creatività - Mezzocielo

Transcript

creatività - Mezzocielo
Fotografia di Shobha, Maternità, operaia incinta, Maharastra, India, 2013
mezzocielo
La politica e la bellezza
trimestrale di politica cultura e ambiente
pensato e realizzato da donne
anno XXI giugno-agosto 2013 - € 5,00
sped. in a.p. art. 2 comma 20/c legge 662/96
Filiale di Palermo
Prostituzione sdoganata?
Simona Mafai
L
’affermazione che più mi
ha colpito, tra gli
innumerevoli commenti
sulle nauseanti vicende del
Bunga Bunga e relativa
condanna giudiziaria, è stata
quella di una antropologa, che
ha detto (più o meno):
Berlusconi ha sdoganato la
prostituzione.
L’affermazione è forte, ma –
riflettendoci sopra – la
riconosco, sia pure con
riluttanza e disagio, vicina alla
verità. In rapporto all’antica e
complessa realtà della
prostituzione nelle sue varie
forme (dalla prostituzione di
strada, alle escort, alla
prostituzione minorile,
fermandoci solo un passo dalla
pedofilia) giudizi e commenti
dell’opinione pubblica sono
nel corso di questi anni
profondamente cambiati: quasi
rovesciati. Dai tanti uomini
che, alzando le spalle, dicono
che le cose sono sempre andate
così: ne è solo cambiata la
pubblicizzazione; ad alcune
femministe “doc” che
affermano, anche prendendo
ad esempio le vicende di
Palazzo Grazioli, che la
prostituzione è una libera
scelta della donna, la quale col
suo corpo può fare quel che
vuole; da Patrizia D’Addario
che partecipa, accettata e forse
anche applaudita, a raduni
politici; per finire con la
manifestazione “siamo tutti
puttane”, indetta da Giuliano
Ferrara, che – sul palco – si è
dipinto le labbra col rossetto,
non si può dire che, su questo
tema, nulla è cambiato
nell’opinione pubblica.
Neppure i giudici/le giudici
che hanno “arzigogolato”
sull’età di Ruby e sul
reclutamento delle ragazze
disponibili (gestito
generalmente da una qualche
“fidanzata” dell’ospite) sono
presi molto sul serio. Chi
continua a ritenere la
prostituzione un aspetto
tristissimo delle relazioni
uomo-donna (e non solo),
rischia di essere considerato un
moralista superato dai tempi.
Per fortuna ci resta qualche
filosofo che denuncia come un
fatto caratterizzante la società
di oggi la “mercificazione di
relazioni sociali che fino a ieri
sembravano intoccabili,
quando non sacre” e conclude
“Viviamo in un’epoca in cui
quasi ogni cosa può essere
comprata e venduta” (Anselm
Jappe). Certo, l’affermazione
non è proprio nuova. Ci fu un
altro filosofo che scrisse oltre
un secolo e mezzo fa: “La
borghesia …ha fatto della
dignità personale un semplice
valore di scambio”.
Borghesia o proletariato, per
parte mia, al di là di indagini
sociologiche e di ondivaghi
orientamenti della opinione
pubblica, io credo sempre – in
attesa di una nuova società
che dovrebbe nascere – nel
libero arbitrio e nella
responsabilità personale.
Sommario
Prostituzione sdoganata?
Simona Mafai
Una politica attenta
ai bisogni reali
Laura Stancari, Laura Bellina
e Simonetta d’Errico
cambiamenti
Il disaggio e la luce
del cambiamento
Conversazione tra redattrici
di Mezzocielo
La giustizia non è più
un dominio maschile
Maddalena Giardina
Storie di donne e storie
di violenza
Caterina Brignone
creatività
Libri
Diecirighe – Francesca Traìna
pag.
2
A dicembre
Cinzia Collura
pag. 12
come gente che ha vinto
Gisella Modica
pag. 20
pag. 14
Simonetta, morta un giorno
in cui era felice
Gilda Sciortino
pag. 20
Essere è tessere: in ricordo
di Maria Lai
Mariella Pasinati
pag. 15
Il Progetto Itaca è sbarcato
a Palermo
Rosemarie Tasca d’Almerita
pag. 21
Ipazia e la guerra dei sessi
Francesca Saieva
pag. 16
Bambini misura di città
Ilaria Esposito
pag. 21
Contro la crisi mettiamoci
in comune
Gisella Modica
pag. 22
Le ricette del giardiniere
di Calvino
Leontine Regine
pag. 22
Le escluse dalla modernità
emancipata
Giovanna Minardi
pag. 23
Il lavoro più creativo
del mondo
Silvana Fernandez
pag.
pag.
pag.
pag.
3
4
8
Probabilmente Antigone
ci deve ancora qualcosa
Egle Palazzolo
9
“Le donne siciliane non sono
felici”
Beatrice Agnello
pag. 16
pag. 18
succede
pag. 1 0
pag. 1 1
Ridere e piangere
Raccontare a testa alta,
pag. 19
mezzocielo
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Una politica attenta ai bisogni reali
La Lega si sbriciola e alle elezioni comunali di Treviso e Vicenza due donne del Pd sono i candidati più votati. Le abbiamo intervistate.
Intervista a Maristella Caldato,
a cura di Laura Stancari e
Laura Bellina
I
ncontriamo Maristella
Caldato il 13 giugno nella
saletta del gruppo
consiliare del Pd di Treviso, a
pochi giorni dall’entusiasmante
“liberazione” del 10 giugno da
una ventennale – pesante –
epoca leghista, avvenuta con
l’elezione a sindaco di
Giovanni Manildo, candidato
del centrosinistra. Maristella è
la più votata di tutti i candidati
delle varie liste.
È una giovane donna di 47 anni,
determinata quanto disponibile
ad un ascolto attento e cordiale
e a una franca comunicazione; si
definisce una cattolica laica.
Nasce in una famiglia operaia: il
padre è lavoratore edile e la madre
casalinga e custode dell’impresa
edile in cui il marito lavora.
Frequenta l’Istituto professionale
per il commercio e si diploma nel
1985 con il massimo dei voti.
Partecipa subito a concorsi
pubblici e già dal gennaio ’86 è
dipendente dell’amministrazione
comunale di Zero Branco,
Intervista a Isabella Sala, a
cura di Simonetta d’Errico
I
sabella Sala è stata eletta con
1122 preferenze, staccando
nettamente tutti gli altri
candidati, nelle elezioni comunali
di Vicenza, che hanno portato
alla poltrona di sindaco Achille
Variati del centrosinistra. Questo
successo, come lei mi racconta, è
il frutto di una solida rete
amicale e familiare: Isabella
appartiene a una famiglia che in
città ha rappresentato valori
civici e civili per lunghi anni: suo
padre è stato sindaco, amato, dal
1962 al 1975. E lei ha deciso
l’impegno nella scuola, nella
cultura, nelle associazioni
femminili. Nel pensare il
rapporto donne - politica,
qualcosa poi è cambiato, a
Vicenza, durante la lotta contro
il raddoppio della base
americana, sostenuta dalle donne
con fantasia e determinazione.
Ora Isabella Sala è neoassessore
alla comunità e alla famiglia. Ci
incontriamo in uno spazio in
cui è allestita una mostra su
Scampia e Vicenza in cui sono
esposti i lavori delle donne, i
lavori fatti con le mani.
“La mia vita, la tua, ci hanno
fatto conoscere alcune
potenzialità femminili,
dobbiamo cercarne ancora,
comune limitrofo a Treviso. Nel
1988 comincia a lavorare all’Ater
(Azienda Territoriale Edilizia
Residenziale); attualmente è
segretaria della Commissione
Alloggio.
Si sposa nel 1990 con Rosario
e non ha figli. S’illumina
parlandoci del rapporto con il
marito e del sostegno che lui le
ha sempre dato nelle sue scelte
politiche e di vita.
“Fino al 2005 la mia vita erano
l’Ater e lo studio dell’inglese”.
Nel 2005, sentendo l’esigenza
di proseguire gli studi, si iscrive
all’Università di Udine, Facoltà
di Lingue e Letterature
Straniere – Relazioni Pubbliche,
come studentessa lavoratrice,
laureandosi alla fine con una
tesi sull’episodio drammatico
della retata di massa di 13152
ebrei parigini nel luglio 1942.
Mentre ce ne parla si avverte
che questa tematica continua a
coinvolgerla.
Comincia ad assistere alle
sedute del Consiglio comunale
e si avvicina al Pd nel
momento della sua nascita. È
la sua prima esperienza
politica. Si presenta nel 2008
alle elezioni amministrative ed
è già allora la donna più votata
dell’intero consiglio comunale.
Un tale successo si spiega con
la specificità del suo lavoro: “Il
mio impegno è nato da questo,
dal contatto con i ceti sociali
più deboli”. Facendo parte
della Commissione alloggio
dell’Ater, Maristella entra in
contatto con le difficoltà
economiche e abitative di
numerose famiglie, riuscendo a
cogliere in anticipo l’avanzare
della crisi del 2008. Negli anni
del suo mandato in Consiglio
comunale riceve i cittadini
nella saletta del Gruppo
Consiliare del Pd (cosa che le
viene contestata da più parti)
dando ascolto alle loro
richieste, in ben 2400 ore di
ricevimento. Per lei il principio
fondamentale, sia sul lavoro
che in politica, “è il rispetto
della legge, il rispetto delle
regole, l’uguaglianza di tutti i
cittadini di fronte alla norma”.
Non è stato facile per
Maristella operare in un
contesto politico controllato
dalla Lega per la quale la
norma viene modificata per
adeguarla agli umori
dell’elettorato (ad esempio
privilegiando i residenti a
Treviso da più di vent’anni per
l’assegnazione degli alloggi
popolari). Infatti subisce sgarbi
sul lavoro e soffre del clima,
che lei definisce “devastante”,
in un Consiglio comunale in
cui prevalgono atteggiamenti
misogini, razzisti e omofobi.
Esprime anche un giudizio
negativo sulla sua esperienza
nelle Commissioni Pari
Opportunità, comunale e
regionale, perché le componenti
rappresentano più i partiti di
appartenenza che le donne.
Maristella si presenta come
candidata sindaco alle primarie
del Pd per le amministrative
2013, unica donna, e risulta
terza, impegnandosi subito dopo
nella campagna per il candidato
vincente, Giovanni Manildo.
Le chiediamo quale ruolo
vorrebbe ricoprire nella nuova
amministrazione e ci risponde:
“Darò la mia disponibilità per
un incarico relativo alle
questioni sociali, perché ritengo
che non si possano inventare
competenze che non si hanno”.
trovarne altre, con grande
capacità di ascolto”, mi dice.
Ma, abbiamo capacità di
ascolto?
“Sì, questo è un punto debole.
Dobbiamo da sempre tenere
insieme tante cose: il lavoro, la
famiglia, l’impegno politico, le
relazioni. Forse l’ascolto ci
rimette un po’ in questa
multiformità. Dobbiamo
imparare a fare una sintesi tra
vita pratica e pensiero.
L’impegno nel sociale spaventa,
ma ti illumina. L’ascolto sarà
fondamentale, ma, come dice
Duccio Demetrio, ascoltare
non basta, poi ci vogliono le
parole giuste”.
Sei assessore alla comunità e
alla famiglia. Comunità: non è
quasi un’utopia?
“Si parte dal basso, dove
scorre il sangue vivo. Le città
intelligenti sono quelle in cui
scorre il sangue vivo, dice
Braudel. Partiamo dal basso e
proprio dalle donne”.
Nel sociale ha lavorato diversi
anni, insegnando nella scuola
elementare. Laureata in Scienze
politiche, ha lavorato a Milano,
ma poi è tornata a Vicenza, la
sua città. Qui, in due anni tre
bambini, il concorso per
insegnare, due anni da
vicepreside. Nella piccola scuola
di Longare, nel 2000,
incominciavano ad arrivare i
primi bambini immigrati: non
c’erano protocolli o procedure.
Per affrontare la situazione
bisognava veramente credere che
differenza è ricchezza, pur nella
consapevolezza delle difficoltà.
“Si deve cercare il positivo, se
non parti dal positivo non puoi
cambiare il mondo”, mi dice.
“Ho avuto una vita fortunata,
per la parte del mondo in cui
mi è capitato di nascere, per la
famiglia in cui sono stata
educata. Allora bisogna
restituire qualcosa”.
Si sostiene che le donne hanno
una finestra per sé, tra la cura
dei figli e quella dei genitori, tra
i quaranta e i quarantacinque
anni. Se hai fortuna, è allora
che puoi investire il tuo tempo.
E lei ha pensato di candidarsi
in Consiglio comunale per il
Pd. È andata bene, è stata
consigliere per cinque anni.
E adesso che cosa c’è davanti
a te? Quali strade, quali nuovi
percorsi?
“Ti viene angoscia nel guardare
i dati sulla povertà di ritorno
ed è duro essere chiamata al
compito di risolverla. Non si
potrà rispondere a tutte le
richieste. Bisognerà agire sulle
potenzialità e sulla fantasia,
cercare strade nuove. Aiutare,
ma non assistere. Entrare in un
circuito di cittadinanza attiva,
in cui chi è aiutato deve
ricambiare, sentire la città
come un luogo di cura
condivisa. La nuova povertà
colpisce l’identità di una
persona. L’intervento non deve
essere assistenziale, ma deve
chiedere una risposta, secondo
i talenti e le competenze, tutto
questo può restituire identità
alle persone.
Se ci sono buoni modelli li
adotteremo, ma è meglio partire
da ogni particolare situazione.
Per esempio, in giunta è stata
scelta una seconda volta, come
assessore, Cristina Balbi; le sono
stati assegnati i Lavori pubblici
e lei opera con un’ottica di cura
urbana, con l’attenzione ai
bambini, ai disabili. Dobbiamo
allargare lo sguardo. I lavori
pubblici non sono la buca nella
strada, ma pensare la città a
misura di cittadino, lavorare
insieme in modo trasversale,
con la cultura: per esempio un
convegno su Rom e Sinti, che
non conosciamo; e ancora, per
esempio, Elena Peruffo è oggi
vice questore. I conflitti fanno
parte della vita, ma noi
possiamo inventarci come
mediarli, ognuno di noi può e
deve mettersi in gioco e può
riuscire a modificare
l’ambiente”.
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Il disagio e la luce del cambiamento
Una conversazione fra redattrici di Mezzocielo sul malessere sociale e politico, sul desiderio di impegnarsi e sull’apatia, sull’energia e la
bellezza che spuntano qua e là, inaspettate
Beatrice Agnello, Giusi Catalfamo, Silvana Fernandez, Simona Mafai, Gisella Modica, Adriana Palmeri, Rosanna Pirajno,
Maria Concetta Sala, Stefania Savoia
La conversazione che presentiamo ha avuto luogo a casa di Silvana Fernandez, come sempre premurosa nella sua
accoglienza e sollecita dell’agio delle sue ospiti. Essa nasce dal bisogno di dare parola alle spinte contraddittorie che
avvertiamo dinanzi al presente, si tratti degli ultimi accadimenti della politica istituzionale o della violenza omicida
sessista, o più in generale dello sgretolamento delle strutture materiali e delle sovrastrutture simboliche della società
patriarcale. La spinta a questo scambio in presenza è stata dettata da un lato dal malessere dinanzi a un passaggio epocale
che coinvolge la vita privata e quella pubblica di ciascuna di noi e attorno a noi e che ci toglie forza e fiato sino a indurci
all’afasia e dall’altro lato dall’avvertire che nella realtà vi sono punti disseminati di luce che indicano dei cambiamenti in
atto, frutto di un’altra politica, di altre pratiche segnate dalla libertà femminile, ovvero dalla presa di coscienza da parte
delle donne che non accettano di subordinarsi ai modelli di una cultura secolare maschile.
MARIA CONCETTA: Crisi
economica e miseria del
presente sono le paroline
chiave che oggi aprono tutti i
dibattiti e che riguardano la
situazione sia nazionale che
internazionale. Rispetto al mio
essere, al mio stare al mondo,
da un lato avverto dei
cambiamenti positivi che
riguardano la politica che mi
appartiene e che è in atto,
dall’altro non comprendo
perché io mi senta così
schiacciata.
C’è in atto una rivoluzione nel
modo di fare politica, di
praticare le politiche (così si
chiamano); ci sono pratiche
differenti nel territorio
consone a una nuova
concezione della politica che
corrisponde alla mia; e
tuttavia, siccome ho la
sensazione netta che questa
cosiddetta “miseria” mi
schiaccia, sento una
contraddizione.
Chiedo dunque a voi, se
avvertite la miseria del
presente come schiacciamento;
e, in secondo luogo, se
avvertite o no la crisi della
democrazia rappresentativa,
che trascina con sé anche le
risposte possibili da parte
delle istituzioni a questa crisi;
perché c’è un vero e proprio
collasso che è qui, sotto i
nostri occhi. Fino a che punto
tale collasso coinvolge la
democrazia e che cosa ne
potrà derivare? Il terzo punto
è quello che mi permette di
coltivare la speranza
nonostante le contraddizioni:
da una parte c’è una
confusione enorme fra denaro
e potere, c’è un gran
disordine, perché denaro e
potere hanno perso il loro
valore simbolico; dall’altra
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parte, in mezzo a tanta
confusione registro creatività,
entusiasmo e passione in
diverse pratiche politiche.
Eppure non riesco a mettere
in circolo la mia passione della
politica con gesti radicali; la
parola “radicalità” può fare
pensare a tante cose, ma io
l’adopero per significare un
orientamento in direzione
della verità sulle cose come
stanno e della giustizia sociale.
I gesti radicali li vedo
commisurati al desiderio di
infinito, di Dio, una parola che
uso appunto per indicare
qualcosa che mi trascende. La
soluzione dinanzi a tutto
questo è nella mia pratica
quotidiana quella di
mantenere accesi i desideri più
elevati e al tempo stesso porre
rimedio là dove c’è bisogno.
Nel sociale quali sono questi
bisogni? Sono riconducibili
alla questione del lavoro e
dell’economia? Quel che so è
che i bisogni dell’anima non
vanno separati da quelli del
corpo, altrimenti non ci sarà
via di scampo all’asfissia sia
per gli individui sia nel sociale.
Insomma, per iniziare il nostro
discorso, sono sufficienti
queste domande, su cui
ognuna può impiantare altre
domande o soluzioni.
ROSANNA: Questa
ambivalenza, questa
confusione la noto anch’io e
resto sconvolta dall’ambiguità
che percepisco in certi ambiti,
o anche dalle contraddizioni
che si manifestano senza darci
il tempo di assimilarle. In una
trasmissione televisiva di alcuni
giorni fa si vedevano in
Campania gli orrori del
malaffare sui terreni, inquinati,
massacrati dalle discariche
abusive di materiali dannosi
per la salute e l’ambiente, non
ricordo come si chiama il
posto…
GISELLA: Capo Verde o
Carezzano…
ROSANNA: Ecco, lì
facevano vedere tutti i
disastri che hanno fatto,
discariche che hanno
avvelenato la terra, situazioni
terrificanti che a guardarle
veniva una gran depressione,
poi all’improvviso spunta
sullo schermo una persona
che ribalta tutto questo e
racconta: «Io ho fatto dieci
anni di galera perché
spacciavo droga a
Secondigliano ma poi, uscito
dalla galera, ho detto no, non
può essere che i miei figli
vivano in un simile
ambiente», così ha
cominciato a fare il
volontario, ha chiamato a
raccolta altri con altrettanti
carichi di vita “ai limiti” alle
spalle e insieme creano, in un
terreno compromesso che
bonificano e ripuliscono per
bene, campi giochi e
giardinetti per i ragazzi del
quartiere, sono i loro figli a
cui decidono di dare
possibilità che loro non
hanno avuto. E fatti come
questo ne succedono, in
questo strano paese.
voglia di fare qualcosa, di
cambiare il corso delle cose dal
basso e perciò sono tanti i
singoli e le associazioni di
persone senza tessera di partito
che agiscono in questa
direzione...
MARIA CONCETTA: E
dunque queste sono forme di
politica …
ROSANNA: Politica sì, ma
non istituzionalizzata,
sappiamo tutti quanto contino
in questa società distratta il
volontariato e
l’associazionismo, sono
fenomeni vasti e diffusi e
anche noi, con il nostro
Mezzocielo, ne facciamo parte
contribuendo a questa
rivoluzione, anzi non voglio
usare il termine rivoluzione
perché gli attribuisco una
accezione negativa …
MARIA CONCETTA: Non
sempre, se pensi alla
rivoluzione dei pianeti …
SILVANA: Ma questo è
l’individuo, non sono le
istituzioni che hanno fatto
tutto ciò.
ROSANNA: A me piace più la
parola trasformazione, e penso
che questo impulso ormai lo
sentiamo in tanti. Fare per
migliorare il mondo è in
questo momento di crisi quasi
un atto di volontà per
dimostrare che «io sono qua e
agisco, non me ne sto alla
finestra a guardare il mondo
andare a rotoli senza fare
qualcosa». E questo aiuta a
non sentirsi schiacciati, come
diceva Maria Concetta, ma
partecipi.
ROSANNA: Sì, è l’individuo
che agisce senza l’aiuto delle
istituzioni, ma il fatto
combacia con quello che
diceva Maria Concetta, che c’è
GISELLA: Se devo parlare
sinceramente, il senso di
annientamento di cui parla
Maria Concetta io me lo sento
tutto addosso e quando
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ti
Fotografia di Shoba, lavoro di Monika Sosnowska, 54. Biennale di Venezia 2011
qualcuno mi dice cosa vorresti
fare, io, con egoismo e se non
avessi una figlia precaria, direi
“niente, non faccio più niente”
perché considero le nostre
armi spuntate di fronte alla
crisi che ci sta davanti. O
meglio le mie armi, che sono
quelle del partire da sé e della
relazione. Di fronte
all’accanimento di certe
amiche e compagne che
sostengono che l’unica “arma”
rimasta è entrare in massa nelle
istituzioni per cambiarle, io mi
tiro indietro e mi affido alle
nuove generazioni.
Ascoltandole sono certa che
hanno raccolto quello che il
femminismo ha seminato,
anche se molte di loro non lo
nominano, forse perché non ne
hanno più bisogno. Lo faranno
in modo diverso, trasformato
in altro. Cose che magari io
non capirò ma a Paestum, per
esempio, dove di questo si
parlava, è venuto fuori quello
che ha detto Maria Concetta.
Questi giovani hanno voluto
insistere sul reddito di
cittadinanza, che chiamano
anche reddito di esistenza e
che per noi non è stato mai
una priorità, ma loro hanno
puntato tutto su questo
partendo dalla loro vita
precaria, chiedendo anche con
una certa aggressività alle
femministe storiche “dovete
farvi carico insieme a noi di
questo problema, della
precarietà della vita”. E hanno
ragione perché i tempi sono
cambiati e anche i bisogni:
bisogni primari come l’acqua
che beviamo, la terra i cui
frutti mangiamo, l’aria che
respiriamo, il lavoro che
manca. Egoisticamente io però
a 63 anni sento l’esigenza di
ritornare a parlare di sessualità,
del tempo che scorre, di
tornare a fare autocoscienza,
così, per capire cosa voglio fare
perché sono disorientata. Poi
c’è un altro punto, che sono io
dentro al giornale.
SILVANA: Che cosa c’entra il
giornale?
GISELLA: Riparto da quello
che ha detto Rosanna. Anch’io
ho visto la trasmissione su
quella località vicino Napoli,
dove accanto alle immagini
piene di orrori come i bambini
morti di cancro, la
devastazione ambientale, i
copertoni che bruciano, a
pochi metri oltre la recinzioni
si vedeva il terreno bonificato
da una cooperativa che lavora
lì ed esporta ottimi prodotti in
tutto il mondo. E c’era pure
questo ragazzo, che prima era
un tossico e ne era uscito, che
diceva di essersi rimboccato le
maniche insieme ad altri e
s’erano messi a lavorare
partendo dal niente, per i beni
comuni da recuperare, senza
aiuti pubblici… questa è la
speranza. Che c’entra il
giornale? L’unica cosa che mi
dà energia è la possibilità di
raccontare queste storie,
cercare queste storie positive
per fare vedere che c’è un’altra
realtà. Questo mi dà un senso
oltre che una speranza.
SIMONA: I tre argomenti che
ha posto Maria Concetta sono
ineccepibili. L’amarezza del
presente, l’incapacità delle
istituzioni attuali di funzionare
come vorremmo e la nostra
voglia di intervenire per
affrontare i problemi del
presente, sempre frustrata: ci
troviamo in un circolo vizioso,
che pare senza via d’uscita, ma
non è così. Io penso che la
crisi delle istituzioni e della
democrazia in Italia dipende
anche da un cambiamento
forte che c’è stato nella vita
individuale e collettiva.
Bisogni, desideri, volontà di
partecipazione delle persone
non confluiscono più nei
canali tracciati nel dopoguerra,
pensando ad una popolazione
molto diversa da quella di
oggi. A parte la patologia,
l’infezione che ha il nostro
paese, cioè la corruzione, le
mascalzonate, i ladri nei
partiti, i reati che hanno
aggravato la crisi della
democrazia (ma questa è
patologia e va curata come una
malattia), a parte questa, è la
struttura stessa delle istituzioni
che va rivista, adeguata ad
oggi. Giorni fa dicevo a Bice:
l’aumento di cultura (magari
meno profonda, ma
certamente assai più estesa di
un tempo) ha prodotto un
gran cambiamento nelle
persone; è alla radice di tante
crisi che registriamo. Tutti
ritengono di sapere più cose e
si collocano in modo
immediatamente critico di
fronte ai programmi dei
governi e dei partiti.
ROSANNA: Questa non è più
cultura, è informazione…
SILVANA: Ma un aumento di
cultura, di conoscenze, c’è
stato. Si è abbattuto
l’analfabetismo, ed è facile
5
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trovare figli di operai laureati
anzi stralaureati
SIMONA: Le conoscenze sono
obbiettivamente maggiori, i
giovani credono di saperne di
più delle generazioni
precedenti, si sentono
individui singoli, indipendenti.
Ma questo è un fatto positivo,
anche se può disturbare
pratiche comunitarie
precedenti. Una volta la
conoscenza degli eventi e le
interpretazioni che ne davano i
partiti erano accettate dai
rispettivi aderenti/elettori.
C’era uno spirito gregario,
condizione base dei cosiddetti
“partiti di massa” e di un
elettorato quasi immobile. Al
contrario, oggi ognuno vuole
dire la sua, ed essendoci dieci
o cento idee e differenziazioni,
emergono contrasti che
mettono in crisi democrazia
tradizionale e partiti (in
continua mutazione negli
ultimi anni). La realtà è diversa
dal dopoguerra, partiti e
istituzioni devono prenderne
atto ed adattarvisi,
modificandosi, aprendosi agli
apporti imprevisti che
emergono dalla società. Ma
istituzioni e partiti ci vogliono,
servono, cara Gisella.
Riflettiamo ad esempio sulle
cooperative che operano nei
terreni espropriati alla mafia:
coltivano fagioli o pomidoro,
ma poi li mandano a Bologna
dove vengono puliti,
inscatolati, distribuiti nei
supermercati, attraverso
aziende preesistenti e reti
commerciali sperimentate.
ROSANNA: Ma questa è la
rete; l’istituzione non c’entra.
GISELLA: Sì, è il commercio
solidale.
GIUSI: Ma le istituzioni
devono adeguarsi.
SIMONA: È un processo
reciproco. La lotta, il
volontariato, il movimento si
sono coordinati con le
istituzioni, hanno inventato
chiesto e ottenuto nuove
regole, diversificato il mercato.
Se non si fossero collegati alle
istituzioni e alle strutture
esistenti, avrebbero fatto solo
testimonianza, i prodotti
sarebbero rimasti a marcire e
non si sarebbe modificato
nulla. Credere che sia possibile
cambiare, impegnarsi per
6
quanto è possibile, mai restare
indifferenti. Mi viene in mente
un vecchio bellissimo film sulla
guerra e la tragedia del Libano
(mi pare s’intitolasse
“L’inganno”) interpretato da
Hanna Schygulla, che alla fine
– dopo bombardamenti e
assassinii – dice “Sì, il mondo
vada dove vuole, io resto qua
in terrazza a prendere il sole!”.
Noi siamo molto in crisi, non
voglio fare questo discorso per
negare la crisi che è intorno a
noi, ma non vogliamo
stenderci in terrazza a
prendere il sole. Del resto, se
guardiamo a un orizzonte più
ampio dell’Italia, ci
accorgiamo che le cose
nell’ultimo secolo non sono
andate tutte male. Ma pensate
cos’era la Cina trenta anni fa,
l’America latina e l’India, e
cosa sono oggi. Insomma non
possiamo dire che il mondo si
è fermato, o che è andato
indietro: né per lo sviluppo
economico né per i diritti
umani.
SILVANA: Simona, hai
ragione. C’è il brutto, anche
l’orrido, nel mondo attuale ma
c’è il buono, quello che fa
sperare ma, come dice Maria
Concetta, noi ci sentiamo
appesantiti soltanto dalla
miseria. Perché? Perché della
miseria si sono impadroniti i
media e allora la propinano
ininterrottamente, non perché
la miseria non ci sia mai stata,
non perché il problema del
precariato non ci sia, ma ora è
come se ci fosse solo quello. A
me fa ancora più impressione
perché la povertà c’è da
sempre, in piccole fasce prima,
ma da due, tre anni, le fasce
sono diventate un sudario,
eppure è solo ora che se ne
parla. Perché nel periodo di
Berlusconi i ristoranti erano
pieni… e tutti dovevano essere
magri, eleganti e ricchi, e, sì
perché no, abbronzati! Maria
Concetta ha detto: “Adesso si
tiene solo al denaro ed al
potere”, io penso che neanche
del denaro si interessano più,
forse perché si è tutti convinti
del vuoto delle casse, ma sono
aggrappati al potere, ormai
vano, perché sempre
contestato, politica e potere si
sono identificati. E allora
anch’io che sono una
chiacchierona sono diventata
afasica e come l’attrice
dell’Inganno, citato da
Simona, mi metterei in
terrazza a prendere il sole
perché mi sento impotente.
GIUSI: Sono combattuta fra
non leggere giornali, non
vedere la televisione, la
tentazione di dire mi prendo il
sole e sto a guardare. Ma
intanto mille domande
affiorano: quanto costa la vita
umana? Per esempio si
uccidono donne e uomini
come se non fossero persone
ma cose, più le donne che gli
uomini, ma così, con un
cinismo! E poi però si vede
che qualcosa è cambiata. E per
me sono stati un balsamo i
fischi negli stadi ad Andreotti
quando è morto, un balsamo!
Ah, giustizia è fatta! Poi la
contestazione di Brescia, altro
balsamo per cui mi viene di
dire voglio esserci anch’io. Ma
poi succede questo fenomeno
di assorbimento per cui sono
sempre gli stessi che cambiano
nome, ma sono sempre gli
stessi ad assorbire tutto quello
che di marcio succede e farlo
sembrare normale; un
processo di normalizzazione.
Allora da una parte ho dei
momenti in cui mi pare che il
mondo è cambiato, dall’altro
lo scoramento che resti tutto
uguale, allora mi viene da dire
che faccio? E non so dire
altro.
STEFANIA: Io invece ho
molta voglia di parlare. Sono al
centro della mia vita, avendo
trent’anni, vedo le cose con
un’altra prospettiva. Fino a un
certo punto le vedo
pessimisticamente e subisco la
confusione attorno, d’altra
parte vedo che in questa epoca
e qua in questa stanza (penso a
Simona che li ha ora citati)
sono successi fatti epocali. È
avvenuta la democrazia, il voto
alle donne, cose che erano
impensabili, e perciò devo
credere nel futuro, credere nei
cambiamenti. Il primo deve
essere un cambiamento di
prospettiva. Leggevo l’altra
volta in un articolo
sull’insegnamento che noi
insegnanti finora ci siamo posti
davanti agli alunni in maniera
vecchia. Come s’insegnava
nell’ottocento noi continuiamo
a insegnare. Apriamo un libro,
raccontiamo delle cose, gli
alunni le capiscono, scrivono
etc. etc. Dobbiamo cambiare
questo sistema e tanti altri.
Quello che io sento è uno
scollamento fra vecchi e nuovi
principi che forma il conflitto.
E penso che è necessario
accettare il cambiamento, così
come invece ci sono cose
inderogabili che devono
restare. Per esempio le
istituzioni sono importanti.
Bisogna vedere le istituzioni
come una struttura portante,
non come una gabbia, certo
non sono da buttare quelle
costituzioni che contengono
concetti non antichi ma eterni,
l’uguaglianza, la democrazia il
voto a tutti i cittadini. Il punto
è sapere cosa tenere e cosa
lasciare. Soprattutto va
cambiata la lettura di ogni
cosa, per esempio del mondo
economico, dove c’è il caos ma
ci sono anche cose nuove. C’è
una potenza, la Cina, che non
esisteva e che ora è la più
grande del mondo, bisogna
tenerne conto. Pensare che
questa crisi è come quella del
29, è sbagliato, ora il mondo è
diverso. C’è internet e noi
dobbiamo prendere atto
dell’importanza del web, non
per aprire un blog ma per
aprire strade nuove. Dobbiamo
fare interagire passato e
presente, tenendo quello che
serve nel mondo attuale, che
ha come prerogativa la
velocità. Per esempio, Gisella
parla di tante associazioni
operative, che sono importanti,
insomma è un tempo di
cambiamenti e io potrei viverli
con paura, ma penso che
cambiare serva. Considerate la
differenza che c’era fra mia
madre e mia nonna: sì, c’erano
delle diversità ma erano sullo
stesso binario. Invece se penso
a mia madre trentenne e a me
trentenne ci vedo lontanissime,
come se appartenessimo ad un
mondo diverso. Noi dobbiamo
avere la forza di dire questo
mondo è nuovo, la sfida è
quella di dargli forma, perché
questo ci fa paura, la mancanza
di forma, ma per questo è
necessario che siamo tutti a
formarlo, vecchi bambini
giovani, non possiamo
esimerci, nessuno di noi lo può
fare.
BEATRICE: Stefania ha detto
cose interessanti. Condivido
che dobbiamo – soprattutto la
sinistra deve – cercare nuove
chiavi di lettura della realtà e
adottare comportamenti
politici diversi. Il
cambiamento, a cui – per così
dire, geneticamente – la
sinistra non dovrebbe
ca
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en
ti
Fotografia di Shobha, Siria
rinunciare, oggi non può avere
certamente gli stessi
protagonisti né gli stessi
obiettivi del secolo scorso.
Condivido che non ci si può
esimere dall’impegno
quotidiano e tanto più non
posso farlo io che, malgrado
sia arrivata all’età della
pensione, non ho una pensione
e devo continuare a inventarmi
progetti su cui lavorare. Così
sono costretta a restare
giovane… e sento la spinta a
impegnarmi perché il mondo,
non solo quello mio privato,
vada un po’ meglio. La politica
dovrebbe servire proprio per
trovare le soluzioni e le
mediazioni che tengano
assieme una società nella
maniera più equa possibile, in
questo momento di
selvaggiume finanziario ancor
più che in momenti migliori. E
poi penso che non possiamo
escludere da noi la politica
senza impoverire la nostra vita.
E che la politica non possa
essere ridotta al lavoro di base
di gruppi più o meno
omogenei, ma debba avere un
orizzonte ideale e momenti di
mediazione generale, nonché
sponde istituzionali per avere
efficacia sulla realtà.
Un piccolo esempio di
discorso che non mi piace,
GISELLA: La discussione è
sorta perché hanno fatto in
parlamento tre minuti di
silenzio e se li potevano
risparmiare, è per tanti un
assassino, un mafioso.
dirigente, abbiamo tre partiti
che non esistono. Il Pd ha capi
e capetti che si azzuffano fra
loro; il Pdl prima che il
risuscitato Berlusconi
riscendesse in campo era alla
guerra per bande; per non
parlare del movimento di
Grillo dove convivono le
istanze più diverse, molte
qualunquiste e francamente
cretine. Insomma, per
concludere, bisogna
impegnarsi perché non
abbiamo nessuno a cui
delegare.
Sento la necessità di una classe
dirigente diversa che abbia un
linguaggio diverso. Sento la
necessità che cambi il processo
decisionale nei partiti e nelle
istituzioni. Adopererei la
parola rivoluzione, senza
evocare né sangue né
ghigliottine, rivoluzione per
dire cambiamento radicale.
BEATRICE: Continuo a non
condividere questo sentimento.
Mentre sento fortemente lo
scoramento di un precario più travolgibile dalla crisi di
chi ha un lavoro o una
pensione sicura – in un paese
che non ha una classe politica
capace di affrontarla, la crisi.
Diciamolo, siamo allo sbando
perché non abbiamo una classe
ADRIANA: Non voglio
esimermi anch’io
dall’esprimere il disagio,
l’instabilità e la sofferenza di
questi tempi durissimi da
sopportare, come donna, come
cittadina, madre e lavoratrice.
Tuttavia poiché prevale in me
un modesto ottimismo, mi
pongo da spettatrice
partecipante, pur non avendo
nell’atteggiamento di una certa
sinistra (ma anche nella
politica dell’insulto di Grillo),
è quello che faceva Giusi poco
fa: sentir dire “che bello,
Andreotti è morto” non mi è
piaciuto, non provo piacere
quando muore qualcuno e non
mi piace il giustizialismo.
GIUSI: Io lo dicevo in un altro
modo, era una soddisfazione
personale.
ROSANNA: Dai Bice, una
soddisfazione.
BEATRICE: Per me non è una
soddisfazione.
né ricette, né risposte
adeguate, rispetto ai miei tre
punti di osservazione. Sanità
(ambito in cui lavoro): è
corretta la considerazione che
la Sicilia non è certo fra le
regioni più virtuose, ma non
tutto è da demonizzare, la
sanità siciliana ha sfidato le
altre regioni ascrivendosi
prestazioni e cure gratuite agli
immigrati, non è cosa da poco
tenuto conto che è corretto
mettersi anche dalla parte dei
più deboli. Tutto il resto è
umanizzabile e perfettibile. Io
rispetto alle mie figlie: la loro
età attraversa due generazioni,
e come tutti/e i/le giovani, pur
avvertendo le preoccupazioni
di noi genitori, consapevoli
dell’esponenziale rischio di
violenza di genere cui sono
sottoposte, ci incoraggiano e
lottano anch’esse, con i propri
mezzi, per una maggiore
sensibilizzazione alla cultura
della non violenza, in tutti i
loro ambiti. E infine la politica,
della quale non si può fare a
meno, così difficile ma, per
me, così attraente nonostante
tutto. Da democratica e fedele
all’ideologia nella quale mi
riconosco, ritengo valga
sempre la pena dare un
contributo per renderla
migliore.
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m
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c
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i
La giustizia non è più un dominio maschile
Ma ancora le vittime della violenza soffrono le inefficienze dell’ordinamento giudiziario e una vecchia cultura
Maddalena Giardina (Avvocato)
S
ebbene in Italia, nel
tempo, diverse leggi
siano state emanate per
contrastare con misure e
sanzioni la violenza contro le
donne, ancora molti esiti
giudiziari riflettono
quell’attitudine socio-culturale
che condona la violenza
maschile contro le donne,
opportunamente rilevata e
stigmatizzata dalla Relatrice
Speciale Onu.
Leggi che, non va dimenticato,
sono la risultante di lunghe e
difficili battaglie contro un
ordine normativo che è stato
sempre fonte di negazione di
libertà e di esclusione delle
donne, che ha autorizzato e
legittimato nei fatti la violenza
sulle donne, ingenerando nelle
stesse un forte senso di timore
e di estraneità e contribuendo
a segnare negativamente la storia del rapporto tra i sessi.
Valga ricordare solo alcuni
esempi, senza andare molto
lontano nel tempo, che sino a
prima del ’46 le donne non
avevano diritto al voto, sino al
1975, prima della riforma del
diritto di famiglia, la donna era
sottoposta all’autorità maschile, vigeva lo jus corrigendi; il
delitto d’onore e la scriminante
del cd. matrimonio riparatore
hanno avuto un’abolizione
ancora più recente.
Le donne sono state escluse
dall’esercizio della giurisdizione da quella stessa assemblea
costituente che all’art. 3 sanciva il principio di eguaglianza;
si è poi dovuto attendere il
1963 perché potessero accedere alla magistratura.
Oggi nelle aule di giustizia agiscono molte donne.
Nell’avvocatura e nella magistratura in pochi decenni le
donne sono arrivate ad essere
circa la metà, la giustizia si è
femminilizzata e sarebbe interessante poter analizzare il cambiamento che si è determinato.
Le richieste di giustizia che
vengono dalle donne che
denunciano le violenze subite
sono decisamente aumentate
rispetto al passato, forse anche
incoraggiate da tale presenza e
dalla specifica competenza
femminile. Oggi non è più
pensabile celebrare un processo come quello documentato
da Loredana Rotondo nel 1979
in ‘Processo per stupro’ che ha
8
significativamente contribuito
a segnare un cambiamento
nelle coscienze e nelle aule giudiziarie.
Nei processi c’è ormai attenzione e rispetto delle vittime
del reato, ciononostante talvolta le risposte giudiziarie risultano inadeguate e prive di efficacia. Certo si sconta il malfunzionamento del sistema giustizia, i tempi lunghissimi, le procedure complesse, la carenza
di risorse, rispetto ai bisogni
simo entro cui si può commisurare una pena che la/il giudice applica discrezionalmente
tenendo conto dei parametri
indicati dalla legge che permettono di valutare sia la gravità
del reato, che la capacità a
delinquere del colpevole.
Nel corso delle indagini e dei
processi possono essere applicate le misure cautelari limitative della libertà personale dell’indagato che sono la custodia
in carcere, gli arresti domicilia-
La Convenzione di Istanbul, il primo strumento
internazionale giuridicamente vincolante per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza,
è stata ratificata, a maggio, dall’Italia con voto unanime del Parlamento. Un primo passo avanti ma
ancora tanta strada da percorrere, infatti per essere
operativa ha bisogno della ratifica di dieci Paesi, di
cui almeno otto membri del Consiglio d’Europa. Il
nostro è il quinto paese ad avere approvato il testo.
Nella Convenzione, tra l’altro, viene riconosciuta la
necessità di finanziare adeguatamente le azioni previste per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno, nonché per il sostegno alle vittime e lo sviluppo
dei servizi a loro dedicati.
delle donne che, invece, richiedono immediatezza di intervento e soluzione, ma persiste
anche un’incultura che permea
l’agire di coloro che sono preposti a contrastare il fenomeno
della violenza contro le donne.
Si invocano nuove leggi e l’inasprimento delle pene, ma
intanto va auspicata un’applicazione più rigorosa delle
norme attualmente in vigore,
che prevedono misure e sanzioni non irrilevanti.
Ad esempio, la pena prevista
per il reato di violenza sessuale
va da 5 a 10 anni e, a seconda
delle aggravanti, da 6 a 12 o da
7 a 14, è previsto l’ergastolo in
caso di morte della vittima; per
gli atti persecutori la pena va
da 6 mesi a 5 anni che in casi
specifici può essere aumentata
da un terzo alla metà, è prevista la pena dell’ergastolo in
caso di morte; la pena per i
maltrattamenti va da 2 a 6
anni, se causa lesioni gravi da 4
a 9, se gravissime da 7 a 15, se
ne deriva la morte è previsto
l’ergastolo.
Dunque, si coglie subito l’ampio margine tra minimo e mas-
ri, il divieto o l’obbligo di
dimora, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati
dalla persona offesa, l’allontanamento dalla casa familiare ed
in tal caso, se necessario, può
venire imposto anche il pagamento periodico di un assegno.
Anche per tale ventaglio di
misure la legge stabilisce i criteri di applicabilità in considerazione delle esigenze cautelari.
Ovviamente le norme prevedono anche attenuanti e benefici
di legge.
L’ormai folta presenza femminile in ambito giudiziario fa ragionevolmente ritenere che nei
processi vi sia una più immediata emersione e capacità di lettura del problema della violenza
sulle donne, una maggiore consapevolezza della gravità della
stessa e dei suoi effetti devastanti e molto spesso letali, tuttavia, talvolta si riscontra una
blanda o inappropriata applicazione di misure e sanzioni, che
rimandano, invece, ad un’indecifrabile sottovalutazione del
dramma che affligge le donne
che subiscono violenza.
Una donna maltrattata grave-
mente da molti anni dal marito
che la minacciava di morte se
lo avesse lasciato, aveva preso
tale decisione rifugiandosi
presso la casa della madre. Una
mattina il marito si è appostato
sulla strada in auto con un
mazzuolo da muratore di un
chilo e mezzo, l’ha avvicinata
con un pretesto e l’ha colpita
al capo con due colpi di mazzuolo non ha fatto in tempo a
darle il terzo solo perchè è
stato bloccato da tre persone.
Arrestato con l’accusa di tentato omicidio, ha confessato ciò
che era evidente, i testimoni
oculari e la moglie rimasta
miracolosamente viva hanno
confermato la dinamica.
L’indagato dopo diversi mesi è
stato scarcerato, la Pm ha ritenuto che colpire con uno strumento potenzialmente letale,
un organo vitale, per ben due
volte, non configuri un tentato
omicidio, ma semplici lesioni
personali ed ha così riconsegnato un pericoloso individuo
alla sua libertà, ed alla vittima
il suo carnefice.
Le indagini che preludono ad
un processo per atti persecutori è una fase lunga e difficile
per la vittima dovendosi prima
procedere alla raccolta degli
elementi che giustifichino l’applicazione di una misura cautelare e raccogliere le prove del
reato. In genere poi quando
viene applicata la misura del
divieto di avvicinamento alla
persona offesa, altrettanto in
genere l’indagato la viola con
conseguente aggravamento
della misura.
Una volta celebrato nel lungo
tempo il processo, la condanna
spesso viene contenuta nella
misura minima ed il modesto
risarcimento assegnato in genere non si recupera mai o se
non dopo moltissimi anni, inoltre viene concesso il beneficio
della sospensione condizionale
della pena e la misura cautelare, se ancora in atto, viene
revocata.
Risulta facilmente intuibile il
senso di frustrazione che prova
la vittima, ma sopratutto la
paura dalla quale non era neppure ancora uscita e nella
quale sprofonda ulteriormente
e di contro il senso di impunità
e onnipotenza che invece si
radica ancor più nell’autore del
reato il quale, sebbene formal-
ca
mente riconosciuto colpevole e
condannato, dimostra alla sua
vittima che qualunque cosa
faccia, anche quella di rivolgersi alla giustizia, lo lascia di
fatto impunito e che evidentemente perseguitare una donna
non è grave.
Eppure chi ha curato le indagini è una Pm, il tribunale è
composto da una giudice che
ha anche avuto cura durante il
dibattimento di rivolgersi alla
donna che depone come teste
manifestando di comprendere
il suo disagio e di rassicurarla
sul rispetto dovutole.
Non si comprende allora il
senso di una sanzione così sottodimensionata rispetto alla
gravità dei fatti, alla comprovata pericolosità del colpevole ed
ai danni causati, nè perchè
venga concesso il beneficio
della sospensione condizionale
della pena che si applica alle
condanne non superiori a due
anni, ma solo se il giudice ritiene che il condannato si asterrà
nel futuro dal commettere ulteriori reati; formulare una prognosi postuma in tal senso proprio nel reato di stalking è
quasi un controsenso, tenuto
conto che è un reato ontologicamente seriale e che nel caso
di specie l’autore aveva dato
prova di aver continuato a violare la legge.
Il momento giudiziario non
previene i fattori di rischio, la
prevenzione attiene altri ambiti, ma può concorrere, senza
ovviamente derogare all’obbligo di imparzialità nel giudizio,
a sottolinearne la gravità e la
pericolosità sociale e culturale
della violenza contro le donne.
Occorre che in ambito giudiziario il quadro normativo di contrasto alla violenza maschile
contro le donne sia applicato e
reso in concreto funzionale, che
a quelle violenze che vengono
raccontate in aula da tante
donne, se arrivano in tempo a
farlo, dopo doverosa e attenta
valutazione sulla veridicità delle
stesse, conseguano delle sentenze che affermino la gravità esistenziale e giuridica anche in
termini sanzionatori coerenti
nei confronti dei colpevoli e che
ribadiscano che nella pratica
giudiziaria viene salvaguardato,
tra gli altri, il diritto fondamentale delle donne di vivere libere
dalla violenza.
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ti
Fotografia di Soraya Gullifa, Kerala 2011
Storie di donne e storie di violenza
A
Caterina Brignone (Giudice del Tribunale di Trapani)
pprendo troppo
spesso dai media di
donne abusate,
maltrattate e violentate, mi
imbatto in vicende di analogo
tenore nei processi che sono
chiamata a decidere, mi è
capitato di raccogliere le
confidenze di amiche in
difficoltà ed ho ascoltato lo
sfogo di vittime insospettabili,
incontrate per caso nel corso
delle iniziative di
sensibilizzazione antiviolenza
cui partecipo.
Ogni volto ed ogni storia sono
rimasti impressi nella mia
mente e, in fondo, mi capita di
pensare che, rispetto a queste
realtà, il mio compito è
facilitato quando sono
chiamata ad intervenire da
giudice. In quel caso, infatti,
conosco le regole del valutare
e del decidere e la legge offre
una serie di strumenti sia per
la protezione ed il
risarcimento della vittima sia
per la punizione del colpevole.
Si tratta di strumenti
perfettibili, ma è importante,
ad esempio, che esista la
possibilità di chiedere la
misura cautelare
dell’allontanamento dalla casa
familiare a tutela
dell’incolumità della persona
offesa e dei suoi prossimi
congiunti, che la vittima possa
costituirsi parte civile nel
processo penale e che vi siano
fattispecie incriminatrici adatte
a sanzionare – oltre
ovviamente alle percosse, alle
lesioni ed all’omicidio – i
maltrattamenti di ogni genere
e gli atti persecutori. Tutte
queste potenzialità sono a
disposizione della vittima che
si renda conto di essere tale ed
accetti, quindi, la mano che
l’ordinamento le tende.
Il vero punctum dolens, invero,
riguarda la cifra oscura di
coloro che hanno paura di
venire allo scoperto o che
pensano di meritare i soprusi
che subiscono.
Al di là dei proclami, allora,
bisogna pensare ad iniziative
concrete, ad esempio al
finanziamento delle case
famiglia, alla previsione di
sussidi per le persone in
difficoltà ed al potenziamento
dell’occupazione femminile, in
maniera tale che il timore di
perdere il sostentamento
proprio e dei propri figli non si
traduca nell’autentica barriera
alla denuncia di un marito o di
un compagno violento. Potrà
apparire prosaico e banale, ma
il riscatto morale dei soggetti
deboli passa, da sempre, per la
via dell’emancipazione dal
bisogno.
Ma v’è di più, perché ho
conosciuto donne di buon
livello culturale e di
condizione sociale agiata che
hanno scelto di non
denunciare le violenze fisiche
e morali subite “per il bene
della famiglia”, in attesa che
crescessero i figli, magari gli
stessi figli parimenti maltrattati
e malmenati. In questi casi, il
problema è eminentemente
culturale, è verosimilmente il
portato di una malintesa
educazione “tradizionale”, per
la quale la donna smentisce se
stessa e la sua “funzione
naturale” se “osa” far valere i
propri diritti e la propria
autonomia. Deve, invece,
passare il messaggio opposto,
ossia che ciascuno di noi ha
una dignità inviolabile, che va
rispettata e mai calpestata. La
donna che fa proprio questo
messaggio non aiuta solo se
stessa, ma anche i propri figli
– che non cresceranno
abituandosi alla sopraffazione,
ma educandosi al rispetto per
l’altro – e la società nel suo
complesso, che avrà modo di
progredire verso una cultura
della non-violenza.
Questa cultura va promossa
con iniziative di ogni genere e
deve essere portata avanti con
la massima determinazione
proprio dalle donne, cui spetta
il compito – come diceva Mary
Wollstonecraft, una delle
fondatrici del movimento
femminista – di riformare se
stesse per riformare il mondo.
Ciò vuol dire chiamare le
donne ad un’assunzione di
responsabilità verso sé e gli
altri, ma, in fondo, a questo
dovremmo essere già abituate.
9
cr
t
ea
i
t
vi
libri
à
Su e giù per gli scaffali
a cura di Loredana Mancino
Libreria Modusvivendi
Irène Némirovsky
La nemica, Elliot, - € 16,00
S
econdo romanzo, inedito in Italia, della grande scrittrice
ucraina di religione ebraica, morta ad Auschwitz. Apparve
per la prima volta in Francia con la firma Pierre Nérey, pseudonimo ricavato dall’anagramma del nome dell’autrice. È la prova
del carattere autobiografico di questo romanzo di formazione, che
ritrae una madre egoista e distratta e sua figlia, che da grande
risponde alla cattiveria della madre rubandole l’amante per poi
togliersi la vita. Uno squarcio doloroso sul rapporto conflittuale tra
Irène e la madre. Protagonisti della storia, l’odio e l’orgoglio, che
fanno da corollario a sentimenti ancora più oscuri e torbidi.
Helga Schneider
I miei vemt’anni. Oltre “Il rogo di Berlino”, Salani, - € 13,90
I
n questo libro totalmente autobiografico, la Schneider racconta gli
anni del dopoguerra, la sua fuga dalla famiglia invivibile, dominata dalla matrigna e i suoi primi passi nel mondo. Il lavoro, il teatro,
la scrittura, le amicizie, gli amori e le delusioni. E soprattutto, i luoghi
delle sue avventure: Salisburgo, Vienna, Parigi e l’Italia, sempre
amata. Conquistano il lettore la tenacia e la determinazione dell’autrice, così giovane e forte, il suo bisogno di indipendenza e di mettersi in
gioco, la consapevolezza delle sue passioni e dei suoi desideri.
Amélie Nothomb
Barbablu, Voland, - € 14,00
N
el nuovo romanzo della Nothomb dal titolo fin troppo evocativo, una giovane e brillante docente universitaria belga
cerca casa a Parigi. E si convince a condividere per pochi
spiccioli una lussuosa dimora con il suo proprietario, il nobile spagnolo don Elemiro Nibal y Milcar, uomo tutt’altro che spaventoso,
affascinante, colto, attento. Ma Saturnine non sa che otto donne
prima di lei hanno abitato in quella casa e che di loro non si sa più
nulla. Il gioco di seduzione che si crea tra i due non abbatte le difese della ragazza, che ribalta il modello classico, liberandosi da sola e
sfuggendo alle mani del mostro, tanto amabile, quanto pericoloso.
Mary Gaitskill
Veronica, Nutrimenti, - € 18,00
L
a storia di un’amicizia improbabile, ma vera tra due donne con un
passato forte e travagliato. Alison, bella e temeraria, ha detto addio
allo sregolato mondo della moda e fa le pulizie in uno studio fotografico; Veronica, non bella e cinica, si è rovinata la vita per un uomo che
le ha trasmesso l’aids. Il rapporto tra le due donne sarà più forte delle
loro differenze culturali e si imporrà a loro come una necessità. Con uno
stile asciutto e diretto la Gaitskill ci racconta i sovversivi anni Settanta a
San Francisco e i patinati anni Ottanta a Parigi e New York.
La 27a Ora
Questo non è amore, Marsilio, - € 16,50
D
alle autrici del blog del Corriere della sera, che si occupa di
temi al femminile, venti storie di abusi e violenze sulle donne.
Donne maltrattate dai mariti, dai compagni, dai fidanzati,
proprio tra le mura domestiche. Raccontandosi, le protagoniste dicono no alla violenza subita e si sottraggono a dinamiche di coppia ormai
malate e senza amore. Un fenomeno molto diffuso e trasversale dal
punto di vista sociale, che spesso coinvolge anche i figli.
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Ricevuti
Bambini e bambine
abbandonati.
Una storia
millenaria
Un pentito
della ‘ndrangheta
si racconta
alla figlia
Paola Bruttocao e Luisa Tosi
Mi hanno abbandonato i miei
famigliari - Esposti a Treviso
dalla “ruota” ad oggi”. Istresco
ed.,€ 16,00
Ombretta Ingrascì
Confessioni di un padre,
Melampo ed. €13,00
D
ue ricercatrici venete,
senza ambizioni di
protagonismo (nel libro
mancano perfino le consuete
schedine relative alla vita e alla
professionalità delle autrici) si
sono immerse negli archivi della
loro città per indagare un tema
appassionante: l’abbandono di
nati non voluti. Apre il libro un
elenco dei casi di abbandono
registrati in Italia negli ultimi
anni; chiude una cronologia
degli interventi pubblici
compiuti in merito a tale
fenomeno nel corso della storia,
a cominciare dagli etruschi del
IV secolo a.C., fino alle
legislazioni attuali.
Ma il centro del libro riguarda i
tempi recenti, a cominciare dal
secolo scorso, ed in particolare
la provincia di Treviso: l’apertura
delle “Case degli esposti”
(chiamati anche “buttatelli”), la
nascita di molti istituti privati, il
ruolo dei parroci, gli affidi a
pagamento, il baliatico. Sono poi
riportati dati attuali: in Italia si
raccolgono ogni anno circa
3.000 bambini abbandonati, 400
dei quali lasciati in ospedale; e le
autrici raccomandano maggiore
informazione sulla possibilità del
“parto in anonimato”, che può
compiersi in ospedale.
Tra le tante notizie di fatti
sconosciuti in materia, ne
riporto uno particolarmente
raccapricciante. Durante la
prima guerra mondiale, furono
sequestrate dai soldati 180
donne profughe. Portate in una
scuola e stuprate in massa, ne
nacquero 40 bambini, chiamati
poi “figli del nemico”. Per essi
fu creata una struttura apposita
a Portogruaro, chiamata
“Ospizio dei figli della guerra”.
Arricchiscono il libro
testimonianze di persone
cresciute negli orfanatrofi, una
antologia di testi di grandi autori
sui “bambini soli”, ed una serie
di fotografie antiche di persone
e di luoghi.
Un libro semplice e prezioso.
S.M.
Q
uesto libro può essere
letto da diverse
angolature. Prima di
tutto come la storia di un
capoccia della ‘ndrangheta,
emigrato dalla Calabria a
Milano, che fu capace di
muoversi in tutta Europa, che
importò e diffuse smisurate
quantità di droghe ed armi, e
finalmente fu arrestato e posto
in regime di 41bis. Questi, dopo
molti anni, commosso da una
lettera della figlia che si doleva
della propria condizione di
totale “orfanità” (padre e madre
in carcere), decise di collaborare
con la giustizia. Un’altra
angolatura riguarda l’attenzione
verso il linguaggio del mafioso,
sempre arrogante, cinico, e
compiaciuto di sé, che l’autrice
riporta senza propri commenti,
ascoltando l’uomo con rispetto,
ispirandosi all’esempio di
Giovanni Falcone. Terza
angolatura è l’illustrazione
della tecnica che il ricercatore
o giornalista, dovrebbe
adottare parlando con i pentiti.
Chi raccoglie le loro
testimonianze, raccomanda
Ombretta Ingrascì, studiosa
con una lunga esperienza sul
campo, non deve mai
dimenticare la sofferenza di chi
è permanentemente in bilico
tra due diverse identità, “in
una sorta di limbo esistenziale”
(p. 164).
Le fonti orali, in particolare
quelle delle donne, sono
fondamentali per la conoscenza
del fenomeno delle mafie,
perché “offrono un contributo
rispetto a quegli ambiti dove
l’accertamento giudiziario è più
difficile, oppure dove … si
manifestano comportamenti non
penalmente rilevanti…ma
…cruciali per la sopravvivenza
delle associazioni mafiose” (p.
167). A conclusione del libro,
un pensiero commosso alle
pentite della ‘ndrangheta che,
con grande coraggio e pagando
un prezzo feroce, hanno saputo
spezzare i legami con le loro
famiglie criminose.
S.M.
cr
ea
ti
vi
tà
Fotografia di Shobha, Una giovane mamma russa, 2013
DIECIRIGHE
Francesca Traìna
Non c’è rancore dentro la scialuppa. Calata lungo la corrente scivolerà sugli orli
dolci del mare. Avrà la dignità dell’esule e una tristezza chiara nello sguardo. Da
quando la luna s’è abbassata sulle case sono trascorsi anni. Sconveniente e inopportuna aveva illuminato gli angoli nascosti d’una domestica coscienza. Ne hanno
violato il cuore per ricacciarla negli anfratti della notte. Ora è ridiscesa a prua e
va per mare sospesa a questo cielo obliquo. Si ricorderà di questi anni, di chi l’ha
stemperata all’acqua falsandone i colori, di chi si è alleggerito al vento per conservarsi a lungo nella falsa convinzione d’aver perso ogni memoria. L’angustia è
luogo di miseria e di sopravvivenza, di chi sosta dentro sé e guarda il mondo
riflesso su uno schermo. Oggi è il mese che cantammo. Dicono sia tornata l’estate.
11
cr
t
ea
i
t
vi
à
A dicembre
Cinzia Collura
L
’avevano fatto tutti, non
l’avevo mai fatto
isoltanto io.
Il problema era che mi lasciava
e mi tornava a prendere mia
madre e questo rendeva tutto
più difficile.
Mi convinse Giulio: lo trovai
davanti alla porta dei bagni
maschili, si fece grande ai miei
occhi, mi disse “è stato facile,
addirittura ho coinvolto Piero
della prima C”, un qualcuno
cioè più piccolo di noi, anche
se solo di un anno.
Lo ammetto: mi sembrò
un’onta. Erano tutti dall’altro
lato della barricata incluso quel
fesso di Giulio. E poi io, da
solo, dalla parte opposta.
“Ci vediamo alle due” dissi a
mia madre scendendo dall’auto
e già avvertii qualcosa di
frizzante nell’aria.
E l’avrei fatto da solo, che
motivo c’era di coinvolgere
questo o quello?
Mi piazzai al centro della
scalinata, ben in vista per tutti
i compagni; i bidelli
cominciarono a invitare tutti
quanti a entrare, la campanella
suonò ripetutamente e io man
mano mi spostai in senso
opposto, allontanandomi
sempre più dal portone, sin
quando inesorabilmente si
chiuse e io solo rimasi fuori
dalla scuola.
Durò un attimo: ebbi un
ripensamento improvviso e
improvvisamente mi tremarono
le gambe.
Pensai d’essere stato un fesso,
mi domandai cosa avrei fatto
tutte quelle ore e mi
rimproverai d’avere
considerato importante un
qualcosa che non lo era affatto.
Dal lato opposto del cancello
intravidi il professore di
matematica, pensai che se ci
fossimo incrociati gli sguardi
sarei rimasto stecchito lì, sul
posto.
Invece m’ignorò del tutto,
proseguì svelto verso il portone
e quasi d’incanto il portone si
riaprì e inghiottì anche lui al
suo interno.
Mi accorsi in quel momento
che la giornata era magnifica, il
cielo altissimo e azzurro e il
sole guardingo già tra le fronde
degli alberi, sebbene fossero
appena le otto del mattino.
Tutto intorno si aprì il silenzio.
12
Era come se tutti i rumori, il
vociferare dei ragazzi, lo
stridere delle suole delle
scarpe, i movimenti dei
compagni di scuola fossero
stati risucchiati all’interno
dell’edificio al solo chiudersi
del portone.
Io, e un silenzio pregno di
aspettative tutt’intorno.
Guardai l’orologio al polso,
ancora mi domandai incredulo
cosa avrei fatto tutte quelle
ore, e anche se rimanere fuori
fosse stata davvero la mossa
giusta.
Scesi i gradini e piazzai lo
zaino con pochi libri sulle
spalle, mi tornarono in mente
le indicazioni dei miei
compagni: prima cosa biglietto
dell’autobus.
In un attimo mi accorsi di non
conoscere affatto le linee e gli
itinerari degli autobus della
mia città, ero solito andare con
mia madre e la sua auto un po’
dappertutto, qualche volta a
piedi sotto casa, senza
allontanarmi più di tanto.
Provai un attimo di
scoramento ma subito mi
tornarono in mente le visibilie
raccontatemi in corridoio dai
miei compagni di scuola:
Antonio era andato a zonzo
per le vie del centro e aveva
comprato ben due custodie per
il cellulare in una bancarella
proprio davanti alla libreria
Feltrinelli, Pierluigi aveva
giocato quattro ore di fila a
calcio balilla e persino
quell’idiota di Giulio si era
pavoneggiato per giorni interi
raccontando d’essere stato al
centro commerciale e d’avere
provato una quantità infinita di
pc e accessori della Apple.
Adesso, era chiaro, toccava a
me.
Passò giusto in quel momento
il 103, in un flash istantaneo
mi ricordai che portava sino al
centro e già mi vidi a zonzo
anch’io per via Ruggero
Settimo, sarei entrato alla
Mondadori, avrei ispezionato
tutto il piano dell’elettronica
senza fretta e senza mia sorella
alle calcagna, e salii in fretta
preso dall’entusiasmo senza
considerare altro.
L’autobus era semivuoto, tutti i
posti a sedere occupati, pochi
passeggeri in piedi, due ragazzi
vicino alla postazione
dell’autista ed io in fondo,
sulla pedana.
Non pensai neanche per un
attimo d’essere sprovvisto di
biglietto, mi lasciai cullare
dalla mia appena afferrata
libertà e guardai dai vetri la
mia città scorrermi dietro.
Riconobbi casa di mia nonna,
in via Libertà, e vidi la traversa
da cui mia madre prendeva
quando ci accompagnava in
auto alle elementari, me e mia
sorella Aurora.
Ma subito, quasi subito,
l’autobus cambiò direzione e
sebbene non conoscessi
perfettamente le strade mi
accorsi che l’itinerario non
sarebbe stato quello da me
immaginato.
Pensai allora di chiedere a una
delle tante signore sedute, ma
non ebbi la prontezza di farlo
e l’autobus procedette veloce
senza darmi il tempo di
concentrarmi e trovare una
soluzione immediata.
Rimasi con la faccia
appiccicata al vetro e provai a
riconoscere palazzi e negozi.
Mi confusi. L’entusiasmo si
trasformò in un nanosecondo
in ansia.
Non sapevo dov’ero e, cosa
peggiore, non sapevo dove
stessi andando.
Mi rimproverai, diventai
severo contro me stesso, mi
domandai perché mi fossi
spinto a fare un qualcosa per
cui non ero ancora pronto.
“Scendo alla prossima” mi
ripromisi. Avrei chiesto al
primo passante e mi sarei fatto
indicare la strada per tornare a
scuola. Il tragitto fatto
dall’autobus era già notevole,
ma ce l’avrei fatta a tornare in
tempo per il suono della
campanella di fine lezioni.
Ma in quel momento l’autobus
procedeva spedito e mi sembrò
di riconoscere “La Favorita”, il
parco cioè che portava
nell’arco di una decina di
chilometri a Mondello, la
località balneare più vicina e
più rinomata della mia città.
Mi venne voglia di urlare. Fu
come precipitare all’interno di
un vortice senza possibilità di
risalita.
E l’autobus scorreva via senza
pause, senza alcuna pietà nei
confronti delle mie ansie.
“Ce l’hai il biglietto?” Mi
chiese una signora vedendomi
atterrito ma non potendo
sapere il motivo della mia
ansia.
Non riuscii a rispondere, lei mi
porse un qualcosa che presi tra
le mani e mi regalò persino un
sorriso. Poteva essere mia
madre, ma io al biglietto
neanche ci pensavo, pensavo a
come avrei fatto a tornare
indietro, se sarei riuscito a
tornare in tempo a scuola.
L’autobus improvvisamente si
fermò e la signora gentile
scese.
Ancora una volta non ebbi il
tempo di organizzare i miei
pensieri e decidere magari di
scendere e continuare a farmi
aiutare da quella signora.
L’autobus riprese la sua corsa e
io continuai a guardare
scorrere dai vetri i chilometri
che mi allontanavano da tutto
quel poco che conoscevo della
mia città.
Non ci furono fermate per
almeno dieci minuti di
orologio, seguì una discesa a
rotta di collo e davanti tre
palme molto alte, l’autobus
finalmente frenò e quasi tutti i
passeggeri scesero. Scesi pure
io.
Camminai col gruppetto per
una decina di metri, poi
ognuno prese la propria
direzione e io mi ritrovai
davanti al mare. Il mare
d’inverno.
Fu un’immagine improvvisa,
inaspettata e abbagliante.
Uscito dall’autobus avevo
camminato a testa bassa
immerso nei miei pensieri e,
soprattutto, seguendo gli altri
passeggeri, come se lo stare in
gruppo avesse potuto esimermi
dallo sbagliare nuovamente
direzione. Ma ineluttabilmente
il gruppetto si diradò, la
signora che camminava a un
passo da me salì su
un’automobile, dove
evidentemente c’era qualcuno
che l’attendeva, una coppia di
innamorati che aveva fatto
tutto il percorso in autobus
sbaciucchiandosi e
abbracciandosi si diresse verso
destra e una signora con due
bambini tenuti entrambi per
mano si fermò davanti
all’edicola per scegliere
quotidiani e figurine.
La giornata era diventata
cr
ea
ti
vi
tà
Fotografia di Shobha, Meditazione in spiaggia, India, 2009
ventosa e nitida. Capii d’avere
di fronte il mare e procedetti
spedito. Non ero mai stato a
mare d’inverno, ed era il 4 di
Dicembre.
Di nuovo l’entusiasmo spiegò
le vele nel mio sangue, mi
accorsi di fare in fretta i passi
che mi separavano dal mare e
subito lo vidi: imponente,
luminoso, solitario come mai
mi era capitato di vedere.
Feci quell’ultimo tratto di
strada in preda all’euforia, di
nuovo avvertii un’ondata di
libertà, di nuovo la giornata mi
sembrò carica d’aspettative e
di sorprese.
Misi i piedi sulla sabbia e il
mare era maestoso e solo, lì
davanti a me.
Mi accorsi di non avere mai
pensato che il mare
continuasse ad esistere anche
d’inverno e vederlo così, quasi
fosse abbandonato a se stesso,
in una ventosa giornata di
dicembre, mi sembrò uno
spettacolo raro.
Mi ritrovai con le scarpe sulla
sabbia, metri e metri di
spiaggia alla mia sinistra e alla
mia destra, mare infinito
davanti. E basta, nessuna
sdraio, nessun ombrellone,
nessuna capanna. Nessun
bagnante. Nessuno.
Una folata di vento sollevò la
sabbia in superficie e dovetti
socchiudere gli occhi per
ripararmi, la sabbia mi arrivò
sul viso e sulle mani.
In un attimo mi dimenticai del
percorso sbagliato, della scuola,
di mia mamma e delle tre ore
rimanenti prima dello squillo
della campana di fine lezioni.
Mi sedetti sulla sabbia e mi
levai le scarpe, faceva freddo,
l’aria era impregnata di
salsedine densa e le onde si
alzavano sino a riva creando
un muro sottile d’acqua.
La sabbia sui piedi mi diede
un’emozione forte.
Il sole era sospeso pallido tra
due nuvole basse, molti detriti
giacevano inermi sulla battigia.
Cominciai a camminare
lasciando che l’acqua del mare
arrivasse sui miei piedi,
semplicemente, arrotolai i
jeans sino a sopra le caviglie.
Io e il mare, mai visto niente di
simile. E avvertii il cuore che mi
pompava nel petto come fosse
una di quelle onde lì, davanti a
me. Sentii il mio sangue
ingrossarsi e sbattere contro il
petto, come le onde sulla sabbia.
Mi domandai perché non mi
fosse mai capitato prima di
vedere il mare fuori stagione.
Chi avesse deciso per me che
avesse poca attrattiva.
Pensai all’ultimo bagno che
avevo fatto a settembre, con la
mia famiglia, gli amici, il
supersantos arancione.
Pensai alle risate, agli
inseguimenti sulla sabbia con
mia sorella, mi rividi in canotto
con le spalle ad ardere sotto il
sole cocente. Vidi mia madre
col barattolo di crema
protettiva in mano, rividi le sue
mani imbrattarci i visi di
crema, cospargerci le guance, e
poi la schiena. E noi
impazienti, pronti a riprendere
i giochi, a raggiungere gli amici
sulla battigia.
Un’onda improvvisa quasi mi
trascinò in acqua bagnandomi
non solo i piedi ma anche i
jeans sino alle ginocchia.
Non sentii freddo, mi levai i
jeans e provai a strizzare il
tessuto bagnato stringendo
forte con le mani.
Le onde in quel momento
scorrevano senza ordine su
tutto il golfo.
L’orizzonte era un susseguirsi
di punte aguzze grigio
argentato e la luce del sole
pallido s’insinuava sull’acqua
creando bagliori improvvisi e
imprevedibili.
Feci diverse foto con il
cellulare. Le guardai non
soddisfatto. La luce era forte e
impalpabile dal vivo, priva di
vita, grigia, sulla foto.
Percorsi la baia in lungo e in
largo, le mie orme facevano
appena in tempo a imprimersi
sulla battigia che subito
un’onda le cancellava senza
lasciare la pur minima traccia
del mio passaggio.
Pensai a dove fossero tutte le
persone che nei mesi estivi
affollavano la spiaggia. Pensai
come mai non fossero qui, a
godere con me di tutto questo.
Guardai il sole salire un po’
più in alto nel cielo, e staccarsi
sempre più dal mare.
Pensai d’essere felice. In un
modo nuovo, senza amici,
senza pallone, senza giochi.
Scattai una foto stupenda: mi
misi di spalle al mare, allungai
il braccio destro, pigiai a mo’
di autoscatto.
Alle quattordici e quaranta
arrivai trafelato davanti scuola.
Non c’era più nessuno, solo
l’auto di mia madre. E la moto
di mio padre, posteggiata di
fianco.
Fui punito e rimproverato a
dovere, i miei genitori mi
sequestrarono il computer e il
cellulare per tutto il giorno.
Mi addormentai e tra le
lenzuola avvertii un po’ di
sabbia rilasciata dai miei
capelli e dai miei piedi.
Tornai a scuola l’indomani
mattina e i miei compagni mi
chiesero dov’ero stato, perché
avessi fatto così tardi e
perché fossi stato così
stupido da farmi scoprire sia
dai miei genitori che dai
professori.
Non dissi niente. Né a loro, né
ai miei genitori, né ai
professori. Quello che avevo
era mio e indivisibile.
A ricreazione andai in bagno e
guardai le mie foto, una su
tutte: gli occhi socchiusi e i
capelli sul viso per il forte
vento e, sullo sfondo, il mare
argentato. A Dicembre.
13
cr
t
ea
i
t
vi
à
Il mio è il lavoro più creativo del mondo
Intervista a Daniela Cota, Direttore Associato Neuro Centre Magendie Università di Bordeaux
Silvana Fernandez
D
r. Daniela Cota,
Responsabile del
laboratorio “Bilancia
energetica ed Obesità” Direttore
Associato Neuro Centre
Magendie INSERM U862,
Università di Bordeaux
Vuoi dirci in poche parole la
tua biografia soprattutto
lavorativa?
Sono pugliese ed ho studiato
medicina all’Università di
Bologna, dove mi sono
laureata con pieni voti nel
1999. Durante la specialità in
Endocrinologia ho avuto
l’occasione di andare in
Germania, all’Istituto MaxPlanck di Psichiatria, dal
2001 al 2003 per l’esattezza,
dove ho cominciato a fare
della ricerca di base
utilizzando dei modelli
murini. È a Monaco che ho
cominciato a studiare il ruolo
dei circuiti nervosi
dell’ipotalamo nel controllo
alimentare e nell’obesità.
Dopo questa esperienza, e
innamoratami del mio lavoro,
ho deciso di proseguire la
mia formazione di ricercatrice
con una borsa di studio
all’istituto di malattie
metaboliche dell’università di
Cincinnati (Usa), dove ho
lavorato dal 2004 al 2007
costruendomi un Cv
professionale che mi ha
permesso di accedere per
concorso ad un posto
permanente di ricercatore
presso l’Inserm (l’Istituto di
ricerca medica Francese) a
Bordeaux, dove sono stata in
grado, grazie ad un
programma di ricerca
Francese volto a permettere a
giovani ricercatori
estremamente promettenti di
divenire completamente
indipendenti, di creare il mio
laboratorio di ricerca. Sono
cinque anni che sono
responsabile del mio
laboratorio. Il mio lavoro é
cambiato molto nel corso del
tempo e ora assomiglia molto
a quello di un manager di una
piccola impresa.
Germania America Francia
dove ti sei trovata meglio e
dove pensi che chi intraprende
14
la carriera scientifica possa
lavorare meglio?
Mi sono trovata bene in tutti
e tre i Paesi, dove ho
lavorato finora. Ho
conosciuto persone che
hanno creduto in me. La
Germania è molto
organizzata dal punto di vista
amministrativo e vi è una
certa rigidità che appartiene
al sistema, ma che ne
garantisce anche il perfetto
funzionamento. La Francia
ha un’amministrazione
enormemente complessa, ed
essendo i ricercatori
(dipendenti dell’Inserm, Cnrs
o altro Istituto di ricerca
Francese) dei funzionari
pubblici, essi sono tenuti a
rispettare molteplici regole,
anche nel caso in cui si
debbano spendere somme
minime nel contesto
dell’attività di laboratorio.
Infine negli Stati Uniti si
possono ottenere dei
supporti di tipo economico
estremamente importanti e
uno stipendio molto più
attraente di quello che si può
ottenere in Francia, ma non
c’è la stessa possibilità, di
ottenere un posto
permanente come verrebbe
inteso da noi, con uno
stipendio garantito nel corso
degli anni di provenienza
dell’Università o dello Stato.
In effetti, uno degli aspetti
della ricerca Francese che ho
trovato interessante è stata la
possibilità di ottenere un
posto permanente a 32 anni e
che mi ha in seguito
permesso di fare un planning
più a lungo termine sia per la
mia carriera che per la mia
vita personale.
S. Tutto quello che hai fatto
all’estero l’avresti potuto fare
anche in Italia?
Non credo che sarei riuscita
a farlo in Italia! Soprattutto
non avrei raggiunto gli
obiettivi che ho raggiunto
(stabilità ed indipendenza
professionale) entro lo stesso
periodo. Questo pensa sia in
parte dovuto al fatto che in
Italia sia molto complicato
ottenere dei posti permanenti
nell’ambito della ricerca si
dovrebbe prendere ad
esempio la Francia su questo
punto e dall’altro, bisogna
anche riconoscere che c’é
una rigidità gerarchica in
Italia, particolarmente
nell’università, che non
permetterebbe di creare o di
dare rapidamente dello
spazio a dei giovani di
talento così come invece
succede all’estero.
D’altronde, devo sottolineare
il fatto che fu il mio
professore di tesi a propormi
di andare all’estero. Io non
cercai l’occasione, fu
l’occasione a venire da me.
Da questa prime risposte due
sono le mie curiosità, una
riguarda proprio il tuo lavoro
di ricerca. L’obesità dunque
non è solo un disturbo
alimentare ma soprattutto
neurologico?
Beh, direi di sì, visto che ci
sono circuiti nervosi preposti
proprio al controllo del
comportamento alimentare e
che funzionano un po’ da
“chef d’orchestra” per il
controllo della bilancia
energetica dell’organismo.
Questi circuiti, in effetti, sono
in grado di integrare le
diverse informazioni, di
influenzare sia il metabolismo
sia il comportamento
alimentare (dagli stimoli
esterni, provenienti
dall’ambiente, a quelli interni,
come i livelli circolanti di
ormoni conosciuti regolare
l’appetito o dei nutrienti
stessi) e a loro volta
controllano il comportamento
alimentare e il metabolismo,
dall’assorbimento allo
stoccaggio di calorie sotto
forma di grasso, fino alla loro
utilizzazione quando
l’organismo ne ha bisogno.
La seconda domanda è questa,
ma tu non senti nostalgia per
L’Italia, non senti né un po’ di
rancore né un po’ di
malinconia per la tua terra,
dove è sempre stato quasi
impossibile trovare lavoro nel
campo scientifico?
Sento nostalgia, ma non
rancore per l’Italia. Se avessi
una possibilità concreta di
rientrare in Italia, che mi
permettesse di lavorare così
come faccio dal mio ufficio di
Bordeaux, la prenderei
seriamente considerazione.
Anche perché penso sia giusto
che in qualche modo quello
che faccio ritorni al mio Paese,
perché è anche grazie al
percorso educativo e
universitario che ho
completato in Italia che sono
quello che sono,
professionalmente parlando. Il
problema è che bisogna in
qualche modo svecchiare il
nostro sistema e permettere
alla ricerca di avere il posto
che merita nell’economia
Italiana. Ricerca significa
investire ed investire significa
che molto spesso i risultati di
tali investimenti ci saranno, si,
tra 5, 10, 15 anni ma faranno
avanzare di molto l’economia
dell’Italia. Pare che tale
concetto chiaro per altri Paesi
sia di difficile applicazione in
Italia.
Ultima domanda, mi riferisco
ad una frase in cui tu mi hai
detto giorni fa “il mio lavoro è
il più creativo del mondo”,
non avevo mai pensato il
ricercatore, lo scienziato come
un creativo
Fare il ricercatore significa
generare un’ipotesi e
verificarne la veridicità. Nel
campo medico, e dello studio
della fisiologia o
fisiopatologia in particolare,
non siamo inventori, ma
scopritori. E cosa c’è di più
eccitante di scoprire qualcosa
di nuovo che nessun altro al
mondo ha scoperto prima di
te e che quindi, in quanto
tale, non esisteva? Il
ricercatore crea conoscenza e
davvero penso che sia un
lavoro estremamente creativo,
poiché caratterizzato da una
grande libertà di pensiero.
Senza tale libertà, verrebbe a
mancare quella capacità di
osservare i fenomeni con
occhi diversi, di uscire fuori
dagli schemi e quindi di
conseguenza la possibilità
stessa di scoprire cose nuove.
Essere uno scienziato significa
essere un po’ come un’artista,
ma dotato di senso di logica,
d’analisi e di sintesi stringenti.
cr
ea
ti
Essere è tessere: in ricordo di Maria Lai
vi
tà
Uno sguardo incantato sulle forme e i materiali della vita quotidiana delle donne
Mariella Pasinati
I
l 16 Aprile scorso ci ha
lasciato, a 93 anni, l’artista
sarda Maria Lai, una delle
grandi madri dell’arte italiana.
Con la sua pratica artistica e di
grande valenza politicoculturale, ci ha insegnato ad
avere fiducia nella possibilità
che l’arte possa trovare spazio
nella vita: con l’educazione allo
sguardo, fin dai primi anni di
scuola, ma anche comunicando
con chi, da adulta/o, sa
rispondere al dialogo che l’arte
“scatena”.
Reinventare storie e giochi,
raccontare fiabe trovando
nuove, originali forme
attraverso cui far rivivere
leggende antiche, rituali magici
e sacri è stata la pratica che
Maria Lai ha scelto per
avvicinarci ad un’arte di cui c’è
bisogno ma che spesso
disorienta.
Aveva a cuore un’idea di arte
come pratica viva che non
parla solo a pochi privilegiati,
ma che è in grado di “aprire e
dilatare la coscienza”, di tornare
ad esprimere il senso sociale
della comunicazione, della
relazione. Già nel 1981 aveva
realizzato nel suo paese natale
Ulassai, il primo intervento
ambientale che coinvolse in
una grande performance
fortemente simbolica, Legarsi
ad una montagna, l’intera
comunità locale, chiamata a
superare diffidenze e inimicizie
legandosi, casa a casa, con un
nastro azzurro di ventisei km
per poi unirsi alle pareti del
monte che sovrasta il paese.
Sempre più rilevanti sono
divenute, da allora, le relazioni
creative con persone e luoghi e
la sua arte ha segnato con forza
lo spazio pubblico,
coinvolgendo nella pratica
creativa la collettività. Nel
prevederne la partecipazione,
Maria Lai ha inventato “altri e
vitali spazi” rendendo l’opera
luogo dello scambio, strumento
di mediazione culturale (e
politico, se la politica è lo
spazio della relazione) che il
gesto creativo di un’artista che
non dimentica il contesto attiva.
Il contesto da cui Maria Lai
non si è mai separata è la sua
terra, l’esperienza femminile, la
corporeità. Pur nella grande
diversità materiale e formale
che ha caratterizzato i suoi
Fotografia di Shobha, Funerali Agnese Borsellino
lavori in più di sessant’anni,
l’artista ha sempre operato
manipolando procedimenti,
forme e materiali – fisici ma
anche simbolici – di precisa
matrice femminile e
appartenenti alla dimensione
del vivere.
Appartengono agli anni ’60,
quando il suo linguaggio si
apre alla sperimentazione, i
Telai che Maria, rileggendo
l’antica pratica della tessitura,
rende simbolo della sapienza e
dell’operatività femminili,
oltre che metafora dell’arte.
Lo racconta in uno dei suoi
libri d’artista, Il dio distratto
del 1983, in cui mostra il senso
di chi sa e non cancella la
differenza di essere
donna/uomo: il telaio è il
dono fatto dalle api-fate alle
donne, la scrittura si formerà
in seguito, con la capacità
degli uomini di passare dal filo
alla pietra, traducendo
nell’alfabeto il disegno dei
tessuti femminili. La creatività
appartiene dunque alla
dimensione del femminile,
rivela Maria Lai. Insieme ai
telai ecco, ancora, i fili che
diventeranno cifra specifica
del suo operare: fili di lana, di
cotone, ma anche di metallo,
in grovigli non districabili, fili
che legano e fili con cui tenere
per mano il sole e l’ombra. A
volte sono fili che segnano
stoffe cucite, come nelle
straordinarie Geografie degli
anni ’80, visioni fantastiche di
mondi, universi e costellazioni,
luoghi mentali altamente
evocativi. Altre volte, invece, i
fili scrivono pagine di stoffa o
carta in libri-oggetto, veri e
propri “texta”, tessuti di mano
femminile. Non solo di stoffa,
ma altresì di ceramica dipinta,
di jeans, di terracotta, i librioggetto sono prodotti
intensamente tattili, costruiti
con materiali sempre
“domestici” lavorati con
assoluta libertà. La materia e il
segno intrecciano così trame di
un tessuto/racconto che ha il
respiro della fiaba, di
narrazioni antiche sintetizzate
dalla memoria individuale
dell’artista, uno dei modi con i
quali ritorna alla sua terra, la
Sardegna. E un’atmosfera da
favola, un approccio incantato,
sospeso tra senso del mistero e
memoria di un rito infantile
segnano anche i Presepi,
realizzati nel corso del tempo
con tecniche e materiali
diversi – terracotta, legno,
carta, pietra, sabbia, stoffa,
pane –. Maria Lai li interpreta
con grande libertà formale,
accenti lievi e delicati. Ancora
legato all’esperienza di antica
operosità femminile è, infine,
il tema dei Pani, variamente
indagato nel corso degli anni e
“protagonista” di Invito a
tavola, del 2004,
un’installazione imponente,
ancora una metafora dell’arte
così come della socialità e
della civiltà dell’accoglienza.
Su una lunga tavola imbandita
con pani di terracotta disposti
su piatti che sono libri, la
scultura diventa lievito e
nutrimento per la mente. E
l’arte torna a connettersi con
la vita.
15
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Ipazia e la guerra dei sessi
Dora Russell: per un mondo fatto di uomini e donne alla ricerca della felicità
Francesca Saieva
P
iù nota come Mrs
Bertrand Russell,
l’attivista Dora Russell
occupa parte dello scenario
politico-sociale inglese del XX
secolo. Dalla Grande Guerra alla
Guerra Fredda, il suo impegno
si manifesta costante attraverso
ideali pacifisti e femministi,
supportato da politiche socialiste
ed ecologiste. L’anticonformismo
le appartiene, così pure uno
spiccato senso di maternità e di
fiducia nel progetto educativo,
quale espressione di democrazia,
libertà e amore per ogni
relazione umana; progetto che
attuerà come esperimento
formativo alla Beacon Hill
School, di cui sarà alla direzione
dal 1927 al 1943.
Donna dinamica, viaggia per
l’Europa, avvicinandosi alla
realtà dell’Unione Sovietica,
paragonandone il modello
economico a quello occidentale.
Affianca, condividendone gli
interessi, il filosofo Bertrand
Russell fino al 1935, anno della
rottura del loro matrimonio.
I conflitti interiori e i dissapori
familiari non frenano la sua
curiosità, la sua estenuante
ricerca filosofico-sociale della
felicità. Un impegno coerente e
assiduo che la fa aderire nel ’32
all’Independent Labour Party;
nel ’34 al National Council for
Civil Liberties e nel ’36
all’Abortion Law Reform
Association. Nel 1958 guida la
Women’s Caravan of Peace per
un messaggio pacifista nei
tempi bui della Guerra Fredda.
Sono gli anni della piena
maturità e della vecchiaia che la
vedono impegnata a narrare la
sua storia, il suo amore per la
vita, il suo ‘credo per la libertà’.
Una biografia (in tre volumi),
un testamento per “tutti coloro,
uomini e donne di entrambi i
lati della Cortina di Ferro, con
le cui vite, lavoro e fede la mia
vita” scrive la Russell nel 1985
“è stata aggrovigliata per anni
nel tentativo di sostenere la
comprensione e la pace tra
popoli e nazioni”.
Dora Russell muore nel 1986 a
92 anni.
A distanza di ben 87 anni dalla
sua pubblicazione in lingua
originale, Hypatia or Woman
and Knowledge appare per la
prima volta al pubblico italiano
con un saggio introduttivo e
16
postfazione di Marina Calloni
(Dora Russell, Ipazia e la guerra
dei sessi, La Tartaruga, 2012).
Il tono provocatorio della
Russell pervade Ipazia e la guerra
dei sessi, opera di senso sociale e
pedagogico sulla “qualità delle
relazioni di genere”. Ma è la
società postcapitalistica a fare
capolino tra le righe, nella
consapevolezza della Russell di
un’umanità impantanata nella
palude dell’era post-industriale.
Quali le conseguenze del
capitalismo? E che cosa non ha
funzionato nelle politiche
femministe? Le domande
persistono e la questione
uomo/donna rimane aperta,
insoluta nello scontro titanico
di tutti i Giasoni e le Medee,
nel corpo virile di Artemide,
nella ‘cortigiana’ Aspasia e
nella madre Ecuba. Tracce di
un mondo femminile alla
ricerca sofferta di affermazione
e di auto-riconoscimento.
Accese e appassionate
appaiono le sue argomentazioni
contro la tradizione patriarcale
e ogni forma di puritanesimo.
“Uomini o donne, siamo
innanzitutto esseri umani. C’è
molto lavoro da fare – sostiene
la Russell – nella società, e
possiamo farlo con uguale
abilità, se a ciascuno vengono
date uguali opportunità e
istruzione”.
La Russell ha la vocazione della
polemista e l’importanza del
lavoro per la donna, la
liberazione sessuale, la
contraccezione, una maternità
desiderata, che sia espressione
di libertà e soprattutto atto
d’amore, sono i temi su cui la
esercita. Il senso civico, il
rispetto tra i popoli, l’impegno
dell’individuo nella comunità
(presupposti per un’auspicabile
forma di ‘felicità’) hanno inizio
per lei dal riconoscimento della
specificità di genere. “La felicità
umana, il perseguimento della
conoscenza, l’espressione delle
emozioni nell’arte devono
essere gli obiettivi della civiltà e
lo scopo per i politici”( The
Right to Be Happy, 1927).
Ipazia, scienziata vittima di un
efferato assassinio, consumato
nel IV secolo da una folla di
cristiani, è emblema della
repressione del libero pensiero
e dal suo e dai molti altri
‘femminicidi’ della storia
prende spunto la Russell “per
superare i limiti del patriarcato
repressivo/violento e il
femminismo neutralizzante
separatista” (Calloni),
sostenendo che solo nel
rispetto della specificità di
genere può annullarsi qualsiasi
‘antagonismo’ e ‘lotta titanica’.
Per Dora Russell “non c’è
niente nella vita che possa
paragonarsi a questo unirsi di
menti e corpi di uomini e
donne che hanno lasciato da
parte ostilità e paura e che
cercano nell’amore la più piena
comprensione di se stessi e
dell’universo”. La guerra dei
sessi non ha mai vincitori ma
solo vittime. Falliti tentativi di
emulazione del maschio
annientano l’essere donna e la
ricchezza che comporta.
“Dora – scrive la Calloni – è
per un’uguaglianza complessa
fra uomini e donne, nella piena
accettazione delle diversità.
Anche in ciò consta la sua
attualità”, la modernità del suo
pensiero, che raccoglie l’eredità
del femminismo, depurandolo
da falsi idoli nel tentativo di
un’apertura futuribile, per un
mondo fatto di uomini e donne
alla ricerca della felicità.
Probabilmente Antigone ci deve ancora qualcosa
E
non sarebbe male
orientarci una volta per
tutte, giusto che come
esempio di indomita
contrapposizione al potere e
alle sue regole prive di umana
pietà, si propone fiera dinnanzi
allo spettatore di ogni tempo
mirando dritto alle corde del
suo cuore e del suo pensiero.
Anche quest’anno a Siracusa,
pallida e minuta nella sua veste
nera, la figlia dell’infelice Edipo,
pronta a morire, rivendicando
degna sepoltura ad uno dei suoi
fratelli eppure ribelle alla dura
sorte che si è accanitamente
cercata (Antigone è Ilenia
Maccarrone diretta da Cristina
Pezzoli – due donne insieme nel
bel mezzo del cerchio sofocleo),
rimette in moto, non il
meccanismo bene-male, non
quello della vittima e del
carnefice e neppure lo zoccolo
duro di una legge che li travolge
entrambi senza trionfo alcuno
Egle Palazzolo
di un’autentica “giustizia” bensì
la crudeltà di un confronto
impossibile.
Con una recitazione mai
enfatica giocata sul registro di
tonalità più o meno accese con
l’unica concessione di un finale
assai emblematico del
seppellimento in scena da viva e
cosciente, con una regia attenta,
talora un tantino sbrigativa che
accorpava quasi in un’unica
morte la morte di ognuno,
Antigone ci è parsa fuor da
eroismi o da femminismi antelitteram un personaggio capace
di rendere con coraggio e
determinazione la sua scelta. Al
contrario di Creonte (un
Donadoni credibile in ogni suo
passaggio tra forza e timore) che
non potrà contare sino in fondo
sul suo potere, che sentirà sulla
pelle i dubbi del suo operato,
che sarà costretto a piangere i
suoi morti inutilmente sacrificati
all’azione di governo. In questo
senso e in altre puntuali
focalizzazioni, splendida la
lezione di Zagrebelsky e il suo
richiamo alla tesi di Martha
Nusbaum la cui filosofia nega la
ragione o il torto di entrambi e
parla di due opposti fanatismi e
di un dialogo negato.
E si fa spazio Ismene che cerca,
e qui la pietas è più chiara, la
strada del compromesso come
ancor più, ci va di aggiungere,
lo è quella di Emone che scorge
con chiarezza e inutilmente ciò
che il re suo padre potrebbe
ancora stabilire, forse rendendo
Tebe più forte e feconda.
E dunque alle parole
inascoltate o taciute, alle intese
non raggiunte o non vere
risponde la storia dei popoli
che inneggiano al tiranno o lo
uccidono. E il percorso si
consuma senza compiersi e
tuttora non può che trovare
comunque il suo innegabile
posto la giovane Antigone.
Fotografia di Letizia Battaglia, Palermo 2013
L’amore è un castigo.
Veniamo puniti
per non essere riusciti
a rimanere soli.
Marguerite Yourcenar
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“Le donne siciliane non sono felici”
Un convegno a Palermo per ricordare Giuliana Saladino
Beatrice Agnello
I
l 6 e 7 maggio si è parlato di
Giuliana – indimenticabile
giornalista del quotidiano
L’Ora, scrittrice e collaboratrice
di Mezzocielo fin dal primo
numero – all’Istituto Gramsci,
organizzatore con Mezzocielo di
un convegno affollato di
studenti che hanno attivamente
partecipato studiando libri e
articoli e riferendone.
Il dibattito si è articolato
intorno alle relazioni di Antonio
Calabrò, Simona Mafai, Piero
Violante e alla mia, che riferiva
di un tema centrale nella
riflessione di Giuliana: la
condizione femminile. Se c’è un
filo che la attraversa ininterrotto
è quello dell’inquietudine e
della difficoltà di vivere, pur
nella grande evoluzione del
costume e con le conquiste di
libertà avvenute dalla seconda
metà degli anni ’60.
In Romanzo civile, Giuliana
ricorda che fra la fine degli anni
Quaranta e i primi Cinquanta,
le contadine dell’agrigentino,
che diedero vita a un
movimento combattivo,
scomparivano in breve tempo
dalle sezioni del Pci perché
l’esperienza di lotta le portava a
mettere in discussione tutta la
loro vita, per prima quella
familiare. Così spesso si
separavano dal marito, venivano
messe al bando dal paese e dal
partito stesso e finivano a fare le
puttane in città.
Ma anche negli anni Sessanta e
Settanta diverse grandi
inchieste, fatte per L’Ora,
testimoniano di un’infelicità
estesa a tutti i gradini della scala
sociale.
Una del ’68, fatta di interviste a
ragazze e donne borghesi
palermitane, ci lascia stupiti:
sembra di essere in un paese
islamico segnato
dall’oppressione femminile e
non nell’Europa della
minigonna e del Maggio
francese. Genitori e mariti
diffidenti se figlie e mogli si
appassionano allo studio e al
lavoro (“vogliono che penso a
sistemarmi, a fare figli e basta”);
l’amore coniugale un disastro
(“per il novanta per cento degli
uomini la moglie non esiste
come essere umano. Non esiste
che le si parli, non esiste che la
si ascolti…Tutto il giorno il più
assoluto disinteresse, due
18
estranei, la sera poi, come
se niente fosse, il più
sbrigativo rapporto
sessuale… Si usa la moglie
come una prostituta e ogni
donna, dopo un rapporto
così, si sente una puttana”);
una relazione
extraconiugale è un
azzardo pagato a caro
prezzo (“un rapporto su
cui grava la paura”, “Il
marito può sempre fare
scattare una foto, farti
condannare, toglierti i
figli”, “La legge italiana è
spietata”).
Già, la legge. È solo fra il
’68 e il ’69 che viene dichiarato
incostituzionale l’articolo che
prevede la punizione
dell’adulterio della moglie ma
non quello del marito. Sarà solo
nel ’75 che la riforma del diritto
di famiglia riconoscerà la parità
giuridica dei coniugi e sostituirà
la patria potestà con quella di
entrambi i genitori, in
particolare nella tutela dei figli.
È negli anni ’70 che si fanno i
salti più grandi nel
riconoscimento di diritti di
libertà importanti per le donne:
è del ’74 il referendum sul
divorzio, del ’78 la legge che
consente l’aborto. Ma bisognerà
aspettare il 1981 per vedere
abrogate le sostanziose
attenuanti riconosciute dalla
legge italiana per il delitto
d’onore.
Gli uomini siciliani, peraltro,
non onorano affatto la loro
fama di latin lover, non valgono
granché neppure a letto, “Sono
ossessionati dal sesso, ce l’hanno
in testa come una cosa turpe,
come una cosa sporca e tale
continuano a considerarla
sempre. È difficile che abbiano
un rapporto normale con una
donna, eppure non pensano ad
altro”. E fra i ragazzi che nel ’68
hanno vent’anni, le femmine
sono molto più aperte a vivere il
sesso e l’amore senza ipocrisie e
a liberarsi da vecchi tabù di
quanto non siano i loro coetanei
maschi, che spesso continuano a
considerare “poco seria” una
ragazza che perde la verginità,
anche se è a loro stessi che l’ha
sacrificata. L’ininterrotto filo
dell’infelicità femminile
s’intreccia con quello della
violenza. Nel 1980 Giuliana
raccoglie le notizie sulle donne
Fotografia di Letizia Battaglia, Palermo, 2011
apparse nei quotidiani dell’isola
nella prima metà dell’anno e
osserva che “274 su 284 vanno
sotto il segno della violenza
civile sociale pubblica familiare
e coniugale”, “violenze di ogni
genere sulle donne, dallo stupro
alle coltellate, dalle fucilate al
sequestro, dalle bastonate alle
sevizie, violenze di ogni genere
esercitate dalle donne su chi gli
sta più vicino, quindi il marito e
i figli, violenza delle donne su di
sé”. “La famiglia, ‘cellula prima
della società’, rifugio, santuario,
fortezza, unione, risulta la sede
delle peggiori sopraffazioni
dell’uomo sulla donna e della
donna sull’uomo.
La coppia, nodo d’amore,
attrazione, intesa e solidarietà
risulta l’unione di due poli in
perenne esplosivo
cortocircuito”. Però, fra le
stazioni della via crucis
attraverso cui siamo condotti
nelle inchieste, si dipana anche
un altro filo: quello di
un’apertura, di una
consapevolezza, di un
desiderio di lottare contro
l’ipocrisia e i ceppi che
bloccano la società, sicilianae
non solo, assai più forti e
diffuse nelle giovani donne
rispetto alla maggior parte
degli uomini. E questo è forse il
motivo principale per cui
Giuliana ha esplorato con tanto
interesse l’universo femminile:
era convinta di un suo valore
aggiunto maturato nella
compressione delle energie, di
un ribollire magmatico sotto la
crosta di un assetto sociale
costituito in modo da tenere le
donne a bada.
Non si può etichettarla come
femminista, visto che era molto
critica rispetto a manifestazioni
esagitate, astrattezze teoriche e
tendenze alla lamentela, alla
“cultura del piagnisteo”, da cui
certo il movimento delle donne
non è stato alieno, ma Giuliana
condivideva in pieno con le
femministe la contrapposizione
alla cultura patriarcale.
Era però estranea a qualsiasi
forma di unilateralità e di
fanatismo e vedeva anche bene
come il maschilismo patriarcale
prevedesse una complicità
femminile nel mantenere
inalterato il vecchio assetto
familistico e nel perpetuare il
soffocamento delle generazioni
più giovani e di qualsiasi
deviazione dalla norma.
Non era una predicatrice e
non perdeva mai l’aderenza
delle parole a quello che la
sua sensibilità registrava, per
questo e per quella scafata
ironia che le era connaturata
non si riuscirebbe a trovare un
solo suo scritto che scada
nella retorica. Eppure la sua
era una lotta quotidiana
contro la volgarità, la
grettezza, la sopraffazione,
l’arroganza, l’ingiustizia.
Giuliana aveva fiducia nelle
parole, nella capacità delle
parole di agire e di
trasformare, ma aveva – come
chi non si contenta di idee
ricevute e certezze arroganti –
più domande che risposte, per
questo fare la giornalista e la
scrittrice era proprio la sua.
Più domande che risposte, ma
le domande le sapeva
impostare molto bene.
su
cc
ed
Ridere e piangere
e
a cura di Simona Mafai
Da Genova alla Siria, da
Gesù Cristo ad Allah
Notizia su cui si potrebbe
ironizzare, se non fosse tragica.
Un ragazzo genovese (26 anni)
si converte all’islamismo,
frequenta gli uomini di Al
Qaeda, e va in Siria a
combattere con i “ribelli” anti
Assad. Avido di avventure ed
eroismi a buon mercato, viene
ucciso, a migliaia di chilometri
da casa. Pare che assieme a lui
vi siano un centinaio di italiani.
Perché sono lì, e per che cosa
combattono? Delle tante
osservazioni che si potrebbero
fare in proposito, ne scelgo
una sola. Si costituì tempo fa
in Francia un’associazione
“Amici della Siria”, che
chiedeva ai governi occidentali
di inviare armi a favore dei
“ribelli”, in nome della libertà,
della democrazia e dei diritti
umani. I fondatori
dell’Associazione, tra cui molti
intellettuali validissimi,
ripenseranno a ciò che hanno
chiesto? Spesso persone
entusiaste, con poca
conoscenza della realtà e
basandosi su informazioni
superficiali e non sempre
disinteressate, si entusiasmano
per chiunque prenda in mano
un’arma, ed individuano
combattenti per la libertà
anche dove, forse, vi sono solo
faide opache.
Ottimo esito la doppia
preferenza
Nelle ultime elezioni
amministrative è stata applicata
quasi ovunque la doppia
preferenza di genere, con
risultati più che lusinghieri. Le
donne candidate in moltissimi
comuni sono risultate in testa
per numero di referenze. A
Roma gli eletti con più
preferenze sono state due
donne: Sveva Belviso, del Pdl
(11.000 voti), e Estella Marino,
del Pd (9.200 voti). Così anche
a Vicenza, Treviso, Avellino. Il
neo eletto sindaco di Roma,
Ignazio Marino, formerà una
giunta con il 50% di donne.
Lo ha preceduto l’anno scorso,
applicando la stessa
percentuale, il Presidente della
Regione siciliana, Rosario
Crocetta. Vi sono battaglie
politiche che si conducono a
fatica, pare con risultati
minimi. Poi, come se la
maturazione fosse proceduta
sotto traccia, all’improvviso i
risultati esplodono. La
situazione attuale è
imparagonabile rispetto a
quella di venti anni fa. La
presenza femminile nelle
istituzioni cresce
ininterrottamente; l’opinione
pubblica l’accetta e la sostiene.
Vedremo cosa porterà di
nuovo e di buono, sia
rendendo meno criptico e più
umano il clima della politica,
sia accelerando le tante attese
riforme.
Furti ai vertici dello Stato
Casi di ruberie e corruzione in
Italia sono all’ordine del giorno,
e non vale la pena di elencarli.
Ma gli scandali esplosi ai vertici
dello Stato (al Ministero degli
interni ed al Provveditorato
delle Opere pubbliche)
meritano una particolare
sottolineatura. Tale Franco La
Motta, già docente di diritto
penale all’Università di Napoli,
già prefetto, già numero 2 del
Servizio segreto civile (Aisi), ecc.
ecc., negli ultimi anni direttore
centrale per l’amministrazione
del Fec (Fondo per gli edifici di
culto), è stato arrestato (a metà
giugno) e messo in carcere per
l’ammanco di dieci milioni di €
(fate il conto in Lire!) spariti
dalle casse del Viminale,
attraverso illegali trasferimenti in
banche straniere. Con la
presunta complicità di uomini
della camorra. Negli stessi giorni
è stato posto sotto sequestro, in
due riprese, un immenso
patrimonio di Angelo Balducci,
altissimo funzionario dello Stato,
presidente del Consiglio
superiore dei Lavori Pubblici,
rinviato a giudizio alcuni mesi fa
assieme al costruttore Anemone
ed al più noto Bertolaso
(inchiesta Grandi Eventi). Il
patrimonio sequestrato,
immobiliare e finanziario (tra
l’altro una villa con piscina
sull’Appia antica, una casa di
campagna nelle Marche,
automobili, quote societarie,
ecc.), è stato valutato oltre
tredici milioni di €. È stata
applicata, nei suoi confronti, una
recente norma di legge che
prevede il sequestro “dei
patrimoni accumulati
sistematicamente in modo
illegale”, equiparandoli ai
patrimoni mafiosi.
Chernobyl: dalla tragedia
atomica a un’oasi naturale
La zona più inquinata del
mondo (l’area attorno a
Chernobyl, ove esplose nel
1986 una grande centrale
nucleare) sta per diventare un
parco naturale protetto, grazie
all’impegno congiunto di due
governi della ex-Unione
sovietica. Nel corso degli anni
successivi al disastro
sorprendentemente, proprio
nella “zona proibita” vietata
agli uomini, hanno ritrovato
vita piante ed animali
ricresciuti con vigore.
Dell’interessante progetto ha
parlato il ministro
dell’ambiente ucraino, Oleg
Proskuryakov.
Dalla guerra con le armi
alla guerra con il web?
In fondo non sarebbe una
cattiva cosa. Sta di fatto che
l’incontro tra Barack Obama e
Xi Jinping, nuovissimo
presidente della Cina, sembra
aver avuto come tema centrale
la definizione di regole sul
cyber spazio, che oggi può
essere considerato un teatro di
guerra tecnologica. Attacchi
informatici, eserciti di hacker
schierati a rubare segreti da
una parte all’altra, azioni di
spionaggio nei rispettivi Big
Data sembrano le componenti
di una guerra che si combatte
nell’ombra, e che
richiederebbe nuove regole e
nuove alleanze. Quasi una
guerra nel dominio digitale:
comunque, senza aerei da
combattimento e senza sangue!
Giuseppe La Rosa, 31
anni, ucciso in un
attentato in Afghanistan
E non è stato il primo! Con il
capitano La Rosa, sono 53 i
militari italiani morti in
Afghanistan dal 2004 ad oggi.
Ne guardo uno per uno i volti
pubblicati da un giornale il 9
giugno: volti giovani, alcuni
sorridenti, altri più duri e forse
disperati. Sergenti, caporal
maggiore, carabinieri, capitani
tutti con un qualche progetto
di vita davanti, stroncato
brutalmente da una sorte,
comunque messa in conto.
Pochi giorni dopo il funerale
di quest’ultima vittima, si viene
a sapere che a Doha (capitale
del Qatar) hanno aperto una
sede ufficiale i talebani, che
intenderebbero intavolare
iniziali trattative (di pace? e a
quali condizioni?) per
normalizzare la situazione in
Afghanistan. Kazar si appresta
a parlamentare con loro tra
dubbi, sospetti, e resistenze
(molte proprio da parte delle
donne). Un augurio
comunque: che Giuseppe La
Rosa sia l’ultima vittima della
guerra che sconvolge da
decenni quella martoriata
regione.
Migliora la vita sulla terra?
È incredibile, ma alcuni dati
della Banca mondiale dicono
di sì. Nel 2000 le Nazoni Unite
lanciarono il Millennium
Development Goal: otto
obbiettivi da raggiungere entro
il 2015 per migliorare la vita
sulla terra. Ed alcuni sembrano
essere stati parzialmente
raggiunti. Nel 2000 i giovani e
le giovani dei (cosiddetti) paesi
in via di sviluppo che
completavano la scuola
primaria, erano l’80%. Oggi
sono il 90%. I bambini che
muoiono prima dei cinque
anni. Nel 2000 erano 12
milioni, e l’obbiettivo era la
riduzione di due terzi. Nel
2012 sono stati 7 milioni; e la
mortalità infantile resta una
delle piaghe più difficili da
affrontare. La popolazione che
ha accesso a una fonte d’acqua
è passata – tra il 1990 e il 2010
– dal 71% all’86%. Restano
ancora molto insoddisfacenti i
dati relativi al numero delle
donne che muoiono per parto
(ancora 287.000 in tutto il
mondo nel 2010) e il freno alla
diffusione dell’Aids, malaria ed
altre malattie.
Piccola richiesta ai
dirigenti del Pd
Si può sperare che gli
esponenti del Pd – dirigenti di
partito e ministri – smettano di
usare nei loro discorsi metafore
calcistiche (anche in inglese!),
con cui forse fanno l’occhiolino
ai frequentatori dei bar Sport,
ma che risultano indecifrabili
per milioni di donne non
appassionate di calcio?
19
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Raccontare a testa alta, come gente che ha vinto
Un intervento di Alessandra Clemente, assessore a Napoli e figlia di una vittima di camorra.
Gisella Modica
“L
a mia resistenza è nel
mio Dna, è nel sorriso
idi mia imadre che
riusciva a spostare le montagne.
Il valore della memoria e il fatto
di non sentirmi sola hanno
alimentato la mia forza per
insistere ed esistere per il futuro.
Il mio desiderio è trasformare
tutto ciò che è accaduto in
qualcosa che assomigli a mia
madre, che non sia l’ingiustizia
della violenza. Desiderio che si è
concretizzato nella creazione di
una fondazione che porta il suo
nome, rivolta ai minori a rischio,
come il ragazzo che ha ucciso
mia madre. L’ho fatto per
costruire un senso a qualcosa che
un senso non aveva, perché la
morte di un innocente non può
avere un senso. Per potere
raccontare la storia di mia madre
a quei ragazzi che, inconsapevoli,
scelgono la criminalità;
condividere con loro
considerazioni semplici, del tipo:
la camorra a me ha tolto mamma,
a te la libertà, cosa vogliamo fare
domani insieme? Mi fa
arrabbiare sentire dire che tanto
è tutto inutile, che tanto niente
cambia, questo offende la
memoria di mia madre, il suo
sorriso, il suo diritto alla vita;
offende chi ha la voglia di
canalizzare la rabbia in voglia di
cose migliori, che assomiglino a
mia madre, uscire dalla mediocrità
dell’indifferenza e della
rassegnazione. Raccontare storie
come quelle di mia madre o come
quelle di Teresa Bonocore che ha
denunciato gli stupratori della
figlia e per questo è stata uccisa, e
raccontarle bene, a testa alta,
come di gente che ha vinto. Tutte
le storie di giustizia devono essere
raccontate bene, perché se siamo
in grado di sentire l’ingiustizia, di
avere fino in fondo questo tipo di
sensibilità scomoda, perché ti fa
sentire diversa, credi che non è
tutto inutile, che puoi nel tuo
piccolo, con le tue relazioni, fare
la differenza. Chi è vittima di una
violenza come questa ha anche
diritto al dolore, non per
compassione, ma, se fatto con
sobrietà, per esercizio di
responsabilità. Solo quando la tua
ferita diventa la ferita di tutta la
città allora si è realizzata la vera
giustizia sociale. Ho scelto di
laurearmi in legge e quando vedo
ragazzi di 18, 20 anni che hanno
compiuto atti criminali penso
che, sì, è giusto che vengano
assicurati alla giustizia, però il
vero concetto di giustizia è
quando le realtà che ha prodotto
queste ferite va a modificarsi. Per
questo ho deciso di portare le
mie competenze, le mie
sensibilità al servizio della città,
sentirsi uno strumento,
ricordandosi che Dio esiste ma
non sei tu”.
Ho voluto riportare per intero
l’intervento di Alessandra
Clemente, 26 anni, neoassessore al
comune di Napoli, e figlia di Silvia
Ruotolo, vittima innocente di
camorra, fatto al convegno “I sud,
le mafie: le donne si raccontano”
promosso dalla Casa
Internazionale delle donne,
insieme a Libera, Dasud e dalla
Società Italiana delle Letterate
perché è un modo per raccontare
da donna, il sud, non solo come
valore di testimonianza, ma per
individuare nuove pratiche
politiche che facciano presa sul
territorio, di fronte alle
trasformazioni delle mafie.
Eppure definirsi donna del sud
ancora fa ostacolo. Racconti come
quello di Alessandra, o di
Elisabetta Tripodi, che ha scelto
di fare la sindaca di Rosarno “per
dare alle bambine dei modelli
femminili da imitare”; o di
Carmela Lanzetta, sindaca di
Monasterace, parlano di donne
consapevoli che vivere al sud è
convivere col dolore della perdita
e la paura del sequestro, ma spinte
dall’amore per la propria terra
mettono in gioco tutte se stesse.
Storie che al di là della resistenza,
mostrano un modo di essere e di
fare difficilmente declinabile per
intero nelle forme della
rappresentanza istituzionale, e
invitano a “ripensare forme di
democrazia incarnata che tengano
conto dei corpi di donne” (Emma
Baeri). Storie che invitano a
ripensare al sud non come
svantaggio, ma come punto di
forza per una trasformazione
politica: “per chi guarda dal
margine, punto d’intersezione di
derive opposte che si
mescolano… è più facile gettare
uno sguardo più acuto, capace di
cogliere punti di contatto e di
condivisione tra i due estremi”
scrive Maria Attanasio,
richiamando alla memoria le
scrittrici postcoloniali che hanno
riportato al centro ciò che stava ai
margini, trasformandolo da luogo
di esclusione in luogo di
resistenza.
Simonetta, morta un giorno in cui era felice
D
i lei si è ricominciato a
parlare solo da quando
la sorella ha deciso di
intraprendere un cammino
difficile, tutto in salita, contro la
rimozione del passato per il
recupero della memoria. Non è
una storia siciliana, ma
tipicamente del Sud, di quel
meridione che spesso tende a
dimenticare dando spazio
all’oblio. Questa é la storia della
piccola Simonetta Lamberti,
rimasta uccisa il 29 maggio del
1982 in un agguato camorristico
ai danni di suo padre, l’ex
magistrato Alfonso Lamberti,
allora procuratore capo di Sala
Consilina, nei pressi di Cava dei
Tirreni. Piccola, si piccola,
perché aveva 11 anni, e stava
appena sbocciando alla vita.
Simonetta muore in un giorno in
cui non poteva che essere felice.
Stava tornando da una gita al
mare fatta con il suo papà a
Vietri, e non vedeva l’ora di
raccontare quella sua esperienza
alla mamma e al fratellino di
appena un anno più grande di
lei. Era stata bella quella giornata
per Simonetta e nessuno
gliel’avrebbe potuta guastare.
20
Gilda Sciortino
Anche se si sapeva che il giudice
Lamberti era nel mirino della
camorra, nessuno poteva mai
pensare che potesse succedere
qualcosa di così atroce.
“Mio padre dava fastidio –
racconta Simonetta Serena, oggi
facente parte del ‘Coordinamento
Campano Familiari Vittime
Innocenti delle mafie’ –, quindi
sarebbe stato logico prevedere
determinate misure di sicurezza.
Mia sorella non è assolutamente
morta ‘per caso’, nonostante uno
dei proiettili diretti a lui, che lo
ha ferito, abbia deviato la
traiettoria, colpendo lei alla
tempia e non dandole scampo.
Ma quando mai una fatalità! Si
sapeva che mio padre era seguito
da mesi”. Che Lamberti fosse
stato preso di mira lo confermano
le dichiarazioni del pentito
Antonio Pignataro, l’unico
indagato rimasto in vita,
autoaccusatosi di avere fatto parte
di quel commando omicida,
afferente all’ampio schieramento
riferito proprio a Cutolo, capo
della Nuova Camorra
Organizzata, che aveva deciso di
levare di mezzo il magistrato che,
con le sue indagini, stava dando
fastidio al cutoliano Francesco
Apicella. Avrebbe dovuto avere la
scorta, Lamberti. Anche per
andare al mare. Finalmente nel
1986 il primo processo, alla fine
del quale vengono condannati
Apicella e i cutoliani Carmine Di
Girolamo e Salvatore Di Maio,
ma solo il primo di questi tre sarà
riconosciuto alla guida della Fiat
127, dalla quale verranno esplosi i
colpi mortali, e condannato
all’ergastolo. Pena annullata nel
processo d’appello dell’anno
successivo, perché sembra che i
testimoni non fossero più
attendibili. Nel frattempo, l’unico
responsabile di quanto accaduto
muore e gli indagati scompaiono.
Nonostante il silenzio caduto su
questa storia, lei, Serena, non si é
mai demoralizzata, credendo
sempre nel valore della denuncia
e dell’impegno. Anche se,
inevitabilmente, dai suoi
familiari, non ha mai avuto
l’appoggio che meritava.
“Io sono nata un anno dopo la
sua morte, in una famiglia già
distrutta, scomparsa con
Simonetta quel maledetto giorno.
Mia madre si è sin da subito
chiusa nel suo dolore,
trasformandolo in un amore
sconfinato nei confronti dei suoi
studenti. Mio padre per due anni
è stato preda della follia, e ancora
oggi vive di fortissimi rimorsi.
Quando sono arrivata, ho trovato
il nulla. È ovvio che non ne
faccio una colpa ai miei genitori,
ognuno stava vivendo quel
dolore come poteva, anche se
purtroppo allontanandosi l’un
dall’altro. Perché hanno deciso di
mettere al mondo un altro figlio?
Perché volevano avere
nuovamente Simonetta, errore
enorme che ha pesato su tutti
noi. Così, in me c’è sempre stato
il gran senso di colpa di non
essere lei, con la consapevolezza
che non potrò mai esserlo. Penso,
poi, sempre che sono viva perché
mia sorella è morta. In più, porto
anche il suo nome. Questa morte
non ha mai avuto un senso ma se,
raccontandola, potrò fare capire
a quei giovani che hanno come
idoli i boss e questo mondo che
la camorra fa tanto schifo da
arrivare a uccidere una bambina,
magari potranno intravedere
un’altra strada da percorrere. È il
significato che ho dato io a
questa storia”.
su
cc
ed
Il Progetto Itaca è sbarcato a Palermo
e
Un porto, fra orti e giardini, per chi vive il disagio psichico
Rosemarie Tasca d’Almerita
A
desso il Progetto Itaca
Palermo è davvero
iarrivato a destinazione,
è sbarcato sul lido di Itaca come
volevamo, abbiamo una sede ed
è bellissima! È Villa Adriana in
via San Lorenzo, una bella
costruzione del ’700 che
appartiene alle Suore
Francescane Missionarie di
Assisi. Fu loro donata nel secolo
scorso e oggi vi sono solo
cinque suore gentilissime che
abitano in circa 1600mq.
Grazie ad uno dei nostri
consiglieri, l’Architetto Beppe
Barresi, che ci ha segnalato
questa situazione, la nostra
Presidente Rosalia Camerata
Scovazzo si è messa in moto,
come sa fare lei, e in due anni è
riuscita non solo a concludere
un contratto di comodato d’uso
con la Madre Generale, ma ha
realizzato il progetto e ha aperto
la Clubhouse Villa Adriana il 6
Maggio.
La Clubhouse è un’istituzione
nata a New York nel 1948,
quando un piccolo gruppo di
operatori psichiatrici volle
cambiare il modo di vivere dei
malati psichiatrici rinchiusi per
anni negli ospedali in
giganteschi reparti. La prima
Clubhouse europea è nata in
Svezia dove ce ne sono ben
nove e oggi nel mondo ce ne
sono 340. Nel 2005 a Milano un
gruppo di volontari ha rilevato
il “sistema” e oggi in Italia si
contano quattro Clubhouse,
mentre altre tre sono in
procinto di aprire.
La Clubhouse è un luogo
d’incontro con un programma
rivolto a persone con una storia
di disagio psichico e che
abbiano rapporti continuativi di
cura, un’opportunità per i soci
di sviluppare le proprie
potenzialità, sostenuti dagli
operatori presenti tutto il giorno
fianco a fianco con loro. Ma gli
operatori sono in numero
esiguo, sono i soci che mandano
avanti la casa: la mattina fanno
un briefing con la direttrice,
Roberta Vitale, e decidono
insieme il programma della
giornata.
I soci vengono spontaneamente,
per uscire dal loro quotidiano
triste e depressivo di persone
chiuse in casa senza
frequentazioni né relazioni
sociali, e trovano nella
clubhouse la forza di
ricominciare a pensare positivo,
essere attivi e ritrovare il sorriso.
Il Progetto Itaca Palermo
organizza anche corsi di
formazione e sostegno ai
familiari, gruppi di supporto
con il metodo dell’Auto-Aiuto,
corsi di formazione per
volontari, prevenzione nelle
scuole.
La parte di Villa Adriana che
oggi ospita il Progetto Itaca
consiste in poco più di 400mq al
piano terra, con uso di un pezzo
del giardino per coltivare orto e
fiori. Il restauro è stato seguito
dall’architetto Angela Persico,
con grande gusto nella scelta dei
colori, nella sistemazione degli
spazi interni, negli impianti, e
soprattutto senza togliere nulla
al fascino di ciò che erano i
locali prima del restauro.
Il Progetto Itaca Palermo è una
Onlus e vive di raccolta fondi
perché l’iscrizione alla
Clubhouse Villa Adriana è
assolutamente gratuita.
Aiutateci. Il nostro recapito è:
Villa Adriana, Via San Lorenzo
280, tel. 091-6714510 /
3347880152.
Bambini misura di città
C
on una delibera dell’11
aprile 2013 il Consiglio
Comunale si è impegnato
a far diventare Palermo una
“Città Amica dei Bambini”,
assumendo l’impegno di mettere
in atto azioni concrete a
sostegno dell’infanzia.
Un’iniziativa dell’Unicef alla
quale hanno aderito altre città
italiane e che dovrebbe garantire
modi nuovi di pensare la città,
che ne faccia un luogo di
crescita, di esperienza, di
sicurezza, di partecipazione per i
bambini e le bambine.
Come associazioni, movimenti e
comitati di genitori di Palermo
da tempo chiediamo un diverso
approccio alla progettazione
della città, un approccio che
inserisca il punto di vista dei
bambini nei processi decisionali
relativi al territorio, alle scelte di
bilancio e per lo sviluppo, alla
comunicazione e al sostegno
delle buone pratiche.
La delibera del Consiglio ci è
sembrata un’occasione per
chiedere la sottoscrizione di un
documento che sostenga questo
processo di cambiamento.
La città di Palermo ha sempre
più bisogno di atti concreti che
mettano al centro della politica e
dell’amministrazione i bambini e
Ilaria Esposito
le bambine. Ci vogliamo battere
perché le ragioni finanziarie non
abbiano la meglio su quelle
educative.
Dai servizi educativi agli spazi di
aggregazione per bambini e
adolescenti, bisogna avere il
coraggio di impegnarsi per
promuovere un cambiamento.
Vorremmo che la partecipazione
che l’Amministrazione chiede ai
cittadini si accompagni ad una
comprensione dei significati
profondi di questa parola, ad
un’educazione alla partecipazione
e al bene pubblico (che sia uno
spazio della città, un servizio, una
strada, un giardino, un gioco) che
devono tradursi e trasformarsi in
scelte e azioni concrete.
Abbiamo allora scritto un
documento fatto di pochi e non
semplici, ma possibili, punti da
realizzare. Ad elaborarlo sono
stati diversi soggetti collettivi,
associazioni e singoli cittadini,
attivi nelle pratiche di utilizzo,
trasformazione e partecipazione
della città. Soggetti che, in
misura e tempi differenti, hanno
osservato e agito confrontandosi
con la miopia politica delle
amministrazioni.
Oltre alla dimensione ludica
dello spazio della città
vorremmo porre l’attenzione sul
diritto alla città, su quegli
elementi dello spazio urbano
che, come il gioco, sono forme
possibili di partecipazione.
L’immaginario urbano dovrà
però tenere conto di una misura
precisa che, dal gioco alla
mobilità, dovrà garantire
l’inclusione dei bambini e delle
bambine.
Una sfida nuova, per certi versi
divertente, ma molto
impegnativa.
L’inconciliabilità tra le previsioni
a lungo termine e lo spazio
duttile e continuamente in
movimento che la presenza dei
bambini e delle bambine ci
obbliga a rivedere, dovrà per
forza di cose determinare nuove
regole di appartenenza, nuove
riqualificazioni degli spazi
pubblici che, adottando la
misura dei bambini e delle
bambine, permetterebbero di
migliorare la vita di tutti e tutte.
I punti del documento che
abbiamo fatto girare nelle nostre
reti allargate riguardano i
seguenti punti:
1- politiche educative- pratiche
educative per le famiglie;
progettazione dei servizi
educativi e scolastici comunali
che tenga conto di un approccio
pedagogico comune.
2- istituzione di una
commissione aperta in grado di
gestire a più livelli percorsi di
progettazione partecipata che
prevedano il contributo di
bambini e bambine
3- valorizzazione di spazi di
incontro spontaneo e di gioco
organizzato come luoghi di
socializzazione e appropriazione
ludica dello spazio della città.
4- la revisione dei regolamenti
comunali nei casi in cui non sia
prevista la presenza di articoli
che salvaguardino i diritti dei
bambini nelle città.
5- controlli sulla sicurezza e sulla
progettazione degli ambienti
scolastici, dei giardini e dei
cortili delle scuole e dei giochi.
6- la promozione di una mobilità
sostenibile attraverso campagne
di sensibilizzazione, iniziative
pubbliche, corsi di educazione,
favorendo l’istituzione e
l’organizzazione di bicibus e
pedibus, inserendo misure di
contenimento e rallentamento
del traffico in prossimità degli
ingressi nelle scuole e degli asili.
7- una comunicazione chiara,
continua ed efficace sui servizi e
la cultura dell’infanzia del
comune di Palermo.
In molti hanno sottoscritto il
documento.
21
c
su
c
e
d
e
Contro la crisi mettiamoci in comune
Gisella Modica
C
ome stanno reagendo in
Sicilia e a Palermo
individui singoli o
associati, per fare fronte alle
misure di austerità che ci
vengono presentate come
ineluttabili?
Se n’è parlato a Palermo alla
conferenza “Mettere in
comune per combattere
impoverimento e precarietà”.
Un’occasione per censire
esperienze in corso contro la
crisi (in tutto 54) in un libretto
- una sorta di work in progress
dal titolo “Mettere in comune:
storie di cose fatte insieme”,
curato da Re Federico
Coworking, comunità attiva a
Palermo. Esperienze che ci
mostrano un’altra faccia della
crisi, vissuta come
opportunità, occasione per
sperimentare e imporre
un’economia ecosolidale, che
rifiuta il perseguimento del
profitto ad ogni costo.
Spaziano dal servizio di start
up per le imprese (Cre_Zi),
alla raccolta differenziata
(Ecopunto); dal servizio di
ecologia del quotidiano
(Gentilgesto), alla condivisione
di cibo (Food Share); dalla
ludoteca (Madre Teresa), alla
“Casa di tutte le genti”
provenienti da diversi paesi,
un asilo nido collettivo.
Si tratta di iniziative
accomunate dalla ricerca di
stili di vita che mettono al
primo posto la solidarietà e la
creatività, mettendo in
comune beni materiali e
immateriali, spazi e servizi,
attraverso forme condivise di
co-gestione e co-produzione.
L’iniziativa fa parte del
progetto europeo
“Responding Together”,
patrocinato dal Comune di
Palermo, e promosso dalla
Divisione Coesione Sociale del
Consiglio d’Europa, che si
ripropone appunto di
diffondere esperienze e
pratiche di “risposta
collettiva” alla crisi in Europa.
A partire dalla mappatura di
realtà che stanno già
sperimentando questo tipo di
azioni, il progetto vuole
costruire un momento di
confronto con le
amministrazioni del territorio,
con lo scopo di renderle
riproducibili (interessante il
22
fatto che comprenda e
valorizzi anche azioni
“anomale”, al confine tra
legale e illegale, perché si
svolgono in luoghi “occupati”).
A monte di tutto questo c’è un
nuovo concetto di povertà, la
“povertà relazionale”, come la
definisce il Consiglio
d’Europa. Partendo dal
presupposto che il problema
oggi non è solo la quantità
delle risorse, ma la sua
redistribuzione, la povertà non
viene più parametrata solo al
bisogno materiale, ma al
desiderio di socialità, di
bellezza, di informazione, di
cultura, di memoria. Insomma
al desiderio di senso.
Non è un caso che molte delle
protagoniste di queste
pratiche sono giovani mamme
e giovani padri interessati a
pratiche di condivisione per
l’educazione dei figli, dove
l’elemento più importante non
è la competenza professionale,
ma l’affettività. Un esempio
particolarmente interessante è
costituito dall’esperienza di
co-housing “Comunità La
Zattera”, misurata non solo
sul vantaggio del mettere
insieme lo stipendio, ma dal
desiderio di mettere in
comune le proprie vite.
Queste pratiche, che non
vogliono essere intrappolate
nelle forme del terzo settore,
chiedendo il riconoscimento
della Pubblica
Amministrazione intendono
anche traghettare la
democrazia verso forme meno
rappresentative e più
partecipate, riappropriandosi
dal basso della politica.
Le ricette del giardiniere di Calvino
H
o conosciuto il
Barone Rampante.
L’ho incontrato a
Catania durante una calda
giornata d’aprile. Presentava
il suo libro: Cucinare il
giardino (le ricette di
Libereso). Il suo vero nome è
Libereso Gugliemi. Ha 88
anni, una candida
capigliatura, lo sguardo vivace
e attento e la mano ancora
precisa e rapida quando
disegna. Un signore senza
tempo, che ha un sacco di
cose da insegnare. A partire
dalle storie curiose che stanno
dietro ogni piccola pianta,
fino ai grandi pensieri
filosofici sul senso della vita e
sulla ricerca della felicità.
Libereso è vegetariano da tre
generazioni, fanno parte della
sua dieta i fiori di cui conosce
proprietà e virtù oltre che
tante buonissime ricette. Ci
invita ad assaggiare i petali
dell’Echium campestre che ha
appena raccolto, un’erbaccia i
cui fiori sono da mangiare,
come quelli delle
margheritine di campo con le
cui foglie e fiori, ci spiega, si
può fare un’appetitosa
insalata.
Figlio di un anarchico
appassionato di esperanto, di
famiglia povera, Libereso è
conosciuto come il
“giardiniere di Calvino”. Nato
a Bordighera, infatti, venne
notato da Mario Calvino,
padre di Italo, e invitato
giovanissimo a lavorare nella
Stazione botanica
Leontine Regine
sperimentale che questi
dirigeva a Sanremo. Molti
anni dopo, senza conoscere
l’inglese e senza studi
superiori, vincerà un concorso
per direttore di uno dei
giardini reali d’Inghilterra,
perché unico tra i candidati a
sapere tutti i nomi delle
piante in latino. Rimane così
per molti anni in Inghilterra.
La sua continua ricerca lo ha
portato a girare il mondo
scoprendo nuove piante,
culture e biodiversità
ovunque; oggi prosegue la sua
attività insegnando a
disegnare le piante ai bambini
delle elementari, tiene
conferenze in giro per l’Italia,
senza mai trascurare la sua
piccola oasi sotto casa, la sua
“Giungla”, scrive articoli e
libri; insomma un libero
pensatore che incanta chi ha
la fortuna di ascoltarlo e
divulga amore e rispetto per
la natura.
L’altra “maestra” di Libereso
è stata Eva Mameli, moglie di
Mario Calvino, la prima
donna a laurearsi in Scienze
naturali in Italia e a vincere
una cattedra di Botanica. I
coniugi Calvino, tornati da
Cuba – dove lui diresse una
stazione sperimentale per la
canna da zucchero e lei il
Dipartimento di Botanica di
Santiago de la Vegas –
crearono insieme la Stazione
botanica.
Oggi Villa Meridiana, dove
Italo visse con i genitori, non
esiste più. A rimpiangerla è
soprattutto Libereso: “Per
conoscere Italo bisogna
conoscere la sua famiglia”, ha
spiegato infatti durante
l’incontro, “con Mario
facevamo molti esperimenti
nel suo giardino: ne vennero
fuori piante rare. Ma oggi non
è rimasto niente. E sui resti di
Villa Meridiana hanno
costruito un parcheggio”
conclude con amarezza.
Libereso è anche il
protagonista di uno dei primi
racconti di Calvino, Un
pomeriggio, Adamo, che apre
la raccolta Ultimo viene il
corvo. La prima pagina ci
presenta il nuovo giardiniere
di casa Calvino, un ragazzo di
15 anni, si chiama Libereso,
che, in esperanto, significa
Libertà. Sono cose che
veniamo a sapere da lui,
mentre nel racconto parla con
Marianunziata, la ragazza che
lavora in cucina. Il ragazzo le
fa visitare il giardino;
Libereso è di una miracolosa
naturalezza: scava nella terra e
prende lombrichi, accarezza
rospi, prende cetonie,
ramarri, bisce. Fa di tutto per
regalarle qualcosa.
Mentre racconta non smette
di disegnare, con un tratto
rapido e sapiente disegna in
pochi secondi fiori, piante,
gentili e delicati personaggi
che popolano il suo mondo
incantato.
Mi regala il disegno di un
piccolo fiore con l’augurio di
un futuro di poesia e di
amore.
su
cc
ed
Le escluse dalla modernità emancipata
e
Il femminismo diverso delle donne indigene dell’America Latina
Giovanna Minardi
N
el mio ultimo
soggiorno a
Città del
Messico, grazie alla
femminista italomessicana Francesca
Gargallo, ho
conosciuto Lorena
Cabnal, una
femminista mayaxinka del Guatemala.
L’incontro con questa
donna indigena,
sorridente, umile, di
poche parole si è
rivelato per me
luminoso, in quanto le
sue misurate parole mi
hanno permesso di
addentrarmi nella
complessa analisi
femminista fatta da
donne che vivono in
contesti in cui la realtà
indigena e quella
coloniale si mescolano,
s’intrecciano,
sovrappongono,
costruendo false
complicità e inevitabili
incomprensioni, sia
con gli uomini delle
proprie comunità (con
cui condividono una storia di
saccheggi e di oppressione) sia
con alcune femministe mestizas,
bianche (con le quali
condividono una storia di
vessazioni patriarcali). Lorena
mi manifesta apertamente il suo
disaccordo con l’imposizione di
criteri femministi egemonici,
anche se riconosce d’aver
appreso molto dalle varie
correnti femministe
nordamericane ed europee,
soprattutto il fatto di
riconoscersi come una “soggetta
epistemica” e, pertanto, pensarsi
dal corpo e nello spazio dove
convive con altre/i per tessere
idee femministe. Ma rimprovera
a noi femministe bianche di non
voler vedere spesso quanto i
femminismi indigeni stiano
apportando al movimento
femminista nel mondo.
Oggi le donne maya, aymara,
quechua sostengono che la
modernità non è lo spazio dal
quale pensarsi, poiché non si
riconoscono nella linearietà del
tempo, nel colonialismo delle
leggi di stato e nel razzismo
che in America è stato sempre,
e necessariamente, sessista.
Queste donne sono
Fotografia di Shobha, Prostitute Thai
La Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (CONAIE) è un’organizzazione autonoma, indipendente da qualsiasi tipo di governo al potere, da partiti politici, o istituzioni religiose
estranee alla comunità, si è costituita nel 1986 in Ecuador ed è composta da 14 nazionalità e 18
popoli indigeni. Essa promuove la lotta sociale per sviluppare una nuova forma di democrazia partecipativa e diretta, uguaglianza sociale, sostiene l’accesso a un’educazione di qualità, gratuita e riflessiva per tutti, senza discriminazione nel rispetto e garanzia dei diritti collettivi dei popoli indigeni.
“Siamo come la paglia dell’altopiano (páramo) che, anche se si strappa,
torna a crescere e di paglia del páramo ricopriremo il mondo”
Dolores Cacuango, leader indigena, 1945
profondamente impegnate nel
nominare dalle loro lingue e
dalle loro cosmovisioni
categorie e concetti che
servono loro per analizzare le
proprie realtà storiche di
oppressione, ma anche di
liberazione, come donne
indigene, campesinas, rurali.
Queste donne sono ancora “le
escluse” per eccellenza dal
programma della modernità
emancipata, poiché
appartengono a nazioni i cui
stessi uomini sono stati espulsi
da tale teoria storica. Solo i
municipi indigeni autonomi del
Chiapas, alcuni municipi
indigeni della Colombia,
coordinati dalla rete Nasakiwe
Tegnas (Guardie indigene),
l’organizzazione sociale e
politica della Confederación de
Nacionalidades Indígenas
(Conaie) dell’Ecuador
costituiscono delle società che si
auto rappresentano. Tutti gli
altri popoli indigeni vivono un
controllo etnico da parte del
sistema nazionale che si
manifesta nella negazione del
loro potere giuridico e in una
virtuale delega della loro
cittadinanza. In questo contesto,
assume un valore ancora più
forte il lavoro che stanno
facendo le donne indigene di
AbyaYala (nome dell’America
Latina), che, dalle loro
comunità, generano conoscenze
sulla propria realtà come donne
che possiedono una presenza,
una voce e un protagonismo nel
mondo. Il femminismo
autonomo latinoamericano, ben
lontano dal femminismo
“bianco” governativo e di molte
Ong, ha come scopo principale
mettere in discussione il sistema
culturale egemonico e le
gerarchie da questo imposte.
L’incontro con Lorena Cabnal
mi ha fatto capire quanto, in
un’ottica di più che legittima
globalizzazione culturale, sia
necessario conoscere e
riconoscere i contributi delle
femministe indigene
latinoamericane al femminismo
mondiale.
23
Sicilia Queer
Fotografia di Soraya Gullifa, Palermo Pride 2013, Cantieri Culturali alla Zisa
Cinema, musica, arte e cultura
Palermo, dal 31 maggio al 6 giugno, ha ospitato la terza edizione del Sicilia Queer Film, Festival cinematografico indipendente, autofinanziato realizzato grazie alla collaborazione di istituti stranieri, dei volontari e
del pubblico e con il patrocinio del comune di Palermo. Straordinario successo di partecipazione. Pellicole
provenienti dal più grande festival di cinema queer in India, produzioni italo-francesi, franco-canadesi di
grande valore, anteprime nazionali, lungometraggi, cortometraggi, trailer e documentari e poi ancora piccoli
grandi film dimenticati o ignorati ricchi di pluralità, legati da un fil rouge comune:la tutela dei diritti di tutti.
Fotografie di Nuccia Cammara, Palermo Pride 2013, Cantieri Culturali alla Zisa