prologo lDdC - Plesio Editore

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prologo lDdC - Plesio Editore
Prologo
Il mondo è antico e stanco,
Delirante per la febbre che lo piaga,
Inquieto sul giaciglio stropicciato.
Lo ricordo al tempo della sedia a dondolo,
Benevolo e paziente fra le fiabe che narrava,
Nella stanza che fioriva di incanti e magia.
Ora il cero trema incerto,
E il suo volto si apre di rughe nuove,
Rantolando un sussurro per orecchie sorde.
Sta narrando il suo ultimo richiamo,
A chi conosce solo fiabe e non ascolta,
Non lo vede, non ci crede.
Il cero si spegne.
Il volto si spezza.
È la fine.
È l’inizio.
***
Hellgi Samaely affondò fino alla caviglia in un limaccioso pantano di pietruzze acuminate e acqua
stagnante, pessimo luogo per perdere l’equilibrio.
Reggendo in una mano gli stivali, agitò le braccia e imprecò tra i denti contro i graffi che sentì
aprirgli la pianta dei piedi, ma non appena smise di barcollare, si ammansì e inspirò a pieni polmoni
l’aria nebbiosa della prima alba sulla terraferma.
Era satura del lezzo di alghe marcescenti, misto all’appiccicoso sentore di pesce rancido, eppure
paragonato al tanfo di morte che lo aveva afflitto nelle ultime ore sul ponte di una nave condannata
gli parve l’odore più buono del mondo.
Avanzò di qualche passo prima di lasciarsi cadere dove le onde non arrivavano a lambire la rena, e
da lì volse infine uno sguardo risentito al mare, concedendosi un briciolo di tregua per spegnere
l’affanno ereditato dalla lunga nuotata.
A spezzare la linea dell’orizzonte sulla riva, la fragile figura che lo aveva accompagnato non
mostrava la stessa stanchezza e gli dava le spalle, cosa di cui il mercenario, vergognandosi, fu grato
agli dèi.
Non gli sarebbe piaciuto dare mostra di sé in quello stato nemmeno alla propria madre, figurarsi a
quella che considerava un‘insopportabile sciagura, sbarcata con lui per spingerlo verso una
disgustosa costa puzzolente.
Risentito, ne osservò le spalle immobili e con insolita rassegnazione attese.
Il tempo gocciolò sull’ampio manto cobalto che avvolgeva la sua compagna e sui segreti tormenti
che, racchiusi nei propri silenzi, nessuno dei due condivise.
Per quanto lo riguardava, Hellgi fu contento di non vedere più la sagoma incorporea del vascello
che a lungo era rimasta sbiadita ma incombente, prima di tuffarsi nella nebbia e riprendere la via del
mare aperto.
Nonostante l’impegnativa traversata a nuoto gli avesse rotto il fiato e appesantito i muscoli,
abbandonare la Precettalis e il suo equipaggio maledetto era stato per lui come risvegliarsi da un
incubo senza fine.
E nemmeno del tutto.
Persino da così lontano, ogni volta che chiudeva gli occhi afflitti dal bianco riverbero della bruma,
rivedeva il ponte popolato di uomini fatti a pezzi, marinai le cui viscere colavano sangue scuro sul
legno, cadaveri.
Cadaveri che camminavano.
“Se lo raccontassi, mi crederebbero pazzo. E forse lo sono”.
Rabbrividendo, il mercenario si alzò.
Con robuste manate ripulì gli abiti ancora umidi, grossolano tentativo di liberarli dal nero pietrisco
della battigia, riassestò il fodero della spada dopo averlo vuotato dall’acqua salata e infilò gli stivali
per addentrarsi nel cuore di Algol, la terra dei barbari.
All’unisono con i propri passi udì il mantello cobalto sospirare sul freddo arenile, e la scomoda
figura che lo accompagnava seguirlo senza dire una parola.
Il giorno maturò nella nebbia, un denso sudario che divorò il suono della loro marcia sulla roccia
nuda, amplificando il silenzio e ingannando ben presto il consumarsi delle ore.
Hellgi riconobbe il trascorrere del tempo solo attraverso il crescente morso della fame che gli si
aggrappò allo stomaco, e non poté fare a meno di rammentare che l’ultimo pasto l’aveva vomitato in
modo indecoroso sulle assi della Precettalis.
Fu un ricordo molesto che scacciò con sdegno, sollevando lo sguardo in cerca di un punto di
riferimento nel biancore che lo assediava.
E lo trovò.
Ombre grigie affiorarono sulla sommità del pendio davanti a lui, e avanzarono bucando la caligine
con un sordo tuono di pellicce e passi rabbiosi.
Senza aver registrato razionalmente il movimento, Hellgi si ritrovò con le dita chiuse intorno
all’impugnatura della spada, ma prima che potesse snudarla una mano gli serrò il polso in un
inequivocabile monito.
Contrariato, scoccò uno sguardo risentito al proprio fianco senza riuscire a penetrare la barriera del
cappuccio attraverso cui un sussurro lo raggiunse composto.
«Placa l’irruenza, eroe. Quattro come te non avrebbero alcuna possibilità contro uno solo di loro».
Ingoiando una ritorsione poco elegante dettata dall’orgoglio, il mercenario ottemperò con
riluttanza e allargò le braccia in un deliberato cenno di resa.
«Mpf!», sbottò sarcastico, «se dovevamo diventare cadaveri senza batterci, tanto valeva restare
sulla Precettalis!».
La mano abbandonò la presa sul polso e la voce sorrise con malcelata ironia: «Non devi crucciarti
allora. Costoro non lasciano cadaveri… sarebbe cibo sprecato».
Hellgi deglutì suo malgrado, ma un ferro rugginoso a doppia punta, spianato dritto alla gola, tagliò
ogni altra protesta e quando il mercenario riportò lo sguardo davanti a sé, ebbe di nuovo voglia di
vomitare.
Quelli non erano uomini!
Avvolti nell’umido abbraccio di spesse pellicce, con il sudicio volto appena visibile in un groviglio
barbuto e capelli stopposi che ammantavano le spalle, avevano stazza, portamento e occhi
traboccanti della ferocia tipica di bestie selvagge.
«Helfeirch…», spiegò in tono grave la compagna accanto a lui e le teste degli esseri si rizzarono
d’attenzione nel sentire il nome con cui venivano chiamati, «… bruti fatti di puro istinto. Instancabili
cacciatori, svezzati come animali e spietati come demoni. Se sono uomini, loro stessi lo hanno
dimenticato. Davanti a te, Hellgi Samaely, hai l’élite dello spirito guerriero di Algol».
Il sangue defluì dalle guance del mercenario e il freddo si fece più intenso nello stomaco.
«Cosa… cosa ci aspetta?», domandò con uno sforzo sovrumano per trovare la voce.
La figura al suo fianco non rispose.
Oltre le falde del mantello che la avvolgeva, lasciò emergere le mani con deliberata lentezza e le
mostrò, i palmi rivolti in alto in un aperto cenno di pace.
Hellgi la imitò cercando di controllare il proprio tremito, e quando la vide chinare il capo fece
altrettanto.
«Cerco Demilar Warlash», la udì poi scandire attraverso il cappuccio, e il suo tono limpido dal
vago sapore imperativo riecheggiò innaturale nella nebbia.
Gli helfeirch si scambiarono sguardi neri e annuirono quasi all’unisono.
Più espressive di qualunque parola, mani callose furono sui due naufraghi con impietosa brutalità,
rapide nel privarli dei mantelli ma non della spada che Hellgi portava al fianco, quasi la
considerassero un sacro cimelio da non toccare.
Annaspando nel gelido alito di Algol che lo aggredì all’istante, il mercenario gettò uno sguardo
interrogativo al proprio fianco, dove raccolse solo un impercettibile cenno di diniego del capo e un
consiglio sussurrato a fior di labbra.
«Non mostrare paura o sei morto».
Hellgi era un combattente, sapeva cosa fosse la paura e sapeva nasconderla, eppure mentre gli
helfeirch lo sospingevano con primitiva durezza lungo il sentiero, non poté fare a meno di
domandarsi quanto avrebbe retto.
La lunga, mostruosa marcia per condurli nel cuore di Algol era solo cominciata, ma ben presto il
mercenario si ritrovò a scommettere fra sé su chi li avrebbe uccisi per primo, gli uomini-bestia o
l’ingenerosa terra dei barbari.
«Non avrei mai creduto di dirlo…», mormorò in miseria, sforzandosi di tenere il passo serrato dei
formidabili selvaggi, «… ma mi manca la Precettalis».
Accanto a lui, Kalistea Stonn incespicò su una roccia appuntita e prima ancora che potesse
rovinare al suolo, fu afferrata con malagrazia per i lunghi riccioli castani e tratta in piedi in modo
rude, quasi fosse una bambola di pezza.
A suo merito, la fanciulla non perse una briciola della propria dignità, non emise un solo gemito e
rivolse gli occhi d’ambra al guerriero con una determinazione che, suo malgrado, lo riempì di
ammirata meraviglia.
«Per ora siamo prede…», mormorò attraverso labbra esangui per il freddo, «… ma hai la mia
parola che presto diverremo predatori».
Capitolo primo
I Fuochi dei Monti Rubino
“Posta Brevis”, dettò al corpo.
Iniziava così il ventiquattresimo ciclo, se la mente non lo ingannava.
O era il venticinquesimo?
Poteva aver perso il conto, ma non aveva poi tanta importanza, purché la sequenza delle poste di
guardia fosse corretta.
Portando il ginocchio in avanti, piegò appena la gamba, lasciando la sinistra arretrata, il filo della
lama a quarantacinque gradi di fronte agli occhi, mano destra aderente all’elsa, la mancina sul
pomolo, corpo eretto a tre quarti.
E per la ventiquattresima volta, un’acuta fitta di rabbia a stento trattenuta gli artigliò lo stomaco.
A ogni nuovo ciclo non poteva fare a meno di lamentare l’assenza di un compagno con cui
misurarsi, ma peggio ancora era patire la smania di impugnare una spada reale, e non poterla
assecondare.
Non osava farlo e, sebbene le mani ne avessero una gran sete, Adriel si impose di non cercarla né
tra i pensieri, né con lo sguardo.
“Concentrati!”, si ammonì per l’ennesima volta.
Affidandosi al sospiro del mare che dettava il ritmo della danza, non appena udì il canto del terzo
frangente sugli scogli passò alla Posta di Corona.
Levò la “spada fantasma” più in alto, ruotando i polsi quanto bastasse per avere la lama di piatto di
fronte a sé, e fu allora che un violento fremito gli attraversò il bicipite.
Frustrato, il guerriero ringhiò di disappunto.
Se avesse avuto una vera arma tra le mani, adesso l’avrebbe persa e il suo clangore irriverente
avrebbe svegliato il vecchio.
Sospirando, abbassò le braccia lungo i fianchi e si arrese alla tregua che i muscoli stremati
reclamavano, lasciandosi flagellare dall’ennesima folata di vento spirata dal mare.
Ne era stato afflitto per tutta la notte, tanto che ora il suo corpo nudo era imbiancato di salsedine.
Sotto il cielo che cominciava a schiarire, gli occhi del mezz’elfo poterono di nuovo distinguere i
colori, se così si potevano definire le avvilenti sfumature di grigio che lo accerchiavano, e nella
penombra vide la sagoma irregolare degli altri faraglioni fare capolino sopra esuberanti corolle di
schiuma, inseguendosi verso ovest sulla “Passeggiata dei Giganti”.
Poco più che scogli, molto meno che isole, erano nient’altro che sassi crudi e ingenerosi, proprio
come quello su cui lui e Astarion avevano trovato approdo la notte precedente, nel tentativo di
sottrarsi alla sorte ruggita dal mare.
Sottrarsi… o rimandarla.
Bagnati e digiuni, non avevano osato accendere nemmeno un modesto fuoco da campo per cercare
un po’ di sollievo e, trascorsa una sola ora dal naufragio, il vecchio aveva cominciato a tremare senza
controllo.
Adriel aveva sofferto nel vederlo versare in uno stato tanto misero, così aveva rinunciato alla
segretezza di un bivacco buio, e si era prodigato a frugare in lungo e in largo quel maledetto pezzo di
roccia in cerca di legna o sterpi da ardere.
Peccato che nella rigida morsa dell’oscurità non avesse trovato altro che muschio umido e vento
salato.
Alla fine si era arreso e, una volta raggiunto di nuovo il vecchio, lo aveva trovato penosamente
assopito –anche se per un terribile istante lo aveva creduto morto.
Se non altro la scalata e l’infruttuoso arrovellarsi alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti gli
avevano acceso una fucina nelle vene, e gli abiti gli si erano infine asciugati addosso.
Ammonticchiarli sulle spalle del vecchio per ammansire l’incontrollabile tremore era stata una
scelta durissima, e Adriel fu subito consapevole che prima o poi li avrebbe rimpianti.
Ecco, adesso che aveva interrotto l’esercizio fisico, poteva ben dire che quel “poi” era giunto
infine, e per quanto fosse severo con se stesso, non se la sentì di biasimarsi.
In fondo aveva resistito tutta la notte, rifugiandosi nella sua disciplina di guerriero.
Sagoma nera su uno sfondo ingannevole di cielo e mare, aveva disteso le braccia, piegato le gambe
per poi tracciare archi, semiarchi, affondi e fendenti a un ritmo preciso, rigoroso, senza concedersi
un momento di sosta.
Gli ansiti rapidi che gli scuotevano il petto adesso ne erano testimoni, e non avrebbe saputo dire
quanti dei brividi che stavano cominciando a pretenderlo fossero dovuti allo sfinimento del corpo o
al freddo incalzante.
“Devo muovermi”, si sollecitò, prima di cedere alla tentazione di destare il vecchio per riavere i
propri indumenti.
Non gli sarebbe dispiaciuto se al suo risveglio avesse potuto dirgli di aver trovato un modo per
abbandonare quella sorta di prigione senza sbarre su cui erano esiliati.
Il fatto che all’orizzonte il vascello infuocato fosse scomparso, liberandoli dallo sguardo infernale
che li aveva perseguitati per tutta la notte, lo aiutò a recuperare un brandello di speranza.
Senza rendersene conto, gettò un’occhiata al fodero poco distante, ma subito dopo se ne pentì e
spostò l’attenzione altrove, quasi la spada lo avesse morso.
Non gli serviva un’arma qui, di tanto poteva stare certo.
E fu subito smentito.
Aveva mosso meno di quattro passi quando, nell’abbraccio a mezzaluna della piccola baia vicina,
scorse il susseguirsi di piccole onde concentriche sul pelo dell’acqua, opposte alla direzione della
risacca.
Acquattandosi su mani e ginocchia, si tese all’ascolto e con prudenza indietreggiò a portata
dell’arma.
Un tonfo, e poi un altro, cadenzati, discreti.
Le dita sfiorarono il fodero e risalirono fino alla guardia che vi si affacciava suadente, freddissima.
“Dèi, fate che io non debba…”, pregò in segreto, diviso tra il desiderio di snudare la spada e il
timore di appagarlo.
Nei suoi occhi d’acciaio si specchiò il profilo della roccia, la linea di luce che accendeva
l’orizzonte, il susseguirsi di cerchi sull’acqua.
E una cocente brama di guerriero.
Il suono ritmato cessò, e per qualche istante non vi fu altro che il mormorio stropicciato delle onde
che morivano sugli scogli.
“Cadaveri nell’acqua?”.
Non aveva invocato il pensiero consciamente, ma la sua presa fu forte nello stomaco e sulla mano
che si chiuse intorno al fodero.
Attese, ascoltò.
Pregò.
Non quei cadaveri, non quei volti…
Prima che l’ansia prendesse il sopravvento sui nervi, un gracchiante stridio di metallo strofinato
contro la pietra lo raggiunse facendolo sobbalzare.
Accanto a lui il vecchio si mosse appena e quando ne incontrò lo sguardo assonnato, Adriel si
portò l’indice davanti alle labbra in un implicito monito.
Non attese la sua reazione.
Ogni fibra nel corpo gridò di protesta, e anche se non avrebbe mai e poi mai voluto farlo, si decise
ad avanzare piano verso il suono, la destra chiusa intorno all’impugnatura, l’altra mano sul cuoio che
nascondeva l’acciaio, pronta a liberarlo.
Quello che vide oltre il bordo dello scoglio lo sorprese tanto da fargli dubitare di essere desto.
Strapazzata da un manipolo di onde indisciplinate, una minuscola piroga a remi dondolava brusca,
minacciando a ogni rollio di andare a sbattere sulla roccia cui era legata con una logora gomena.
Sul lato di dritta, fugace come lo scintillio del primo sole sulle grinze dell’acqua, una sagoma
scomparve fra i flutti, immergendosi del tutto prima che Adriel potesse identificarla.
Poco dopo lo stridio riprese, ovattato e cupo.
Riscuotendosi dall’iniziale stupore, il guerriero fece scorrere lo sguardo all’interno della barcaccia,
cercando di prendere le misure dell’eventuale pericolo, e non vi scorse altre armi se non un
rudimentale arpione incrostato e un paio di coltellacci dentellati.
Legata a un anello sul bordo, pendeva una rete per metà immersa nell’acqua, e quando sotto lo
specchio distorto delle onde vide la sagoma rugosa di qualche guscio, Adriel comprese.
Un pescatore di ostriche.
“Impossibile”, razionalizzò all’istante.
Sulla “Passeggiata dei Giganti”, così vicino alle coste di Algol…
Nessun uomo, per quanto povero, poteva essere così sconsiderato da rischiare la pelle per una
manciata di molluschi, anche se il loro pregio e la speranza di arricchirsi con qualche rara perla
erano stimoli difficili da ignorare.
Prima che Adriel avesse completato il pensiero, la superficie dell’acqua si oscurò e il pescatore
riemerse con gli occhi puntati direttamente nei suoi.
Un solo attimo e, sibilando in un fascio di schiuma, un pugnale sfrecciò con rapidità mozzafiato
dritto verso di lui.
Adriel reagì di puro istinto e si gettò di lato, riuscendo a sottrarsi a malapena al morso della lama,
ma la sentì ringhiare tanto vicina da sputargli acqua salata sulla guancia, portarsi via una sottile
ciocca dei capelli corvini, e urlare infine il suo clangore scontento sulla roccia.
«Non sono un nemico!», gridò, ma il pescatore stava già immergendosi di nuovo per scomparire
sotto il ventre del peschereccio, senza dubbio intenzionato a riemergere dall’altra parte per
proteggersi e recuperare al tempo stesso gli altri rozzi coltellacci.
Esasperato, Adriel si affrettò a coprire la distanza che lo separava dalla gomena.
Se c’era una sola speranza di fuggire da lì era quella di convincere l’uomo a prenderli a bordo, e il
guerriero giurò a se stesso che per nulla al mondo gli avrebbe permesso di andare via senza di loro.
Proprio come si era aspettato, lo vide riemergere sul lato di mancina e stendere un braccio in cerca
delle lame.
«Non sono di Algol!», riprovò scandendo le parole una a una, e per un attimo vide il velo di una
strana esitazione adombrargli lo sguardo.
Facendosi scudo della barca contro il torace, il pescatore lo squadrò dalla testa ai piedi –
ricordandogli così che era completamente nudo- e con aria insoddisfatta gli riversò addosso una
sequela di parole in una lingua aspra e sconosciuta.
Adriel strinse le labbra e abbandonò la stretta sull’impugnatura della spada.
Deciso a calmarlo, allargò le braccia per esporre il palmo della mano destra vuoto e l’arma, ancora
chiusa nel fodero, nella sinistra.
«Ohibò!», lo raggiunse alle spalle il borbottio impastato di Astarion, «Una conta invidiabile di anni
e variopinte esperienze gravano le mie vetuste spalle, e ciononostante madre Conoscenza mi destina
cotali, singolari visioni. Ti appare forse consono, giovanotto, mostrarti in ‘sì discinta maniera agli
occhi di un indigeno spaurito? Persino io non oserei riporre fiducia alcuna nelle tue non bellicose
intenzioni, anzichenò!».
«Non ora, Maestro…», ringhiò Adriel, cercando di tingere il proprio tono con un‘adeguata quantità
di rispetto.
Doveva trovare il modo di comunicare con il pescatore, magari ricorrendo ai rudimenti di quelle
poche parole apprese lungo i numerosi viaggi per mare e, per quanto sgradevole, non gli era certo
utile crucciarsi per la propria nudità.
Valanjr gli sarebbe stato d’aiuto invece.
L’amico era un collezionista di vizi, difetti e pessime abitudini, ma ci sapeva fare in queste
situazioni e Adriel non riuscì proprio a risparmiarsi di rimpiangerne la presenza, maniere scanzonate
comprese.
«Pace», offrì a voce più alta, tentando di ricorrere all’idioma delle genti di mare, e in tutta risposta
il pescatore gli scagliò contro uno dei due coltellacci che aveva recuperato dal fondo della barca.
Scansandosi ancora una volta, Adriel ruggì di disappunto e riportò la mano alla spada, esitando
però a sfoderarla.
«Se hai esaurito i tentativi…», riprese Astarion imperturbato, «… ti chiedo licenza di lasciare il
mercanteggiamento al sottoscritto».
Adriel dovette ricorrere a tutta la cortesia di cui fosse capace per non sbuffare, ma prima di riuscire
a organizzare una risposta che convincesse il vecchio a trovare un riparo, questi intraprese un audace
dialogo in una lingua molto simile a quella gracchiata dal pescatore.
Sbigottito, e in buona misura anche imbarazzato, il guerriero alternò gli sguardi tra lo straniero
immerso nell’acqua e il mite Astarion.
Quante sorprese ancora riservava il Maestro sotto quell’aria svampita, talvolta debole e
vulnerabile, di anziano dall’indole burbera e intransigente? Chi era davvero costui che, con lunga
chioma e barba bianca, si offriva agli occhi in modo tanto stereotipato e ingannevole?
Di una cosa il guerriero poteva stare certo: con lui non si sarebbe annoiato.
Sul volto del pescatore l’ostilità perdurò molto a lungo, qualche volta attraversata da un vago moto
di confusione, e Adriel si sorprese a sorridere.
Confrontando la lunghezza delle frasi articolate dal vecchio con quelle brusche e spigolose
dell’uomo, non era difficile dedurre che Astarion si esprimesse in modo forbito e contorto anche in
una lingua che non gli apparteneva per nascita.
Scuotendo la testa, il guerriero si rassegnò all’attesa, cercò una posizione comoda –nonché più
pudica- e sedette, raccogliendo le ginocchia al petto per ripararsi un po’ dal freddo del mattino che
sbocciava in una rigogliosa nebbia.
Non osava allontanarsi, visto che per quanto Astarion stesse abbondantemente dimostrando di
avere la situazione in pugno, c’era ancora almeno un coltellaccio all’interno dell’imbarcazione.
Infine il pescatore tacque e vedendolo ponderare, Adriel si volse verso il vecchio con aria
interrogativa.
«Dunque?», osò tiepido.
Quasi fosse stato disturbato da un saporito sonno, Astarion si riscosse e lo guardò come se lo
vedesse per la prima volta.
«Dunque, cosa? Non riesco a capacitarmi, anzichenò, come un giovanotto di buone maniere, e
pertanto fuor di dubbio generato da dignitosa famiglia, possa ancora in ‘sì torbida condotta
perseverare, tralasciando l’assenza di un decoroso vestimento. Di grazia, stiamo per salpare da
codesto desertico e poco ameno scampolo di pietra, e tu indugi a rollare sotto il bigio sole
antimeridiano, piuttosto che somministrare almeno un singolo cruccio al preparamento del tuo
obliato bagaglio?».
Con la scusa di inumidirsi le labbra Adriel le masticò e si impegnò magistralmente a non cedere
alla risata che gli germogliava nello stomaco.
Astarion c’era riuscito, e questo era tutto ciò che contava.
«Chiedo perdono», offrì, chinando il capo e levandosi per recuperare il proprio equipaggiamento.
Solo quando furono entrambi sistemati sulle assi del peschereccio, e con la complicità del pigro
dondolio delle onde, Adriel sentì infine la minaccia del sonno afferrarlo con mano pesante.
Immagini del naufragio si accavallarono ai volti dei pirati, alle fiamme sulle vele della
Spregiudicia, allo sguardo severo dell’elfa dai capelli rubino e alla donna-bambina che aveva
conosciuto sulla nave di Denskar Linch. Vide Valanjr sorridere beffardo con la sua spada in grembo,
e poi lo vide sparire tra i flutti, sotto un cielo che si adombrava di rabbia.
Tutti volti di morti, tutti perduti.
Ogni pensiero si fece più greve, ogni angoscia crebbe funesta finché non si rese conto di essersi
arreso al sonno per qualche istante e si riscosse allarmato.
Non doveva abbassare la guardia, non quando erano alla mercé di un uomo che ogni saggia
considerazione suggeriva non dovesse trovarsi lì.
All’improvviso si rese conto che gli era sfuggito qualcosa, e rievocò lo sguardo del pescatore al
momento in cui lui aveva menzionato Algol. Non vi aveva colto paura o disprezzo, ma una sorta
di… dubbio?
Lo aveva visto misurarlo dalla testa ai piedi, forse cercando tracce della stirpe barbarica in lui
senza trovarne alcuna, e solo allora gli aveva scagliato contro parole dal suono scontento.
Cercando di intercettare lo sguardo di Astarion, Adriel snudò pochi centimetri d’acciaio dal fodero
e la luce filtrata del mattino vi si specchiò in un fugace sfolgorio, quanto bastasse per ottenere
l’attenzione del vecchio.
«Un pescatore? Sulle rive di Algol?», mimò con le labbra per condividere i propri dubbi senza
farsi sentire dall’uomo. Ora che il sospetto aveva cominciato a intossicarlo, il guerriero non era più
sicuro nemmeno del fatto che l’indigeno non capisse la sua lingua.
Una scintilla passò negli occhi azzurri di Astarion che però non gli concesse altro se non un breve
cenno di diniego con il capo.
Ad Adriel bastò per comprendere che la contraddizione non fosse passata inosservata neanche alla
mente brillante del Maestro e saperlo consapevole in qualche modo lo rassicurò.
Chi fosse costui e come avesse fatto Astarion a convincerlo a ospitarli sul suo pezzo di legno forse
sarebbe rimasto un mistero, e forse non valeva nemmeno la pena svelarlo.
In fondo, nulla poteva essere peggio che morire di stenti e di freddo sulle rocce a cui era approdato
il loro naufragio.
Poi Adriel vide all’orizzonte la costa e riconobbe in lontananza i fuochi lavici che ardevano su
leggendarie catene vulcaniche, segno distintivo e inequivocabile che imponeva un nome a quella
terra: Algol.
E malvolentieri cambiò idea.
Sì, c’era qualcosa di peggio.
***
Non si poteva scorgere molto del villaggio oltre la grezza palizzata di legno.
Tronchi appuntiti, alti almeno quanto due uomini, si tendevano a bucare la serpeggiante cortina di
fumo sbuffata dai numerosi falò, scoppiettanti sulla legna infradiciata dalle recenti piogge.
Non era comunque il primo insediamento che gli era capitato di scorgere sulla piana brulla di
Algol e non gli serviva in fondo molta fantasia per immaginare cosa lo aspettasse oltre lo steccato.
Qualche tenda di pelliccia per la casta più umile del fare eretta in periferia e, verso il nucleo,
sommarie baracche di legno rialzate su corte palizzate, per i guerrieri con più onori sulle spalle.
O più massacri, a seconda del punto di vista.
Secondo le usanze algoliane, le due cose naturalmente coincidevano.
Agli occhi di Reidon comunque, i villaggi di queste genti erano tutti uguali.
Tutti acerbi, come il loro senso etico e morale.
Raccolte entro pietrosi recinti, avrebbe trovato le poche bestie selvatiche che i barbari erano soliti
allevare, e a giudicare dal profumo che gli stava torcendo lo stomaco, qualcuna di esse l’avrebbe
trovata anche negli ampi paioli sospesi sui fuochi, o infilzata in grossi spiedi sulle braci.
«Perché dovrebbero darci asilo?», mormorò Vaieeno dentro la pelliccia che gli copriva parte del
volto, e Reidon scosse la testa dubbioso.
Non avevano argento con sé da offrire, né cacciagione da condividere e nemmeno una schiava da
barattare.
Seguendo il pensiero, lo sguardo andò a infrangersi su Gaira senza volerlo e un attimo dopo il
merakense se ne vergognò così tanto che si sarebbe preso a schiaffi da solo.
«Avremmo dovuto abbandonarla e attraversare la Piana delle Ceneri», riprese il capitano,
fraintendendo l’occhiata del giovane.
Sì, forse avrebbero dovuto, ma Gaira era stata inamovibile.
Con il terrore più atavico dipinto sull’esotico volto, aveva implorato, aveva indicato l’albero che,
avvampando spontaneo, forse aveva consegnato alle fiamme anche l’uomo sulle cui tracce avevano
speso giorni, compagni e immensi sacrifici. Nella sua lingua stentata, li aveva travolti con storie nere
e terrificanti, pregne di tutta la superstizione della sua stirpe, e Reidon aveva tradotto ogni singola
parola perché il capitano potesse scegliere cosa fare in un momento delicato come quello.
Con sua grande sorpresa, Vaieeno si era mostrato più malleabile di quanto si fosse aspettato, cosa
che poi, ripensandoci a freddo, gli tornò perfettamente sensata.
Scarsità d’equipaggiamento.
Malisken poteva essere morto carbonizzato, oppure vivo e a un tiro di sasso, ma in entrambi i casi
attraversare la Piana sguarniti non sarebbe stato saggio.
Era più prudente scegliere di aggirarla e sostare a fare rifornimento in un villaggio, in modo da
garantirsi una scelta successiva: riprendere l’inseguimento e accertarsi del destino del loro bersaglio,
o cercare il mare per reclutare un messaggero e fare rapporto al Decano.
Peccato che ora la fiducia nella decisione presa stesse inesorabilmente vacillando al cospetto
dell’insediamento che si apprestavano ad affrontare.
Lì avrebbero trovato uomini alti, robusti guerrieri di grande talento e dal carattere difficile che li
avrebbero squadrati e marchiati come ciò che erano: stranieri, e in Algol questo significava nemici.
Reidon non se la sentì di biasimare il capitano per la sua affermazione, e anche se trovava
semplicemente disgustoso il pensiero di abbandonare una donna indifesa in una terra tanto selvaggia,
dovette riconoscere che i dubbi espressi da Vaieeno erano più che leciti.
Sospirando, gli rivolse un’occhiata che invocava un po’ di tolleranza e toccò il braccio di Gaira per
richiamarne l’attenzione.
«Come entriamo?», le domandò nella lingua che lei comprendeva.
Sotto la pesante cappa di pelliccia che le ombreggiava il volto, l’indigena ebbe un moto di
insicurezza e i suoi occhi bruni vagarono per un attimo.
«Tratto io», gli offrì infine avara.
«Come? Non abbiamo niente da offrire…».
«Conosco questa gente».
Reidon non si arrese e le afferrò il polso, trattenendo il suo incedere.
«Devo sapere cosa aspettarmi».
Gaira lo fissò severa e con uno strattone infastidito si liberò.
«In Algol il giorno prima è storia. Il giorno dopo è dubbio. Non puoi sapere!».
Rivolgendo uno sguardo esasperato al cielo prima e al capitano poi, il giovane recitò in segreto un
paio di preghiere e si pose di fronte alla selvaggia, i palmi rivolti a lei in segno di pace.
«Ti ho ascoltata quando hai voluto evitare la Piana delle Ceneri. Ora devi ascoltare me. Non entro
nel villaggio se non sono sicuro che non ci venderai a loro. Perché non dovresti farlo in fondo?
Potresti persino trovare una casa qui…».
Gaira abbassò la testa e per un attimo Reidon ebbe l’impressione di vedere una crepa di dolore
aprirsi nelle sue iridi scure.
Che avesse esagerato?
Per qualche tempo Gaira rimase in silenzio, i pugni serrati ai fianchi, le spalle rigide.
Proprio quando il giovane credette che lei non avrebbe più fiatato, la sua voce incerta ruppe gli
indugi.
«La mia tribù, la mia gente… è… spenta. Gli Isan erano gli antichi più primi in Algol, detti
“Crepuscoli” perché scuri a pelle, a occhi, a capelli. Sono massacrati quando ero ancora bambina e i
pochi sopravvissuti sono presi schiavi. Io ero catturata nella tribù del Lupo, i più sanguinari e
vincitori di Algol. Il sommo Warin, Demilar Warlash, è Signore di queste terre e davanti a lui tutti i
fare minori piegano la schiena», deglutì, quasi dovesse mandare giù una boccata di veleno e riprese
un attimo dopo più mesta, «no… non troverò casa qui, né in altro posto. Ero schiava a Malisken. Ma
lui ora è macchiato… e io con lui».
A corto di pazienza, Vaieeno si avvicinò e rivolse un’occhiata interrogativa a Reidon, che
sospirando si rassegnò a tradurre in un sussurro affrettato.
«Quindi è ricercata anche lei», ragionò d’istinto il capitano al suo resoconto, «motivo in più per
non entrare nel villaggio».
Reidon annuì e si volse di nuovo verso Gaira, adagiandole le mani sulle spalle.
«Perdonami se ho dubitato di te… ma comprendimi. Non conoscevo la tua storia. Però adesso che
la so, sono ancora più sicuro che non sia un bene entrare laggiù. Se ti riconoscono, e sono sicuro che
non passi inosservata, ti riporteranno ai Lupi…».
Lei sollevò piano il capo, e a Reidon parve quasi sorpresa di essere trattata con tanta gentilezza.
«I fare obbediscono al sommo Warin. Ma c’è sempre temporale tra tutti i fare di Algol e i vincitori
Lupi sono più in alto, meno amati. Ci faremo dare cibo, acqua e qualcosa per il viaggio. Poi loro
obbediranno a Demilar e diranno che hanno visto noi… ma dopo il tempo che noi ci allontaniamo».
«Le tribù non si amano molto tra loro», tradusse Reidon a favore del capitano, prima di riprendere
verso Gaira.
«Va bene. Ma come li convinciamo a darci cibo, acqua e tempo?».
Un lampo di insicurezza, mista a tensione, danzò sul volto dell’indigena e quando lo sguardo scese
fino al fodero della spada, Reidon credette che lei stesse prendendo in considerazione l’idea di usarla
come oggetto di baratto.
Perché no, in fondo. Era una buona lama, leggera e bilanciata anche se la sua forgia ricurva
sarebbe stata poco familiare alla tecnica di combattimento dei guerrieri barbarici.
Proseguire il viaggio disarmati però assottigliava le alternative, riconducendole a una rapida e
pericolosa fuga verso il mare.
«La mia spada?», le domandò senza riuscire a mascherare il disagio nella voce, ma lei scosse
subito la testa.
«No. Senza spada in Algol sei morto prima di camminare», lo rassicurò lei, «Solo Warin Demilar
può togliere la spada a un guerriero. È la legge. Ma quale che è il desiderio del Warin di Lince, noi lo
troviamo».
Reidon rimase per un attimo sospeso, certo che lei avesse in mente qualcosa di troppo difficile da
dire e che in quel noi né lui, né il capitano avessero un grande ruolo. C’era qualcosa nel tono,
nell’espressione della ragazza e nella risolutezza dello sguardo che gridava quanto fosse inutile
insistere con le domande. Almeno quanto tentare di tornare indietro ora.
Alla fine sospirò rassegnato.
Lupi e Linci. Bel connubio.
Le insegne di legno affisse alle torrette di guardia che fiancheggiavano l’ingresso erano logore per
intemperie ed età, ma l’incisione era ancora abbastanza profonda da essere ben visibile a dieci passi
di distanza. Il disegno era rozzo e di certo non all’altezza delle opere d’arte che Reidon aveva avuto
la fortuna di rimirare a Merak, ma in ogni caso vi riconobbe la primitiva sagoma della lince
menzionata da Gaira.
“Tutti animali quieti”, ironizzò tra sé per esorcizzare il nervosismo crescente.
Era comunque troppo tardi per voltare i passi e poiché lui e i compagni avevano scorto i bastioni
dell’accampamento, era plausibile supporre che a loro volta non potessero essere sfuggiti allo
sguardo dei suoi difensori.
Ed eccoli lì, proprio come se li erano aspettati: due uomini alti come sovrani, dall’espressione
ostile e la postura intransigente a sbarrare l’ingresso.
Reidon fece del proprio meglio per mantenere le spalle erette e la volontà salda.
E naturalmente la mano lontana dall’elsa.
Bastava guardarli perché le ginocchia diventassero acqua.
Il torace nudo mostrava senza mezze misure una corazza di muscoli solidi, retaggio di una vita
spesa a combattere e fare poco altro.
Duri e fieri, i due guardiani erano tra loro simili in carnagione e nel biondo chiaro dei capelli,
lunghe criniere orgogliose che solleticavano le scapole.
Loro di certo non ebbero timidezza alcuna a snudare l’acciaio.
Solo quando fu abbastanza vicino, Reidon colse sui lineamenti le differenze che in un primo
momento gli erano sfuggite, facendogli credere che i due fossero gemelli.
Un naso importante, occhi blu cobalto e sopracciglia folte, crespe come la barba che gli
ammantava il mento, per l’uomo alla sua sinistra. Fattezze più spigolose, naso quasi piatto, occhi più
chiari e volto glabro per quello alla destra, in apparenza il più giovane dei due.
Prima di giungere a portata di lama, sia Reidon che Vaieeno rovesciarono i cappucci sulle spalle
per mostrarsi, aprirono le braccia ed esposero i palmi vuoti in segno di miti intenzioni.
«Pace», dichiarò Reidon, sperando che il dialetto fosse quello giusto.
Sarebbe stato un vero disastro se la parola pronunciata avesse avuto tutt’altro significato nella
lingua di costoro. A giudicare dalla smorfia che ne stropicciò le labbra e dallo sguardo che i due si
scambiarono, poteva a buon diritto credere di averli insultati.
«Chi siete?», ruggì autoritario l’uomo barbuto, smentendo subito quel timore per dare spazio a
molti altri.
“Dritto al punto”, si complimentò con amarezza Reidon.
Avrebbe mentito volentieri, ma fatalmente il suo pensiero corse al compagno catturato. La loro
presenza in territorio algoliano con tutta probabilità non era più un segreto ormai e, in fondo, lame e
abiti indossati sotto i mantelli avrebbero svestito presto una qualsiasi fandonia.
No, se volevano avere una seppur precaria speranza di conquistare la fiducia di uomini simili,
sciocche falsità facili da smascherare andavano messe al bando.
Per un attimo Reidon cercò gli occhi di Vaieeno. Avrebbe dovuto tradurre e chiedere quale risposta
offrire, ma parlare in una lingua sconosciuta davanti a guerrieri con atteggiamento a dir poco
suscettibile non gli parve una buona idea.
«Uomini dell’est», formulò con tono deciso, ma prima che potesse aggiungere altro, sentì lo
sguardo di Gaira su di sé e comprese.
«Parlo male vostra lingua», stentò, deformando di proposito l’accento, «può parlare la donna?».
Il guerriero barbuto sputò in terra e si volse verso il compagno.
Da lui ebbe uno sguardo sdegnoso e una scrollata di spalle, e poi insieme spostarono l’attenzione
su Gaira, osservandola come se non si fossero accorti di lei fino a quel momento.
«Parla!», intimò di nuovo lo stesso uomo.
L’indigena si scoprì il capo a sua volta e Reidon fu sorpreso di scorgere tanta sicurezza sul volto
bruno e nella voce pulita.
«Chiediamo acqua, cibo e riparo per la notte».
«No», replicò l’uomo senza cerimonie, e non parve voler articolare oltre.
«Sono figlia di Algol», non si arrese Gaira, «ho diritto al baratto».
L’uomo adagiò la punta dello spadone al suolo, davanti ai piedi dell’indigena, e spese qualche
tempo a studiarne il volto, palese scetticismo dipinto nella smorfia severa della bocca.
«Menti», sottolineò a voce, quasi ve ne fosse davvero bisogno.
«Chiedi al tuo Warin. Lui conosce più orizzonti dei tuoi».
Reidon risucchiò l’aria tra i denti nell’udire le parole ardite della donna, ma non osò intromettersi e
fu stupito di non scorgere alcun segno di oltraggio sul volto severo del barbaro. Evidentemente
quella sorta di rituale poteva essere compreso solo da gente nata tra vulcani e terra avara, e non v’era
offesa nelle parole dure.
Sotto l’ispida barba, le labbra del guerriero disegnarono un arco scontento, ma l’approvazione
espressa nelle iridi cobalto si ripeté nel cenno del capo quando annuì secco.
«Sia. Ma se hai mentito, perdi la lingua».
Di riflesso, Gaira annuì e rivolse una rapida occhiata ai suoi accompagnatori, invitandoli a
seguirla.
Fu allora che Reidon azzardò uno sguardo più aperto verso Vaieeno.
Se il capitano si sentiva a disagio nell’ignorare la natura dello scambio, di certo non lo dava affatto
a vedere. Tutt’altro! Avanzava invece tra i due giganti, armati di spadoni massicci e cattive
intenzioni, con la sicurezza di un nobiluomo invitato a un convivio e Reidon non poté fare a meno di
esserne ammirato. Al suo confronto lui doveva apparire come un effeminato lacchè e il solo pensiero
gli scaldò le orecchie.
Nessuna sorpresa comunque oltre i bastioni.
Fangose porcilaie raccolte in steccati sommari, grossi paioli fumanti sospesi sui focolai, tende di
pelli conciate sparpagliate senza un ordine apparente e, più in là, le boriose palafitte dei signori della
guerra.
A non più di cinque passi dall’ingresso, i due barbari li bloccarono con l’eloquenza di una spada
piantata di piatto contro il torace, sotto lo sguardo di donne e servi incuriositi e in pari modo
infastiditi dalla loro presenza.
“Un branco di iene avrebbe un senso dell’ospitalità più spiccato”, li disprezzò in segreto Reidon,
costringendosi a sopportare il loro scrutinio con posticcia indifferenza.
Fu più difficile invece trattenere la mano e non avvicinarla alla spada quando vide l’uomo
dall’ispida barba spintonare Gaira davanti a sé in un brusco invito ad avanzare, lasciando il
compagno silenzioso a guardia dei loro movimenti.
Finalmente sentì di poter parlare al capitano.
«Non volevano ammetterci», mormorò, osservando con la coda dell’occhio la reazione del
barbaro, «lei li ha convinti dicendo di essere algoliana e di avere perciò diritto al baratto».
Vaieeno si limitò ad annuire, ma non proferì parola.
Insieme attesero, tormentati dai morsi della fame che il profumo diffuso nell’aria aveva risvegliato
con impietosa efficacia, e opposero espressioni di marmo alle irriverenti risatine dei ragazzetti che li
additavano, schernendoli apertamente.
Piuttosto che lasciarsi divorare dal desiderio di sculacciarli, sia Reidon che Vaieeno preferirono
mantenere l’attenzione fissa su Gaira, condotta distante da loro e tuttavia ancora in vista.
Lei e l’uomo che la scortava si erano fermati di fronte a una palafitta addobbata in sfacciato fasto,
presidiata da due guerrieri che al loro approssimarsi erano stati costretti a interrompere malvolentieri
il rumoroso gioco di pietre cui erano avvinti.
Un breve scambio, poi uno dei due scomparve oltre il pellame che occultava l’ingresso,
riemergendo poco dopo in compagnia di un altro uomo.
Il Warin del fare della Lince.
“Ci siamo”, si disse Reidon, ma non poté trattenersi dal rivolgere uno sguardo interrogativo al
proprio capitano.
«Sarebbe quello?», interpretò in modo asciutto Vaieeno, condividendo la stessa sorpresa del
compagno.
«Lo immaginavo diverso anch’io», confermò Reidon, prima di zittirsi all’occhiata paranoica del
barbaro silenzioso al loro fianco.
Se i Warin dei diversi fare erano sempre i guerrieri più massicci, robusti e imponenti del clan,
questo di Lince rompeva per certo ogni regola.
Alto, ma meno degli uomini della sua stessa scorta, e di molti altri del villaggio, aveva capelli dal
colore più simile al castano che al biondo, e la pelle di una lieve sfumatura più bronzea rispetto al
pallore candido dei suoi simili. Persino i lineamenti del volto apparivano più dolci, meno spigolosi,
con zigomi alti e occhi dal vago taglio a mandorla.
La sua autorità tuttavia era indiscussa per il carisma emanato dalla postura stessa, e per quella
scintilla di scaltro intelletto che vibrava nello sguardo blu intenso.
Da quella distanza, i merakensi non poterono cogliere una sola tra le parole che Gaira scambiò con
lui, ma a un certo punto lo videro estrarre il grosso spadone e Reidon scattò un passo avanti, mano
sull’elsa, prima che il capitano riuscisse a fermarlo afferrandogli il braccio.
«Buono…», gli ringhiò tra i denti, e un attimo dopo si ritrovò la punta dell’acciaio impugnato dal
barbaro dritta sotto il mento.
Conciliante, Reidon sollevò le mani in segno di resa.
«Puoi abbassare la lama…», lo invitò pacato nel suo dialetto, ma questi non parve avere la minima
intenzione di assecondarlo e lui dovette rassegnarsi a sopportarne l’incombente minaccia.
Deglutendo nervoso, riportò lo sguardo sulla donna e fu sollevato nel vederle la testa ancora
attaccata al collo.
Con la punta dell’arma il Warin stava scostando il mantello che la copriva e di fatto la stava
scrutando.
No, la stava valutando, comprese Reidon e la sorpresa gli schiuse le labbra.
«Non può essere…», soffiò in un filo di voce.
«Preferivi le staccasse la testa?», gli domandò Vaieeno in un mezzo sorriso amaro.
Reidon abbassò le spalle e chiuse gli occhi, ma non rispose.
***
Era un pasto bizzarro, nondimeno un pasto.
Foglie di menta, more selvatiche e strane bacche color vinaccia, che Malisken si augurò con
sentimento non fossero velenose.
Aveva studiato le erbe, sì, ma da quando aveva calcato il suolo straniero di Algol le sue attenzioni
si erano concentrate in ben altre materie.
Qualcosa di cui pentirsi adesso.
Forse avrebbe davvero dovuto dedicare qualche ora all’approfondimento della vegetazione del
posto, o almeno quel tanto che sarebbe bastato per non trovarsi a raccogliere ciò che capitava pur di
sfamarsi.
Pulendo le labbra con il dorso della mano, compose una smorfia sarcastica.
La vegetazione era un concetto quasi ridicolo in quella terra dimenticata dagli dèi.
E poi aveva avuto Gaira a istruirlo su tutto ciò che gli serviva sapere di Algol, e doveva ammettere
che l’indigena era stata molto dedita e bendisposta a fare qualsiasi cosa per compiacerlo.
Già, qualsiasi cosa…
Inevitabile, il pensiero scivolò su frontiere lussuriose e lì vi indugiò volentieri per qualche tempo,
rimpiangendo sinceramente la perdita della sua serva.
Gli era piaciuta la sua ingenuità selvatica, il rispetto che non gli aveva mai negato persino quando
gli vedeva fare cose che la spaventavano a morte, come leggere un libro. E di sicuro gli era piaciuto
il suo corpo e il suo modo di muoversi tra le pellicce del giaciglio che avevano condiviso spesso.
Riscuotendosi malvolentieri dalle fantasie peccaminose in cui stava indugiando un po’ troppo, si
sporse sul rivo presso cui si era seduto per abbeverarsi e scorgendo la propria immagine riflessa si
bloccò.
“Non hai dormito nemmeno questa notte, signore. I tuoi occhi sono dipinti ormai”.
Così gli avrebbe detto l’ancella, porgendogli una coppa di legno con il suo decotto.
Sì, profondi lividi gli segnavano gli occhi, ma i capelli… i capelli risplendevano del ricco colore
dell’ebano e l’ovale affilato del volto trasudava un vigore che non avrebbe dovuto benedirlo, non
dopo tanta astinenza dall’infuso particolare che lei aveva imparato a preparargli.
E non con erbe originarie di Algol.
A cosa doveva tanta grazia?
Al sangue degli Audhiani, che ormai era convinto di aver bevuto davvero, o al “Patto” stipulato
con il Signore del T’anmo-Valafar?
Con fare assente, immerse le dita nel ruscello, distorcendo la propria immagine nello specchio
disturbato, e si portò una sorsata d’acqua alla bocca, quasi a ripulirsi dal viscoso lascito della
libagione maledetta.
Al punto in cui era arrivato, non avrebbe dovuto consentire ad alcuna domanda di turbarlo.
Quale che fosse la risposta, quale che fosse il “peccato” commesso, non sarebbe stato il primo sul
sentiero che aveva intrapreso.
E non sarebbe stato l’ultimo.
Schermandosi gli occhi, sollevò lo sguardo e lo lasciò vagare sull’orizzonte offuscato dal riverbero
del malandato sole di mezzogiorno.
Laggiù c’era la Piana delle Ceneri, ormai una visione sgualcita nell’aurea bruma espirata dalle
pendici dei Monti Rubino che lui aveva preso a scalare fin dalle prime luci dell’alba, e vederla
sempre più distante gli dette un onesto sollievo.
Anzi, quasi una vera euforia.
Con quell’ultima immagine si gettava alle spalle uno degli incubi peggiori che aveva vissuto, ma
soprattutto lasciava i domini degli odiati barbari e muoveva i primi passi verso le frontiere delle terre
libere nell’estremo ovest.
Rinfrancato nel corpo grazie al tempo che si era concesso per nutrirsi e riposare, e ancor più
alleggerito nello spirito, Malisken raccolse fiato e volontà per rimettersi in cammino. Dopo aver
vestito i piedi piagati con foglie fresche, tenute insieme da un intreccio di radici, aveva smesso di
lasciare impronte insanguinate sul sentiero che stava percorrendo, ma non era sicuro che sarebbe
bastato.
Era ancora troppo vicino ai confini di Algol e ai letali cacciatori che lo braccavano.
Le ore del pomeriggio trascorsero in sordina, popolandosi di vegetazione sempre più fitta,
profumandosi del fresco aroma di conifere e ginestre, fino a glorificarsi nella regale stola purpurea
del tramonto.
Sotto le ombre che si allungavano, nonostante l’affanno accumulato con la caparbia scalata,
Malisken sentì le prime avvisaglie del freddo promesso dall’incipiente notte e prese piena coscienza
dell’inadeguatezza del proprio equipaggiamento. Torace nudo, braghe consunte, piedi scalzi o quasi,
dal momento che una manciata di foglie e radici non potevano certo considerarsi una soluzione
permanente, e il T’anmo-Valafar infilato nella cintura.
Oltre a una spada che pesava ormai troppo e che lui non sapeva usare.
Con l’arrivo della notte avrebbe patito il freddo, e molto anche.
Sempre che qualche predatore non avesse fatto di lui la propria cena prima che potesse soffrire
simili disagi.
Eppure, quali che fossero le bestie padrone di questa montagna, se non altro non erano i maledetti
barbari, e il pensiero gli spinse lo sguardo oltre il ciglio della via.
La Piana delle Ceneri era scomparsa e da quel punto di osservazione, tutta la regione sottostante
era immersa in un’unica, scintillante, benvenuta foschia.
Era bello non vederla più e per un istante Malisken si domandò se tra i selvatici algoliani esistesse
qualcuno disposto ad affrontare la Piana prima, e la scalata poi, pur di potergli mettere le mani
addosso.
No, anche attingendo al più paranoico pozzo di prudenza, lo studioso non poté negarsi che la cosa
fosse molto poco probabile.
Comunque, adesso che la fuga dai propri inseguitori era passata in secondo piano, Malisken poté
cominciare a considerare la nuova meta per i passi successivi, e si sentì toccato nella dignità per il
fatto di dover dedicare il proprio intelletto al poco nobile pensiero della sopravvivenza materiale.
Rassegnandosi con grande fatica all’insolita condizione animalesca, focalizzò l’attenzione sui
dintorni, prendendo a studiare il costone roccioso che fiancheggiava il sentiero in cerca di un riparo,
anche modesto, per trascorrere la notte.
Impresa tutt’altro che facile.
Nel tratto in cui si trovava, la strada serpeggiava accanto a una parete verticale e ammantata di
cespugli spinosi, mentre sul versante opposto si interrompeva su un ripido declivio, costellato da
contorti ulivi di quando in quando affacciati a curiosare oltre l’orlo.
Nonostante arrivare lassù fosse stata già una prova notevole per il suo fisico non proprio vigoroso,
Malisken dovette camminare ancora a lungo, risalendo molti tornanti e consumando la sempre più
fragile speranza, prima di trovare un tratto in cui il fronte roccioso si piegava con maggiore grazia.
E alla fine lo trovò: un sentiero laterale, seminascosto da grossi drappi d’edera ed erbacce
selvatiche, gli offrì una benvenuta deviazione dalla troppo esposta via principale.
Dopo un paio di tentativi fallaci che gli guadagnarono cocenti graffi sul volto e sulle mani, riuscì
infine a issarsi a fatica oltre la barriera erbosa che si richiuse alle sue spalle.
Lì, nell’umida penombra maculata, una piccola terrazza naturale sonnecchiava sotto le fronde di
un sontuoso faggio.
Ansimando forte, Malisken resistette alla tentazione di stendersi supino sul vellutato sottobosco
per contare i muscoli che gli facevano male dopo l’infinita camminata, e invece si costrinse ad
ammonticchiare tutti gli sterpi e i tronchetti marcescenti che ebbe la fortuna di trovare.
Voglia di un fuoco, di soffici pellicce sulla pelle nuda, di uno stomaco appagato e ammassi di
piume dentro grossi cuscini su cui abbandonarsi.
Affondando lo sguardo fra le scintille spruzzate dal falò, Malisken arrese la tensione del corpo
all’alito fluente delle ondate di calore che dissiparono buona parte dei brividi, e l’immensa
stanchezza lo travolse in un’unica, lusinghiera vertigine soporifera.
Semplicemente meravigliosa.
Le voci dure dei barbari, l’ululato surreale dei lupi, l’affanno e l’agonia di una fuga atroce, il soffio
di vento e pioggia, tutto divenne rimembranza ovattata, suoni sempre più lontani, indistinti.
Finché per pietà degli dèi si spensero, benedicendo la sua mente provata con il pacifico silenzio.
Doveva essere così il sonno, una landa gentile e priva di pericoli, libera dalle minacce che lo
avevano costretto, per dieci lunghi anni, a dormire con solo la metà dei sensi, l’altra metà forzata a
mantenere alta la guardia.
Malisken aveva dimenticato quanto fosse beatificante.
Il crepitio del fuoco divenne una melodica nenia, relegata in un angolo della percezione, e il suo
canto rassicurante lo ipnotizzò, riportandolo alla lontana dimora di Eghnoria.
Confondendo luoghi e tempo, si convinse di essere nel proprio letto, cullato dal pigro fruscio delle
tende di seta che dondolavano nella tiepida brezza delle notti di primavera, e attese il momento in
cui, accompagnato dai primi raggi dorati del mattino, il profumo di miele e pane caldo lo avrebbe
svegliato.
Maestro…
Un sussurro balsamico di donna, così intonato al mite dormiveglia.
Lo avrebbe ignorato nell’ozio che lo faceva indugiare fra le coltri.
C’era tempo.
Padre…
Lei era più difficile da ignorare.
“No, bambina mia, dormi ancora un po’…”.
Era troppo giovane il mattino e lui era sicuro che la piccola gli avrebbe chiesto di condurla dove
gli ultimi strascichi della notte si scioglievano, fra le rive del torrente o al di là delle chiome
aureolate dall’alba, nel bosco delle querce bianche.
Insaziabile esploratrice…
Il pensiero avrebbe dovuto farlo sorridere, ma non ci riuscì.
C’era qualcosa di tremendamente sbagliato, un ricordo sommerso, triste e confuso o forse più un
presentimento, e per quanto si sforzasse non riuscì ad afferrarlo.
Né riuscì a svegliarsi.
Maestro…
Di nuovo la donna, più insistente adesso, vicinissima eppure nervosa, quasi lo stesse cercando
senza successo pur aggirandosi nella stanza, a pochi passi dal suo giaciglio.
Come poteva non scorgerlo?
Attraverso le ciglia socchiuse, lui la vedeva benissimo: lunghi riccioli castani, volto candido come
l’Astro Cinereo, broncio fanciullesco sulle labbra piene e quel suo vestito di ricco velluto cobalto,
semplice e nobile al tempo stesso.
E tanto sbagliato.
Faceva caldo per un abito del genere…
Malisken…
Incontrò i suoi occhi d’ambra e la vide sorridere di sollievo.
“Tu…”, come gli strisciavano pastose le parole sulle labbra, “…non dovresti essere qui…”.
Lei inclinò il capo e il sorriso si affievolì, mentre sotto le folte ciglia lo sguardo gli passava in
rassegna tutto il corpo, quasi potesse vederlo attraverso le lenzuola.
“Mia figlia…”, strascicò lui sul suo silenzio.
“Ha capelli come l’ala del corvo, e occhi rubati al puro cielo di montagna”, recitò la fanciulla,
quasi si aspettasse quelle parole da lui, “… e adesso avrebbe la mia età”.
Malisken la guardò confuso.
“Lo dici di continuo, Maestro”.
Impossibile. Lui non ne parlava mai.
“Dov’è lei?”.
Un’ombra le spense lo sguardo mentre lo abbassava rispettosa.
“Ti stavo cercando, Maestro”.
“Dov’è lei?”, ringhiò Malisken con l’autorità di chi era abituato a ottenere ciò che pretendeva,
ancor più una risposta alle proprie domande.
La fanciulla tacque a lungo. Poi sollevò il volto e lo trafisse con occhi di pietra.
“In una bara”.
Il letto precipitò sotto di lui, il presentimento divenne definitiva reminiscenza priva di
misericordia, e Malisken infine ricordò.
Dilaniato da un dolore insopportabile, vide davanti a sé la donna sciogliersi in uno sbuffo di fumo,
lasciandogli addosso i graffi di uno sguardo che lo reclamava, lo implorava, e in lontananza la sua
voce lo chiamò, ancora e ancora.
Con uno straziante grido liberatorio, Malisken si svegliò.
E un attimo dopo il terreno sotto di lui sprofondò.
***
Gli parve quasi di udire lo schianto del proprio cranio quando il paracolpi si abbatté poco sopra la
tempia.
La vista si chiazzò di lampi in un attimo, ma questo lo fece infuriare soltanto di più.
Dietro un latrato furibondo scagliato al cielo, si gettò sull’avversario con tutto il peso. La testa
incontrò il duro petto del nemico, il gomito affondò sul fianco e con la gamba sferrò un poderoso
calcio diretto al polpaccio.
E furono nella polvere, animali violenti che rotolavano sulle rocce aride in cerca di nulla di meno
che non il sangue dell’altro.
Entrambi barbari, entrambi figli di Algol, marchiati dalla stessa furia.
Solo il fare di appartenenza era diverso e tanto bastava a renderli letali nemici in una regione
troppo stretta per entrambi.
Sopravvivenza per uno, sconfitta per l’altro. Dominio per uno, servitù per l’altro.
Così era tra i loro fare, e così avrebbe deciso l’acciaio.
Quando la vista tornò a benedirgli gli occhi, si ritrovò sopra l’avversario, l’avambraccio pressato
sul collo a immobilizzarlo, un ginocchio premuto sull’inguine, l’altro sulla coscia, lo spadone stretto
nella destra e pronto a infliggere il colpo di grazia, o il marchio della servitù.
Fu in quell’esatto momento che il giorno si spense…
*
Il dolciastro aroma di legno bruciato lo raggiunse alle spalle e lui annusò rumorosamente l’aria,
seguendone l’invito.
Non era solo.
Al suo fianco, altri cinque uomini-bestia levarono il capo all’unisono e si scambiarono sguardi
muti. Non serviva parlare tra loro. Erano helfeirch, votati ai sensi e il linguaggio del corpo esprimeva
tutto ciò che serviva dire.
Il cadavere di un arbusto fumava in lontananza e il suo odore raccontava di un fuoco consumato la
notte precedente.
Quella era la pista.
Laggiù era passata la preda.
Come i suoi compagni, anche lui sentì l’inebriante richiamo della caccia eccitargli i sensi,
trasformando cielo e terra e roccia e vento in un pascolo fremente di vita, più corporeo e intenso di
quanto qualsiasi essere troppo umano avrebbe mai potuto sentire. E godere.
Sebbene non avesse fatto altro dalle prime luci dell’alba, quando aveva lasciato Vhalcan per la
seconda volta in due giorni, la smania di correre si impadronì ancora delle sue gambe e lui la
assecondò.
Intorno a lui, i compagni si unirono alla caccia con identica passione, divorando la terra sotto i
piedi nudi e l’aria in avide boccate.
Sulla soglia della Piana delle Ceneri, il branco indugiò.
Troppo selvatici per patire le paure degli uomini, gli helfeirch si guardarono per un istante l’uno
con l’altro.
Poi lui fece il primo passo.
E fu in quell’esatto momento che il giorno si spense…
*
Grattava sulla roccia e sbuffava.
Non ne aveva mai visto uno più massiccio, solido e testardo di questo e non se lo sarebbe lasciato
scappare. Aveva ispide setole di un bruno che sfumava nel nero, un garrese tanto alto che avrebbe
potuto sfiorargli il petto, affilatissimi e prominenti canini sul grugno nudo, e narici che parevano
ricavate dal cuoio: ogni sbuffo era il rintocco baritonale di un tamburo, una vibrazione pura nell’aria
che lo circondava.
Il cinghiale aveva sentito il cacciatore e si stava muovendo per condurlo nella gola delle Rocce
Lamentose, dove il latrato costante del vento si rincorreva e riecheggiava in mille fessure.
Lo faceva apposta per mascherare il duro suono degli zoccoli, o stava solo cercando di raggiungere
il branco? Non c’era nemmeno da porsi la domanda.
Se ve n’erano altri come lui, il cacciatore avrebbe dovuto rinunciare, anche se molto a malincuore.
Uno solo poteva essere una preda, un branco diventava predatore.
Furtivo si acquattò, mettendo a tacere i propri passi, lo scricchiolio della pelle conciata che
sagomava gli stivali e lo schiocco dei lunghi capelli biondi nelle correnti incanalate dal passo
roccioso.
Non poteva attendere oltre.
L’arco era gretto e primitivo, ma robusto tanto quanto bastasse a scagliare una freccia a lunga
distanza. Il cacciatore tese la corda e si sporse oltre il proprio nascondiglio, mostrandosi alla preda.
Uno sguardo… e in quell’esatto momento il giorno si spense…
***
Il tramonto era piombato in fretta sulle terre di Algol, avvoltoio affamato e incapace di attendere.
Sotto il cielo che si oscurava, un innaturale silenzio si propagò venefico, saturando l’aria con
l’autorità di un signore incontrastato, semplicemente tangibile.
Ogni anima vivente sulle terre dell’ovest, che fosse dispersa nella solitudine della caccia, o
raccolta intorno a opulenti paioli per la cena, abbandonata fra le braccia della lussuria, o ingaggiata
in uno scontro d’acciaio, lo sentì manifestarsi con arroganza e ne fu paralizzata.
Il vento si zittì, le pelli stese sulle corde si afflosciarono inerti, e gli animali nei fangosi arenili
recintati si mossero frenetici, accalcandosi ai lati in cerca di inesistenti rifugi.
Ovunque, la terra si chiazzò nell’ombra sfrecciante di stormi di uccelli che si levarono all’unisono,
un’onda surreale lanciata verso est, il battito delle ali ovattato in un’oscillazione sonora dal tono
basso e nero.
Quando il Silenzio schiaccia le montagne, gli Immortali prendono fiato.
Così recitava un vecchio adagio dei Signori dell’Ovest, divenuto canto di guerra prima di un
attacco furtivo.
L’agguato c’era e tutti lo riconobbero.
Richiamati da un istinto primordiale, volsero occhi sbarrati a nord-ovest, contro i maestosi bastioni
della cordigliera dei Monti Rubino e per la prima volta nella loro impavida esistenza di dominatori, i
barbari si sentirono impotenti.
Muto e accecante, un lampo esplose sulla vetta più alta affacciata su Vhalcan e il cielo si spalancò
sotto la spinta di una ribollente massa fumosa.
Prima che il boato raggiungesse le rive della pianura, scintillando di rabbia vendicativa, la nube
rotolò sul fianco della montagna, sanguinante di lava.
E in un solo, eterno minuto, la consumò.