creatività - Mezzocielo
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creatività - Mezzocielo
Fotografia di Shobha, Maternità, operaia incinta, Maharastra, India, 2013 mezzocielo La politica e la bellezza trimestrale di politica cultura e ambiente pensato e realizzato da donne anno XXI giugno-agosto 2013 - € 5,00 sped. in a.p. art. 2 comma 20/c legge 662/96 Filiale di Palermo Prostituzione sdoganata? Simona Mafai L ’affermazione che più mi ha colpito, tra gli innumerevoli commenti sulle nauseanti vicende del Bunga Bunga e relativa condanna giudiziaria, è stata quella di una antropologa, che ha detto (più o meno): Berlusconi ha sdoganato la prostituzione. L’affermazione è forte, ma – riflettendoci sopra – la riconosco, sia pure con riluttanza e disagio, vicina alla verità. In rapporto all’antica e complessa realtà della prostituzione nelle sue varie forme (dalla prostituzione di strada, alle escort, alla prostituzione minorile, fermandoci solo un passo dalla pedofilia) giudizi e commenti dell’opinione pubblica sono nel corso di questi anni profondamente cambiati: quasi rovesciati. Dai tanti uomini che, alzando le spalle, dicono che le cose sono sempre andate così: ne è solo cambiata la pubblicizzazione; ad alcune femministe “doc” che affermano, anche prendendo ad esempio le vicende di Palazzo Grazioli, che la prostituzione è una libera scelta della donna, la quale col suo corpo può fare quel che vuole; da Patrizia D’Addario che partecipa, accettata e forse anche applaudita, a raduni politici; per finire con la manifestazione “siamo tutti puttane”, indetta da Giuliano Ferrara, che – sul palco – si è dipinto le labbra col rossetto, non si può dire che, su questo tema, nulla è cambiato nell’opinione pubblica. Neppure i giudici/le giudici che hanno “arzigogolato” sull’età di Ruby e sul reclutamento delle ragazze disponibili (gestito generalmente da una qualche “fidanzata” dell’ospite) sono presi molto sul serio. Chi continua a ritenere la prostituzione un aspetto tristissimo delle relazioni uomo-donna (e non solo), rischia di essere considerato un moralista superato dai tempi. Per fortuna ci resta qualche filosofo che denuncia come un fatto caratterizzante la società di oggi la “mercificazione di relazioni sociali che fino a ieri sembravano intoccabili, quando non sacre” e conclude “Viviamo in un’epoca in cui quasi ogni cosa può essere comprata e venduta” (Anselm Jappe). Certo, l’affermazione non è proprio nuova. Ci fu un altro filosofo che scrisse oltre un secolo e mezzo fa: “La borghesia …ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio”. Borghesia o proletariato, per parte mia, al di là di indagini sociologiche e di ondivaghi orientamenti della opinione pubblica, io credo sempre – in attesa di una nuova società che dovrebbe nascere – nel libero arbitrio e nella responsabilità personale. Sommario Prostituzione sdoganata? Simona Mafai Una politica attenta ai bisogni reali Laura Stancari, Laura Bellina e Simonetta d’Errico cambiamenti Il disaggio e la luce del cambiamento Conversazione tra redattrici di Mezzocielo La giustizia non è più un dominio maschile Maddalena Giardina Storie di donne e storie di violenza Caterina Brignone creatività Libri Diecirighe – Francesca Traìna pag. 2 A dicembre Cinzia Collura pag. 12 come gente che ha vinto Gisella Modica pag. 20 pag. 14 Simonetta, morta un giorno in cui era felice Gilda Sciortino pag. 20 Essere è tessere: in ricordo di Maria Lai Mariella Pasinati pag. 15 Il Progetto Itaca è sbarcato a Palermo Rosemarie Tasca d’Almerita pag. 21 Ipazia e la guerra dei sessi Francesca Saieva pag. 16 Bambini misura di città Ilaria Esposito pag. 21 Contro la crisi mettiamoci in comune Gisella Modica pag. 22 Le ricette del giardiniere di Calvino Leontine Regine pag. 22 Le escluse dalla modernità emancipata Giovanna Minardi pag. 23 Il lavoro più creativo del mondo Silvana Fernandez pag. pag. pag. pag. 3 4 8 Probabilmente Antigone ci deve ancora qualcosa Egle Palazzolo 9 “Le donne siciliane non sono felici” Beatrice Agnello pag. 16 pag. 18 succede pag. 1 0 pag. 1 1 Ridere e piangere Raccontare a testa alta, pag. 19 mezzocielo Direttore responsabile: Rosanna Pirajno Coordinamento redazionale: Beatrice Agnello - Giusi Catalfamo - Silvana Fernandez - Gisella Modica - Adriana Palmeri - Rosanna Pirajno - Stefania Savoia Redazione: Carla Aleo Nero - Rita Calabrese - Daniela Dioguardi - M. Chiara Di Trapani - Leontine Regine Francesca Saieva - M. Concetta Sala - Shobha - Francesca Traina Responsabile Editoriale: Adriana Palmeri Impaginazione: Massimiliano Martorana Editore: Associazione Mezzocielo Reg. al Trib. di Palermo il 19-3-’92 Stampa Offset Studio - Palermo Ricerca iconografica di Shobha Il lavoro redazionale e le collaborazioni sono forniti gratuitamente www.mezzocielo.it - [email protected] - Tel. 328 0198474 Quota associativa annua: ordinaria: € 40,00 sostenitrice: € 60,00 - c/cp. 13312905 Rosanna Pirajno, V.le F. Scaduto, 14 - 90144 Palermo 2 Una politica attenta ai bisogni reali La Lega si sbriciola e alle elezioni comunali di Treviso e Vicenza due donne del Pd sono i candidati più votati. Le abbiamo intervistate. Intervista a Maristella Caldato, a cura di Laura Stancari e Laura Bellina I ncontriamo Maristella Caldato il 13 giugno nella saletta del gruppo consiliare del Pd di Treviso, a pochi giorni dall’entusiasmante “liberazione” del 10 giugno da una ventennale – pesante – epoca leghista, avvenuta con l’elezione a sindaco di Giovanni Manildo, candidato del centrosinistra. Maristella è la più votata di tutti i candidati delle varie liste. È una giovane donna di 47 anni, determinata quanto disponibile ad un ascolto attento e cordiale e a una franca comunicazione; si definisce una cattolica laica. Nasce in una famiglia operaia: il padre è lavoratore edile e la madre casalinga e custode dell’impresa edile in cui il marito lavora. Frequenta l’Istituto professionale per il commercio e si diploma nel 1985 con il massimo dei voti. Partecipa subito a concorsi pubblici e già dal gennaio ’86 è dipendente dell’amministrazione comunale di Zero Branco, Intervista a Isabella Sala, a cura di Simonetta d’Errico I sabella Sala è stata eletta con 1122 preferenze, staccando nettamente tutti gli altri candidati, nelle elezioni comunali di Vicenza, che hanno portato alla poltrona di sindaco Achille Variati del centrosinistra. Questo successo, come lei mi racconta, è il frutto di una solida rete amicale e familiare: Isabella appartiene a una famiglia che in città ha rappresentato valori civici e civili per lunghi anni: suo padre è stato sindaco, amato, dal 1962 al 1975. E lei ha deciso l’impegno nella scuola, nella cultura, nelle associazioni femminili. Nel pensare il rapporto donne - politica, qualcosa poi è cambiato, a Vicenza, durante la lotta contro il raddoppio della base americana, sostenuta dalle donne con fantasia e determinazione. Ora Isabella Sala è neoassessore alla comunità e alla famiglia. Ci incontriamo in uno spazio in cui è allestita una mostra su Scampia e Vicenza in cui sono esposti i lavori delle donne, i lavori fatti con le mani. “La mia vita, la tua, ci hanno fatto conoscere alcune potenzialità femminili, dobbiamo cercarne ancora, comune limitrofo a Treviso. Nel 1988 comincia a lavorare all’Ater (Azienda Territoriale Edilizia Residenziale); attualmente è segretaria della Commissione Alloggio. Si sposa nel 1990 con Rosario e non ha figli. S’illumina parlandoci del rapporto con il marito e del sostegno che lui le ha sempre dato nelle sue scelte politiche e di vita. “Fino al 2005 la mia vita erano l’Ater e lo studio dell’inglese”. Nel 2005, sentendo l’esigenza di proseguire gli studi, si iscrive all’Università di Udine, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere – Relazioni Pubbliche, come studentessa lavoratrice, laureandosi alla fine con una tesi sull’episodio drammatico della retata di massa di 13152 ebrei parigini nel luglio 1942. Mentre ce ne parla si avverte che questa tematica continua a coinvolgerla. Comincia ad assistere alle sedute del Consiglio comunale e si avvicina al Pd nel momento della sua nascita. È la sua prima esperienza politica. Si presenta nel 2008 alle elezioni amministrative ed è già allora la donna più votata dell’intero consiglio comunale. Un tale successo si spiega con la specificità del suo lavoro: “Il mio impegno è nato da questo, dal contatto con i ceti sociali più deboli”. Facendo parte della Commissione alloggio dell’Ater, Maristella entra in contatto con le difficoltà economiche e abitative di numerose famiglie, riuscendo a cogliere in anticipo l’avanzare della crisi del 2008. Negli anni del suo mandato in Consiglio comunale riceve i cittadini nella saletta del Gruppo Consiliare del Pd (cosa che le viene contestata da più parti) dando ascolto alle loro richieste, in ben 2400 ore di ricevimento. Per lei il principio fondamentale, sia sul lavoro che in politica, “è il rispetto della legge, il rispetto delle regole, l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla norma”. Non è stato facile per Maristella operare in un contesto politico controllato dalla Lega per la quale la norma viene modificata per adeguarla agli umori dell’elettorato (ad esempio privilegiando i residenti a Treviso da più di vent’anni per l’assegnazione degli alloggi popolari). Infatti subisce sgarbi sul lavoro e soffre del clima, che lei definisce “devastante”, in un Consiglio comunale in cui prevalgono atteggiamenti misogini, razzisti e omofobi. Esprime anche un giudizio negativo sulla sua esperienza nelle Commissioni Pari Opportunità, comunale e regionale, perché le componenti rappresentano più i partiti di appartenenza che le donne. Maristella si presenta come candidata sindaco alle primarie del Pd per le amministrative 2013, unica donna, e risulta terza, impegnandosi subito dopo nella campagna per il candidato vincente, Giovanni Manildo. Le chiediamo quale ruolo vorrebbe ricoprire nella nuova amministrazione e ci risponde: “Darò la mia disponibilità per un incarico relativo alle questioni sociali, perché ritengo che non si possano inventare competenze che non si hanno”. trovarne altre, con grande capacità di ascolto”, mi dice. Ma, abbiamo capacità di ascolto? “Sì, questo è un punto debole. Dobbiamo da sempre tenere insieme tante cose: il lavoro, la famiglia, l’impegno politico, le relazioni. Forse l’ascolto ci rimette un po’ in questa multiformità. Dobbiamo imparare a fare una sintesi tra vita pratica e pensiero. L’impegno nel sociale spaventa, ma ti illumina. L’ascolto sarà fondamentale, ma, come dice Duccio Demetrio, ascoltare non basta, poi ci vogliono le parole giuste”. Sei assessore alla comunità e alla famiglia. Comunità: non è quasi un’utopia? “Si parte dal basso, dove scorre il sangue vivo. Le città intelligenti sono quelle in cui scorre il sangue vivo, dice Braudel. Partiamo dal basso e proprio dalle donne”. Nel sociale ha lavorato diversi anni, insegnando nella scuola elementare. Laureata in Scienze politiche, ha lavorato a Milano, ma poi è tornata a Vicenza, la sua città. Qui, in due anni tre bambini, il concorso per insegnare, due anni da vicepreside. Nella piccola scuola di Longare, nel 2000, incominciavano ad arrivare i primi bambini immigrati: non c’erano protocolli o procedure. Per affrontare la situazione bisognava veramente credere che differenza è ricchezza, pur nella consapevolezza delle difficoltà. “Si deve cercare il positivo, se non parti dal positivo non puoi cambiare il mondo”, mi dice. “Ho avuto una vita fortunata, per la parte del mondo in cui mi è capitato di nascere, per la famiglia in cui sono stata educata. Allora bisogna restituire qualcosa”. Si sostiene che le donne hanno una finestra per sé, tra la cura dei figli e quella dei genitori, tra i quaranta e i quarantacinque anni. Se hai fortuna, è allora che puoi investire il tuo tempo. E lei ha pensato di candidarsi in Consiglio comunale per il Pd. È andata bene, è stata consigliere per cinque anni. E adesso che cosa c’è davanti a te? Quali strade, quali nuovi percorsi? “Ti viene angoscia nel guardare i dati sulla povertà di ritorno ed è duro essere chiamata al compito di risolverla. Non si potrà rispondere a tutte le richieste. Bisognerà agire sulle potenzialità e sulla fantasia, cercare strade nuove. Aiutare, ma non assistere. Entrare in un circuito di cittadinanza attiva, in cui chi è aiutato deve ricambiare, sentire la città come un luogo di cura condivisa. La nuova povertà colpisce l’identità di una persona. L’intervento non deve essere assistenziale, ma deve chiedere una risposta, secondo i talenti e le competenze, tutto questo può restituire identità alle persone. Se ci sono buoni modelli li adotteremo, ma è meglio partire da ogni particolare situazione. Per esempio, in giunta è stata scelta una seconda volta, come assessore, Cristina Balbi; le sono stati assegnati i Lavori pubblici e lei opera con un’ottica di cura urbana, con l’attenzione ai bambini, ai disabili. Dobbiamo allargare lo sguardo. I lavori pubblici non sono la buca nella strada, ma pensare la città a misura di cittadino, lavorare insieme in modo trasversale, con la cultura: per esempio un convegno su Rom e Sinti, che non conosciamo; e ancora, per esempio, Elena Peruffo è oggi vice questore. I conflitti fanno parte della vita, ma noi possiamo inventarci come mediarli, ognuno di noi può e deve mettersi in gioco e può riuscire a modificare l’ambiente”. 3 ca m a bi m t n e i Il disagio e la luce del cambiamento Una conversazione fra redattrici di Mezzocielo sul malessere sociale e politico, sul desiderio di impegnarsi e sull’apatia, sull’energia e la bellezza che spuntano qua e là, inaspettate Beatrice Agnello, Giusi Catalfamo, Silvana Fernandez, Simona Mafai, Gisella Modica, Adriana Palmeri, Rosanna Pirajno, Maria Concetta Sala, Stefania Savoia La conversazione che presentiamo ha avuto luogo a casa di Silvana Fernandez, come sempre premurosa nella sua accoglienza e sollecita dell’agio delle sue ospiti. Essa nasce dal bisogno di dare parola alle spinte contraddittorie che avvertiamo dinanzi al presente, si tratti degli ultimi accadimenti della politica istituzionale o della violenza omicida sessista, o più in generale dello sgretolamento delle strutture materiali e delle sovrastrutture simboliche della società patriarcale. La spinta a questo scambio in presenza è stata dettata da un lato dal malessere dinanzi a un passaggio epocale che coinvolge la vita privata e quella pubblica di ciascuna di noi e attorno a noi e che ci toglie forza e fiato sino a indurci all’afasia e dall’altro lato dall’avvertire che nella realtà vi sono punti disseminati di luce che indicano dei cambiamenti in atto, frutto di un’altra politica, di altre pratiche segnate dalla libertà femminile, ovvero dalla presa di coscienza da parte delle donne che non accettano di subordinarsi ai modelli di una cultura secolare maschile. MARIA CONCETTA: Crisi economica e miseria del presente sono le paroline chiave che oggi aprono tutti i dibattiti e che riguardano la situazione sia nazionale che internazionale. Rispetto al mio essere, al mio stare al mondo, da un lato avverto dei cambiamenti positivi che riguardano la politica che mi appartiene e che è in atto, dall’altro non comprendo perché io mi senta così schiacciata. C’è in atto una rivoluzione nel modo di fare politica, di praticare le politiche (così si chiamano); ci sono pratiche differenti nel territorio consone a una nuova concezione della politica che corrisponde alla mia; e tuttavia, siccome ho la sensazione netta che questa cosiddetta “miseria” mi schiaccia, sento una contraddizione. Chiedo dunque a voi, se avvertite la miseria del presente come schiacciamento; e, in secondo luogo, se avvertite o no la crisi della democrazia rappresentativa, che trascina con sé anche le risposte possibili da parte delle istituzioni a questa crisi; perché c’è un vero e proprio collasso che è qui, sotto i nostri occhi. Fino a che punto tale collasso coinvolge la democrazia e che cosa ne potrà derivare? Il terzo punto è quello che mi permette di coltivare la speranza nonostante le contraddizioni: da una parte c’è una confusione enorme fra denaro e potere, c’è un gran disordine, perché denaro e potere hanno perso il loro valore simbolico; dall’altra 4 parte, in mezzo a tanta confusione registro creatività, entusiasmo e passione in diverse pratiche politiche. Eppure non riesco a mettere in circolo la mia passione della politica con gesti radicali; la parola “radicalità” può fare pensare a tante cose, ma io l’adopero per significare un orientamento in direzione della verità sulle cose come stanno e della giustizia sociale. I gesti radicali li vedo commisurati al desiderio di infinito, di Dio, una parola che uso appunto per indicare qualcosa che mi trascende. La soluzione dinanzi a tutto questo è nella mia pratica quotidiana quella di mantenere accesi i desideri più elevati e al tempo stesso porre rimedio là dove c’è bisogno. Nel sociale quali sono questi bisogni? Sono riconducibili alla questione del lavoro e dell’economia? Quel che so è che i bisogni dell’anima non vanno separati da quelli del corpo, altrimenti non ci sarà via di scampo all’asfissia sia per gli individui sia nel sociale. Insomma, per iniziare il nostro discorso, sono sufficienti queste domande, su cui ognuna può impiantare altre domande o soluzioni. ROSANNA: Questa ambivalenza, questa confusione la noto anch’io e resto sconvolta dall’ambiguità che percepisco in certi ambiti, o anche dalle contraddizioni che si manifestano senza darci il tempo di assimilarle. In una trasmissione televisiva di alcuni giorni fa si vedevano in Campania gli orrori del malaffare sui terreni, inquinati, massacrati dalle discariche abusive di materiali dannosi per la salute e l’ambiente, non ricordo come si chiama il posto… GISELLA: Capo Verde o Carezzano… ROSANNA: Ecco, lì facevano vedere tutti i disastri che hanno fatto, discariche che hanno avvelenato la terra, situazioni terrificanti che a guardarle veniva una gran depressione, poi all’improvviso spunta sullo schermo una persona che ribalta tutto questo e racconta: «Io ho fatto dieci anni di galera perché spacciavo droga a Secondigliano ma poi, uscito dalla galera, ho detto no, non può essere che i miei figli vivano in un simile ambiente», così ha cominciato a fare il volontario, ha chiamato a raccolta altri con altrettanti carichi di vita “ai limiti” alle spalle e insieme creano, in un terreno compromesso che bonificano e ripuliscono per bene, campi giochi e giardinetti per i ragazzi del quartiere, sono i loro figli a cui decidono di dare possibilità che loro non hanno avuto. E fatti come questo ne succedono, in questo strano paese. voglia di fare qualcosa, di cambiare il corso delle cose dal basso e perciò sono tanti i singoli e le associazioni di persone senza tessera di partito che agiscono in questa direzione... MARIA CONCETTA: E dunque queste sono forme di politica … ROSANNA: Politica sì, ma non istituzionalizzata, sappiamo tutti quanto contino in questa società distratta il volontariato e l’associazionismo, sono fenomeni vasti e diffusi e anche noi, con il nostro Mezzocielo, ne facciamo parte contribuendo a questa rivoluzione, anzi non voglio usare il termine rivoluzione perché gli attribuisco una accezione negativa … MARIA CONCETTA: Non sempre, se pensi alla rivoluzione dei pianeti … SILVANA: Ma questo è l’individuo, non sono le istituzioni che hanno fatto tutto ciò. ROSANNA: A me piace più la parola trasformazione, e penso che questo impulso ormai lo sentiamo in tanti. Fare per migliorare il mondo è in questo momento di crisi quasi un atto di volontà per dimostrare che «io sono qua e agisco, non me ne sto alla finestra a guardare il mondo andare a rotoli senza fare qualcosa». E questo aiuta a non sentirsi schiacciati, come diceva Maria Concetta, ma partecipi. ROSANNA: Sì, è l’individuo che agisce senza l’aiuto delle istituzioni, ma il fatto combacia con quello che diceva Maria Concetta, che c’è GISELLA: Se devo parlare sinceramente, il senso di annientamento di cui parla Maria Concetta io me lo sento tutto addosso e quando ca m bi am en ti Fotografia di Shoba, lavoro di Monika Sosnowska, 54. Biennale di Venezia 2011 qualcuno mi dice cosa vorresti fare, io, con egoismo e se non avessi una figlia precaria, direi “niente, non faccio più niente” perché considero le nostre armi spuntate di fronte alla crisi che ci sta davanti. O meglio le mie armi, che sono quelle del partire da sé e della relazione. Di fronte all’accanimento di certe amiche e compagne che sostengono che l’unica “arma” rimasta è entrare in massa nelle istituzioni per cambiarle, io mi tiro indietro e mi affido alle nuove generazioni. Ascoltandole sono certa che hanno raccolto quello che il femminismo ha seminato, anche se molte di loro non lo nominano, forse perché non ne hanno più bisogno. Lo faranno in modo diverso, trasformato in altro. Cose che magari io non capirò ma a Paestum, per esempio, dove di questo si parlava, è venuto fuori quello che ha detto Maria Concetta. Questi giovani hanno voluto insistere sul reddito di cittadinanza, che chiamano anche reddito di esistenza e che per noi non è stato mai una priorità, ma loro hanno puntato tutto su questo partendo dalla loro vita precaria, chiedendo anche con una certa aggressività alle femministe storiche “dovete farvi carico insieme a noi di questo problema, della precarietà della vita”. E hanno ragione perché i tempi sono cambiati e anche i bisogni: bisogni primari come l’acqua che beviamo, la terra i cui frutti mangiamo, l’aria che respiriamo, il lavoro che manca. Egoisticamente io però a 63 anni sento l’esigenza di ritornare a parlare di sessualità, del tempo che scorre, di tornare a fare autocoscienza, così, per capire cosa voglio fare perché sono disorientata. Poi c’è un altro punto, che sono io dentro al giornale. SILVANA: Che cosa c’entra il giornale? GISELLA: Riparto da quello che ha detto Rosanna. Anch’io ho visto la trasmissione su quella località vicino Napoli, dove accanto alle immagini piene di orrori come i bambini morti di cancro, la devastazione ambientale, i copertoni che bruciano, a pochi metri oltre la recinzioni si vedeva il terreno bonificato da una cooperativa che lavora lì ed esporta ottimi prodotti in tutto il mondo. E c’era pure questo ragazzo, che prima era un tossico e ne era uscito, che diceva di essersi rimboccato le maniche insieme ad altri e s’erano messi a lavorare partendo dal niente, per i beni comuni da recuperare, senza aiuti pubblici… questa è la speranza. Che c’entra il giornale? L’unica cosa che mi dà energia è la possibilità di raccontare queste storie, cercare queste storie positive per fare vedere che c’è un’altra realtà. Questo mi dà un senso oltre che una speranza. SIMONA: I tre argomenti che ha posto Maria Concetta sono ineccepibili. L’amarezza del presente, l’incapacità delle istituzioni attuali di funzionare come vorremmo e la nostra voglia di intervenire per affrontare i problemi del presente, sempre frustrata: ci troviamo in un circolo vizioso, che pare senza via d’uscita, ma non è così. Io penso che la crisi delle istituzioni e della democrazia in Italia dipende anche da un cambiamento forte che c’è stato nella vita individuale e collettiva. Bisogni, desideri, volontà di partecipazione delle persone non confluiscono più nei canali tracciati nel dopoguerra, pensando ad una popolazione molto diversa da quella di oggi. A parte la patologia, l’infezione che ha il nostro paese, cioè la corruzione, le mascalzonate, i ladri nei partiti, i reati che hanno aggravato la crisi della democrazia (ma questa è patologia e va curata come una malattia), a parte questa, è la struttura stessa delle istituzioni che va rivista, adeguata ad oggi. Giorni fa dicevo a Bice: l’aumento di cultura (magari meno profonda, ma certamente assai più estesa di un tempo) ha prodotto un gran cambiamento nelle persone; è alla radice di tante crisi che registriamo. Tutti ritengono di sapere più cose e si collocano in modo immediatamente critico di fronte ai programmi dei governi e dei partiti. ROSANNA: Questa non è più cultura, è informazione… SILVANA: Ma un aumento di cultura, di conoscenze, c’è stato. Si è abbattuto l’analfabetismo, ed è facile 5 ca m a bi m t n e i trovare figli di operai laureati anzi stralaureati SIMONA: Le conoscenze sono obbiettivamente maggiori, i giovani credono di saperne di più delle generazioni precedenti, si sentono individui singoli, indipendenti. Ma questo è un fatto positivo, anche se può disturbare pratiche comunitarie precedenti. Una volta la conoscenza degli eventi e le interpretazioni che ne davano i partiti erano accettate dai rispettivi aderenti/elettori. C’era uno spirito gregario, condizione base dei cosiddetti “partiti di massa” e di un elettorato quasi immobile. Al contrario, oggi ognuno vuole dire la sua, ed essendoci dieci o cento idee e differenziazioni, emergono contrasti che mettono in crisi democrazia tradizionale e partiti (in continua mutazione negli ultimi anni). La realtà è diversa dal dopoguerra, partiti e istituzioni devono prenderne atto ed adattarvisi, modificandosi, aprendosi agli apporti imprevisti che emergono dalla società. Ma istituzioni e partiti ci vogliono, servono, cara Gisella. Riflettiamo ad esempio sulle cooperative che operano nei terreni espropriati alla mafia: coltivano fagioli o pomidoro, ma poi li mandano a Bologna dove vengono puliti, inscatolati, distribuiti nei supermercati, attraverso aziende preesistenti e reti commerciali sperimentate. ROSANNA: Ma questa è la rete; l’istituzione non c’entra. GISELLA: Sì, è il commercio solidale. GIUSI: Ma le istituzioni devono adeguarsi. SIMONA: È un processo reciproco. La lotta, il volontariato, il movimento si sono coordinati con le istituzioni, hanno inventato chiesto e ottenuto nuove regole, diversificato il mercato. Se non si fossero collegati alle istituzioni e alle strutture esistenti, avrebbero fatto solo testimonianza, i prodotti sarebbero rimasti a marcire e non si sarebbe modificato nulla. Credere che sia possibile cambiare, impegnarsi per 6 quanto è possibile, mai restare indifferenti. Mi viene in mente un vecchio bellissimo film sulla guerra e la tragedia del Libano (mi pare s’intitolasse “L’inganno”) interpretato da Hanna Schygulla, che alla fine – dopo bombardamenti e assassinii – dice “Sì, il mondo vada dove vuole, io resto qua in terrazza a prendere il sole!”. Noi siamo molto in crisi, non voglio fare questo discorso per negare la crisi che è intorno a noi, ma non vogliamo stenderci in terrazza a prendere il sole. Del resto, se guardiamo a un orizzonte più ampio dell’Italia, ci accorgiamo che le cose nell’ultimo secolo non sono andate tutte male. Ma pensate cos’era la Cina trenta anni fa, l’America latina e l’India, e cosa sono oggi. Insomma non possiamo dire che il mondo si è fermato, o che è andato indietro: né per lo sviluppo economico né per i diritti umani. SILVANA: Simona, hai ragione. C’è il brutto, anche l’orrido, nel mondo attuale ma c’è il buono, quello che fa sperare ma, come dice Maria Concetta, noi ci sentiamo appesantiti soltanto dalla miseria. Perché? Perché della miseria si sono impadroniti i media e allora la propinano ininterrottamente, non perché la miseria non ci sia mai stata, non perché il problema del precariato non ci sia, ma ora è come se ci fosse solo quello. A me fa ancora più impressione perché la povertà c’è da sempre, in piccole fasce prima, ma da due, tre anni, le fasce sono diventate un sudario, eppure è solo ora che se ne parla. Perché nel periodo di Berlusconi i ristoranti erano pieni… e tutti dovevano essere magri, eleganti e ricchi, e, sì perché no, abbronzati! Maria Concetta ha detto: “Adesso si tiene solo al denaro ed al potere”, io penso che neanche del denaro si interessano più, forse perché si è tutti convinti del vuoto delle casse, ma sono aggrappati al potere, ormai vano, perché sempre contestato, politica e potere si sono identificati. E allora anch’io che sono una chiacchierona sono diventata afasica e come l’attrice dell’Inganno, citato da Simona, mi metterei in terrazza a prendere il sole perché mi sento impotente. GIUSI: Sono combattuta fra non leggere giornali, non vedere la televisione, la tentazione di dire mi prendo il sole e sto a guardare. Ma intanto mille domande affiorano: quanto costa la vita umana? Per esempio si uccidono donne e uomini come se non fossero persone ma cose, più le donne che gli uomini, ma così, con un cinismo! E poi però si vede che qualcosa è cambiata. E per me sono stati un balsamo i fischi negli stadi ad Andreotti quando è morto, un balsamo! Ah, giustizia è fatta! Poi la contestazione di Brescia, altro balsamo per cui mi viene di dire voglio esserci anch’io. Ma poi succede questo fenomeno di assorbimento per cui sono sempre gli stessi che cambiano nome, ma sono sempre gli stessi ad assorbire tutto quello che di marcio succede e farlo sembrare normale; un processo di normalizzazione. Allora da una parte ho dei momenti in cui mi pare che il mondo è cambiato, dall’altro lo scoramento che resti tutto uguale, allora mi viene da dire che faccio? E non so dire altro. STEFANIA: Io invece ho molta voglia di parlare. Sono al centro della mia vita, avendo trent’anni, vedo le cose con un’altra prospettiva. Fino a un certo punto le vedo pessimisticamente e subisco la confusione attorno, d’altra parte vedo che in questa epoca e qua in questa stanza (penso a Simona che li ha ora citati) sono successi fatti epocali. È avvenuta la democrazia, il voto alle donne, cose che erano impensabili, e perciò devo credere nel futuro, credere nei cambiamenti. Il primo deve essere un cambiamento di prospettiva. Leggevo l’altra volta in un articolo sull’insegnamento che noi insegnanti finora ci siamo posti davanti agli alunni in maniera vecchia. Come s’insegnava nell’ottocento noi continuiamo a insegnare. Apriamo un libro, raccontiamo delle cose, gli alunni le capiscono, scrivono etc. etc. Dobbiamo cambiare questo sistema e tanti altri. Quello che io sento è uno scollamento fra vecchi e nuovi principi che forma il conflitto. E penso che è necessario accettare il cambiamento, così come invece ci sono cose inderogabili che devono restare. Per esempio le istituzioni sono importanti. Bisogna vedere le istituzioni come una struttura portante, non come una gabbia, certo non sono da buttare quelle costituzioni che contengono concetti non antichi ma eterni, l’uguaglianza, la democrazia il voto a tutti i cittadini. Il punto è sapere cosa tenere e cosa lasciare. Soprattutto va cambiata la lettura di ogni cosa, per esempio del mondo economico, dove c’è il caos ma ci sono anche cose nuove. C’è una potenza, la Cina, che non esisteva e che ora è la più grande del mondo, bisogna tenerne conto. Pensare che questa crisi è come quella del 29, è sbagliato, ora il mondo è diverso. C’è internet e noi dobbiamo prendere atto dell’importanza del web, non per aprire un blog ma per aprire strade nuove. Dobbiamo fare interagire passato e presente, tenendo quello che serve nel mondo attuale, che ha come prerogativa la velocità. Per esempio, Gisella parla di tante associazioni operative, che sono importanti, insomma è un tempo di cambiamenti e io potrei viverli con paura, ma penso che cambiare serva. Considerate la differenza che c’era fra mia madre e mia nonna: sì, c’erano delle diversità ma erano sullo stesso binario. Invece se penso a mia madre trentenne e a me trentenne ci vedo lontanissime, come se appartenessimo ad un mondo diverso. Noi dobbiamo avere la forza di dire questo mondo è nuovo, la sfida è quella di dargli forma, perché questo ci fa paura, la mancanza di forma, ma per questo è necessario che siamo tutti a formarlo, vecchi bambini giovani, non possiamo esimerci, nessuno di noi lo può fare. BEATRICE: Stefania ha detto cose interessanti. Condivido che dobbiamo – soprattutto la sinistra deve – cercare nuove chiavi di lettura della realtà e adottare comportamenti politici diversi. Il cambiamento, a cui – per così dire, geneticamente – la sinistra non dovrebbe ca m bi am en ti Fotografia di Shobha, Siria rinunciare, oggi non può avere certamente gli stessi protagonisti né gli stessi obiettivi del secolo scorso. Condivido che non ci si può esimere dall’impegno quotidiano e tanto più non posso farlo io che, malgrado sia arrivata all’età della pensione, non ho una pensione e devo continuare a inventarmi progetti su cui lavorare. Così sono costretta a restare giovane… e sento la spinta a impegnarmi perché il mondo, non solo quello mio privato, vada un po’ meglio. La politica dovrebbe servire proprio per trovare le soluzioni e le mediazioni che tengano assieme una società nella maniera più equa possibile, in questo momento di selvaggiume finanziario ancor più che in momenti migliori. E poi penso che non possiamo escludere da noi la politica senza impoverire la nostra vita. E che la politica non possa essere ridotta al lavoro di base di gruppi più o meno omogenei, ma debba avere un orizzonte ideale e momenti di mediazione generale, nonché sponde istituzionali per avere efficacia sulla realtà. Un piccolo esempio di discorso che non mi piace, GISELLA: La discussione è sorta perché hanno fatto in parlamento tre minuti di silenzio e se li potevano risparmiare, è per tanti un assassino, un mafioso. dirigente, abbiamo tre partiti che non esistono. Il Pd ha capi e capetti che si azzuffano fra loro; il Pdl prima che il risuscitato Berlusconi riscendesse in campo era alla guerra per bande; per non parlare del movimento di Grillo dove convivono le istanze più diverse, molte qualunquiste e francamente cretine. Insomma, per concludere, bisogna impegnarsi perché non abbiamo nessuno a cui delegare. Sento la necessità di una classe dirigente diversa che abbia un linguaggio diverso. Sento la necessità che cambi il processo decisionale nei partiti e nelle istituzioni. Adopererei la parola rivoluzione, senza evocare né sangue né ghigliottine, rivoluzione per dire cambiamento radicale. BEATRICE: Continuo a non condividere questo sentimento. Mentre sento fortemente lo scoramento di un precario più travolgibile dalla crisi di chi ha un lavoro o una pensione sicura – in un paese che non ha una classe politica capace di affrontarla, la crisi. Diciamolo, siamo allo sbando perché non abbiamo una classe ADRIANA: Non voglio esimermi anch’io dall’esprimere il disagio, l’instabilità e la sofferenza di questi tempi durissimi da sopportare, come donna, come cittadina, madre e lavoratrice. Tuttavia poiché prevale in me un modesto ottimismo, mi pongo da spettatrice partecipante, pur non avendo nell’atteggiamento di una certa sinistra (ma anche nella politica dell’insulto di Grillo), è quello che faceva Giusi poco fa: sentir dire “che bello, Andreotti è morto” non mi è piaciuto, non provo piacere quando muore qualcuno e non mi piace il giustizialismo. GIUSI: Io lo dicevo in un altro modo, era una soddisfazione personale. ROSANNA: Dai Bice, una soddisfazione. BEATRICE: Per me non è una soddisfazione. né ricette, né risposte adeguate, rispetto ai miei tre punti di osservazione. Sanità (ambito in cui lavoro): è corretta la considerazione che la Sicilia non è certo fra le regioni più virtuose, ma non tutto è da demonizzare, la sanità siciliana ha sfidato le altre regioni ascrivendosi prestazioni e cure gratuite agli immigrati, non è cosa da poco tenuto conto che è corretto mettersi anche dalla parte dei più deboli. Tutto il resto è umanizzabile e perfettibile. Io rispetto alle mie figlie: la loro età attraversa due generazioni, e come tutti/e i/le giovani, pur avvertendo le preoccupazioni di noi genitori, consapevoli dell’esponenziale rischio di violenza di genere cui sono sottoposte, ci incoraggiano e lottano anch’esse, con i propri mezzi, per una maggiore sensibilizzazione alla cultura della non violenza, in tutti i loro ambiti. E infine la politica, della quale non si può fare a meno, così difficile ma, per me, così attraente nonostante tutto. Da democratica e fedele all’ideologia nella quale mi riconosco, ritengo valga sempre la pena dare un contributo per renderla migliore. 7 m a c a bi m t en i La giustizia non è più un dominio maschile Ma ancora le vittime della violenza soffrono le inefficienze dell’ordinamento giudiziario e una vecchia cultura Maddalena Giardina (Avvocato) S ebbene in Italia, nel tempo, diverse leggi siano state emanate per contrastare con misure e sanzioni la violenza contro le donne, ancora molti esiti giudiziari riflettono quell’attitudine socio-culturale che condona la violenza maschile contro le donne, opportunamente rilevata e stigmatizzata dalla Relatrice Speciale Onu. Leggi che, non va dimenticato, sono la risultante di lunghe e difficili battaglie contro un ordine normativo che è stato sempre fonte di negazione di libertà e di esclusione delle donne, che ha autorizzato e legittimato nei fatti la violenza sulle donne, ingenerando nelle stesse un forte senso di timore e di estraneità e contribuendo a segnare negativamente la storia del rapporto tra i sessi. Valga ricordare solo alcuni esempi, senza andare molto lontano nel tempo, che sino a prima del ’46 le donne non avevano diritto al voto, sino al 1975, prima della riforma del diritto di famiglia, la donna era sottoposta all’autorità maschile, vigeva lo jus corrigendi; il delitto d’onore e la scriminante del cd. matrimonio riparatore hanno avuto un’abolizione ancora più recente. Le donne sono state escluse dall’esercizio della giurisdizione da quella stessa assemblea costituente che all’art. 3 sanciva il principio di eguaglianza; si è poi dovuto attendere il 1963 perché potessero accedere alla magistratura. Oggi nelle aule di giustizia agiscono molte donne. Nell’avvocatura e nella magistratura in pochi decenni le donne sono arrivate ad essere circa la metà, la giustizia si è femminilizzata e sarebbe interessante poter analizzare il cambiamento che si è determinato. Le richieste di giustizia che vengono dalle donne che denunciano le violenze subite sono decisamente aumentate rispetto al passato, forse anche incoraggiate da tale presenza e dalla specifica competenza femminile. Oggi non è più pensabile celebrare un processo come quello documentato da Loredana Rotondo nel 1979 in ‘Processo per stupro’ che ha 8 significativamente contribuito a segnare un cambiamento nelle coscienze e nelle aule giudiziarie. Nei processi c’è ormai attenzione e rispetto delle vittime del reato, ciononostante talvolta le risposte giudiziarie risultano inadeguate e prive di efficacia. Certo si sconta il malfunzionamento del sistema giustizia, i tempi lunghissimi, le procedure complesse, la carenza di risorse, rispetto ai bisogni simo entro cui si può commisurare una pena che la/il giudice applica discrezionalmente tenendo conto dei parametri indicati dalla legge che permettono di valutare sia la gravità del reato, che la capacità a delinquere del colpevole. Nel corso delle indagini e dei processi possono essere applicate le misure cautelari limitative della libertà personale dell’indagato che sono la custodia in carcere, gli arresti domicilia- La Convenzione di Istanbul, il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza, è stata ratificata, a maggio, dall’Italia con voto unanime del Parlamento. Un primo passo avanti ma ancora tanta strada da percorrere, infatti per essere operativa ha bisogno della ratifica di dieci Paesi, di cui almeno otto membri del Consiglio d’Europa. Il nostro è il quinto paese ad avere approvato il testo. Nella Convenzione, tra l’altro, viene riconosciuta la necessità di finanziare adeguatamente le azioni previste per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno, nonché per il sostegno alle vittime e lo sviluppo dei servizi a loro dedicati. delle donne che, invece, richiedono immediatezza di intervento e soluzione, ma persiste anche un’incultura che permea l’agire di coloro che sono preposti a contrastare il fenomeno della violenza contro le donne. Si invocano nuove leggi e l’inasprimento delle pene, ma intanto va auspicata un’applicazione più rigorosa delle norme attualmente in vigore, che prevedono misure e sanzioni non irrilevanti. Ad esempio, la pena prevista per il reato di violenza sessuale va da 5 a 10 anni e, a seconda delle aggravanti, da 6 a 12 o da 7 a 14, è previsto l’ergastolo in caso di morte della vittima; per gli atti persecutori la pena va da 6 mesi a 5 anni che in casi specifici può essere aumentata da un terzo alla metà, è prevista la pena dell’ergastolo in caso di morte; la pena per i maltrattamenti va da 2 a 6 anni, se causa lesioni gravi da 4 a 9, se gravissime da 7 a 15, se ne deriva la morte è previsto l’ergastolo. Dunque, si coglie subito l’ampio margine tra minimo e mas- ri, il divieto o l’obbligo di dimora, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, l’allontanamento dalla casa familiare ed in tal caso, se necessario, può venire imposto anche il pagamento periodico di un assegno. Anche per tale ventaglio di misure la legge stabilisce i criteri di applicabilità in considerazione delle esigenze cautelari. Ovviamente le norme prevedono anche attenuanti e benefici di legge. L’ormai folta presenza femminile in ambito giudiziario fa ragionevolmente ritenere che nei processi vi sia una più immediata emersione e capacità di lettura del problema della violenza sulle donne, una maggiore consapevolezza della gravità della stessa e dei suoi effetti devastanti e molto spesso letali, tuttavia, talvolta si riscontra una blanda o inappropriata applicazione di misure e sanzioni, che rimandano, invece, ad un’indecifrabile sottovalutazione del dramma che affligge le donne che subiscono violenza. Una donna maltrattata grave- mente da molti anni dal marito che la minacciava di morte se lo avesse lasciato, aveva preso tale decisione rifugiandosi presso la casa della madre. Una mattina il marito si è appostato sulla strada in auto con un mazzuolo da muratore di un chilo e mezzo, l’ha avvicinata con un pretesto e l’ha colpita al capo con due colpi di mazzuolo non ha fatto in tempo a darle il terzo solo perchè è stato bloccato da tre persone. Arrestato con l’accusa di tentato omicidio, ha confessato ciò che era evidente, i testimoni oculari e la moglie rimasta miracolosamente viva hanno confermato la dinamica. L’indagato dopo diversi mesi è stato scarcerato, la Pm ha ritenuto che colpire con uno strumento potenzialmente letale, un organo vitale, per ben due volte, non configuri un tentato omicidio, ma semplici lesioni personali ed ha così riconsegnato un pericoloso individuo alla sua libertà, ed alla vittima il suo carnefice. Le indagini che preludono ad un processo per atti persecutori è una fase lunga e difficile per la vittima dovendosi prima procedere alla raccolta degli elementi che giustifichino l’applicazione di una misura cautelare e raccogliere le prove del reato. In genere poi quando viene applicata la misura del divieto di avvicinamento alla persona offesa, altrettanto in genere l’indagato la viola con conseguente aggravamento della misura. Una volta celebrato nel lungo tempo il processo, la condanna spesso viene contenuta nella misura minima ed il modesto risarcimento assegnato in genere non si recupera mai o se non dopo moltissimi anni, inoltre viene concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena e la misura cautelare, se ancora in atto, viene revocata. Risulta facilmente intuibile il senso di frustrazione che prova la vittima, ma sopratutto la paura dalla quale non era neppure ancora uscita e nella quale sprofonda ulteriormente e di contro il senso di impunità e onnipotenza che invece si radica ancor più nell’autore del reato il quale, sebbene formal- ca mente riconosciuto colpevole e condannato, dimostra alla sua vittima che qualunque cosa faccia, anche quella di rivolgersi alla giustizia, lo lascia di fatto impunito e che evidentemente perseguitare una donna non è grave. Eppure chi ha curato le indagini è una Pm, il tribunale è composto da una giudice che ha anche avuto cura durante il dibattimento di rivolgersi alla donna che depone come teste manifestando di comprendere il suo disagio e di rassicurarla sul rispetto dovutole. Non si comprende allora il senso di una sanzione così sottodimensionata rispetto alla gravità dei fatti, alla comprovata pericolosità del colpevole ed ai danni causati, nè perchè venga concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena che si applica alle condanne non superiori a due anni, ma solo se il giudice ritiene che il condannato si asterrà nel futuro dal commettere ulteriori reati; formulare una prognosi postuma in tal senso proprio nel reato di stalking è quasi un controsenso, tenuto conto che è un reato ontologicamente seriale e che nel caso di specie l’autore aveva dato prova di aver continuato a violare la legge. Il momento giudiziario non previene i fattori di rischio, la prevenzione attiene altri ambiti, ma può concorrere, senza ovviamente derogare all’obbligo di imparzialità nel giudizio, a sottolinearne la gravità e la pericolosità sociale e culturale della violenza contro le donne. Occorre che in ambito giudiziario il quadro normativo di contrasto alla violenza maschile contro le donne sia applicato e reso in concreto funzionale, che a quelle violenze che vengono raccontate in aula da tante donne, se arrivano in tempo a farlo, dopo doverosa e attenta valutazione sulla veridicità delle stesse, conseguano delle sentenze che affermino la gravità esistenziale e giuridica anche in termini sanzionatori coerenti nei confronti dei colpevoli e che ribadiscano che nella pratica giudiziaria viene salvaguardato, tra gli altri, il diritto fondamentale delle donne di vivere libere dalla violenza. m bi am en ti Fotografia di Soraya Gullifa, Kerala 2011 Storie di donne e storie di violenza A Caterina Brignone (Giudice del Tribunale di Trapani) pprendo troppo spesso dai media di donne abusate, maltrattate e violentate, mi imbatto in vicende di analogo tenore nei processi che sono chiamata a decidere, mi è capitato di raccogliere le confidenze di amiche in difficoltà ed ho ascoltato lo sfogo di vittime insospettabili, incontrate per caso nel corso delle iniziative di sensibilizzazione antiviolenza cui partecipo. Ogni volto ed ogni storia sono rimasti impressi nella mia mente e, in fondo, mi capita di pensare che, rispetto a queste realtà, il mio compito è facilitato quando sono chiamata ad intervenire da giudice. In quel caso, infatti, conosco le regole del valutare e del decidere e la legge offre una serie di strumenti sia per la protezione ed il risarcimento della vittima sia per la punizione del colpevole. Si tratta di strumenti perfettibili, ma è importante, ad esempio, che esista la possibilità di chiedere la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare a tutela dell’incolumità della persona offesa e dei suoi prossimi congiunti, che la vittima possa costituirsi parte civile nel processo penale e che vi siano fattispecie incriminatrici adatte a sanzionare – oltre ovviamente alle percosse, alle lesioni ed all’omicidio – i maltrattamenti di ogni genere e gli atti persecutori. Tutte queste potenzialità sono a disposizione della vittima che si renda conto di essere tale ed accetti, quindi, la mano che l’ordinamento le tende. Il vero punctum dolens, invero, riguarda la cifra oscura di coloro che hanno paura di venire allo scoperto o che pensano di meritare i soprusi che subiscono. Al di là dei proclami, allora, bisogna pensare ad iniziative concrete, ad esempio al finanziamento delle case famiglia, alla previsione di sussidi per le persone in difficoltà ed al potenziamento dell’occupazione femminile, in maniera tale che il timore di perdere il sostentamento proprio e dei propri figli non si traduca nell’autentica barriera alla denuncia di un marito o di un compagno violento. Potrà apparire prosaico e banale, ma il riscatto morale dei soggetti deboli passa, da sempre, per la via dell’emancipazione dal bisogno. Ma v’è di più, perché ho conosciuto donne di buon livello culturale e di condizione sociale agiata che hanno scelto di non denunciare le violenze fisiche e morali subite “per il bene della famiglia”, in attesa che crescessero i figli, magari gli stessi figli parimenti maltrattati e malmenati. In questi casi, il problema è eminentemente culturale, è verosimilmente il portato di una malintesa educazione “tradizionale”, per la quale la donna smentisce se stessa e la sua “funzione naturale” se “osa” far valere i propri diritti e la propria autonomia. Deve, invece, passare il messaggio opposto, ossia che ciascuno di noi ha una dignità inviolabile, che va rispettata e mai calpestata. La donna che fa proprio questo messaggio non aiuta solo se stessa, ma anche i propri figli – che non cresceranno abituandosi alla sopraffazione, ma educandosi al rispetto per l’altro – e la società nel suo complesso, che avrà modo di progredire verso una cultura della non-violenza. Questa cultura va promossa con iniziative di ogni genere e deve essere portata avanti con la massima determinazione proprio dalle donne, cui spetta il compito – come diceva Mary Wollstonecraft, una delle fondatrici del movimento femminista – di riformare se stesse per riformare il mondo. Ciò vuol dire chiamare le donne ad un’assunzione di responsabilità verso sé e gli altri, ma, in fondo, a questo dovremmo essere già abituate. 9 cr t ea i t vi libri à Su e giù per gli scaffali a cura di Loredana Mancino Libreria Modusvivendi Irène Némirovsky La nemica, Elliot, - € 16,00 S econdo romanzo, inedito in Italia, della grande scrittrice ucraina di religione ebraica, morta ad Auschwitz. Apparve per la prima volta in Francia con la firma Pierre Nérey, pseudonimo ricavato dall’anagramma del nome dell’autrice. È la prova del carattere autobiografico di questo romanzo di formazione, che ritrae una madre egoista e distratta e sua figlia, che da grande risponde alla cattiveria della madre rubandole l’amante per poi togliersi la vita. Uno squarcio doloroso sul rapporto conflittuale tra Irène e la madre. Protagonisti della storia, l’odio e l’orgoglio, che fanno da corollario a sentimenti ancora più oscuri e torbidi. Helga Schneider I miei vemt’anni. Oltre “Il rogo di Berlino”, Salani, - € 13,90 I n questo libro totalmente autobiografico, la Schneider racconta gli anni del dopoguerra, la sua fuga dalla famiglia invivibile, dominata dalla matrigna e i suoi primi passi nel mondo. Il lavoro, il teatro, la scrittura, le amicizie, gli amori e le delusioni. E soprattutto, i luoghi delle sue avventure: Salisburgo, Vienna, Parigi e l’Italia, sempre amata. Conquistano il lettore la tenacia e la determinazione dell’autrice, così giovane e forte, il suo bisogno di indipendenza e di mettersi in gioco, la consapevolezza delle sue passioni e dei suoi desideri. Amélie Nothomb Barbablu, Voland, - € 14,00 N el nuovo romanzo della Nothomb dal titolo fin troppo evocativo, una giovane e brillante docente universitaria belga cerca casa a Parigi. E si convince a condividere per pochi spiccioli una lussuosa dimora con il suo proprietario, il nobile spagnolo don Elemiro Nibal y Milcar, uomo tutt’altro che spaventoso, affascinante, colto, attento. Ma Saturnine non sa che otto donne prima di lei hanno abitato in quella casa e che di loro non si sa più nulla. Il gioco di seduzione che si crea tra i due non abbatte le difese della ragazza, che ribalta il modello classico, liberandosi da sola e sfuggendo alle mani del mostro, tanto amabile, quanto pericoloso. Mary Gaitskill Veronica, Nutrimenti, - € 18,00 L a storia di un’amicizia improbabile, ma vera tra due donne con un passato forte e travagliato. Alison, bella e temeraria, ha detto addio allo sregolato mondo della moda e fa le pulizie in uno studio fotografico; Veronica, non bella e cinica, si è rovinata la vita per un uomo che le ha trasmesso l’aids. Il rapporto tra le due donne sarà più forte delle loro differenze culturali e si imporrà a loro come una necessità. Con uno stile asciutto e diretto la Gaitskill ci racconta i sovversivi anni Settanta a San Francisco e i patinati anni Ottanta a Parigi e New York. La 27a Ora Questo non è amore, Marsilio, - € 16,50 D alle autrici del blog del Corriere della sera, che si occupa di temi al femminile, venti storie di abusi e violenze sulle donne. Donne maltrattate dai mariti, dai compagni, dai fidanzati, proprio tra le mura domestiche. Raccontandosi, le protagoniste dicono no alla violenza subita e si sottraggono a dinamiche di coppia ormai malate e senza amore. Un fenomeno molto diffuso e trasversale dal punto di vista sociale, che spesso coinvolge anche i figli. 10 Ricevuti Bambini e bambine abbandonati. Una storia millenaria Un pentito della ‘ndrangheta si racconta alla figlia Paola Bruttocao e Luisa Tosi Mi hanno abbandonato i miei famigliari - Esposti a Treviso dalla “ruota” ad oggi”. Istresco ed.,€ 16,00 Ombretta Ingrascì Confessioni di un padre, Melampo ed. €13,00 D ue ricercatrici venete, senza ambizioni di protagonismo (nel libro mancano perfino le consuete schedine relative alla vita e alla professionalità delle autrici) si sono immerse negli archivi della loro città per indagare un tema appassionante: l’abbandono di nati non voluti. Apre il libro un elenco dei casi di abbandono registrati in Italia negli ultimi anni; chiude una cronologia degli interventi pubblici compiuti in merito a tale fenomeno nel corso della storia, a cominciare dagli etruschi del IV secolo a.C., fino alle legislazioni attuali. Ma il centro del libro riguarda i tempi recenti, a cominciare dal secolo scorso, ed in particolare la provincia di Treviso: l’apertura delle “Case degli esposti” (chiamati anche “buttatelli”), la nascita di molti istituti privati, il ruolo dei parroci, gli affidi a pagamento, il baliatico. Sono poi riportati dati attuali: in Italia si raccolgono ogni anno circa 3.000 bambini abbandonati, 400 dei quali lasciati in ospedale; e le autrici raccomandano maggiore informazione sulla possibilità del “parto in anonimato”, che può compiersi in ospedale. Tra le tante notizie di fatti sconosciuti in materia, ne riporto uno particolarmente raccapricciante. Durante la prima guerra mondiale, furono sequestrate dai soldati 180 donne profughe. Portate in una scuola e stuprate in massa, ne nacquero 40 bambini, chiamati poi “figli del nemico”. Per essi fu creata una struttura apposita a Portogruaro, chiamata “Ospizio dei figli della guerra”. Arricchiscono il libro testimonianze di persone cresciute negli orfanatrofi, una antologia di testi di grandi autori sui “bambini soli”, ed una serie di fotografie antiche di persone e di luoghi. Un libro semplice e prezioso. S.M. Q uesto libro può essere letto da diverse angolature. Prima di tutto come la storia di un capoccia della ‘ndrangheta, emigrato dalla Calabria a Milano, che fu capace di muoversi in tutta Europa, che importò e diffuse smisurate quantità di droghe ed armi, e finalmente fu arrestato e posto in regime di 41bis. Questi, dopo molti anni, commosso da una lettera della figlia che si doleva della propria condizione di totale “orfanità” (padre e madre in carcere), decise di collaborare con la giustizia. Un’altra angolatura riguarda l’attenzione verso il linguaggio del mafioso, sempre arrogante, cinico, e compiaciuto di sé, che l’autrice riporta senza propri commenti, ascoltando l’uomo con rispetto, ispirandosi all’esempio di Giovanni Falcone. Terza angolatura è l’illustrazione della tecnica che il ricercatore o giornalista, dovrebbe adottare parlando con i pentiti. Chi raccoglie le loro testimonianze, raccomanda Ombretta Ingrascì, studiosa con una lunga esperienza sul campo, non deve mai dimenticare la sofferenza di chi è permanentemente in bilico tra due diverse identità, “in una sorta di limbo esistenziale” (p. 164). Le fonti orali, in particolare quelle delle donne, sono fondamentali per la conoscenza del fenomeno delle mafie, perché “offrono un contributo rispetto a quegli ambiti dove l’accertamento giudiziario è più difficile, oppure dove … si manifestano comportamenti non penalmente rilevanti…ma …cruciali per la sopravvivenza delle associazioni mafiose” (p. 167). A conclusione del libro, un pensiero commosso alle pentite della ‘ndrangheta che, con grande coraggio e pagando un prezzo feroce, hanno saputo spezzare i legami con le loro famiglie criminose. S.M. cr ea ti vi tà Fotografia di Shobha, Una giovane mamma russa, 2013 DIECIRIGHE Francesca Traìna Non c’è rancore dentro la scialuppa. Calata lungo la corrente scivolerà sugli orli dolci del mare. Avrà la dignità dell’esule e una tristezza chiara nello sguardo. Da quando la luna s’è abbassata sulle case sono trascorsi anni. Sconveniente e inopportuna aveva illuminato gli angoli nascosti d’una domestica coscienza. Ne hanno violato il cuore per ricacciarla negli anfratti della notte. Ora è ridiscesa a prua e va per mare sospesa a questo cielo obliquo. Si ricorderà di questi anni, di chi l’ha stemperata all’acqua falsandone i colori, di chi si è alleggerito al vento per conservarsi a lungo nella falsa convinzione d’aver perso ogni memoria. L’angustia è luogo di miseria e di sopravvivenza, di chi sosta dentro sé e guarda il mondo riflesso su uno schermo. Oggi è il mese che cantammo. Dicono sia tornata l’estate. 11 cr t ea i t vi à A dicembre Cinzia Collura L ’avevano fatto tutti, non l’avevo mai fatto isoltanto io. Il problema era che mi lasciava e mi tornava a prendere mia madre e questo rendeva tutto più difficile. Mi convinse Giulio: lo trovai davanti alla porta dei bagni maschili, si fece grande ai miei occhi, mi disse “è stato facile, addirittura ho coinvolto Piero della prima C”, un qualcuno cioè più piccolo di noi, anche se solo di un anno. Lo ammetto: mi sembrò un’onta. Erano tutti dall’altro lato della barricata incluso quel fesso di Giulio. E poi io, da solo, dalla parte opposta. “Ci vediamo alle due” dissi a mia madre scendendo dall’auto e già avvertii qualcosa di frizzante nell’aria. E l’avrei fatto da solo, che motivo c’era di coinvolgere questo o quello? Mi piazzai al centro della scalinata, ben in vista per tutti i compagni; i bidelli cominciarono a invitare tutti quanti a entrare, la campanella suonò ripetutamente e io man mano mi spostai in senso opposto, allontanandomi sempre più dal portone, sin quando inesorabilmente si chiuse e io solo rimasi fuori dalla scuola. Durò un attimo: ebbi un ripensamento improvviso e improvvisamente mi tremarono le gambe. Pensai d’essere stato un fesso, mi domandai cosa avrei fatto tutte quelle ore e mi rimproverai d’avere considerato importante un qualcosa che non lo era affatto. Dal lato opposto del cancello intravidi il professore di matematica, pensai che se ci fossimo incrociati gli sguardi sarei rimasto stecchito lì, sul posto. Invece m’ignorò del tutto, proseguì svelto verso il portone e quasi d’incanto il portone si riaprì e inghiottì anche lui al suo interno. Mi accorsi in quel momento che la giornata era magnifica, il cielo altissimo e azzurro e il sole guardingo già tra le fronde degli alberi, sebbene fossero appena le otto del mattino. Tutto intorno si aprì il silenzio. 12 Era come se tutti i rumori, il vociferare dei ragazzi, lo stridere delle suole delle scarpe, i movimenti dei compagni di scuola fossero stati risucchiati all’interno dell’edificio al solo chiudersi del portone. Io, e un silenzio pregno di aspettative tutt’intorno. Guardai l’orologio al polso, ancora mi domandai incredulo cosa avrei fatto tutte quelle ore, e anche se rimanere fuori fosse stata davvero la mossa giusta. Scesi i gradini e piazzai lo zaino con pochi libri sulle spalle, mi tornarono in mente le indicazioni dei miei compagni: prima cosa biglietto dell’autobus. In un attimo mi accorsi di non conoscere affatto le linee e gli itinerari degli autobus della mia città, ero solito andare con mia madre e la sua auto un po’ dappertutto, qualche volta a piedi sotto casa, senza allontanarmi più di tanto. Provai un attimo di scoramento ma subito mi tornarono in mente le visibilie raccontatemi in corridoio dai miei compagni di scuola: Antonio era andato a zonzo per le vie del centro e aveva comprato ben due custodie per il cellulare in una bancarella proprio davanti alla libreria Feltrinelli, Pierluigi aveva giocato quattro ore di fila a calcio balilla e persino quell’idiota di Giulio si era pavoneggiato per giorni interi raccontando d’essere stato al centro commerciale e d’avere provato una quantità infinita di pc e accessori della Apple. Adesso, era chiaro, toccava a me. Passò giusto in quel momento il 103, in un flash istantaneo mi ricordai che portava sino al centro e già mi vidi a zonzo anch’io per via Ruggero Settimo, sarei entrato alla Mondadori, avrei ispezionato tutto il piano dell’elettronica senza fretta e senza mia sorella alle calcagna, e salii in fretta preso dall’entusiasmo senza considerare altro. L’autobus era semivuoto, tutti i posti a sedere occupati, pochi passeggeri in piedi, due ragazzi vicino alla postazione dell’autista ed io in fondo, sulla pedana. Non pensai neanche per un attimo d’essere sprovvisto di biglietto, mi lasciai cullare dalla mia appena afferrata libertà e guardai dai vetri la mia città scorrermi dietro. Riconobbi casa di mia nonna, in via Libertà, e vidi la traversa da cui mia madre prendeva quando ci accompagnava in auto alle elementari, me e mia sorella Aurora. Ma subito, quasi subito, l’autobus cambiò direzione e sebbene non conoscessi perfettamente le strade mi accorsi che l’itinerario non sarebbe stato quello da me immaginato. Pensai allora di chiedere a una delle tante signore sedute, ma non ebbi la prontezza di farlo e l’autobus procedette veloce senza darmi il tempo di concentrarmi e trovare una soluzione immediata. Rimasi con la faccia appiccicata al vetro e provai a riconoscere palazzi e negozi. Mi confusi. L’entusiasmo si trasformò in un nanosecondo in ansia. Non sapevo dov’ero e, cosa peggiore, non sapevo dove stessi andando. Mi rimproverai, diventai severo contro me stesso, mi domandai perché mi fossi spinto a fare un qualcosa per cui non ero ancora pronto. “Scendo alla prossima” mi ripromisi. Avrei chiesto al primo passante e mi sarei fatto indicare la strada per tornare a scuola. Il tragitto fatto dall’autobus era già notevole, ma ce l’avrei fatta a tornare in tempo per il suono della campanella di fine lezioni. Ma in quel momento l’autobus procedeva spedito e mi sembrò di riconoscere “La Favorita”, il parco cioè che portava nell’arco di una decina di chilometri a Mondello, la località balneare più vicina e più rinomata della mia città. Mi venne voglia di urlare. Fu come precipitare all’interno di un vortice senza possibilità di risalita. E l’autobus scorreva via senza pause, senza alcuna pietà nei confronti delle mie ansie. “Ce l’hai il biglietto?” Mi chiese una signora vedendomi atterrito ma non potendo sapere il motivo della mia ansia. Non riuscii a rispondere, lei mi porse un qualcosa che presi tra le mani e mi regalò persino un sorriso. Poteva essere mia madre, ma io al biglietto neanche ci pensavo, pensavo a come avrei fatto a tornare indietro, se sarei riuscito a tornare in tempo a scuola. L’autobus improvvisamente si fermò e la signora gentile scese. Ancora una volta non ebbi il tempo di organizzare i miei pensieri e decidere magari di scendere e continuare a farmi aiutare da quella signora. L’autobus riprese la sua corsa e io continuai a guardare scorrere dai vetri i chilometri che mi allontanavano da tutto quel poco che conoscevo della mia città. Non ci furono fermate per almeno dieci minuti di orologio, seguì una discesa a rotta di collo e davanti tre palme molto alte, l’autobus finalmente frenò e quasi tutti i passeggeri scesero. Scesi pure io. Camminai col gruppetto per una decina di metri, poi ognuno prese la propria direzione e io mi ritrovai davanti al mare. Il mare d’inverno. Fu un’immagine improvvisa, inaspettata e abbagliante. Uscito dall’autobus avevo camminato a testa bassa immerso nei miei pensieri e, soprattutto, seguendo gli altri passeggeri, come se lo stare in gruppo avesse potuto esimermi dallo sbagliare nuovamente direzione. Ma ineluttabilmente il gruppetto si diradò, la signora che camminava a un passo da me salì su un’automobile, dove evidentemente c’era qualcuno che l’attendeva, una coppia di innamorati che aveva fatto tutto il percorso in autobus sbaciucchiandosi e abbracciandosi si diresse verso destra e una signora con due bambini tenuti entrambi per mano si fermò davanti all’edicola per scegliere quotidiani e figurine. La giornata era diventata cr ea ti vi tà Fotografia di Shobha, Meditazione in spiaggia, India, 2009 ventosa e nitida. Capii d’avere di fronte il mare e procedetti spedito. Non ero mai stato a mare d’inverno, ed era il 4 di Dicembre. Di nuovo l’entusiasmo spiegò le vele nel mio sangue, mi accorsi di fare in fretta i passi che mi separavano dal mare e subito lo vidi: imponente, luminoso, solitario come mai mi era capitato di vedere. Feci quell’ultimo tratto di strada in preda all’euforia, di nuovo avvertii un’ondata di libertà, di nuovo la giornata mi sembrò carica d’aspettative e di sorprese. Misi i piedi sulla sabbia e il mare era maestoso e solo, lì davanti a me. Mi accorsi di non avere mai pensato che il mare continuasse ad esistere anche d’inverno e vederlo così, quasi fosse abbandonato a se stesso, in una ventosa giornata di dicembre, mi sembrò uno spettacolo raro. Mi ritrovai con le scarpe sulla sabbia, metri e metri di spiaggia alla mia sinistra e alla mia destra, mare infinito davanti. E basta, nessuna sdraio, nessun ombrellone, nessuna capanna. Nessun bagnante. Nessuno. Una folata di vento sollevò la sabbia in superficie e dovetti socchiudere gli occhi per ripararmi, la sabbia mi arrivò sul viso e sulle mani. In un attimo mi dimenticai del percorso sbagliato, della scuola, di mia mamma e delle tre ore rimanenti prima dello squillo della campana di fine lezioni. Mi sedetti sulla sabbia e mi levai le scarpe, faceva freddo, l’aria era impregnata di salsedine densa e le onde si alzavano sino a riva creando un muro sottile d’acqua. La sabbia sui piedi mi diede un’emozione forte. Il sole era sospeso pallido tra due nuvole basse, molti detriti giacevano inermi sulla battigia. Cominciai a camminare lasciando che l’acqua del mare arrivasse sui miei piedi, semplicemente, arrotolai i jeans sino a sopra le caviglie. Io e il mare, mai visto niente di simile. E avvertii il cuore che mi pompava nel petto come fosse una di quelle onde lì, davanti a me. Sentii il mio sangue ingrossarsi e sbattere contro il petto, come le onde sulla sabbia. Mi domandai perché non mi fosse mai capitato prima di vedere il mare fuori stagione. Chi avesse deciso per me che avesse poca attrattiva. Pensai all’ultimo bagno che avevo fatto a settembre, con la mia famiglia, gli amici, il supersantos arancione. Pensai alle risate, agli inseguimenti sulla sabbia con mia sorella, mi rividi in canotto con le spalle ad ardere sotto il sole cocente. Vidi mia madre col barattolo di crema protettiva in mano, rividi le sue mani imbrattarci i visi di crema, cospargerci le guance, e poi la schiena. E noi impazienti, pronti a riprendere i giochi, a raggiungere gli amici sulla battigia. Un’onda improvvisa quasi mi trascinò in acqua bagnandomi non solo i piedi ma anche i jeans sino alle ginocchia. Non sentii freddo, mi levai i jeans e provai a strizzare il tessuto bagnato stringendo forte con le mani. Le onde in quel momento scorrevano senza ordine su tutto il golfo. L’orizzonte era un susseguirsi di punte aguzze grigio argentato e la luce del sole pallido s’insinuava sull’acqua creando bagliori improvvisi e imprevedibili. Feci diverse foto con il cellulare. Le guardai non soddisfatto. La luce era forte e impalpabile dal vivo, priva di vita, grigia, sulla foto. Percorsi la baia in lungo e in largo, le mie orme facevano appena in tempo a imprimersi sulla battigia che subito un’onda le cancellava senza lasciare la pur minima traccia del mio passaggio. Pensai a dove fossero tutte le persone che nei mesi estivi affollavano la spiaggia. Pensai come mai non fossero qui, a godere con me di tutto questo. Guardai il sole salire un po’ più in alto nel cielo, e staccarsi sempre più dal mare. Pensai d’essere felice. In un modo nuovo, senza amici, senza pallone, senza giochi. Scattai una foto stupenda: mi misi di spalle al mare, allungai il braccio destro, pigiai a mo’ di autoscatto. Alle quattordici e quaranta arrivai trafelato davanti scuola. Non c’era più nessuno, solo l’auto di mia madre. E la moto di mio padre, posteggiata di fianco. Fui punito e rimproverato a dovere, i miei genitori mi sequestrarono il computer e il cellulare per tutto il giorno. Mi addormentai e tra le lenzuola avvertii un po’ di sabbia rilasciata dai miei capelli e dai miei piedi. Tornai a scuola l’indomani mattina e i miei compagni mi chiesero dov’ero stato, perché avessi fatto così tardi e perché fossi stato così stupido da farmi scoprire sia dai miei genitori che dai professori. Non dissi niente. Né a loro, né ai miei genitori, né ai professori. Quello che avevo era mio e indivisibile. A ricreazione andai in bagno e guardai le mie foto, una su tutte: gli occhi socchiusi e i capelli sul viso per il forte vento e, sullo sfondo, il mare argentato. A Dicembre. 13 cr t ea i t vi à Il mio è il lavoro più creativo del mondo Intervista a Daniela Cota, Direttore Associato Neuro Centre Magendie Università di Bordeaux Silvana Fernandez D r. Daniela Cota, Responsabile del laboratorio “Bilancia energetica ed Obesità” Direttore Associato Neuro Centre Magendie INSERM U862, Università di Bordeaux Vuoi dirci in poche parole la tua biografia soprattutto lavorativa? Sono pugliese ed ho studiato medicina all’Università di Bologna, dove mi sono laureata con pieni voti nel 1999. Durante la specialità in Endocrinologia ho avuto l’occasione di andare in Germania, all’Istituto MaxPlanck di Psichiatria, dal 2001 al 2003 per l’esattezza, dove ho cominciato a fare della ricerca di base utilizzando dei modelli murini. È a Monaco che ho cominciato a studiare il ruolo dei circuiti nervosi dell’ipotalamo nel controllo alimentare e nell’obesità. Dopo questa esperienza, e innamoratami del mio lavoro, ho deciso di proseguire la mia formazione di ricercatrice con una borsa di studio all’istituto di malattie metaboliche dell’università di Cincinnati (Usa), dove ho lavorato dal 2004 al 2007 costruendomi un Cv professionale che mi ha permesso di accedere per concorso ad un posto permanente di ricercatore presso l’Inserm (l’Istituto di ricerca medica Francese) a Bordeaux, dove sono stata in grado, grazie ad un programma di ricerca Francese volto a permettere a giovani ricercatori estremamente promettenti di divenire completamente indipendenti, di creare il mio laboratorio di ricerca. Sono cinque anni che sono responsabile del mio laboratorio. Il mio lavoro é cambiato molto nel corso del tempo e ora assomiglia molto a quello di un manager di una piccola impresa. Germania America Francia dove ti sei trovata meglio e dove pensi che chi intraprende 14 la carriera scientifica possa lavorare meglio? Mi sono trovata bene in tutti e tre i Paesi, dove ho lavorato finora. Ho conosciuto persone che hanno creduto in me. La Germania è molto organizzata dal punto di vista amministrativo e vi è una certa rigidità che appartiene al sistema, ma che ne garantisce anche il perfetto funzionamento. La Francia ha un’amministrazione enormemente complessa, ed essendo i ricercatori (dipendenti dell’Inserm, Cnrs o altro Istituto di ricerca Francese) dei funzionari pubblici, essi sono tenuti a rispettare molteplici regole, anche nel caso in cui si debbano spendere somme minime nel contesto dell’attività di laboratorio. Infine negli Stati Uniti si possono ottenere dei supporti di tipo economico estremamente importanti e uno stipendio molto più attraente di quello che si può ottenere in Francia, ma non c’è la stessa possibilità, di ottenere un posto permanente come verrebbe inteso da noi, con uno stipendio garantito nel corso degli anni di provenienza dell’Università o dello Stato. In effetti, uno degli aspetti della ricerca Francese che ho trovato interessante è stata la possibilità di ottenere un posto permanente a 32 anni e che mi ha in seguito permesso di fare un planning più a lungo termine sia per la mia carriera che per la mia vita personale. S. Tutto quello che hai fatto all’estero l’avresti potuto fare anche in Italia? Non credo che sarei riuscita a farlo in Italia! Soprattutto non avrei raggiunto gli obiettivi che ho raggiunto (stabilità ed indipendenza professionale) entro lo stesso periodo. Questo pensa sia in parte dovuto al fatto che in Italia sia molto complicato ottenere dei posti permanenti nell’ambito della ricerca si dovrebbe prendere ad esempio la Francia su questo punto e dall’altro, bisogna anche riconoscere che c’é una rigidità gerarchica in Italia, particolarmente nell’università, che non permetterebbe di creare o di dare rapidamente dello spazio a dei giovani di talento così come invece succede all’estero. D’altronde, devo sottolineare il fatto che fu il mio professore di tesi a propormi di andare all’estero. Io non cercai l’occasione, fu l’occasione a venire da me. Da questa prime risposte due sono le mie curiosità, una riguarda proprio il tuo lavoro di ricerca. L’obesità dunque non è solo un disturbo alimentare ma soprattutto neurologico? Beh, direi di sì, visto che ci sono circuiti nervosi preposti proprio al controllo del comportamento alimentare e che funzionano un po’ da “chef d’orchestra” per il controllo della bilancia energetica dell’organismo. Questi circuiti, in effetti, sono in grado di integrare le diverse informazioni, di influenzare sia il metabolismo sia il comportamento alimentare (dagli stimoli esterni, provenienti dall’ambiente, a quelli interni, come i livelli circolanti di ormoni conosciuti regolare l’appetito o dei nutrienti stessi) e a loro volta controllano il comportamento alimentare e il metabolismo, dall’assorbimento allo stoccaggio di calorie sotto forma di grasso, fino alla loro utilizzazione quando l’organismo ne ha bisogno. La seconda domanda è questa, ma tu non senti nostalgia per L’Italia, non senti né un po’ di rancore né un po’ di malinconia per la tua terra, dove è sempre stato quasi impossibile trovare lavoro nel campo scientifico? Sento nostalgia, ma non rancore per l’Italia. Se avessi una possibilità concreta di rientrare in Italia, che mi permettesse di lavorare così come faccio dal mio ufficio di Bordeaux, la prenderei seriamente considerazione. Anche perché penso sia giusto che in qualche modo quello che faccio ritorni al mio Paese, perché è anche grazie al percorso educativo e universitario che ho completato in Italia che sono quello che sono, professionalmente parlando. Il problema è che bisogna in qualche modo svecchiare il nostro sistema e permettere alla ricerca di avere il posto che merita nell’economia Italiana. Ricerca significa investire ed investire significa che molto spesso i risultati di tali investimenti ci saranno, si, tra 5, 10, 15 anni ma faranno avanzare di molto l’economia dell’Italia. Pare che tale concetto chiaro per altri Paesi sia di difficile applicazione in Italia. Ultima domanda, mi riferisco ad una frase in cui tu mi hai detto giorni fa “il mio lavoro è il più creativo del mondo”, non avevo mai pensato il ricercatore, lo scienziato come un creativo Fare il ricercatore significa generare un’ipotesi e verificarne la veridicità. Nel campo medico, e dello studio della fisiologia o fisiopatologia in particolare, non siamo inventori, ma scopritori. E cosa c’è di più eccitante di scoprire qualcosa di nuovo che nessun altro al mondo ha scoperto prima di te e che quindi, in quanto tale, non esisteva? Il ricercatore crea conoscenza e davvero penso che sia un lavoro estremamente creativo, poiché caratterizzato da una grande libertà di pensiero. Senza tale libertà, verrebbe a mancare quella capacità di osservare i fenomeni con occhi diversi, di uscire fuori dagli schemi e quindi di conseguenza la possibilità stessa di scoprire cose nuove. Essere uno scienziato significa essere un po’ come un’artista, ma dotato di senso di logica, d’analisi e di sintesi stringenti. cr ea ti Essere è tessere: in ricordo di Maria Lai vi tà Uno sguardo incantato sulle forme e i materiali della vita quotidiana delle donne Mariella Pasinati I l 16 Aprile scorso ci ha lasciato, a 93 anni, l’artista sarda Maria Lai, una delle grandi madri dell’arte italiana. Con la sua pratica artistica e di grande valenza politicoculturale, ci ha insegnato ad avere fiducia nella possibilità che l’arte possa trovare spazio nella vita: con l’educazione allo sguardo, fin dai primi anni di scuola, ma anche comunicando con chi, da adulta/o, sa rispondere al dialogo che l’arte “scatena”. Reinventare storie e giochi, raccontare fiabe trovando nuove, originali forme attraverso cui far rivivere leggende antiche, rituali magici e sacri è stata la pratica che Maria Lai ha scelto per avvicinarci ad un’arte di cui c’è bisogno ma che spesso disorienta. Aveva a cuore un’idea di arte come pratica viva che non parla solo a pochi privilegiati, ma che è in grado di “aprire e dilatare la coscienza”, di tornare ad esprimere il senso sociale della comunicazione, della relazione. Già nel 1981 aveva realizzato nel suo paese natale Ulassai, il primo intervento ambientale che coinvolse in una grande performance fortemente simbolica, Legarsi ad una montagna, l’intera comunità locale, chiamata a superare diffidenze e inimicizie legandosi, casa a casa, con un nastro azzurro di ventisei km per poi unirsi alle pareti del monte che sovrasta il paese. Sempre più rilevanti sono divenute, da allora, le relazioni creative con persone e luoghi e la sua arte ha segnato con forza lo spazio pubblico, coinvolgendo nella pratica creativa la collettività. Nel prevederne la partecipazione, Maria Lai ha inventato “altri e vitali spazi” rendendo l’opera luogo dello scambio, strumento di mediazione culturale (e politico, se la politica è lo spazio della relazione) che il gesto creativo di un’artista che non dimentica il contesto attiva. Il contesto da cui Maria Lai non si è mai separata è la sua terra, l’esperienza femminile, la corporeità. Pur nella grande diversità materiale e formale che ha caratterizzato i suoi Fotografia di Shobha, Funerali Agnese Borsellino lavori in più di sessant’anni, l’artista ha sempre operato manipolando procedimenti, forme e materiali – fisici ma anche simbolici – di precisa matrice femminile e appartenenti alla dimensione del vivere. Appartengono agli anni ’60, quando il suo linguaggio si apre alla sperimentazione, i Telai che Maria, rileggendo l’antica pratica della tessitura, rende simbolo della sapienza e dell’operatività femminili, oltre che metafora dell’arte. Lo racconta in uno dei suoi libri d’artista, Il dio distratto del 1983, in cui mostra il senso di chi sa e non cancella la differenza di essere donna/uomo: il telaio è il dono fatto dalle api-fate alle donne, la scrittura si formerà in seguito, con la capacità degli uomini di passare dal filo alla pietra, traducendo nell’alfabeto il disegno dei tessuti femminili. La creatività appartiene dunque alla dimensione del femminile, rivela Maria Lai. Insieme ai telai ecco, ancora, i fili che diventeranno cifra specifica del suo operare: fili di lana, di cotone, ma anche di metallo, in grovigli non districabili, fili che legano e fili con cui tenere per mano il sole e l’ombra. A volte sono fili che segnano stoffe cucite, come nelle straordinarie Geografie degli anni ’80, visioni fantastiche di mondi, universi e costellazioni, luoghi mentali altamente evocativi. Altre volte, invece, i fili scrivono pagine di stoffa o carta in libri-oggetto, veri e propri “texta”, tessuti di mano femminile. Non solo di stoffa, ma altresì di ceramica dipinta, di jeans, di terracotta, i librioggetto sono prodotti intensamente tattili, costruiti con materiali sempre “domestici” lavorati con assoluta libertà. La materia e il segno intrecciano così trame di un tessuto/racconto che ha il respiro della fiaba, di narrazioni antiche sintetizzate dalla memoria individuale dell’artista, uno dei modi con i quali ritorna alla sua terra, la Sardegna. E un’atmosfera da favola, un approccio incantato, sospeso tra senso del mistero e memoria di un rito infantile segnano anche i Presepi, realizzati nel corso del tempo con tecniche e materiali diversi – terracotta, legno, carta, pietra, sabbia, stoffa, pane –. Maria Lai li interpreta con grande libertà formale, accenti lievi e delicati. Ancora legato all’esperienza di antica operosità femminile è, infine, il tema dei Pani, variamente indagato nel corso degli anni e “protagonista” di Invito a tavola, del 2004, un’installazione imponente, ancora una metafora dell’arte così come della socialità e della civiltà dell’accoglienza. Su una lunga tavola imbandita con pani di terracotta disposti su piatti che sono libri, la scultura diventa lievito e nutrimento per la mente. E l’arte torna a connettersi con la vita. 15 cr t ea i t vi à Ipazia e la guerra dei sessi Dora Russell: per un mondo fatto di uomini e donne alla ricerca della felicità Francesca Saieva P iù nota come Mrs Bertrand Russell, l’attivista Dora Russell occupa parte dello scenario politico-sociale inglese del XX secolo. Dalla Grande Guerra alla Guerra Fredda, il suo impegno si manifesta costante attraverso ideali pacifisti e femministi, supportato da politiche socialiste ed ecologiste. L’anticonformismo le appartiene, così pure uno spiccato senso di maternità e di fiducia nel progetto educativo, quale espressione di democrazia, libertà e amore per ogni relazione umana; progetto che attuerà come esperimento formativo alla Beacon Hill School, di cui sarà alla direzione dal 1927 al 1943. Donna dinamica, viaggia per l’Europa, avvicinandosi alla realtà dell’Unione Sovietica, paragonandone il modello economico a quello occidentale. Affianca, condividendone gli interessi, il filosofo Bertrand Russell fino al 1935, anno della rottura del loro matrimonio. I conflitti interiori e i dissapori familiari non frenano la sua curiosità, la sua estenuante ricerca filosofico-sociale della felicità. Un impegno coerente e assiduo che la fa aderire nel ’32 all’Independent Labour Party; nel ’34 al National Council for Civil Liberties e nel ’36 all’Abortion Law Reform Association. Nel 1958 guida la Women’s Caravan of Peace per un messaggio pacifista nei tempi bui della Guerra Fredda. Sono gli anni della piena maturità e della vecchiaia che la vedono impegnata a narrare la sua storia, il suo amore per la vita, il suo ‘credo per la libertà’. Una biografia (in tre volumi), un testamento per “tutti coloro, uomini e donne di entrambi i lati della Cortina di Ferro, con le cui vite, lavoro e fede la mia vita” scrive la Russell nel 1985 “è stata aggrovigliata per anni nel tentativo di sostenere la comprensione e la pace tra popoli e nazioni”. Dora Russell muore nel 1986 a 92 anni. A distanza di ben 87 anni dalla sua pubblicazione in lingua originale, Hypatia or Woman and Knowledge appare per la prima volta al pubblico italiano con un saggio introduttivo e 16 postfazione di Marina Calloni (Dora Russell, Ipazia e la guerra dei sessi, La Tartaruga, 2012). Il tono provocatorio della Russell pervade Ipazia e la guerra dei sessi, opera di senso sociale e pedagogico sulla “qualità delle relazioni di genere”. Ma è la società postcapitalistica a fare capolino tra le righe, nella consapevolezza della Russell di un’umanità impantanata nella palude dell’era post-industriale. Quali le conseguenze del capitalismo? E che cosa non ha funzionato nelle politiche femministe? Le domande persistono e la questione uomo/donna rimane aperta, insoluta nello scontro titanico di tutti i Giasoni e le Medee, nel corpo virile di Artemide, nella ‘cortigiana’ Aspasia e nella madre Ecuba. Tracce di un mondo femminile alla ricerca sofferta di affermazione e di auto-riconoscimento. Accese e appassionate appaiono le sue argomentazioni contro la tradizione patriarcale e ogni forma di puritanesimo. “Uomini o donne, siamo innanzitutto esseri umani. C’è molto lavoro da fare – sostiene la Russell – nella società, e possiamo farlo con uguale abilità, se a ciascuno vengono date uguali opportunità e istruzione”. La Russell ha la vocazione della polemista e l’importanza del lavoro per la donna, la liberazione sessuale, la contraccezione, una maternità desiderata, che sia espressione di libertà e soprattutto atto d’amore, sono i temi su cui la esercita. Il senso civico, il rispetto tra i popoli, l’impegno dell’individuo nella comunità (presupposti per un’auspicabile forma di ‘felicità’) hanno inizio per lei dal riconoscimento della specificità di genere. “La felicità umana, il perseguimento della conoscenza, l’espressione delle emozioni nell’arte devono essere gli obiettivi della civiltà e lo scopo per i politici”( The Right to Be Happy, 1927). Ipazia, scienziata vittima di un efferato assassinio, consumato nel IV secolo da una folla di cristiani, è emblema della repressione del libero pensiero e dal suo e dai molti altri ‘femminicidi’ della storia prende spunto la Russell “per superare i limiti del patriarcato repressivo/violento e il femminismo neutralizzante separatista” (Calloni), sostenendo che solo nel rispetto della specificità di genere può annullarsi qualsiasi ‘antagonismo’ e ‘lotta titanica’. Per Dora Russell “non c’è niente nella vita che possa paragonarsi a questo unirsi di menti e corpi di uomini e donne che hanno lasciato da parte ostilità e paura e che cercano nell’amore la più piena comprensione di se stessi e dell’universo”. La guerra dei sessi non ha mai vincitori ma solo vittime. Falliti tentativi di emulazione del maschio annientano l’essere donna e la ricchezza che comporta. “Dora – scrive la Calloni – è per un’uguaglianza complessa fra uomini e donne, nella piena accettazione delle diversità. Anche in ciò consta la sua attualità”, la modernità del suo pensiero, che raccoglie l’eredità del femminismo, depurandolo da falsi idoli nel tentativo di un’apertura futuribile, per un mondo fatto di uomini e donne alla ricerca della felicità. Probabilmente Antigone ci deve ancora qualcosa E non sarebbe male orientarci una volta per tutte, giusto che come esempio di indomita contrapposizione al potere e alle sue regole prive di umana pietà, si propone fiera dinnanzi allo spettatore di ogni tempo mirando dritto alle corde del suo cuore e del suo pensiero. Anche quest’anno a Siracusa, pallida e minuta nella sua veste nera, la figlia dell’infelice Edipo, pronta a morire, rivendicando degna sepoltura ad uno dei suoi fratelli eppure ribelle alla dura sorte che si è accanitamente cercata (Antigone è Ilenia Maccarrone diretta da Cristina Pezzoli – due donne insieme nel bel mezzo del cerchio sofocleo), rimette in moto, non il meccanismo bene-male, non quello della vittima e del carnefice e neppure lo zoccolo duro di una legge che li travolge entrambi senza trionfo alcuno Egle Palazzolo di un’autentica “giustizia” bensì la crudeltà di un confronto impossibile. Con una recitazione mai enfatica giocata sul registro di tonalità più o meno accese con l’unica concessione di un finale assai emblematico del seppellimento in scena da viva e cosciente, con una regia attenta, talora un tantino sbrigativa che accorpava quasi in un’unica morte la morte di ognuno, Antigone ci è parsa fuor da eroismi o da femminismi antelitteram un personaggio capace di rendere con coraggio e determinazione la sua scelta. Al contrario di Creonte (un Donadoni credibile in ogni suo passaggio tra forza e timore) che non potrà contare sino in fondo sul suo potere, che sentirà sulla pelle i dubbi del suo operato, che sarà costretto a piangere i suoi morti inutilmente sacrificati all’azione di governo. In questo senso e in altre puntuali focalizzazioni, splendida la lezione di Zagrebelsky e il suo richiamo alla tesi di Martha Nusbaum la cui filosofia nega la ragione o il torto di entrambi e parla di due opposti fanatismi e di un dialogo negato. E si fa spazio Ismene che cerca, e qui la pietas è più chiara, la strada del compromesso come ancor più, ci va di aggiungere, lo è quella di Emone che scorge con chiarezza e inutilmente ciò che il re suo padre potrebbe ancora stabilire, forse rendendo Tebe più forte e feconda. E dunque alle parole inascoltate o taciute, alle intese non raggiunte o non vere risponde la storia dei popoli che inneggiano al tiranno o lo uccidono. E il percorso si consuma senza compiersi e tuttora non può che trovare comunque il suo innegabile posto la giovane Antigone. Fotografia di Letizia Battaglia, Palermo 2013 L’amore è un castigo. Veniamo puniti per non essere riusciti a rimanere soli. Marguerite Yourcenar cr t ea i t vi à “Le donne siciliane non sono felici” Un convegno a Palermo per ricordare Giuliana Saladino Beatrice Agnello I l 6 e 7 maggio si è parlato di Giuliana – indimenticabile giornalista del quotidiano L’Ora, scrittrice e collaboratrice di Mezzocielo fin dal primo numero – all’Istituto Gramsci, organizzatore con Mezzocielo di un convegno affollato di studenti che hanno attivamente partecipato studiando libri e articoli e riferendone. Il dibattito si è articolato intorno alle relazioni di Antonio Calabrò, Simona Mafai, Piero Violante e alla mia, che riferiva di un tema centrale nella riflessione di Giuliana: la condizione femminile. Se c’è un filo che la attraversa ininterrotto è quello dell’inquietudine e della difficoltà di vivere, pur nella grande evoluzione del costume e con le conquiste di libertà avvenute dalla seconda metà degli anni ’60. In Romanzo civile, Giuliana ricorda che fra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta, le contadine dell’agrigentino, che diedero vita a un movimento combattivo, scomparivano in breve tempo dalle sezioni del Pci perché l’esperienza di lotta le portava a mettere in discussione tutta la loro vita, per prima quella familiare. Così spesso si separavano dal marito, venivano messe al bando dal paese e dal partito stesso e finivano a fare le puttane in città. Ma anche negli anni Sessanta e Settanta diverse grandi inchieste, fatte per L’Ora, testimoniano di un’infelicità estesa a tutti i gradini della scala sociale. Una del ’68, fatta di interviste a ragazze e donne borghesi palermitane, ci lascia stupiti: sembra di essere in un paese islamico segnato dall’oppressione femminile e non nell’Europa della minigonna e del Maggio francese. Genitori e mariti diffidenti se figlie e mogli si appassionano allo studio e al lavoro (“vogliono che penso a sistemarmi, a fare figli e basta”); l’amore coniugale un disastro (“per il novanta per cento degli uomini la moglie non esiste come essere umano. Non esiste che le si parli, non esiste che la si ascolti…Tutto il giorno il più assoluto disinteresse, due 18 estranei, la sera poi, come se niente fosse, il più sbrigativo rapporto sessuale… Si usa la moglie come una prostituta e ogni donna, dopo un rapporto così, si sente una puttana”); una relazione extraconiugale è un azzardo pagato a caro prezzo (“un rapporto su cui grava la paura”, “Il marito può sempre fare scattare una foto, farti condannare, toglierti i figli”, “La legge italiana è spietata”). Già, la legge. È solo fra il ’68 e il ’69 che viene dichiarato incostituzionale l’articolo che prevede la punizione dell’adulterio della moglie ma non quello del marito. Sarà solo nel ’75 che la riforma del diritto di famiglia riconoscerà la parità giuridica dei coniugi e sostituirà la patria potestà con quella di entrambi i genitori, in particolare nella tutela dei figli. È negli anni ’70 che si fanno i salti più grandi nel riconoscimento di diritti di libertà importanti per le donne: è del ’74 il referendum sul divorzio, del ’78 la legge che consente l’aborto. Ma bisognerà aspettare il 1981 per vedere abrogate le sostanziose attenuanti riconosciute dalla legge italiana per il delitto d’onore. Gli uomini siciliani, peraltro, non onorano affatto la loro fama di latin lover, non valgono granché neppure a letto, “Sono ossessionati dal sesso, ce l’hanno in testa come una cosa turpe, come una cosa sporca e tale continuano a considerarla sempre. È difficile che abbiano un rapporto normale con una donna, eppure non pensano ad altro”. E fra i ragazzi che nel ’68 hanno vent’anni, le femmine sono molto più aperte a vivere il sesso e l’amore senza ipocrisie e a liberarsi da vecchi tabù di quanto non siano i loro coetanei maschi, che spesso continuano a considerare “poco seria” una ragazza che perde la verginità, anche se è a loro stessi che l’ha sacrificata. L’ininterrotto filo dell’infelicità femminile s’intreccia con quello della violenza. Nel 1980 Giuliana raccoglie le notizie sulle donne Fotografia di Letizia Battaglia, Palermo, 2011 apparse nei quotidiani dell’isola nella prima metà dell’anno e osserva che “274 su 284 vanno sotto il segno della violenza civile sociale pubblica familiare e coniugale”, “violenze di ogni genere sulle donne, dallo stupro alle coltellate, dalle fucilate al sequestro, dalle bastonate alle sevizie, violenze di ogni genere esercitate dalle donne su chi gli sta più vicino, quindi il marito e i figli, violenza delle donne su di sé”. “La famiglia, ‘cellula prima della società’, rifugio, santuario, fortezza, unione, risulta la sede delle peggiori sopraffazioni dell’uomo sulla donna e della donna sull’uomo. La coppia, nodo d’amore, attrazione, intesa e solidarietà risulta l’unione di due poli in perenne esplosivo cortocircuito”. Però, fra le stazioni della via crucis attraverso cui siamo condotti nelle inchieste, si dipana anche un altro filo: quello di un’apertura, di una consapevolezza, di un desiderio di lottare contro l’ipocrisia e i ceppi che bloccano la società, sicilianae non solo, assai più forti e diffuse nelle giovani donne rispetto alla maggior parte degli uomini. E questo è forse il motivo principale per cui Giuliana ha esplorato con tanto interesse l’universo femminile: era convinta di un suo valore aggiunto maturato nella compressione delle energie, di un ribollire magmatico sotto la crosta di un assetto sociale costituito in modo da tenere le donne a bada. Non si può etichettarla come femminista, visto che era molto critica rispetto a manifestazioni esagitate, astrattezze teoriche e tendenze alla lamentela, alla “cultura del piagnisteo”, da cui certo il movimento delle donne non è stato alieno, ma Giuliana condivideva in pieno con le femministe la contrapposizione alla cultura patriarcale. Era però estranea a qualsiasi forma di unilateralità e di fanatismo e vedeva anche bene come il maschilismo patriarcale prevedesse una complicità femminile nel mantenere inalterato il vecchio assetto familistico e nel perpetuare il soffocamento delle generazioni più giovani e di qualsiasi deviazione dalla norma. Non era una predicatrice e non perdeva mai l’aderenza delle parole a quello che la sua sensibilità registrava, per questo e per quella scafata ironia che le era connaturata non si riuscirebbe a trovare un solo suo scritto che scada nella retorica. Eppure la sua era una lotta quotidiana contro la volgarità, la grettezza, la sopraffazione, l’arroganza, l’ingiustizia. Giuliana aveva fiducia nelle parole, nella capacità delle parole di agire e di trasformare, ma aveva – come chi non si contenta di idee ricevute e certezze arroganti – più domande che risposte, per questo fare la giornalista e la scrittrice era proprio la sua. Più domande che risposte, ma le domande le sapeva impostare molto bene. su cc ed Ridere e piangere e a cura di Simona Mafai Da Genova alla Siria, da Gesù Cristo ad Allah Notizia su cui si potrebbe ironizzare, se non fosse tragica. Un ragazzo genovese (26 anni) si converte all’islamismo, frequenta gli uomini di Al Qaeda, e va in Siria a combattere con i “ribelli” anti Assad. Avido di avventure ed eroismi a buon mercato, viene ucciso, a migliaia di chilometri da casa. Pare che assieme a lui vi siano un centinaio di italiani. Perché sono lì, e per che cosa combattono? Delle tante osservazioni che si potrebbero fare in proposito, ne scelgo una sola. Si costituì tempo fa in Francia un’associazione “Amici della Siria”, che chiedeva ai governi occidentali di inviare armi a favore dei “ribelli”, in nome della libertà, della democrazia e dei diritti umani. I fondatori dell’Associazione, tra cui molti intellettuali validissimi, ripenseranno a ciò che hanno chiesto? Spesso persone entusiaste, con poca conoscenza della realtà e basandosi su informazioni superficiali e non sempre disinteressate, si entusiasmano per chiunque prenda in mano un’arma, ed individuano combattenti per la libertà anche dove, forse, vi sono solo faide opache. Ottimo esito la doppia preferenza Nelle ultime elezioni amministrative è stata applicata quasi ovunque la doppia preferenza di genere, con risultati più che lusinghieri. Le donne candidate in moltissimi comuni sono risultate in testa per numero di referenze. A Roma gli eletti con più preferenze sono state due donne: Sveva Belviso, del Pdl (11.000 voti), e Estella Marino, del Pd (9.200 voti). Così anche a Vicenza, Treviso, Avellino. Il neo eletto sindaco di Roma, Ignazio Marino, formerà una giunta con il 50% di donne. Lo ha preceduto l’anno scorso, applicando la stessa percentuale, il Presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta. Vi sono battaglie politiche che si conducono a fatica, pare con risultati minimi. Poi, come se la maturazione fosse proceduta sotto traccia, all’improvviso i risultati esplodono. La situazione attuale è imparagonabile rispetto a quella di venti anni fa. La presenza femminile nelle istituzioni cresce ininterrottamente; l’opinione pubblica l’accetta e la sostiene. Vedremo cosa porterà di nuovo e di buono, sia rendendo meno criptico e più umano il clima della politica, sia accelerando le tante attese riforme. Furti ai vertici dello Stato Casi di ruberie e corruzione in Italia sono all’ordine del giorno, e non vale la pena di elencarli. Ma gli scandali esplosi ai vertici dello Stato (al Ministero degli interni ed al Provveditorato delle Opere pubbliche) meritano una particolare sottolineatura. Tale Franco La Motta, già docente di diritto penale all’Università di Napoli, già prefetto, già numero 2 del Servizio segreto civile (Aisi), ecc. ecc., negli ultimi anni direttore centrale per l’amministrazione del Fec (Fondo per gli edifici di culto), è stato arrestato (a metà giugno) e messo in carcere per l’ammanco di dieci milioni di € (fate il conto in Lire!) spariti dalle casse del Viminale, attraverso illegali trasferimenti in banche straniere. Con la presunta complicità di uomini della camorra. Negli stessi giorni è stato posto sotto sequestro, in due riprese, un immenso patrimonio di Angelo Balducci, altissimo funzionario dello Stato, presidente del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, rinviato a giudizio alcuni mesi fa assieme al costruttore Anemone ed al più noto Bertolaso (inchiesta Grandi Eventi). Il patrimonio sequestrato, immobiliare e finanziario (tra l’altro una villa con piscina sull’Appia antica, una casa di campagna nelle Marche, automobili, quote societarie, ecc.), è stato valutato oltre tredici milioni di €. È stata applicata, nei suoi confronti, una recente norma di legge che prevede il sequestro “dei patrimoni accumulati sistematicamente in modo illegale”, equiparandoli ai patrimoni mafiosi. Chernobyl: dalla tragedia atomica a un’oasi naturale La zona più inquinata del mondo (l’area attorno a Chernobyl, ove esplose nel 1986 una grande centrale nucleare) sta per diventare un parco naturale protetto, grazie all’impegno congiunto di due governi della ex-Unione sovietica. Nel corso degli anni successivi al disastro sorprendentemente, proprio nella “zona proibita” vietata agli uomini, hanno ritrovato vita piante ed animali ricresciuti con vigore. Dell’interessante progetto ha parlato il ministro dell’ambiente ucraino, Oleg Proskuryakov. Dalla guerra con le armi alla guerra con il web? In fondo non sarebbe una cattiva cosa. Sta di fatto che l’incontro tra Barack Obama e Xi Jinping, nuovissimo presidente della Cina, sembra aver avuto come tema centrale la definizione di regole sul cyber spazio, che oggi può essere considerato un teatro di guerra tecnologica. Attacchi informatici, eserciti di hacker schierati a rubare segreti da una parte all’altra, azioni di spionaggio nei rispettivi Big Data sembrano le componenti di una guerra che si combatte nell’ombra, e che richiederebbe nuove regole e nuove alleanze. Quasi una guerra nel dominio digitale: comunque, senza aerei da combattimento e senza sangue! Giuseppe La Rosa, 31 anni, ucciso in un attentato in Afghanistan E non è stato il primo! Con il capitano La Rosa, sono 53 i militari italiani morti in Afghanistan dal 2004 ad oggi. Ne guardo uno per uno i volti pubblicati da un giornale il 9 giugno: volti giovani, alcuni sorridenti, altri più duri e forse disperati. Sergenti, caporal maggiore, carabinieri, capitani tutti con un qualche progetto di vita davanti, stroncato brutalmente da una sorte, comunque messa in conto. Pochi giorni dopo il funerale di quest’ultima vittima, si viene a sapere che a Doha (capitale del Qatar) hanno aperto una sede ufficiale i talebani, che intenderebbero intavolare iniziali trattative (di pace? e a quali condizioni?) per normalizzare la situazione in Afghanistan. Kazar si appresta a parlamentare con loro tra dubbi, sospetti, e resistenze (molte proprio da parte delle donne). Un augurio comunque: che Giuseppe La Rosa sia l’ultima vittima della guerra che sconvolge da decenni quella martoriata regione. Migliora la vita sulla terra? È incredibile, ma alcuni dati della Banca mondiale dicono di sì. Nel 2000 le Nazoni Unite lanciarono il Millennium Development Goal: otto obbiettivi da raggiungere entro il 2015 per migliorare la vita sulla terra. Ed alcuni sembrano essere stati parzialmente raggiunti. Nel 2000 i giovani e le giovani dei (cosiddetti) paesi in via di sviluppo che completavano la scuola primaria, erano l’80%. Oggi sono il 90%. I bambini che muoiono prima dei cinque anni. Nel 2000 erano 12 milioni, e l’obbiettivo era la riduzione di due terzi. Nel 2012 sono stati 7 milioni; e la mortalità infantile resta una delle piaghe più difficili da affrontare. La popolazione che ha accesso a una fonte d’acqua è passata – tra il 1990 e il 2010 – dal 71% all’86%. Restano ancora molto insoddisfacenti i dati relativi al numero delle donne che muoiono per parto (ancora 287.000 in tutto il mondo nel 2010) e il freno alla diffusione dell’Aids, malaria ed altre malattie. Piccola richiesta ai dirigenti del Pd Si può sperare che gli esponenti del Pd – dirigenti di partito e ministri – smettano di usare nei loro discorsi metafore calcistiche (anche in inglese!), con cui forse fanno l’occhiolino ai frequentatori dei bar Sport, ma che risultano indecifrabili per milioni di donne non appassionate di calcio? 19 c su c e d e Raccontare a testa alta, come gente che ha vinto Un intervento di Alessandra Clemente, assessore a Napoli e figlia di una vittima di camorra. Gisella Modica “L a mia resistenza è nel mio Dna, è nel sorriso idi mia imadre che riusciva a spostare le montagne. Il valore della memoria e il fatto di non sentirmi sola hanno alimentato la mia forza per insistere ed esistere per il futuro. Il mio desiderio è trasformare tutto ciò che è accaduto in qualcosa che assomigli a mia madre, che non sia l’ingiustizia della violenza. Desiderio che si è concretizzato nella creazione di una fondazione che porta il suo nome, rivolta ai minori a rischio, come il ragazzo che ha ucciso mia madre. L’ho fatto per costruire un senso a qualcosa che un senso non aveva, perché la morte di un innocente non può avere un senso. Per potere raccontare la storia di mia madre a quei ragazzi che, inconsapevoli, scelgono la criminalità; condividere con loro considerazioni semplici, del tipo: la camorra a me ha tolto mamma, a te la libertà, cosa vogliamo fare domani insieme? Mi fa arrabbiare sentire dire che tanto è tutto inutile, che tanto niente cambia, questo offende la memoria di mia madre, il suo sorriso, il suo diritto alla vita; offende chi ha la voglia di canalizzare la rabbia in voglia di cose migliori, che assomiglino a mia madre, uscire dalla mediocrità dell’indifferenza e della rassegnazione. Raccontare storie come quelle di mia madre o come quelle di Teresa Bonocore che ha denunciato gli stupratori della figlia e per questo è stata uccisa, e raccontarle bene, a testa alta, come di gente che ha vinto. Tutte le storie di giustizia devono essere raccontate bene, perché se siamo in grado di sentire l’ingiustizia, di avere fino in fondo questo tipo di sensibilità scomoda, perché ti fa sentire diversa, credi che non è tutto inutile, che puoi nel tuo piccolo, con le tue relazioni, fare la differenza. Chi è vittima di una violenza come questa ha anche diritto al dolore, non per compassione, ma, se fatto con sobrietà, per esercizio di responsabilità. Solo quando la tua ferita diventa la ferita di tutta la città allora si è realizzata la vera giustizia sociale. Ho scelto di laurearmi in legge e quando vedo ragazzi di 18, 20 anni che hanno compiuto atti criminali penso che, sì, è giusto che vengano assicurati alla giustizia, però il vero concetto di giustizia è quando le realtà che ha prodotto queste ferite va a modificarsi. Per questo ho deciso di portare le mie competenze, le mie sensibilità al servizio della città, sentirsi uno strumento, ricordandosi che Dio esiste ma non sei tu”. Ho voluto riportare per intero l’intervento di Alessandra Clemente, 26 anni, neoassessore al comune di Napoli, e figlia di Silvia Ruotolo, vittima innocente di camorra, fatto al convegno “I sud, le mafie: le donne si raccontano” promosso dalla Casa Internazionale delle donne, insieme a Libera, Dasud e dalla Società Italiana delle Letterate perché è un modo per raccontare da donna, il sud, non solo come valore di testimonianza, ma per individuare nuove pratiche politiche che facciano presa sul territorio, di fronte alle trasformazioni delle mafie. Eppure definirsi donna del sud ancora fa ostacolo. Racconti come quello di Alessandra, o di Elisabetta Tripodi, che ha scelto di fare la sindaca di Rosarno “per dare alle bambine dei modelli femminili da imitare”; o di Carmela Lanzetta, sindaca di Monasterace, parlano di donne consapevoli che vivere al sud è convivere col dolore della perdita e la paura del sequestro, ma spinte dall’amore per la propria terra mettono in gioco tutte se stesse. Storie che al di là della resistenza, mostrano un modo di essere e di fare difficilmente declinabile per intero nelle forme della rappresentanza istituzionale, e invitano a “ripensare forme di democrazia incarnata che tengano conto dei corpi di donne” (Emma Baeri). Storie che invitano a ripensare al sud non come svantaggio, ma come punto di forza per una trasformazione politica: “per chi guarda dal margine, punto d’intersezione di derive opposte che si mescolano… è più facile gettare uno sguardo più acuto, capace di cogliere punti di contatto e di condivisione tra i due estremi” scrive Maria Attanasio, richiamando alla memoria le scrittrici postcoloniali che hanno riportato al centro ciò che stava ai margini, trasformandolo da luogo di esclusione in luogo di resistenza. Simonetta, morta un giorno in cui era felice D i lei si è ricominciato a parlare solo da quando la sorella ha deciso di intraprendere un cammino difficile, tutto in salita, contro la rimozione del passato per il recupero della memoria. Non è una storia siciliana, ma tipicamente del Sud, di quel meridione che spesso tende a dimenticare dando spazio all’oblio. Questa é la storia della piccola Simonetta Lamberti, rimasta uccisa il 29 maggio del 1982 in un agguato camorristico ai danni di suo padre, l’ex magistrato Alfonso Lamberti, allora procuratore capo di Sala Consilina, nei pressi di Cava dei Tirreni. Piccola, si piccola, perché aveva 11 anni, e stava appena sbocciando alla vita. Simonetta muore in un giorno in cui non poteva che essere felice. Stava tornando da una gita al mare fatta con il suo papà a Vietri, e non vedeva l’ora di raccontare quella sua esperienza alla mamma e al fratellino di appena un anno più grande di lei. Era stata bella quella giornata per Simonetta e nessuno gliel’avrebbe potuta guastare. 20 Gilda Sciortino Anche se si sapeva che il giudice Lamberti era nel mirino della camorra, nessuno poteva mai pensare che potesse succedere qualcosa di così atroce. “Mio padre dava fastidio – racconta Simonetta Serena, oggi facente parte del ‘Coordinamento Campano Familiari Vittime Innocenti delle mafie’ –, quindi sarebbe stato logico prevedere determinate misure di sicurezza. Mia sorella non è assolutamente morta ‘per caso’, nonostante uno dei proiettili diretti a lui, che lo ha ferito, abbia deviato la traiettoria, colpendo lei alla tempia e non dandole scampo. Ma quando mai una fatalità! Si sapeva che mio padre era seguito da mesi”. Che Lamberti fosse stato preso di mira lo confermano le dichiarazioni del pentito Antonio Pignataro, l’unico indagato rimasto in vita, autoaccusatosi di avere fatto parte di quel commando omicida, afferente all’ampio schieramento riferito proprio a Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata, che aveva deciso di levare di mezzo il magistrato che, con le sue indagini, stava dando fastidio al cutoliano Francesco Apicella. Avrebbe dovuto avere la scorta, Lamberti. Anche per andare al mare. Finalmente nel 1986 il primo processo, alla fine del quale vengono condannati Apicella e i cutoliani Carmine Di Girolamo e Salvatore Di Maio, ma solo il primo di questi tre sarà riconosciuto alla guida della Fiat 127, dalla quale verranno esplosi i colpi mortali, e condannato all’ergastolo. Pena annullata nel processo d’appello dell’anno successivo, perché sembra che i testimoni non fossero più attendibili. Nel frattempo, l’unico responsabile di quanto accaduto muore e gli indagati scompaiono. Nonostante il silenzio caduto su questa storia, lei, Serena, non si é mai demoralizzata, credendo sempre nel valore della denuncia e dell’impegno. Anche se, inevitabilmente, dai suoi familiari, non ha mai avuto l’appoggio che meritava. “Io sono nata un anno dopo la sua morte, in una famiglia già distrutta, scomparsa con Simonetta quel maledetto giorno. Mia madre si è sin da subito chiusa nel suo dolore, trasformandolo in un amore sconfinato nei confronti dei suoi studenti. Mio padre per due anni è stato preda della follia, e ancora oggi vive di fortissimi rimorsi. Quando sono arrivata, ho trovato il nulla. È ovvio che non ne faccio una colpa ai miei genitori, ognuno stava vivendo quel dolore come poteva, anche se purtroppo allontanandosi l’un dall’altro. Perché hanno deciso di mettere al mondo un altro figlio? Perché volevano avere nuovamente Simonetta, errore enorme che ha pesato su tutti noi. Così, in me c’è sempre stato il gran senso di colpa di non essere lei, con la consapevolezza che non potrò mai esserlo. Penso, poi, sempre che sono viva perché mia sorella è morta. In più, porto anche il suo nome. Questa morte non ha mai avuto un senso ma se, raccontandola, potrò fare capire a quei giovani che hanno come idoli i boss e questo mondo che la camorra fa tanto schifo da arrivare a uccidere una bambina, magari potranno intravedere un’altra strada da percorrere. È il significato che ho dato io a questa storia”. su cc ed Il Progetto Itaca è sbarcato a Palermo e Un porto, fra orti e giardini, per chi vive il disagio psichico Rosemarie Tasca d’Almerita A desso il Progetto Itaca Palermo è davvero iarrivato a destinazione, è sbarcato sul lido di Itaca come volevamo, abbiamo una sede ed è bellissima! È Villa Adriana in via San Lorenzo, una bella costruzione del ’700 che appartiene alle Suore Francescane Missionarie di Assisi. Fu loro donata nel secolo scorso e oggi vi sono solo cinque suore gentilissime che abitano in circa 1600mq. Grazie ad uno dei nostri consiglieri, l’Architetto Beppe Barresi, che ci ha segnalato questa situazione, la nostra Presidente Rosalia Camerata Scovazzo si è messa in moto, come sa fare lei, e in due anni è riuscita non solo a concludere un contratto di comodato d’uso con la Madre Generale, ma ha realizzato il progetto e ha aperto la Clubhouse Villa Adriana il 6 Maggio. La Clubhouse è un’istituzione nata a New York nel 1948, quando un piccolo gruppo di operatori psichiatrici volle cambiare il modo di vivere dei malati psichiatrici rinchiusi per anni negli ospedali in giganteschi reparti. La prima Clubhouse europea è nata in Svezia dove ce ne sono ben nove e oggi nel mondo ce ne sono 340. Nel 2005 a Milano un gruppo di volontari ha rilevato il “sistema” e oggi in Italia si contano quattro Clubhouse, mentre altre tre sono in procinto di aprire. La Clubhouse è un luogo d’incontro con un programma rivolto a persone con una storia di disagio psichico e che abbiano rapporti continuativi di cura, un’opportunità per i soci di sviluppare le proprie potenzialità, sostenuti dagli operatori presenti tutto il giorno fianco a fianco con loro. Ma gli operatori sono in numero esiguo, sono i soci che mandano avanti la casa: la mattina fanno un briefing con la direttrice, Roberta Vitale, e decidono insieme il programma della giornata. I soci vengono spontaneamente, per uscire dal loro quotidiano triste e depressivo di persone chiuse in casa senza frequentazioni né relazioni sociali, e trovano nella clubhouse la forza di ricominciare a pensare positivo, essere attivi e ritrovare il sorriso. Il Progetto Itaca Palermo organizza anche corsi di formazione e sostegno ai familiari, gruppi di supporto con il metodo dell’Auto-Aiuto, corsi di formazione per volontari, prevenzione nelle scuole. La parte di Villa Adriana che oggi ospita il Progetto Itaca consiste in poco più di 400mq al piano terra, con uso di un pezzo del giardino per coltivare orto e fiori. Il restauro è stato seguito dall’architetto Angela Persico, con grande gusto nella scelta dei colori, nella sistemazione degli spazi interni, negli impianti, e soprattutto senza togliere nulla al fascino di ciò che erano i locali prima del restauro. Il Progetto Itaca Palermo è una Onlus e vive di raccolta fondi perché l’iscrizione alla Clubhouse Villa Adriana è assolutamente gratuita. Aiutateci. Il nostro recapito è: Villa Adriana, Via San Lorenzo 280, tel. 091-6714510 / 3347880152. Bambini misura di città C on una delibera dell’11 aprile 2013 il Consiglio Comunale si è impegnato a far diventare Palermo una “Città Amica dei Bambini”, assumendo l’impegno di mettere in atto azioni concrete a sostegno dell’infanzia. Un’iniziativa dell’Unicef alla quale hanno aderito altre città italiane e che dovrebbe garantire modi nuovi di pensare la città, che ne faccia un luogo di crescita, di esperienza, di sicurezza, di partecipazione per i bambini e le bambine. Come associazioni, movimenti e comitati di genitori di Palermo da tempo chiediamo un diverso approccio alla progettazione della città, un approccio che inserisca il punto di vista dei bambini nei processi decisionali relativi al territorio, alle scelte di bilancio e per lo sviluppo, alla comunicazione e al sostegno delle buone pratiche. La delibera del Consiglio ci è sembrata un’occasione per chiedere la sottoscrizione di un documento che sostenga questo processo di cambiamento. La città di Palermo ha sempre più bisogno di atti concreti che mettano al centro della politica e dell’amministrazione i bambini e Ilaria Esposito le bambine. Ci vogliamo battere perché le ragioni finanziarie non abbiano la meglio su quelle educative. Dai servizi educativi agli spazi di aggregazione per bambini e adolescenti, bisogna avere il coraggio di impegnarsi per promuovere un cambiamento. Vorremmo che la partecipazione che l’Amministrazione chiede ai cittadini si accompagni ad una comprensione dei significati profondi di questa parola, ad un’educazione alla partecipazione e al bene pubblico (che sia uno spazio della città, un servizio, una strada, un giardino, un gioco) che devono tradursi e trasformarsi in scelte e azioni concrete. Abbiamo allora scritto un documento fatto di pochi e non semplici, ma possibili, punti da realizzare. Ad elaborarlo sono stati diversi soggetti collettivi, associazioni e singoli cittadini, attivi nelle pratiche di utilizzo, trasformazione e partecipazione della città. Soggetti che, in misura e tempi differenti, hanno osservato e agito confrontandosi con la miopia politica delle amministrazioni. Oltre alla dimensione ludica dello spazio della città vorremmo porre l’attenzione sul diritto alla città, su quegli elementi dello spazio urbano che, come il gioco, sono forme possibili di partecipazione. L’immaginario urbano dovrà però tenere conto di una misura precisa che, dal gioco alla mobilità, dovrà garantire l’inclusione dei bambini e delle bambine. Una sfida nuova, per certi versi divertente, ma molto impegnativa. L’inconciliabilità tra le previsioni a lungo termine e lo spazio duttile e continuamente in movimento che la presenza dei bambini e delle bambine ci obbliga a rivedere, dovrà per forza di cose determinare nuove regole di appartenenza, nuove riqualificazioni degli spazi pubblici che, adottando la misura dei bambini e delle bambine, permetterebbero di migliorare la vita di tutti e tutte. I punti del documento che abbiamo fatto girare nelle nostre reti allargate riguardano i seguenti punti: 1- politiche educative- pratiche educative per le famiglie; progettazione dei servizi educativi e scolastici comunali che tenga conto di un approccio pedagogico comune. 2- istituzione di una commissione aperta in grado di gestire a più livelli percorsi di progettazione partecipata che prevedano il contributo di bambini e bambine 3- valorizzazione di spazi di incontro spontaneo e di gioco organizzato come luoghi di socializzazione e appropriazione ludica dello spazio della città. 4- la revisione dei regolamenti comunali nei casi in cui non sia prevista la presenza di articoli che salvaguardino i diritti dei bambini nelle città. 5- controlli sulla sicurezza e sulla progettazione degli ambienti scolastici, dei giardini e dei cortili delle scuole e dei giochi. 6- la promozione di una mobilità sostenibile attraverso campagne di sensibilizzazione, iniziative pubbliche, corsi di educazione, favorendo l’istituzione e l’organizzazione di bicibus e pedibus, inserendo misure di contenimento e rallentamento del traffico in prossimità degli ingressi nelle scuole e degli asili. 7- una comunicazione chiara, continua ed efficace sui servizi e la cultura dell’infanzia del comune di Palermo. In molti hanno sottoscritto il documento. 21 c su c e d e Contro la crisi mettiamoci in comune Gisella Modica C ome stanno reagendo in Sicilia e a Palermo individui singoli o associati, per fare fronte alle misure di austerità che ci vengono presentate come ineluttabili? Se n’è parlato a Palermo alla conferenza “Mettere in comune per combattere impoverimento e precarietà”. Un’occasione per censire esperienze in corso contro la crisi (in tutto 54) in un libretto - una sorta di work in progress dal titolo “Mettere in comune: storie di cose fatte insieme”, curato da Re Federico Coworking, comunità attiva a Palermo. Esperienze che ci mostrano un’altra faccia della crisi, vissuta come opportunità, occasione per sperimentare e imporre un’economia ecosolidale, che rifiuta il perseguimento del profitto ad ogni costo. Spaziano dal servizio di start up per le imprese (Cre_Zi), alla raccolta differenziata (Ecopunto); dal servizio di ecologia del quotidiano (Gentilgesto), alla condivisione di cibo (Food Share); dalla ludoteca (Madre Teresa), alla “Casa di tutte le genti” provenienti da diversi paesi, un asilo nido collettivo. Si tratta di iniziative accomunate dalla ricerca di stili di vita che mettono al primo posto la solidarietà e la creatività, mettendo in comune beni materiali e immateriali, spazi e servizi, attraverso forme condivise di co-gestione e co-produzione. L’iniziativa fa parte del progetto europeo “Responding Together”, patrocinato dal Comune di Palermo, e promosso dalla Divisione Coesione Sociale del Consiglio d’Europa, che si ripropone appunto di diffondere esperienze e pratiche di “risposta collettiva” alla crisi in Europa. A partire dalla mappatura di realtà che stanno già sperimentando questo tipo di azioni, il progetto vuole costruire un momento di confronto con le amministrazioni del territorio, con lo scopo di renderle riproducibili (interessante il 22 fatto che comprenda e valorizzi anche azioni “anomale”, al confine tra legale e illegale, perché si svolgono in luoghi “occupati”). A monte di tutto questo c’è un nuovo concetto di povertà, la “povertà relazionale”, come la definisce il Consiglio d’Europa. Partendo dal presupposto che il problema oggi non è solo la quantità delle risorse, ma la sua redistribuzione, la povertà non viene più parametrata solo al bisogno materiale, ma al desiderio di socialità, di bellezza, di informazione, di cultura, di memoria. Insomma al desiderio di senso. Non è un caso che molte delle protagoniste di queste pratiche sono giovani mamme e giovani padri interessati a pratiche di condivisione per l’educazione dei figli, dove l’elemento più importante non è la competenza professionale, ma l’affettività. Un esempio particolarmente interessante è costituito dall’esperienza di co-housing “Comunità La Zattera”, misurata non solo sul vantaggio del mettere insieme lo stipendio, ma dal desiderio di mettere in comune le proprie vite. Queste pratiche, che non vogliono essere intrappolate nelle forme del terzo settore, chiedendo il riconoscimento della Pubblica Amministrazione intendono anche traghettare la democrazia verso forme meno rappresentative e più partecipate, riappropriandosi dal basso della politica. Le ricette del giardiniere di Calvino H o conosciuto il Barone Rampante. L’ho incontrato a Catania durante una calda giornata d’aprile. Presentava il suo libro: Cucinare il giardino (le ricette di Libereso). Il suo vero nome è Libereso Gugliemi. Ha 88 anni, una candida capigliatura, lo sguardo vivace e attento e la mano ancora precisa e rapida quando disegna. Un signore senza tempo, che ha un sacco di cose da insegnare. A partire dalle storie curiose che stanno dietro ogni piccola pianta, fino ai grandi pensieri filosofici sul senso della vita e sulla ricerca della felicità. Libereso è vegetariano da tre generazioni, fanno parte della sua dieta i fiori di cui conosce proprietà e virtù oltre che tante buonissime ricette. Ci invita ad assaggiare i petali dell’Echium campestre che ha appena raccolto, un’erbaccia i cui fiori sono da mangiare, come quelli delle margheritine di campo con le cui foglie e fiori, ci spiega, si può fare un’appetitosa insalata. Figlio di un anarchico appassionato di esperanto, di famiglia povera, Libereso è conosciuto come il “giardiniere di Calvino”. Nato a Bordighera, infatti, venne notato da Mario Calvino, padre di Italo, e invitato giovanissimo a lavorare nella Stazione botanica Leontine Regine sperimentale che questi dirigeva a Sanremo. Molti anni dopo, senza conoscere l’inglese e senza studi superiori, vincerà un concorso per direttore di uno dei giardini reali d’Inghilterra, perché unico tra i candidati a sapere tutti i nomi delle piante in latino. Rimane così per molti anni in Inghilterra. La sua continua ricerca lo ha portato a girare il mondo scoprendo nuove piante, culture e biodiversità ovunque; oggi prosegue la sua attività insegnando a disegnare le piante ai bambini delle elementari, tiene conferenze in giro per l’Italia, senza mai trascurare la sua piccola oasi sotto casa, la sua “Giungla”, scrive articoli e libri; insomma un libero pensatore che incanta chi ha la fortuna di ascoltarlo e divulga amore e rispetto per la natura. L’altra “maestra” di Libereso è stata Eva Mameli, moglie di Mario Calvino, la prima donna a laurearsi in Scienze naturali in Italia e a vincere una cattedra di Botanica. I coniugi Calvino, tornati da Cuba – dove lui diresse una stazione sperimentale per la canna da zucchero e lei il Dipartimento di Botanica di Santiago de la Vegas – crearono insieme la Stazione botanica. Oggi Villa Meridiana, dove Italo visse con i genitori, non esiste più. A rimpiangerla è soprattutto Libereso: “Per conoscere Italo bisogna conoscere la sua famiglia”, ha spiegato infatti durante l’incontro, “con Mario facevamo molti esperimenti nel suo giardino: ne vennero fuori piante rare. Ma oggi non è rimasto niente. E sui resti di Villa Meridiana hanno costruito un parcheggio” conclude con amarezza. Libereso è anche il protagonista di uno dei primi racconti di Calvino, Un pomeriggio, Adamo, che apre la raccolta Ultimo viene il corvo. La prima pagina ci presenta il nuovo giardiniere di casa Calvino, un ragazzo di 15 anni, si chiama Libereso, che, in esperanto, significa Libertà. Sono cose che veniamo a sapere da lui, mentre nel racconto parla con Marianunziata, la ragazza che lavora in cucina. Il ragazzo le fa visitare il giardino; Libereso è di una miracolosa naturalezza: scava nella terra e prende lombrichi, accarezza rospi, prende cetonie, ramarri, bisce. Fa di tutto per regalarle qualcosa. Mentre racconta non smette di disegnare, con un tratto rapido e sapiente disegna in pochi secondi fiori, piante, gentili e delicati personaggi che popolano il suo mondo incantato. Mi regala il disegno di un piccolo fiore con l’augurio di un futuro di poesia e di amore. su cc ed Le escluse dalla modernità emancipata e Il femminismo diverso delle donne indigene dell’America Latina Giovanna Minardi N el mio ultimo soggiorno a Città del Messico, grazie alla femminista italomessicana Francesca Gargallo, ho conosciuto Lorena Cabnal, una femminista mayaxinka del Guatemala. L’incontro con questa donna indigena, sorridente, umile, di poche parole si è rivelato per me luminoso, in quanto le sue misurate parole mi hanno permesso di addentrarmi nella complessa analisi femminista fatta da donne che vivono in contesti in cui la realtà indigena e quella coloniale si mescolano, s’intrecciano, sovrappongono, costruendo false complicità e inevitabili incomprensioni, sia con gli uomini delle proprie comunità (con cui condividono una storia di saccheggi e di oppressione) sia con alcune femministe mestizas, bianche (con le quali condividono una storia di vessazioni patriarcali). Lorena mi manifesta apertamente il suo disaccordo con l’imposizione di criteri femministi egemonici, anche se riconosce d’aver appreso molto dalle varie correnti femministe nordamericane ed europee, soprattutto il fatto di riconoscersi come una “soggetta epistemica” e, pertanto, pensarsi dal corpo e nello spazio dove convive con altre/i per tessere idee femministe. Ma rimprovera a noi femministe bianche di non voler vedere spesso quanto i femminismi indigeni stiano apportando al movimento femminista nel mondo. Oggi le donne maya, aymara, quechua sostengono che la modernità non è lo spazio dal quale pensarsi, poiché non si riconoscono nella linearietà del tempo, nel colonialismo delle leggi di stato e nel razzismo che in America è stato sempre, e necessariamente, sessista. Queste donne sono Fotografia di Shobha, Prostitute Thai La Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (CONAIE) è un’organizzazione autonoma, indipendente da qualsiasi tipo di governo al potere, da partiti politici, o istituzioni religiose estranee alla comunità, si è costituita nel 1986 in Ecuador ed è composta da 14 nazionalità e 18 popoli indigeni. Essa promuove la lotta sociale per sviluppare una nuova forma di democrazia partecipativa e diretta, uguaglianza sociale, sostiene l’accesso a un’educazione di qualità, gratuita e riflessiva per tutti, senza discriminazione nel rispetto e garanzia dei diritti collettivi dei popoli indigeni. “Siamo come la paglia dell’altopiano (páramo) che, anche se si strappa, torna a crescere e di paglia del páramo ricopriremo il mondo” Dolores Cacuango, leader indigena, 1945 profondamente impegnate nel nominare dalle loro lingue e dalle loro cosmovisioni categorie e concetti che servono loro per analizzare le proprie realtà storiche di oppressione, ma anche di liberazione, come donne indigene, campesinas, rurali. Queste donne sono ancora “le escluse” per eccellenza dal programma della modernità emancipata, poiché appartengono a nazioni i cui stessi uomini sono stati espulsi da tale teoria storica. Solo i municipi indigeni autonomi del Chiapas, alcuni municipi indigeni della Colombia, coordinati dalla rete Nasakiwe Tegnas (Guardie indigene), l’organizzazione sociale e politica della Confederación de Nacionalidades Indígenas (Conaie) dell’Ecuador costituiscono delle società che si auto rappresentano. Tutti gli altri popoli indigeni vivono un controllo etnico da parte del sistema nazionale che si manifesta nella negazione del loro potere giuridico e in una virtuale delega della loro cittadinanza. In questo contesto, assume un valore ancora più forte il lavoro che stanno facendo le donne indigene di AbyaYala (nome dell’America Latina), che, dalle loro comunità, generano conoscenze sulla propria realtà come donne che possiedono una presenza, una voce e un protagonismo nel mondo. Il femminismo autonomo latinoamericano, ben lontano dal femminismo “bianco” governativo e di molte Ong, ha come scopo principale mettere in discussione il sistema culturale egemonico e le gerarchie da questo imposte. L’incontro con Lorena Cabnal mi ha fatto capire quanto, in un’ottica di più che legittima globalizzazione culturale, sia necessario conoscere e riconoscere i contributi delle femministe indigene latinoamericane al femminismo mondiale. 23 Sicilia Queer Fotografia di Soraya Gullifa, Palermo Pride 2013, Cantieri Culturali alla Zisa Cinema, musica, arte e cultura Palermo, dal 31 maggio al 6 giugno, ha ospitato la terza edizione del Sicilia Queer Film, Festival cinematografico indipendente, autofinanziato realizzato grazie alla collaborazione di istituti stranieri, dei volontari e del pubblico e con il patrocinio del comune di Palermo. Straordinario successo di partecipazione. Pellicole provenienti dal più grande festival di cinema queer in India, produzioni italo-francesi, franco-canadesi di grande valore, anteprime nazionali, lungometraggi, cortometraggi, trailer e documentari e poi ancora piccoli grandi film dimenticati o ignorati ricchi di pluralità, legati da un fil rouge comune:la tutela dei diritti di tutti. Fotografie di Nuccia Cammara, Palermo Pride 2013, Cantieri Culturali alla Zisa