Se l`Africa libera Dio. Intervista a Jean-Marc Ela, di

Transcript

Se l`Africa libera Dio. Intervista a Jean-Marc Ela, di
SE L’AFRICA LIBERA DIO
a cura di Yao Assogba
Articolo apparso su Nigrizia (ottobre 2000) tratto dal libro-intervista di Yao Assogba, Jean-Marc Ela. Le sociologue et
théologien africain en boubou, L’Harmattan, Montréal-Paris, 1999 (presso l’Harmattan Italia).
Jean-Marc Ela, camerunense, 64 anni, è sociologo e teologo. Da sacerdote, oltre che da intellettuale, si è
sempre occupato della vita quotidiana e dei bisogni della gente comune, del “mondo in basso” che si batte
per sopravvivere e che è gran parte dell’Africa d’oggi. Non a caso ha lavorato per quattordici anni tra la
popolazione kirdi del nord del Camerun, portando il messaggio di liberazione del Vangelo. Un lavoro che ha
dato fastidio al potere, che lo ha costretto all’esilio: il suo soggiorno in Canada, che dura da cinque anni, è a
tutti gli effetti un esilio politico.
Lei sostiene che l’Africa ha ragione della modernità attraverso il “bricolage”, nel quale vede una
strada alternativa. Che cosa intende per bricolage e in che misura riesce a domare la modernità?
Durante la nostra esistenza possiamo osservare che c’è tutto un lavoro culturale in corso, in tutti gli atti che
compiamo, tanto nelle percezioni che abbiamo della realtà quanto nell’insieme delle rappresentazioni
attraverso le quali tentiamo di stabilire dei rapporti con il nostro ambiente.
Quando parlo di bricolage penso a tutti questi saperi prodotti dalla società per raccogliere le sfide
dell’ambiente. Saperi con i quali, nonostante le apparenze, l’africano non ha rotto. È vero talora che questi
saperi sono stati occultati, hanno finito per entrare in clandestinità in società dove il colonialismo li ha spinti
all’emarginazione.
Ma le persone continuano a ricorrere a questi saperi. Oggi si assiste a un ritorno di questi aspetti inibiti,
perché ci si rende conto che né i saperi della scuola occidentale né le tecniche importate da fuori possono
risolvere i nostri problemi. Le persone sono costrette a riappropriarsi dei saperi precoloniali sui quali si
costituisce la modernità africana. Quest’ultima, in gestazione, sta per manifestarsi in diversi campi:
alimentazione, sanità, tecnologia, habitat.
Parlando di bricolage, mi pare evidente, escludendo ogni connotazione peggiorativa. Bisognerà incontrare
l’Africa là dove essa si inventa, a partire da questi bricolage che formano il tessuto della nostra vita sociale.
L’arte del bricolage è l’arte di vivere attualizzando una memoria tecnologica, mettendo in opera un
potenziale di creatività che conduce l’africano a immaginare risposte pertinenti ai problemi in un contesto
dove vivere è una sfida quotidiana.
Mi cita qualche esempio di bricolage?
Pensiamo alle bidonville: sono una maniera di costruire il rapporto con lo spazio. Qui tutto può essere utile
per darsi un luogo d’esistenza; le persone si insediano come possono, dove possono. Si possono trovare, in
un quartiere-enclave, strade e ponti che sono opera dei cittadini stessi, senza il minimo intervento dei servizi
pubblici.
A Yaoundé, capitale del Camerun, la gente ha realizzato una strada per mettere in collegamento settori della
città tagliati dalla ferrovia, facendosi pagare in anticipo da coloro che l’avrebbero utilizzata in modo da poter
pagare, almeno un po’, coloro che avrebbero fatto il lavoro concretamente.
Rimane il fatto che quello che lei chiama bricolage viene considerato invece un fallimento dello
sviluppo.
Allora chiediamoci: che cos’è lo sviluppo? Per me è ciò che passa per la testa della gente. Bisogna partire da
qui, altrimenti ogni strategia di sviluppo sarà votata al fallimento. E purtroppo è ciò che è accaduto in Africa.
Non si è tenuto conto di quello che il contadino o il cittadino pensa quando parla di sviluppo. Mi spiego: non
si dà sviluppo reale che nei luoghi dove la gente vive e dove questa si aspetta risposte credibili ai suoi
problemi quotidiani. I servizi urbani non hanno risolto il problema della grande maggioranza dei consumatori
di spazio nelle città africane, tranne che nei quartieri detti residenziali.
Partendo da questo fallimento, dobbiamo cambiare referenti: che non possono essere lo stato o gli organismi
preposti all’urbanizzazione, ma invece le persone del quartiere, che ogni giorno reinventano la vita.
Perché le città africane non possono assomigliare alle città europee?
Per me la risposta è semplice. Ogni intervento in materia di sviluppo fa capo a una norma di riferimento.
Quando si studiano i progetti di sviluppo in Africa, si osservano strategie di resistenza perché gli africani non
si riconoscono in progetti che non tengono conto della loro maniera di vedere il mondo e di vivere. Non
appena l’africano si sente misconosciuto e prende coscienza che i suoi valori fondamentali sono minacciati,
risponde con il rifiuto. Mi pare essenziale l’idea che lo sviluppo deve basarsi su riferimenti radicati nelle
culture del territorio. La ragione per cui tutto ciò che è venuto dall’esterno dell’Africa non è riuscito a
imporsi, sta nel fatto che la gente, sentendosi estranea, non vi ha partecipato.
Per questo la progettazione dello sviluppo esige ricerca scientifica, non solo nell’ambito delle scienze esatte
ma anche delle scienze sociali.
In Africa non mancano intellettuali che la pensano come lei né persone che prendono l’iniziativa.
Come mai non riescono a imporsi?
Appunto perché le questioni dello sviluppo sono questioni sociopolitiche. C’è una dimensione politica di
questi problemi che implica strategie di controllo del cambiamento sociale. Non tutti gli africani sono
favorevoli allo sviluppo popolare. Ci sono persone che beneficiano del sottosviluppo: lo sviluppo degli uni
implica il sottosviluppo degli altri.
Oggi le élite africane non vogliono rinunciare a posizioni di potere che sono posizioni di accumulazione.
Queste élite non possono essere il motore dello sviluppo, non possono impegnarsi veramente perché ciò le
obbligherebbe a ridistribuire le carte del potere e metterebbe in discussione ogni sistema di illegalità e di
dominio legato all’avvento dello stato postcoloniale.
Ne deriva che ogni strategia di sviluppo s’inscrive nella prospettiva del cambiamento sociale. Possiamo dire
che la modernità africana è l’oggetto di conquiste sociali.
Dunque c’è un preciso legame tra sviluppo, risposte africane alla modernità imposta dall’ esterno e
sistema politico?
Certamente. Sono aspetti inseparabili: il sistema politico come il sistema sociale sono elementi di referenze
per un approccio allo sviluppo. Al di là degli approcci tecnocratici bisogna valorizzare i fenomeni di potere,
le formazioni sociali e le lotte democratiche.
Che cosa intende quando parla di molteplici traiettorie del capitalismo?
Si tratta di rileggere Max Weber (che ha messo a fuoco come la nascita del capitalismo in Occidente sia stata
condizionata dall’etica protestante) a partire dal rapporto degli africani con il denaro. Sono necessariamente
ricerche sui comportamenti e gli atteggiamenti degli africani di fronte al denaro. Il problema è capire se le
nostre logiche sociali sono favorevoli o meno allo spirito di profitto che è il motore del capitalismo.
Non possiamo affermare in modo sistematico che l’africano è anticapitalista. Certi gruppi si sentono
perfettamente a loro agio nello spirito d’impresa, mentre altri oppongono resistenza allo spirito del profitto
nella misura in cui può tradursi in una forma di accumulazione che rischia di farli uscire dalla rete di
solidarietà. Per salvaguardare i legami di solidarietà, preferiscono ridistribuire il loro denaro a partire da una
concezione della ricchezza che dà il primato allo spirito di famiglia.
Quando parlo di traiettorie del capitalismo penso a questi differenti modi di comportarsi. Si tratta di fare
l’inventario delle maniere in cui passaggio al capitalismo viene effettuato, poiché non esiste una sola via al
capitalismo.
Oggi si pensa che l’Africa abbia utilizzato male il denaro ricevuto in tutti questi anni e, per forzarla a
sottomettersi al modello capitalistico, la si priva delle risorse necessarie sul piano sociale ed educativo.
Banca Mondiale e Fondo Monetario vedono nei piani di aggiustamento strutturale la sola via di passaggio al
capitalismo in Africa. Per me il capitalismo è intrinsecamente perverso. Sono possibili altre vie di accesso
alla modernità.
Il problema di fondo è quello dell’articolazione del rapporto tra il denaro, la cultura e la società. Nel contesto
africano, le logiche sociali sono rimaste a lungo logiche di parentela. La maggior parte dei nostri
investimenti sono sociali, improduttivi. Si tratta di sapere se, di fronte alle sollecitazioni economiche che
sono inaggirabili, non si deva vedere il nostro rapporto con il denaro affinché tutto ciò che ha a che vedere
con la parentela non sia necessariamente un ostacolo all’accumulazione. Laddove il sistema sociale ha loro
permesso di aprirsi alla cultura del denaro, le persone hanno compreso la necessità di ripensare le logiche di
parentela. Se la famiglia deve condurci all’impoverimento, mi chiedo se non la si debba spingere a
riesaminarsi per sapere come conciliare denaro e parentela.
Lei è diventato teologo dopo aver fatto una tesi su Martin Lutero. Che cos’ha significato ciò per lei,
e cos’è un teologo africano?
Il teologo africano deve cercare di comprendere come altri cristiani hanno tentato di leggere la Bibbia. La
Riforma ha avuto luogo in un contesto storico in cui la chiesa aveva bisogno di un’innovazione profonda,
che arrivasse alla radice delle cose. E la radice è il rapporto con Dio nella fede; ciò che Lutero ha voluto fare
è restaurare la sovranità di Dio. Tutto il suo sforzo consiste nel dire: “Lasciate che Dio sia Dio”.
Questa preoccupazione fondamentale mi ha aiutato ad operare una sorta di rivoluzione copernicana a partire
dal contesto africano. Il teologo africano che ha lavorato sul pensiero di Lutero non può non sottomettere a
un libero esame il rapporto tra l’uomo africano e il Vangelo in un contesto storico in cui tutto il peso
dell’Occidente grava su questo rapporto. Per me il teologo africano deve parlare di Dio a partire dal luogo
dove la Parola di Dio ci trova. Questo luogo è l’Africa stessa, tenendo conto delle sfide delle nostre società e
della tragedia della nostra storia. Dopo anni ho preso coscienza che l’Africa è un vero polo di rivelazione, un
luogo dove Dio parla alla chiesa e al mondo.
Ho preso coscienza dell’insignificanza del cristianesimo occidentale per l’uomo africano. Questo
cristianesimo è integrato a un sistema di dominazione nel quale Dio rischia di essere catturato dalle forze che
ci opprimono. Ora bisogna che Dio sia Dio, e perché lo sia bisogna che Dio sia liberato da questa schiavitù.
La mia teologia prende come punto di partenza il fatto che il Vangelo non può essere realmente una forza di
liberazione se non lo si libera dal cristianesimo occidentale, fondamentalmente associato a un sistema di
dominazione dopo la conversione dell’imperatore Costantino.
Si ritrova questo virus imperiale nell’ossessione dell’autorità in seno al cattolicesimo romano.
Come si può fare una lettura africana della Bibbia?
La Bibbia deve essere considerata come il racconto di una liberazione da Mosè fino a Gesù Cristo, che è
venuto nel mondo per liberare i poveri e gli oppressi. La sfida della povertà e dell’oppressione è al centro
della Rivelazione. È per questo che la nostra teologia non può che essere una teologia della liberazione. A
questo riguardo, l’Africa appare come uno dei luoghi della terra dove la creazione geme in attesa della
liberazione.
In che modo lei, da teologo, ha operato in Africa?
Il mio lavoro tra i kirdi del nord del Camerun consisteva nel mettere le persone nella condizione di
organizzarsi per uscire da ogni situazione di povertà e di oppressione in cui vivevamo. Ho tentato di
risvegliare le coscienze delle persone sulla loro situazione, di condurle a riunirsi, a organizzarsi, a creare
delle comunità. E all’interno di queste comunità formavo dei leader che potevano essere il motore del
cambiamento. Un lavoro che doveva partire da cose molto concrete: mi occupavo essenzialmente di terra,
d’acqua e di miglio. Quella gente vive in montagna, dove la terra è stanca e di esaurisce. E nelle aree
pianeggianti molti contadini sono senza terra. Così ogni anno bisogna prendere in affitto dei campi dai grandi
proprietari terrieri. Lo stesso vale per l’acqua… C’è poi un problema di tipo di colture: condurre la gente ad
interrogarsi sul ruolo che devono avere le piante per l’alimentazione in un sistema agricolo incentrato sul
cotone al quale sono dedicate le terre migliori. Per fare ciò di organizzavamo seminari di riflessione, ma
anche corsi di formazione e di alfabetizzazione.
Ma i capi tradizionali, i notabili e le autorità amministrative non apprezzavano il mio lavoro. Mi
rimproveravano di aprire gli occhi alla gente. Per quattordici anni ho continuato a farlo, poi me ne sono
dovuto andare per le persecuzioni appunto a causa del messaggio che diffondevo.
Lei appartiene a quella che si chiama la teologia della liberazione applicata all’Africa. Si riconosce
in questa definizione?
La mia riflessione teologica è nata nei villaggi. Precisamente sotto l’albero della palabre, dei colloqui, nelle
montagne del nord del Camerun dove, la sera, m’incontravo con i contadini e le contadine per leggere la
Bibbia con i nostri occhi africani. La mia teologia non è nata tra quattro mura di cemento. Non ho mai
insegnato teologia in un grande seminario e nelle università cattoliche in Africa. Sono intervenuto in alcuni
istituti di teologia, specie in Belgio e in Germania, ma in maniera puntuale e per condividere la mia
esperienza sul terreno o per discutere sulle mie opere.
Concretamente la mia teologia è partita dalla riscoperta del Dio di cui parla una donna del Nuovo
Testamento. Maria canta il Dio che nutre gli affamati e lascia i ricchi a mani vuote. Questo Dio è nello stesso
tempo colui che rovescia i potenti dai loro troni.
Mi indica tre questioni prioritarie per l’Africa?
In estrema sintesi. La mia prima preoccupazione è ridare al Vangelo in Africa tutta la sua credibilità e la sua
pertinenza; e ciò in rottura con il discorso teologico che si è sviluppato in Occidente. Va messa in luce la
forza sovversiva della memoria del Dio crocefisso che noi dobbiamo riscoprire.
Un'altra preoccupazione è determinare il ruolo che deve essere accordato alla gioventù. Per me la gioventù
rappresenta la speranza del nostro continente e non bisognerebbe che ricadesse nella storia della sofferenza
che è la storia dolorosa del popolo nero. Ci vorrebbe una rottura con questa storia: un’esperienza che deve
avere al centro i giovani.
Infine mi chiedo come si possa arrivare ad una civilizzazione dello stato in Africa. E dico “civilizzazione”
perché lo stato è “decivilizzato” nella misura in cui è organizzato sulla barbarie. La barbarie si è imposta in
Africa negli ultimi trent’anni attraverso un’economia politica fondata sulla gestione della violenza da parte di
poteri che uccidono, spogliano, accaparrano e monopolizzano l’accesso alle condizioni di esistenza. È
necessario passare da questa barbarie dello stato a uno stato civilizzato. Civilizzare lo stato è la grande sfida
di oggi.
(Questo articolo è apparso su Nigrizia ottobre 2000, è rintracciabile a questo indirizzo :
http://www.giovaniemissione.it/spiritualita/ela.htm)