, letteraria, teatrale e figurativa. Si constata così che, in nome della libertà di espressione, si profana senza alcun ritegno ciò che per i cristiani è sacro, proprio
nel contesto in cui il mistero divino è maggiormente rappresentato. In
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ultima analisi, non c’è confronto tra la “bestemmia” perpetrata
nell’Occidente cristiano rispetto a quella che si può riscontrare nella tradizione giudaica e mussulmana.
Anche da questo fatto deriva la meraviglia espressa in Europa in
occasione delle violente manifestazioni dell’Islam nei confronti delle
caricature del Profeta. Libertà contro “fanatismo”? Ma si tratta di autentica libertà? Bœspflug prima di rispondere agli interrogativi che chiamano in causa la libertà propone alcune riflessioni sul potere che le immagini esercitano sull’animo umano, sulla scorta del detto di Orazio
segnius irritant animos demissa per aurem/quam quae sunt oculis subjecta
fidelibus. Allora, c’è un limite alla dichiarata libertà di espressione? La
risposta dell’Autore è questa: il rispetto dell’altro, che comporta una
specie di autocensura, senza alcun bisogno di nuove leggi. Basta l’educazione civica, che è sorella della cortesia, figlia della fraternità. Tale rispetto può nascere però solo dalla conoscenza degli altri e quindi di ciò che
li può offendere.
In questo modo si potrebbe aiutare anche chi protesta in forma violenta a comprendere che «Uccidere un uomo non è difendere una dottrina; è uccidere un uomo» (Sébastien Castellion lo diceva nel 1533 reagendo alla condanna al rogo di Michele Serveto).
Il libro
François Bœspflug, Caricaturer Dieu? Pouvoirs et dangers de l’image,
Bayard, Paris 2006.
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La complessa relazione fra cattolicesimo e concezione
americana della democrazia e della libertà, come conseguenza
della dialettica fra i valori della comunità e del bene comune,
cari alla Chiesa cattolica, e il risalto dato nella cultura
americana al valore dell’autonomia individuale.
Cattolicesimo
a stelle e strisce
Marco Olivetti
È
corrente nell’opinione pubblica europea l’idea che l’homo americanus
sia oggi molto più religioso dell’homo europeus, e che la differenza nel
radicamento delle diverse confessioni religiose – soprattutto cristiane – sia
ormai un dato che distanzia notevolmente le due sponde dell’Atlantico.
L’attenzione verso il “Dio d’America”, per richiamare il titolo di un saggio
di Furio Colombo, è cresciuta anche nel vecchio continente, soprattutto
in quanto molti ritengono che taluni orientamenti religiosi influenzino
tuttora le grandi scelte politiche, come quelle dell’attuale inquilino della
Casa Bianca, George W. Bush.
Meno noto al grande pubblico è il Marco Olivetti
ruolo nella società americana della più è professore ordinario di Diritto
numerosa confessione statunitense: la costituzionale presso la Facoltà di
Chiesa cattolica. Al riguardo, gli osser- Giurisprudenza dell’Università
vatori si soffermano soprattutto sui di Foggia e professore inviato di Diritto
profili strettamente religiosi od orga- costituzionale comparato presso la
nizzativi (ad es. sul fatto che essa sia Pontificia Università “San Tommaso”
uno dei punti di forza – anche finan- di Roma. Tra le sue pubblicazioni: La
ziari – della Chiesa universale) o, questione di fiducia nel sistema
all’opposto, sull’impatto direttamente parlamentare italiano, Giuffrè, Milano
politico delle scelte dell’episcopato 1996; Nuovi Statuti e forma di Governo
americano (come, di recente, i dissensi delle Regioni, Il Mulino, Bologna 2002.
con il terzo candidato alla Presidenza È coordinatore con Raffaele Bifulco e
di religione cattolica nella storia degli Alfonso Celotto, del Commentario alla
Costituzione, Utet, Torino 2006.
Stati Uniti, John Kerry).
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MARCO OLIVETTI
Un volume apparso di recente negli Stati Uniti e sinora poco notato
al di qua dell’Oceano offre ora uno sguardo prezioso alla complessa relazione fra cattolicesimo e concezione americana della democrazia e della
libertà. John McGreevy, professore di Storia nella principale Università
cattolica nordamericana – la University of Notre Dame, sita a South
Bend, Indiana, nel cuore della Regione dei Grandi Laghi – è autore di
Catholicism and American Freedom. A History (W.W. Norton &
Company, New York, 2003), una affascinante storia culturale del cattolicesimo americano.
Il volume attraversa i dibattiti che hanno segnato il progressivo radicamento del cattolicesimo oltreoceano, legato all’immigrazione irlandese, tedesca, franco-canadese, italiana e polacca prodottasi in successive
ondate a partire dalla metà dell’Ottocento. 295 pagine di testo – dense
e ben scritte – e 111 di note – utilissime – ripercorrono le grandi controversie che hanno segnato un rapporto complesso, talora di conflittualità, talora di vicinanza-immedesimazione fra i cattolici americani e la
democrazia statunitense. Il volume ripercorre le battaglie sulla questione
dell’educazione (e in particolare delle scuole cattoliche), della schiavitù
(e della ostilità, ma non dell’abolizionismo, dei cattolici rispetto a questo istituto a metà Ottocento) e sulla “questione sociale”, fino alle più
recenti controversie sulla contraccezione, sull’aborto e – da ultimo – la
drammatica vicenda della pedofilia.
Due fili rossi attraversano il volume. Il primo è la dialettica fra l’americanizzazione del cattolicesimo e gli inputs continuamente provenienti dall’esterno. Dall’esterno vuol dire in genere dall’Europa: da lì
provengono a metà Ottocento le spinte verso l’intransigentismo, che
generano la prima grande reazione ostile al cattolicesimo negli States.
Ma da lì viene anche il contributo apportato dagli esuli, anche cattolici,
durante la fase più buia della storia europea: fra essi Jacques Maritain,
che a sua volta avrebbe visto profondamente modificata la propria concezione della libertà e della democrazia attraverso il soggiorno americano, ove videro la luce, in fasi successive, suoi lavori fondamentali come
Cristianesimo e Democrazia, I diritti dell’uomo e la legge naturale, e
L’uomo e lo Stato. Più in generale dall’Europa vengono gli stimoli della
Nouvelle Théologie, che dagli anni cinquanta in poi mettono in discussione il tradizionalismo del cattolicesimo americano.
Il secondo filo rosso è la dialettica fra la sottolineatura, da parte cattolica, dei valori della comunità e del bene comune, e il risalto dato nella
cultura americana al valore dell’autonomia individuale: qui sta il tema
ricorrente dei contrasti fra i cattolici e la cultura liberal negli Stati Uniti.
Un contrasto che porta i cattolici ad opporsi ad una emancipazione
“traumatica” degli schiavi di colore a metà Ottocento, con l’argomento
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IL LIBRO & I LIBRI - CATTOLICESIMO A STELLE E STRISCE
che la schiavitù è solo una fra le forme di oppressione che devono essere
combattute e che, comunque, segnano inevitabilmente la condizione
creaturale dell’uomo: non peggiore, osservano alcuni cattolici, della
condizione cui sono sottoposti uomini formalmente liberi ma schiavi
del sistema di produzione capitalistico. Ma è sempre la questione dell’autonomia individuale a differenziare la posizione cattolica dopo l’enciclica Rerum Novarum: la Chiesa contesta un’ideale di libertà senza
limiti, applicato al campo dell’economia, e sottolinea la subordinazione
della libertà di impresa al bene comune. Ed è ancora l’autonomia l’oggetto del contendere attorno ai temi della contraccezione e della sterilizzazione involontaria prima (già dagli anni trenta) e dell’aborto poi (dagli
anni sessanta). Così se appare troppo dura – specie nei toni – la battaglia
condotta dagli anni trenta agli anni sessanta contro il controllo delle
nascite, assume un tono profetico la posizione assunta contro una figura gigantesca del liberalismo americano – il giudice della Corte suprema
Oliver Wendell Holmes – sul tema della sterilizzazione involontaria,
sostenuto a quei tempi non solo da Hitler in Europa, ma anche dai
socialdemocratici svedesi e dai progressisti americani.
Certo, in buona parte di queste vicende i cattolici non sono un
monolite: sin dalla metà dell’Ottocento emerge una dialettica fra cattolici liberali ed ultramontani, ben simboleggiato – anche attorno alla
questione della schiavitù – dalle figure di Orestes Brownsons e James
Macmaster. Le diverse sensibilità – presenti sul tema della questione
sociale (che vede questa volta tiepidi i cattolici liberali) – si ritrovano a
metà Novecento, sulla questione della contraccezione. Su altri temi,
invece, prevale il momento dell’unità: è il caso della grande battaglia
sull’aborto, apertasi negli anni sessanta e divenuta accesissima dopo la
repentina sentenza della Corte suprema sul caso Roe vs Wade, che nel
1973 riconobbe il diritto costituzionale della donna a interrompere la
gravidanza, sia pure con limitazioni derivanti dal periodo in cui la decisione viene adottata. Una decisione che ha riallineato non solo i cattolici di diverse tendenze, ma anche il neo-protestantesimo americano, che
ha assunto posizioni di contestazione ben più radicale. E che ha aperto
una lunga battaglia sulla composizione della Corte suprema, giunta
forse solo oggi ad una svolta: dal 2005 – grazie alle due nomine di John
Roberts e di Samuel Alito, decise dal Presidente Bush – la Corte più
potente e famosa del mondo ha per la prima volta una maggioranza di
giudici cattolici (5 su 9) ed è forse in condizione di rovesciare l’abominevole Roe vs Wade.
Il libro di McGreevy ripercorre con grande equilibrio e senso critico
tutte queste vicende, evidenziando la ricchezza del contributo cattolico
alla civiltà americana, ma anche i limiti di posizioni a volte eccessiva-
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IL LIBRO
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MARCO OLIVETTI
mente rigide (come l’accesa battaglia sulla contraccezione, che lasciò
quasi sguarnito il ben più grave fronte dell’aborto, schiacciando in
maniera indifferenziata sul tema della difesa della vita due temi di portata evidentemente diversa) o incapaci di cogliere la speciale negatività
morale di alcuni temi (come la schiavitù, non sostenuta, ma non ritenuta a priori inaccettabile, anche se poi i cattolici saranno ben più efficaci
dei protestanti nel realizzare, a metà novecento, la fine della segregazione razziale nelle loro comunità).
Il volume sollecita una riflessione. Il valore dell’autonomia individuale è certo irrinunciabile – oggi anche per i cattolici, americani e non.
Ed esso è essenziale all’affermazione e al radicamento di una società liberal-democratica: di ciò, spesso, i cattolici americani sono stati meno
consapevoli dei loro concittadini ebrei o protestanti. Tuttavia la loro sottolineatura dei valori della solidarietà e del bene comune è stata ed è una
risorsa preziosa, non solo in America: accanto, non necessariamente
radicalmente contro, il valore dell’autonomia individuale. E se quest’ultima è decisiva ad aversi democrazia, forse non basta: ne è condizione
necessaria, ma non sufficiente. Allora il valore della responsabilità e del
bene comune – che ogni cattolico che si rispetti (direbbe l’anglicano
canadese Charles Grant) non può non valorizzare – è un patrimonio da
non disperdere e da bilanciare con il bene dell’autonomia, in un equilibrio molto delicato e sempre da rinnovare.
La convinzione di John McGreevy sul ruolo dei cattolici nella società
americana – ieri ed oggi – traspare efficacemente nelle righe finali del
volume: «Forse il giudizio finale sul lungo incontro dei cattolici con le
idee americane di libertà sta qui: sul se i cattolici del ventunesimo secolo possono convincere i loro concittadini, e loro stessi, che le associazioni e i legami con i diversi da noi soddisfano le nostre più profonde e
comuni aspirazioni».
Il libro
John McGreevy, Catholicism and American Freedom. A History, W.W.
Norton & Company, New York 2003.
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IL LIBRO & I LIBRI - NUOVE SINFONIE LETTERARIE
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La narrativa e la letteratura in genere sono oggi caratterizzate
dalla fruttuosa assenza di estetiche o ideologie dominanti
anche in senso creativo e stilistico. Ciò da vita a un fiorire di
forme creative le più disparate, ma non sempre originali.
Nuove sinfonie
letterarie
Ermanno Paccagnini
S
i trova davvero di tutto e di più, negli scaffali delle librerie. Di tutto
e di più anche solo a limitarsi alla produzione nostrana. E non solo
di tutto e di più, che potrebbe persino suonare positivo ove si pensi alla
varietà dell’offerta: purtroppo, a tutto questo “di tutto e di più” si
accompagna spesso anche una disposizione imitativa che porta a proposte di titoli e tipologie narrative in non pochi casi anche un po’ troppo
“uguali”. Questo mi pare, a grandi linee, lo stato attuale della nostra
narrativa, pur in una diminuita libertà e creatività, personale e di direttive editoriali.
Il dato positivo, dunque: che mi par consistere, per la narrativa e la
letteratura in genere, al pari di altre forme di creatività, quali ad esempio
pittura o musica, nella caratterizzazione di questi anni soprattutto come
periodo di ricerca in una situazione da «perdita del centro» (per dirla con
Sedlmayr): ossia come assenza di estetiche o ideologie dominanti anche
in senso creativo e stilistico. Discendono da questa disposizione le forme
di creatività le più disparate, dal
totalmente contrapposto al mescida- Ermanno Paccagnini
to di quelle stesse forme estreme, è docente di Letteratura
secondo un procedere – e qui rubo italiana contemporanea
l’espressione a Luciano Berio – da all’Università Cattolica di Brescia
«sinfonia di percorsi»: ovviamente Tra le sue pobblicazioni: Voci sommerse
non armonicamente neoromantici, della Scapigliatura: indagini e recuperi,
ma ricchi di dissonanze, realizzatesi Istituto propaganda libraria
per qualche tempo anche in narrati- Milano 1995
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IL LIBRO
&I LIBRI
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ERMANNO PACCAGNINI
va fors’anche per disinteresse delle case editrici maggiori e certa volontà
di rischio su autori, forme e generi delle minori.
Ed è per tale via che si son così potute riaffacciare, riprendendosi un
ruolo anche primario, forme narrative solitamente sprezzate come
“genere”: dal rosa al giallo, al fantasy, alla fantascienza. Un riaffacciarsi
dal ruolo positivo, perché hanno riportato nella narrazione quella
dimensione del narrare appartenuta in passato ai cosiddetti «raccontatori di storie», per dirla con uno di essi come Arpino (ma potremmo
anche fare il nome di Piero Chiara): una dimensione che era andata scemando sia per la graduale scomparsa di quei «raccontatori» sia per quella tipologia narrativa autocoscienziale poggiante sino all’ingolfo su un Io
confessante sempre lacrimosamente logorroico emersa in particolare
negli anni successivi al Sessantotto e con le involuzioni del Settantasette.
Tanto più che il Genere si riproponeva non secondo modelli standard,
ma ritemprandosi coi problemi dell’oggi, ad esempio depurando il poliziesco della componente catartica. Con tale conseguente successo che
purtroppo oggi non c’è bandella di libro che non si richiami al thriller
(anche «dell’anima») – ed è invece l’aspetto negativo, da “aggregamenti”, del fenomeno; così riaffermando nei fatti quel “centro” nella forma
o di scelte e direttive editoriali o di autoindicazioni d’autore, sino a
mescolare il genere col “romanzo storico” non tralasciando intingoli da
Effetto Dan Brown. Al punto che – in un clima di soffocamento del
genere stesso – respiri quando trovi chi se ne ritrae o per altra opzione
creativa (tipo Fois) o per interessi diversi (il Camilleri dell’ultimo
Montalbano, attratto dalle psicologie più che da una trama subito smascherabile).
Fortunatamente non tutto è “giallo”. Anche se è pur vero che non
mancano altri precisi filoni, sempre più saldamente cavalcati sino alla
codifica da autori ed editori. Penso così alla frequentatissima rivisitazione
narrativa di personaggi reali, con forte prevalenza di letterati (addirittura
due i romanzi su Benjamin), che ti inducono a chiederti se tali scelte
poggianti sul “già dato” non costituiscano precisi sintomi di carenza creativa. Perché poi il procedimento è il solito: scelte individuali coraggiose;
fortuna presso pubblico e/o critica; inserimento di case editrici o di altri
colleghi autori che puntano alla replica imitativa; creazione di un filone.
Col rischio mai evitato del fagocitante snaturamento dell’idea iniziale.
Che è quanto sta avvenendo con la giovane narrativa meridionale,
ricca in questi ultimi anni di significative voci nuove, con opzioni stilistiche diversificate nel loro accompagnare lo sguardo dentro contraddizioni, denunce, sogni e utopie d’un Sud in sofferenza. Solo che il fenomeno si sta allargando a dismisura, sino alla standardizzazione: col
“nero” di Napoli quale ambientazione privilegiata, e conseguente abdi-
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IL LIBRO
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&I LIBRI
IL LIBRO & I LIBRI - NUOVE SINFONIE LETTERARIE
cazione all’immaginario a favore d’una volontà di denuncia che tante
volte traduce la narrazione in cronaca (e non, semmai, viceversa). E
buona sorte quando tutto questo – mafia e camorra che “tirano” – resta
affidato a sguardi interni, più che a esterne prospettive “sociologicamente guardone”.
Situazione analoga a quella dell’altro recentissimo “fenomeno”: dei
narratori di madrelingua non italiana che però si esprimono direttamente in italiano. Una presenza che in più occasioni e saggi m’è avvenuto di salutare positivamente proprio per la potenzialità di immaginario
da essi introdotto e che può ricadere positivamente su certe nostre sclerotizzate espressività, là ove sappia tradursi anche in scelte stilistiche e
strutturali originali; ma che sta divenendo “fenomeno” proprio in quanto, ciò che dal nostro dopoguerra si era concretizzato come sparsa ma
fruttuosa ricchezza (cito a titolo d’esempio Pressburger, Kemeny,
Wilcock, Jaeggy, Schneider, Bruck, sino a Tawfik, senza dimenticare
negli anni Novanta le sollecitazioni di piccoli editori come Fara o Il
Grappolo), pare oggi precisa direttrice editoriale e dei premi; e se è vero
che si registrano pur sempre voci sicure (penso alla Vorpsi), altrettanto
vero è che si affacciano voci ancora incerte e forse solo esotiche. Un
Immaginario, aggiungo, che è anche ricchezza metaforica, come può
ben dimostrare il confronto tra la rappresentazione delle dune del deserto d’un Tawfik rispetto alla Morandini; e dove semmai il rischio risiede
nel farsi metabolizzare da certe nostre schematizzazioni narrative (pericolo non sempre evitato proprio da Tawfik).
E si potrebbe proseguire. Anche perché la formazione dei filoni è
continua: dalla saga delle nonne post-Tamaro, ripiegata gradualmente
su Nonni, Zie, sino a recuperare il classico conto col padre (anche con
buoni esiti, come ricorda lo Starnone di Via Gemito); ai ripensamenti
narrativi sugli anni di piombo (che cominciano a essere un po’ troppi);
al ritorno della letteratura di viaggio, che mi auguro di miglior gestione.
Anche se il vero augurio resta quello di poter contare su chi sappia sfuggire a codici e condizionamenti, mettendosi continuamente in gioco,
operando mutamenti interni, cercando strade nuove, spezzando le regole. Per essere se stesso. Tanto più in una fase come l’attuale in cui l’editoria letteraria – con l’affacciarsi di nuovi editori o di editori anche noti
che hanno deciso di optare per la narrativa italiana o di accentuarne la
presenza nel catalogo – sembra davvero scommettere su di sé. Sullo stesso genere romanzo. Sugli esordi. Con proposte di voci spesso quanto
mai interessanti e promettenti. Ma questo richiederebbe un discorso del
tutto autonomo.
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PROFILI
GESUALDO NOSENGO/Educatore e organizzatore cristianamente
ispirato, fondatore dell’Uciim, fu laico pienamente inserito nella
Chiesa italiana e universale e nella scuola italiana ed europea. Il
suo sforzo fu quello di tenere uniti il più possibile i mondi vitali e
i mondi istituzionali, senza contare su privilegi e poteri diversi
da quelli della competenza culturale, della libertà interiore e
della fede.
LUCIANO CORRADINI
Gesualdo Nosengo.
Vita di un educatore
Luciano Corradini
G
esualdo Nosengo è una delle figure eminenti della pedagogia italiana
d’ispirazione cristiana del secolo scorso, ma non è stato solo un pedagogista. È stato il fondatore e il primo presidente dell’Uciim, Unione cattolica italiana insegnanti medi, la cui nascita è avvenuta a Roma il 18 giugno
1944, ma non è riconducibile a questa sola fondamentale appartenenza. La
segnalazione, che cade proprio l’anno centenario della sua nascita
(20.7.1906 – 13.5.1968), della sua figura di laico da parte dell’episcopato
piemontese al IV Convegno ecclesiale di Verona, dove una gigantesca foto
del suo volto sorridente è stata issata sugli spalti dell’Arena, con quelle di
altre 16 personalità del mondo laico cattolico (da La Pira a Medi, da Candia
a Capograssi, per citarne alcune), è
forse l’occasione adatta a restituire
Nosengo alla storia della società, della Luciano Corradini
scuola e della Chiesa italiana, oltre i è presidente dell’Associazione Italiana
confini dell’associazione, per la quale Docenti Universitari. È stato professore
egli ha speso le sue migliori energie. ordinario di Pedagogia generale nella
L’Uciim gli ha dedicato quest’an- Facoltà di Scienze della formazione
no un convegno nazionale di studio, dell’Università di Roma Tre,
che si è svolto ad Asti a fine settembre. sottosegretario alla Pubblica Istruzione e
Personalità carismatica e polivalente, presidente nazionale dell’Uciim.
egli è stato tra i protagonisti della vita Dirige “La Scuola e l’Uomo”, mensile
sociale e della vita ecclesiale italiana dell’Uciim. Fra i suoi lavori più recenti:
fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, Educare nella scuola nella prospettiva
e cioè prima durante e dopo la trage- dell’Uciim, Armando, Roma 2006.
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PROFILI - GESUALDO NOSENGO. VITA DI UN EDUCATORE
PROFILI
dia della dittatura, della Guerra e le fatiche della Liberazione e della ricostruzione. Fu uomo di pensiero, come Mounier, Stefanini, Lazzati, Dossetti,
La Pira, tutti autori che studiò e citò più volte, ma anche uomo di azione e
di “governo”, come Gonella, Gui, la Badaloni, Bellisario, Gozzer, con i quali
collaborò in vario modo; e fu educatore, come don Bosco, don Milani e
don Giussani. Non si vogliono stabilire gerarchie e graduatorie, ma riconoscere ruoli e contributi diversi dati da personaggi di spicco, in modo talora
convergente, talora divergente, alla elaborazione di idee, di norme, di “formazioni sociali”, di reti di amicizie e di solidarietà umane, nella società, nella
Chiesa, nella scuola.
Nonostante una vocazione religiosa maturata in un lungo giovanile travaglio interiore, egli volle rimanere laico, rinunciando al sacerdozio, al
matrimonio, alla carriera accademica, a quella amministrativa e a quella
politica, che pure in più occasioni gli vennero offerte. Fu educatore a tutto
tondo, professore liceale e universitario, dirigente sindacale, animatore e
organizzatore del movimento scoutistico e dell’associazione degli insegnanti
medi cattolici, scrittore di successo, autore di libri di testo e di libri di didattica generale e in particolare religiosa e catechetica, di pedagogia generale, di
politica scolastica. Questi cenni introduttivi servono per dire che non fu
solo educatore e organizzatore cristianamente ispirato, ma laico pienamente
inserito, sia pure con qualche sofferenza, nella Chiesa italiana e universale e
nella scuola italiana ed europea. Il suo sforzo fu quello di tenere uniti il più
possibile i mondi vitali e i mondi istituzionali, senza contare su privilegi e
poteri diversi da quelli della competenza culturale e professionale, della fede,
della testimonianza, della libertà interiore, centrata sul quotidiano rapporto
personale con Gesù Maestro.
Profondamente umile tanto quanto motivato al servizio e alla lotta per la
giustizia, fu, per le molte migliaia di persone che lo hanno conosciuto, un
maestro, in un mondo in cui di maestri di vita e di testimoni di laicità, di
ecclesialità e di capacità organizzativa c’è profondo bisogno.
Nato a San Damiano d’Asti, il giovane Gesualdo studiò dai salesiani di
Valsalice a Torino, ma lavorò anche come operaio nella fornace paterna, a
produrre mattoni. Spirito intimamente religioso e insieme “pratico” (i mattoni, diceva, vanno messi uno sull’altro, altrimenti cadono; le stufe non brillano, ma scaldano) attivamente partecipe delle vicende del suo tempo, trovò
nella pedagogia, nella didattica, in particolare relative alla religione e alla
fede, nella politica scolastica, nel sindacalismo, nell’associazionismo professionale, nello scoutistico ma soprattutto nella prassi dell’educazione e dell’insegnamento, i punti di applicazione della leva di una vita intensamente
vissuta, pensata e programmata fin da giovane, nella «santa battaglia della
vita, la vera che onora e la cui vittoria ci rimane per tutta l’eternità».
Ci restano di lui, oltre a un centinaio di libri di varia consistenza e circa
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PROFILI
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LUCIANO CORRADINI
quattrocento saggi e articoli, su varie collane e riviste dell’Uciim, le note e le
riflessioni manoscritte, consegnate a decine di quaderni e a sedici agende,
annotate per lo più ordinatamente dal 1953 al 1968. È questa una parte
cospicua dell’iceberg sommerso della sua vita.
Nel 1928 entrò nella Compagnia di San Paolo, che era stata fondata con
spirito anticipatore dal milanese don Giovanni Rossi nel 1921, per un progetto di consacrazione a Dio a servizio dell’educazione dei giovani, e frequentò l’Università Cattolica alternando lo studio all’insegnamento della
religione, ottenuto con un permesso speciale della Curia, perché non era
sacerdote, nell’istituto magistrale Virgilio di Milano. Si laureò in pedagogia
nel 1935, con Mario Casotti, del quale fu assistente volontario.
Fondò nel 1934 la “Compagnia di Gesù Maestro” e con don Carlo
Gnocchi e Silvio Riva, nel 1939, un “Segretariato informativo di pedagogia
attiva religiosa”, con la rivista L’Informatore.
Frutto della sua ricerca di quegli anni è un vivace diario di scuola, intitolato Così come siamo, scritto in collaborazione con sei suoi alunni, concreto
esempio di quella didattica attivistica di ascendenza scoutistica, di cui egli è
stato uno dei più originali e convinti sostenitori. Per certi aspetti anticipa la
Lettera a una professoressa di don Milani, che in quegli anni studiava in un
liceo di Milano. Il volume mise in allarme la Questura fascista di Milano,
che pensò di trovarsi di fronte ad un gruppo “sovversivo”. Trasferitosi a
Roma, per insegnare nel liceo Cavour, incappò ancora nella persecuzione
fascista, rifugiandosi in Vaticano e preparandosi al dopo fascismo, col gruppo che faceva capo alla Fuci, ai Laureati Cattolici e a mons. Montini, futuro
Paolo VI.
Dal 1943 al 1948 svolse il ruolo di Commissario centrale
dell’Associazione Scout Cattolici Italiani (Asci). In occasione dei convegni
estivi dei professori, spesso spariva ad organizzare i giochi dei loro figli. In
quel periodo partecipò, per la parte relativa alla famiglia, all’educazione e
alla scuola, alla stesura del cosiddetto Codice di Camaldoli.
Si può dunque considerare Nosengo uno dei “padri della Patria”, anche
se non si mise in politica e non fu quindi eletto all’Assemblea Costituente.
Fu anticipatore del Concilio, con una costante riflessione teologica, e sulla
prassi conseguente, sul ruolo dei laici e sul valore salvifico della professione,
in particolare di quella docente.
Circa la nascita dell’Uciim, questo egli scrisse in una relazione letta il
22.6.1960 alla Commissione episcopale per l’alta direzione dell’Aci:
«L’Unione, accuratamente preparata durante gli anni del 1942 al 1944 da
un gruppo d’insegnanti iscritti al Movimento Laureati, ebbe il suo battesimo ufficiale e la sua costituzione la domenica 18 giugno 1944 in una pubblica assemblea tenutasi nella sala della Fuci, in piazza S. Agostino in Roma,
alla presenza dell’avv. Vittorino Veronese, allora segretario centrale del
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PROFILI - GESUALDO NOSENGO. VITA DI UN EDUCATORE
PROFILI
Movimento Laureati, che diede, a nome della competente autorità ecclesiastica, l’approvazione alla costituzione dell’Unione. Il primo presidente provvisorio di essa fu scelto da S. E. Mons Montini, il quale comunicò all’interessato tale nomina, attraverso mons. Sergio Pignedoli».
E nei suoi appunti: «A comandarmi o a invitarmi sono state autorità di
Ac o ecclesiastiche dirigenti di vario genere, o semplicemente circostanze
esteriori e mozioni interiori, come per il primo corso sulla pedagogia di
Gesù e la Compagnia di Gesù Maestro. E allora? Le ho concordate forse un
po’ affrettatamente... col mio direttore. Posso quindi ritenermi sicuro di eseguire la volontà di Dio».
Nonostante questa approvazione, seguita da lettere d’incoraggiamento
di Pio XII attraverso Mons. Montini, i rapporti col Movimento laureati e
con la citata Commissione episcopale, inizialmente non furono facili. Nelle
“Norme” deliberate da questa Commissione per i rapporti tra il Movimento
Laureati e le Unioni Professionali (1957), Nosengo vedeva non solo l’invito
ad una maggior collaborazione, vivamente auspicata, ma una negazione dell’autonomia dell’Uciim, nella scelta dei temi e nell’organizzazione interna
dei propri lavori. I vescovi rispondevano con mons. Castellano che questa
reazione appariva loro «come espressione di poco spirito di subordinazione»
e che comunque quelle norme andavano intese come ad experimentum per
un triennio. La garbata ma ferma “resistenza” fu efficace. Da allora i rapporti furono improntati a sempre maggior reciproco rispetto, auspice anche la
feconda stagione del Concilio. Le difficoltà successive non derivarono da
insubordinazione o da prevaricazione, ma dalla difficoltà di mantenere in
vita e di rinnovare la rete associativa, con la sua formula complessa di impegno professionale, sociale, presindacale e prepolitico, vissuti con piena laicità
e piena ecclesialità.
Di questo impegno Nosengo vide alcuni notevoli frutti. Per ciò che
riguarda la politica scolastica, si può dire documentatamente che l’educazione civica nella scuola (1958), basata sul testo della Costituzione (di cui
occorreva assicurare la «conoscenza amorosa», in vista della «realizzazione
della volontà comunitaria espressa nel medesimo testo») e la nuova scuola
media (1962), per la quale affrontò una «dolorosa battaglia», con purezza di
intenti», non sarebbero state preparate, varate normativamente e interpretate didatticamente nella scuola, senza il determinante contributo di
Nosengo.
Arrivando vicino al termine della vita, scrisse sull’agenda nel 1967: «Il
seme è gettato. Forse il mio compito era solo quello. Io me ne vado, ciò che
è polemica diverrà responsabilità. La scuola media non torna indietro. Per la
superiore qualcuno si batterà... I germi, se sono vivi, produrranno piantine».
È a queste piantine che i docenti di oggi devono dedicarsi, a cominciare da
chi ha il dono della fede.
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IIIdiCOP4-06:III di COP
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Dialoghi
per un progetto culturale cristianamente ispirato
UN CONTRIBUTO DELL’AZIONE CATTOLICA
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al cammino di evangelizzazione della comunità cristiana
al dialogo nella città degli uomini
a una elaborazione culturale aperta e rigorosa
IN OGNI NUMERO
EDITORIALE: un invito alla lettura, alla luce degli eventi
PRIMO PIANO: interventi autorevoli su questioni di attualità culturale e sociale
UN PERCORSO TEMATICO ANNUALE: articoli, servizi, interviste a testimoni significativi, forum
EVENTI
& IDEE : interpretazioni, aggiornamenti, discussioni;
la letteratura e il cinema, il costume e la politica, la Chiesa e la società...
IL LIBRO & I LIBRI: suggerimenti e itinerari critici di lettura
PROFILI: un testimone scomodo da non dimenticare
IL PERCORSO TEMATICO DELL’ANNO:
I cristiani nella città, testimoni di speranza
Indirizzo internet:
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(interamente consultabili i numeri del 2001, 2002, 2003, 2004 e 2005)
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intestato a Fondazione Apostolicam Actuositatem – Via Conciliazione 1 – 00193 Roma.
Finito di stampare nel mese di novembre 2006 a cura della So.gra.ro. – Roma