James Galbraith - Funzione Pubblica Cgil

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James Galbraith - Funzione Pubblica Cgil
GALBRAITH
James K. Galbraith
NON SARÀ FACILE RITORNARE
ALLA NORMALITÀ
Perché la crisi economica e la sua soluzione
sono più impegnative di quel che pensate *
L
a presidenza di Barack Obama è iniziata in un clima di speranza e di buona volontà, ma verrà giudicata in base al successo o al fallimento della sua politica economica. Il presidente e la sua cerchia hanno saputo elaborare una diagnosi precisa del problema? Hanno agito con forza e immaginazione sufficienti? E hanno non solo prevalso sugli ostacoli politici, ma
hanno saputo anche far breccia nelle procedure e nelle consuetudini mentali di cui è prigioniero l’apparato di Washington?
Il presidente ha un programma economico. Ma, a tutt’oggi,
manca ancora una enunciazione chiara del pensiero che sta alla
base di tale programma, ed è possibile che non l’avremo fino a
che non sarà pubblicato il primo rapporto del nuovo Consiglio
dei consulenti economici (CEA a), l’anno prossimo. Per questo
*
© 2009 «Washington Monthly». Con il titolo No Return to Normal. Why
the Economic Crisis, and its Solution, are Bigger than You think questo saggio è apparso nel 2009 nella «Washington Monthly» ([email protected]).
James Kennet Galbraith, figlio del grande economista liberal John, è attualmente professore nella Lyndon B. Johnson School of Public Affairs, e nel
Dipartimento di diritto pubblico della Università del Texas. Il suo volume più
recente è The Predator State. How the Conservatives abandoned the Free Market
and why Liberals should too, Free Press, New York 2008.
I tempi di stampa del fascicolo non ci hanno consentito di attendere la
risposta degli editori della «Washington Monthly» alla nostra richiesta di
autorizzazione a tradurre, indirizzata per tempo. Traduciamo, pronti a onorare
i nostri doveri con i detentori dei diritti.
Le note al piede sono del curatore (NdC), della traduttrice (NdT) o della
redazione di «Quale Stato» (NdR), e sono segnalate con le lettere dell’alfabeto corsive.
a
Il CEA è il Council of Economic Adviser. Tale Consiglio assiste il presidente
degli Stati Uniti d’America nello sviluppo e l’attuazione della politica economi-
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motivo, per valutarlo dobbiamo basarci su quel che sappiamo sul
conto degli economisti che compongono il Consiglio: il presidente del Consiglio nazionale per l’economia, Lawrence
Summers; il presidente del CEA Christina Romer; il responsabile del bilancio, Peter Orszag; e il loro referente ufficiale, il ministro del Tesoro, Timothy Geithner. Si tratta con ogni evidenza
di un gruppo molto affiatato di persone capaci, che agiscono con
impegno ed energia, per cui non può essere certo l’incompetenza la causa delle carenze del loro programma. Piuttosto, le eventuali carenze sono dovute probabilmente alla loro formazione
culturale e al loro credo professionale – in sintesi, ai limiti delle
loro idee. Il convincimento più profondo dell’economista
moderno è che l’economia sia un sistema che si autostabilizza –
il che vuol dire che, anche se non si fa nulla, a un certo punto
gli indici di produzione e di occupazione torneranno nella
norma. In pratica, tutti gli economisti moderni condividono
questa convinzione, spesso senza neanche rifletterci più di tanto
(il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha affermato,
in un importante discorso a Londra nel gennaio scorso, quasi
come in un riflesso automatico: – L’economia globale si riprenderà. Non ha detto come faceva a saperlo). La differenza tra conservatori e progressisti riguarda la possibilità che l’intervento del
governo sia, o no, in grado di accelerare la ripresa economica. I
conservatori dicono di no, i progressisti dicono di sì, e su questo
punto gli economisti di Obama propendono per la sinistra.
Proprio per questo motivo, fin dai primi giorni, hanno dato la
priorità al pacchetto di incentivi anticrisi.
Ma la scala degli interventi è quella giusta? Il piano previsto è
di dimensioni sufficienti? Gli interventi di politica economica si
basano su modelli; in una situazione di crisi, i piani di spesa dipendono da una previsione della gravità e della durata che tale crisi
avrebbe in mancanza di interventi. Il programma avrà le dimensioni giuste soltanto se è giusta la previsione di partenza. E tale
ca della nazione. A capo si trovano un presidente e due membri e il resto del
gruppo è composto da un team di economisti, esperti di statistica e previsori che
forniscono al presidente approfondite e tempestive analisi economiche (NdC).
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previsione dipende a sua volta dalle convinzioni di fondo. Se la
ripresa economica non viene incorporata nelle strutture fondamentali del sistema, la previsione sarà troppo ottimista, e gli
incentivi previsti saranno di dimensioni inferiori al necessario.
Consideriamo le previsioni economiche di partenza dell’Ufficio
del Congresso per il bilancio (Congressional Budget OfficeCBO), l’organismo nonpartisan cui si rifanno i legislatori per valutare l’economia e i loro piani di bilancio. Nella sua previsione a
inizio gennaio il CBO ha misurato la differenza, e fatto una sua
proiezione, fra la performance effettiva dell’economia e la sua performance ‘normale’ – la cosiddetta ‘contrazione prevista’ b del PIL.
Tale previsione presenta due caratteristiche sorprendenti. In
primo luogo, il CBO non si aspettava che la recessione attuale
fosse più grave di quella del 1981-82, la peggiore recessione del
secondo dopoguerra. In secondo luogo, il CBO si aspettava che
l’inversione di rotta iniziasse già alla fine del 2009, e che l’economia sarebbe ritornata alla normalità intorno al 2015, anche
senza alcun intervento da parte del Congresso.
Alla luce di questa proiezione, il pacchetto per la ripresa economica investe poco meno del 2% su base annua del PIL in nuove
spese più alcune riduzioni fiscali, previste per due anni, per fronteggiare un calo previsto del PIL stimato mediamente al 6% per tre
anni. Non è necessario che gli incentivi coprano completamente il
gap previsto, perché il CBO si aspetta un ‘effetto moltiplicatore’; nel
senso che, ad esempio, un primo ciclo di spesa pubblica per la costruzione di ponti e strade sarà seguito da un secondo ciclo di spesa da
parte delle industrie metalmeccaniche e di quelle delle costruzioni
di strade. Il CBO stima che, grazie all’effetto moltiplicatore, due dollari in più di spesa pubblica porteranno circa tre dollari in più di produzione (a causa delle riduzioni fiscali le cifre sono inferiori, dato che
una parte di esse andranno in risparmi e non incideranno nel primo
ciclo di spesa). Con questo aiuto, la recessione diventa un fenomeno piuttosto contenuto. Dopo due anni, la crescita si sarà consolidata, e il Congresso avrà fatto il suo lavoro. In questo modo, sia la
b
Nel testo: GDP gap (NdT).
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durata della crisi che le dimensioni dell’intervento pubblico sono
state dettate, dietro le quinte, dalla previsione di partenza del CBO.
Per quali motivi il CBO è arrivato a tale conclusione? In sostanza, il modello del CBO si basa sull’esperienza postbellica, e tali
modelli non sono in grado di prevedere risultati più gravi di quelli che si sono già verificati storicamente. Se la crisi cui ci troviamo di fronte è peggiore di quella del 1982, i nostri computer non
ce lo diranno, e noi saremo colti alla sprovvista. E i computer non
ci diranno se la crisi è destinata a protrarsi nel tempo. Incorporato
nel modello del CBO troviamo un ‘tasso naturale di disoccupazione’ del 4,8%; il modello spinge l’economia verso quel valore, a
prescindere. Nel mondo reale, tuttavia, non c’è nessun motivo per
credere che questo avvenga. Attualmente, alcune previsioni alternative, non compromesse dalla mistica del ‘ritorno alla normalità’, indicano un ‘buco’ del PIL di dimensioni doppie rispetto al
modello del CBO, e senza nessuna ripresa a breve termine.
La considerazione dei tempi tecnici ha anche influenzato la
scelta dei punti prioritari. Il pacchetto anticrisi ha privilegiato i
progetti con partenza immediata, come la ristrutturazione delle
scuole e le riparazioni della rete stradale, a scapito dei progetti
che invece richiedevano pianificazione e tempi lunghi di avviamento dei lavori, come la rete dei trasporti urbani. La necessità
di agire in fretta ha inciso anche per un altro aspetto. Ci vuole
tempo per definire una nuova normativa per gli interventi pubblici. In una situazione d’emergenza, era logico che David Obey,
presidente della commissione Bilancio c della Camera dei rappresentanti, attingesse a piene mani fra le proposte di legge giacenti, alla ricerca di idee che godessero in partenza di ampi consensi soprattutto nello schieramento democratico. Così facendo,
ha presentato un Disegno di legge che costituiva un record di
scrittura rapida, concretezza politica e principi progressisti – una
buona legge, che ha suscitato l’avversione dei repubblicani. Ma
c
Nel testo: Committee on Appropriations, Commissione molto influente
della Camera dei rappresentanti che stabilisce le autorizzazioni della spesa pubblica, con poteri più incisivi di quelli riconosciuti alle commissioni Bilancio
del Parlamento italiano (NdR).
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le dimensioni dell’intervento possibile, procedendo su questa
falsariga, non sono correlate, se non per una mera coincidenza,
ai bisogni dell’economia.
A limitare il piano, intervengono tre ulteriori considerazioni.
Per cominciare, c’era il desiderio di un ampio consenso politico;
Barack Obama aveva deciso di iniziare la sua presidenza con un
Disegno di legge in grado di ottenere un appoggio bipartisan e di
passare al Congresso con un largo margine (inutile dire che i
repubblicani hanno respinto la proposta al mittente). In secondo luogo, la nuova squadra presidenziale cercava anche un altro
tipo di consenso. Christina Romer d effettuò un sondaggio in un
gruppo di economisti bipartisan, e Larry Summers riferì a «Meet
the Press» e che il pacchetto finale rappresentava un ‘punto d’equilibrio’ fra le loro opinioni. Questa procedura assicura un risultato vicino alla media delle posizioni degli addetti ai lavori. È un
metodo che sarebbe utile se gli errori degli economisti fossero
non sistematici. Ma così non è. Gli economisti sono un gruppo
di persone caute, e in qualsiasi situazione estrema il punto intermedio delle opinioni degli esperti è inevitabilmente errato.
In terzo luogo, il pacchetto iniziale risentiva fortemente del
desiderio del nuovo team presidenziale di superare la crisi in atto
e di ritornare a occuparsi dei problemi consueti della loro precedente esperienza. Per questi protetti di Robert Rubin, in molti
casi fedeli collaboratori del «Progetto Hamilton» f concepito
dallo stesso Rubin, una preoccupazione fondamentale è sempre
d
Vedi nota a p. 181 (NdR).
«Meet the Press» è un settimanale televisivo di cronaca e commento politico della NBC (NdR).
f
Alcuni economisti già presenti nell’Amministrazione Clinton – tra cui
l’ex segretario al Tesoro Robert Rubin – annunciarono il 5 aprile 2007 il
«Progetto Hamilton», un tentativo di stabilire nuovi indirizzi economici fondati sui principi di Alexander Hamilton (1755-1804), il primo segretario al
Tesoro della storia degli Stati Uniti. In un documento di carattere generale dal
titolo Una strategia economica per migliorare le opportunità, la prosperità e la crescita si sottolineava il ruolo che compete al governo nel finanziare le infrastrutture, l’istruzione, la ricerca e lo sviluppo, secondo un programma «diametralmente opposto al regime politico attuale», rappresentato dall’Amministrazione Bush. Rubin aggiunse: «Occorre affrontare gli squilibri fiscali, i benefici,
e
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stato il deficit di bilancio e il cosiddetto ‘entitlement problem’ g.
Questo è il gergo di Washington per indicare l’intenzione di
mettere mano alla sicurezza sociale e a Medicare h, aprendo nuovi
mercati per i gestori dei fondi e gli assicuratori privati, il tutto
camuffato dietro un gran parlare di ‘deficit di bilancio a lungo
termine’ e ‘passivi senza copertura’. Il nostro nuovo presidente
non è alieno da questo linguaggio. Ancor prima della sua inaugurazione ufficiale, Obama si è impegnato a favore della «entitlement reform», e il 23 febbraio scorso ha convocato quello che
egli stesso ha definito «un vertice per la responsabilità fiscale».
Si è affermata l’idea che dopo circa due anni di grandi spese,
sarebbe iniziato il ritorno alla normalità e sarebbe stato possibile recuperare i costi delle detrazioni fiscali e della riqualificazione delle infrastrutture, almeno in parte, prendendo ‘una libbra di
carne’ i dai redditi e dall’assistenza sanitaria degli anziani.
La possibilità di un ritorno alla normalità dipende, a sua volta,
dalla strategia delle banche. Per gli economisti del presidente
un’economia ‘normale’ è diretta e guidata dalle banche private.
Nelle fasi di boom del credito interno, le banche tendono a generare alti tassi di occupazione e bassi tassi di inflazione, e così il
bilancio pubblico fa la sua bella figura, e il presidente e il
Congresso possono evitarsi molte decisioni impopolari. Proprio
per questo motivo il nuovo team presidenziale cerca istintiva-
la diminuzione dei versamenti pensionistici, l’aumento del debito e il deficit
dei conti correnti. Nessun altro paese sviluppato al mondo ha una tale combinazione di squilibri». E sottolineò che il «Progetto Hamilton» avrebbe fatto
appello anche ai repubblicani moderati affinché l’iniziativa assumesse una
natura a tutti gli effetti bipartisan (NdR).
g
È una espressione per ‘diritti, garanzie, tutele sociali’, sostanzialmente
negativa, a indicare una tendenza a rivendicare una condizione di garanzie
assistenzialistiche (NdR).
h
Medicare, il programma di sicurezza sanitaria degli Stati Uniti, prevede la
copertura assicurativa per quanti hanno più di 65 anni e per altre persone scelte sulla base di specifici criteri (NdR).
i
«A pound of flesh», da W. Shakespeare, Shylock in Merchant of Venice
(NdT).
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mente di riportare i banchieri alla loro posizione naturale, in
cima alla collina dell’economia. Il ministro del Tesoro Geithner
ha dichiarato alla CNBC: «Abbiamo un sistema finanziario che è
gestito da azionisti privati e amministrato da istituzioni private,
e intendiamo fare del nostro meglio per conservarlo così».
Ma è una speranza realistica? È almeno una possibilità? La
normale dinamica di un ciclo creditizio include brevi periodi in
cui precipitano i valori patrimoniali e crollano i rapporti di credito. Nel 1981, la campagna antinflazionistica di Paul Volckers
provocò una crisi del genere. Ma allora non si verificò il fallimento delle grandi banche, anche se ci mancò poco (di recente
ho saputo da William Isaac, il presidente della Federal Deposit
Insurance Corporation (FDIC) ai tempi di Ronald Reagan, che
nel 1982 il governo aveva predisposto piani d’emergenza per
procedere alla nazionalizzazione delle grandi banche qualora il
Messico, l’Argentina o il Brasile avessero dichiarato di non essere più in grado di onorare i propri debiti). Quando poi si allentò
la stretta della politica monetaria e le riduzioni fiscali del 1981
fecero sentire i loro effetti, ci furono sia una domanda accumulata di credito, che la capacità di soddisfarla. Come risultato
finale, l’economia si riprese in tempi brevi. Anche nel 1994,
dopo un periodo prolungato di stretta creditizia, banche e famiglie si sono mostrate abbastanza solide, anche senza bisogno di
incentivi ad hoc, da sostenere una forte ripresa del credito che,
poi, ha fatto da volano all’economia per ben sei anni.
I disastri dell’era Bush certificano l’impossibilità di ripetere
questi schemi di successo. Per la prima volta dopo gli anni
Trenta, milioni di famiglie americane sono letteralmente rovinate. Famiglie che fino a due anni fa si godevano la vita con case
di proprietà e un ricco portafoglio azionario, ora non hanno più
né case né azioni. Il valore degli accantonamenti per i fondi pensione si è dimezzato, le ipoteche sono una pietra al collo e le case
un pozzo senza fondo. Per molti, la strategia migliore consiste
nell’infilare le chiavi in una busta e spedirle alla banca: il che, in
pratica, assicura che l’eccesso di offerta e i prezzi stracciati nell’immobiliare ci faranno ancora compagnia per molti anni. A
parte i contanti – protetti dall’assicurazione sui depositi e adesso
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conservati fino allo spasimo – la middle class americana al giorno
d’oggi si è accorta che la sua principale fonte di ricchezza consiste nel valore implicito della sicurezza sociale e di Medicare –
non monetario e immateriale, ma reale e inalienabile, a differenza del valore delle case e dei titoli di Borsa. Così è, e continuerà a essere, finché non si ridurranno i benefici futuri.
Inoltre, alcune delle banche più importanti sono quasi certamente alla rovina. Abbandonata la prudente gestione dei rischi
nell’atmosfera di complicità e negligenza normativa dell’Amministrazione Bush, queste banche hanno partecipato allegramente a un gioco avvelenato di crediti ipotecari irregolari seguiti da
frenetici tentativi di scaricabarile – cedi il credito a rischio a uno
più cretino di te. Ma non hanno potuto ‘scaricarli’ tutti. E quando la musica è finita, nell’agosto 2007, le banche si sono accorte che i mercati dei loro titoli ipotecari tossici erano crollati, e
che esse stesse non erano più solvibili. Da allora, soltanto un
ostinato rifiuto politico di ammettere la realtà ha evitato alle
banche la liquidazione fallimentare ad opera della FDIC, cosa che
la FDIC ha il potere di fare, e ha già fatto l’anno scorso con la
IndyMac in California.
Il piano del ministro del Tesoro Geithner per le banche prolungherà ulteriormente questo rifiuto della realtà. Prevede infatti
che il governo garantisca i bad assets, mantenendo in carica i vertici bancari e tentando di attrarre capitali privati freschi (la conversione delle azioni privilegiate in ordinarie, che è possibile con
Citigroup, non dà al governo nessun potere che già non abbia nella
sua veste di regolatore). L’idea di fondo è che sia possibile rimettere in sesto le banche a partire dal tetto l, ristabilendo mercati per i
loro titoli tossici. Se l’idea ha un che di familiare, nulla di strano:
Henry Paulson m l’aveva sostenuta a spada tratta, al punto di farla
approvare dal Congresso. Ma poi l’ha abbandonata. Come mai?
Gli avevano spiegato che non poteva funzionare.
Paulson si era scontrato con due problemi insormontabili.
Uno era un problema di quantità: semplicemente, i bad assets
l
Nel testo: Topdown (NdT).
Ministro del Tesoro di George W. Bush (NdR).
m
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erano troppi. Il progetto di riacquistarli era un po’ come «riempire l’Oceano Pacifico di palloni da basket», per citare le parole
di un osservatore dell’epoca. Quando ho cercato di appurare da
dove proveniva la richiesta iniziale di 700 miliardi di dollari nel
Troubled Asset Relief Program (TARP) n, una vecchia conoscenza
del Senato mi ha risposto: – Beh, è una cifra a metà strada fra
500 miliardi e mille miliardi di dollari.
L’altro problema riguardava il prezzo. L’unico prezzo al quale
si potevano trattare i titoli, tutelando i contribuenti, era ovviamente il prezzo di mercato. Un prezzo troppo basso per salvare le
banche, nel crollo generale del mercato dei titoli ipotecari e dei
credit default swaps o ad essi collegati. Ma un prezzo più elevato
equivaleva a una elargizione di fondi pubblici, giustificabile solo
se vi fossero state buone probabilità che i titoli avrebbero recuperato il loro valore, col ritorno della situazione alla ‘normalità’.
Naturalmente, tale probabilità si può accertare soltanto procedendo come farebbe un qualsiasi investitore privato di buon
senso: con la due diligence, vale a dire uno scrupoloso controllo
n
Il Troubled Asset Relief Plan (TARP) è un programma del governo degli Stati
Uniti per l’acquisto di beni e di capitale da istituzioni finanziarie, al fine di rafforzare il settore finanziario. È la misura più rilevante del governo degli Stati
Uniti nel 2008 per affrontare la crisi dei mutui subprime. Questo provvedimento
consente al Tesoro di acquistare o di assicurare fino a 700 miliardi di dollari di
assets ‘tossici’ cioè gli assets subprime a rischio (strumenti finanziari collegati ai
mutui ad alto rischio, cosiddetti ‘titoli spazzatura’) e altri titoli frutto di varie operazioni di ingegneria finanziaria che hanno eroso i cespiti delle banche, e copriva quindi con garanzie proprie il mercato dei mutui in crisi. Prevedeva anche un
aumento da 100.000 a 250.000 dollari del tetto di assicurazione dei depositi bancari a carico della Federal Deposit Insurance Corporation (NdC).
o
Lo swap, nella finanza, appartiene alla categoria degli strumenti derivati,
e consiste nello scambio di flussi di cassa tra due controparti. Il credit default
swap (CDS) è uno swap che ha la funzione di trasferire l’esposizione creditizia
di prodotti a reddito fisso tra le parti. È il derivato creditizio più usato. È un
accordo tra un acquirente e un venditore per mezzo del quale il compratore
paga un premio periodico a fronte di un pagamento da parte del venditore nel
caso di un evento relativo a un credito (come ad esempio il fallimento del
debitore) cui il contratto è riferito. Il CDS viene spesso utilizzato con la funzione di polizza assicurativa o copertura per il sottoscrittore di un’obbligazione.
Tipicamente la durata di un CDS è di cinque anni (NdR).
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di documenti concernenti i mutui. A giudicare dalle apparenze,
tali controlli riveleranno una percentuale altissima di documenti mancanti, valutazioni gonfiate, e altre prove di frode (alla fine
del 2007 l’agenzia di rating Fitch effettuò un lavoro del genere su
un piccolo campione di pratiche per la concessione di mutui, e
verificò la presenza di elementi falsi o fraudolenti virtualmente
in tutte le pratiche). Ciò detto, sarebbe ragionevole dedurre che
il numero di mutui non pagati aumenterà ancora di molto. E
quindi, è pressoché sicuro che il progetto di Geithner di garantire questi presunti assets consiste nel sovrastimare il loro valore,
con la conseguenza che questo sarà solo un modo per procrastinare il riconoscimento pubblico definitivo del crollo, continuando a tenere a galla i colpevoli.
Procrastinare l’intervento non è una scelta ‘neutrale’.
Allorché si ignora lo stato di insolvenza di una banca, vengono
meno gli incentivi a operare con normale prudenza. I vertici
bancari non hanno nulla da perdere, e possono assumere ancora
altri grossi rischi, in mercati volatili come quelli delle merci,
nella speranza di riuscire a salvarsi prima dell’arrivo dei controlli per la resa dei conti. Oppure, possono spolpare completamente il loro istituto – privatizzazione della nomenclatura, alla russa
– elargendo stock options, dividendi e bonus ingiustificati. I vertici di una banca non riveleranno mai spontaneamente l’entità
dell’insolvenza dell’istituto.
Lo scenario più verosimile, se dovesse andare avanti il
piano del Tesoro, è una combinazione di spoliazione degli istituti, frodi, e una nuova ondata di speculazioni in mercati di
merci volatili come il petrolio. In ultima analisi le perdite
ricadono comunque sul pubblico, stante che i depositi sono
ampiamente assicurati. Non esiste la minima possibilità che le
banche riprendano la loro normale attività di credito a lungo
termine, così, semplicemente. A chi dovrebbero fare credito?
Per che cosa? A fronte di quale garanzia collaterale? E se le
banche saranno ricapitalizzate senza cambiare i loro vertici,
perché mai dovremmo aspettarci da loro un comportamento
diverso rispetto a quello che è all’origine della situazione di
insolvenza attuale?
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La cosa più strana del programma di Geithner consiste nella sua
incapacità di agire come se la crisi finanziaria in atto fosse una
vera crisi – una minaccia totale e a lungo termine per l’economia – e non semplicemente un paio di problemi correlati fra loro
ma temporanei, uno nelle banche e l’altro nell’occupazione. Nel
sistema bancario, la metafora dominante è quella dell’idraulico:
c’è un blocco da spurgare. Aspirate con la ventosa i titoli tossici, si dice, e le condizioni del credito torneranno alla normalità.
E questo, quindi, farà sì che la recessione rientri sostanzialmente nella normalità, dando maggior forza al pacchetto di incentivi economici. Risolvete questi due problemi, e la crisi finirà. È
questa l’idea.
Ma la metafora dell’idraulico ci porta fuori strada. Il credito non è un flusso, non è un qualcosa che si può costringere a
scorrere verso il basso, sturando un tubo. Il credito è un contratto, e richiede qualcuno che dà un prestito a fronte di qualcuno che chiede un prestito, una banca a fronte di un cliente.
E il mutuatario deve soddisfare due condizioni indispensabili.
Una è la sua affidabilità finanziaria, il che vuol dire un reddito
sicuro e, generalmente, una casa propria di un certo valore. E
a questo punto, i prezzi degli assets sono importanti. Con un
eccesso cronico di offerta di case, i prezzi crollano, la garanzia
collaterale scompare, e anche se i mutuatari sono ben disposti,
non possono offrire i requisiti necessari per ottenere un prestito. L’altra condizione è la volontà di chiedere un prestito,
motivata dagli ‘spiriti animali’ di Keynes, cioè l’entusiasmo
imprenditoriale. Inutile dire che, in una crisi, tale ottimismo
scarseggia: anche se una persona dispone di garanzie collaterali, preferisce comunque la sicurezza del contante. E proprio perché vuole il contante, la gente non ci pensa proprio a svenarsi
per cominciare a pagare una macchina nuova.
La metafora del credito come flusso implicherebbe che la gente
fosse arrivata a frotte per vedere i nuovi modelli di auto nel novembre scorso, e che non avesse potuto acquistarli perché non era possibile ottenere un prestito. Ma non è vero – è successo invece che
la gente non è andata a visitare le nuove esposizioni. E non ci è
andata perché, all’improvviso, si è sentita povera.
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Trovandosi in ristrettezze, la gente ha paura e vuole i contanti:
è quello che gli economisti definiscono la ‘trappola della liquidità’.
E la situazione diventa sempre peggiore: in queste condizioni, le
normali stime dei moltiplicatori – il migliore rendimento della
spesa – possono risultare eccessive. La spesa pubblica in beni e servizi aumenta sempre direttamente la spesa totale; un dollaro di
spesa pubblica è un dollaro di PIL. Ma se i lavoratori si limitano
semplicemente a risparmiare il loro reddito supplementare, o l’utilizzano per pagare i debiti, l’effetto a catena si ferma lì. Per quanto
riguarda le riduzioni fiscali (soprattutto dalla middle class in su), i
fondi liberati sono in massima parte risparmiati o utilizzati per
pagare i debiti. La riduzione dei debiti può contribuire a creare le
premesse per tempi migliori a venire, ma non aiuta nell’immediato. Con moltiplicatori più piccoli, per riuscire a riempire tutte le
falle della domanda totale, il pacchetto della spesa pubblica dovrà
essere ancora più ingente. In tal modo, la crisi finanziaria rende
ancora peggiore la crisi dell’economia reale, e in buona sostanza il
fallimento del piano del Tesoro per le banche ci garantisce che
anche il pacchetto degli incentivi sarà troppo esiguo.
Per farla breve, se ci troviamo di fronte a un vero crollo finanziario, i nostri modelli non servono. E allora, è opportuno tornare indietro nel tempo, ancor prima degli anni del dopoguerra,
fino all’esperienza della Grande Depressione. E questo è possibile farlo soltanto con un’analisi di tipo storico e qualitativo. I
nostri modelli numerici moderni non sono assolutamente in
grado di cogliere la caratteristica centrale di quella crisi – che è,
appunto, il crollo del sistema finanziario.
Se il sistema bancario è azzoppato, per agire con efficacia, il
settore pubblico dovrà fare molto, molto di più. Quanto? Di quanto è possibile aumentare la spesa in una depressione dell’economia
reale? Ed è un rimedio che funziona? In questi ultimi mesi si è fatto
un gran discutere degli effetti economici del New Deal, e si è detto
e ripetuto il luogo comune che Roosevelt abbia fatto troppo poco
per porre termine alla Grande Depressione – obiettivo realizzato,
sia detto, soltanto con la Seconda guerra mondiale. Un recente
scritto dell’economista Marshall Auerback ha rimesso le cose a
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posto. Auerback ci fa vedere con chiarezza in quale misura le
ambizioni di Roosevelt abbiano superato tutto quello che abbiamo visto fare finora nella crisi attuale:
Il governo (di Roosevelt) ha assunto circa il 60% dei disoccupati in progetti di conservazione ambientale e lavori pubblici che
hanno consentito di piantare un miliardo di alberi, di salvare la gru
urlatrice, di modernizzare l’America rurale, e costruire un’ampia
gamma di progetti, dalla Cattedrale del sapere a Pittsburgh, al
Campidoglio dello stato del Montana, gran parte del Lungolago di
Chicago, il complesso del Lincoln Tunnel e Triborough Bridge a New
York, la Tennessee Valley Authority e le portaerei Enterprise e
Yorktown. Furono anche costruiti o ristrutturati 2500 ospedali,
45.000 scuole, 13.000 fra spazi verdi e parchi giochi, 7800 ponti,
700.000 miglia di strade, e mille aeroporti. E ha dato lavoro a
50.000 insegnanti, ricostruito l’intero sistema delle scuole rurali del
paese, e assunto 3000 scrittori, musicisti, scultori e pittori, fra cui
Willem de Kooning e Jackson Pollock.
In altri termini, Roosevelt ha dato lavoro agli americani su
vasta scala, riducendo i tassi di disoccupazione a livelli sopportabili, già prima della guerra – passando dal 25% nel 1933 a meno
del 10% nel 1936, se contiamo, com’è giusto, fra gli occupati le
persone che lavoravano per il governo. Nel 1937 Roosevelt cercò
di riportare in pareggio il bilancio, ci fu una nuova crisi dell’economia, e nel 1938 fu rilanciato il New Deal. E questo ridusse la
disoccupazione a circa il 10%, già prima della guerra.
Il New Deal ha ricostruito materialmente l’America, creando
le condizioni che hanno permesso di lanciare la grande mobilitazione della Seconda guerra mondiale (si pensi per esempio alle
centrali elettriche della Tennessee Valley Authority). Ma il New
Deal ha anche salvato il paese sul piano politico e morale, offrendo posti di lavoro e alimentando la speranza e la fiducia nel fatto
che, alla fin fine, valeva la pena di salvare la democrazia. Non
erano pochi, negli anni Trenta, a pensarla diversamente.
Quello che non si è ripreso, sotto Roosevelt, è stato il sistema
delle banche private. I mutui e i finanziamenti – ipoteche e costruzione degli alloggi – hanno contribuito alla crescita della produzioS T A T O
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ne negli anni Trenta e Quaranta molto meno di quanto avessero
fatto negli anni Venti, o di quanto avrebbero fatto poi nel dopoguerra. Chi aveva qualche risparmio lo metteva al sicuro in Buoni
del Tesoro e, nonostante gli enormi deficit, i tassi d’interesse del
debito federale sono rimasti vicino allo zero. La ‘trappola della
liquidità’ è stata superata soltanto dopo la fine della guerra.
È stata la guerra, e soltanto la guerra, a ripristinare (o, per l’esattezza, a creare per la prima volta) la ricchezza finanziaria della
middle class americana. Negli anni Trenta, la spesa pubblica è
stata generosa, ma i redditi da lavoro venivano spesi. Era una
spesa che aumentava i consumi, ma che non ha fatto decollare
un ciclo di investimenti e di crescita, perché le fabbriche rimaste inattive dalla fine degli anni Venti erano largamente sufficienti a soddisfare la domanda di maggiore produzione. Soltanto
dopo il 1940 la domanda totale superò la capacità dell’economia
di produrre beni per i civili – in parte per il forte incremento dei
redditi privati, in parte perché il governo aveva ordinato di bloccare la produzione di alcuni prodotti, come le auto.
Tutto quel surplus di domanda in condizioni normali avrebbe
fatto lievitare i prezzi, ma il governo federale lo impedì tenendo
i prezzi sotto controllo. (Notizia: il padre di chi scrive, John
Kenneth Galbraith, fu l’uomo che gestì i controlli del primo
anno della guerra.) E così, non avendo nessun altro sbocco per i
loro soldi in più, i cittadini hanno comprato i buoni pluriennali
del Tesoro e se li sono tenuti. Questo comportamento ha creato
le premesse per aumentare il potere d’acquisto nel dopoguerra,
allorché milioni di persone titolari di Buoni del Tesoro sono
state considerate degne di credito; ha consentito la rinascita
delle banche private, e su una base molto ampia, incentrata sulla
middle class, che è stata la differenza principale fra gli anni
Cinquanta e gli anni Venti. Ma per il rilancio della finanza privata ci sono voluti vent’anni, e anche la guerra.
Una breve riflessione sulla storia passata e sulle circostanze
attuali porta a una conclusione evidente: per ristabilire pienamente il credito privato ci vorrà molto tempo; e ciò avverrà
dopo, e non prima, il ritorno delle famiglie alla solidità finanziaria. Non c’è alcun modo di far funzionare il progetto del Tesoro
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volto a far risorgere l’economia pompando soldi nelle banche.
Una politica efficace può funzionare soltanto seguendo il percorso inverso.
Stando così le cose, che cosa si deve fare adesso? Prima di tutto,
sulla scia della legge anticrisi, ci servono altre leggi anticrisi. Le
prossime iniziative dovranno essere di più vasta portata, riflettendo le dimensioni autentiche dell’emergenza. Ci dovrà essere
un sostegno illimitato per l’amministrazione a livello dei singoli
stati e degli enti locali, per i servizi pubblici e per i trasporti, le
università, le scuole e gli ospedali pubblici per tutta la durata
della crisi, e un generoso sostegno agli investimenti pubblici di
capitale sia a breve che a lungo termine. Nella misura del possibile, tutte le risorse attivate dalle industrie per l’edilizia residenziale privata e ad uso commerciale dovranno essere assorbite da
progetti dell’edilizia pubblica. Sarà necessaria un’ampia sospensione delle vendite all’asta delle case ipotecate, con una moratoria seguita da ristrutturazioni del debito o dalla conversione
della ex proprietà in affitto, escludendo solo i casi di investimento a fini speculativi e di frode del mutuatario. Il progetto
presidenziale di divieto delle vendite giudiziarie è un passo nella
direzione giusta per alleviare il peso delle ipoteche sulle famiglie
a rischio, ma non potrà bloccare la corsa al ribasso dei prezzi
delle case, né correggere l’eccesso cronico di offerta immobiliare
che è all’origine di questa spirale negativa.
In secondo luogo, dovremo intervenire per neutralizzare la
caduta improvvisa della ricchezza della popolazione anziana nel
suo complesso. La situazione degli anziani finora è passata pressoché inosservata, ma la crisi li colpisce in tre modi distinti: con
la caduta dei titoli di Borsa, il crollo dei valori delle case, e il
calo dei tassi d’interesse, che a sua volta riduce l’ammontare
degli interessi sui depositi bancari. Per un numero sempre crescente di anziani, l’unica fonte di ricchezza a disposizione sono
la sicurezza sociale e Medicare.
Il che vuol dire che quanti vogliono riformare i diritti sociali
non hanno capito un bel nulla: invece di ridurre i benefici della
sicurezza sociale, dovremmo potenziarli, soprattutto per chi occupa
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PARTE SECONDA
i gradini più bassi della scala sociale. In realtà, in questa crisi, grazie al suo carattere universale e alla sua efficienza, la sicurezza sociale è un vero e proprio asso nella manica per la ripresa economica.
Incrementare le tutele è una maniera semplice, diretta, progressiva
e molto efficiente per prevenire la povertà e sostenere il potere
d’acquisto di questa popolazione così vulnerabile. Proporrei anche
l’opportunità di ridurre, diciamo, a 55 anni, l’età di accesso a
Medicare, in modo da consentire ai lavoratori un pensionamento
anticipato e di liberare le aziende dal peso dei progetti di assistenza sanitaria a favore dei lavoratori più anziani.
Questo consiglio mira, almeno in parte, ad attirare l’attenzione su quell’autentica follia di cui si parla tanto: i tagli alla
sicurezza sociale e a Medicare, appunto. La prospettiva di riduzioni future di questa fonte modesta ma essenziale di sicurezza
dopo il pensionamento potrà soltanto destare preoccupazione fra
i lavoratori nel pieno vigore dell’età e indurli a spendere di
meno e a risparmiare di più sin da oggi. E tale comportamento
non farà che aggravare ulteriormente la crisi economica in atto.
In realtà non esiste affatto un ‘problema di finanziamento’ della
sicurezza sociale. Esiste piuttosto un problema di assistenza sanitaria, ma ciò può essere affrontato soltanto decidendo quali servizi sanitari fornire a tutta la popolazione, e come pagarli. Non
può essere affrontato, né sul piano dell’etica né su quello della
responsabilità, riducendo l’assistenza agli anziani.
In terzo luogo, presto avremo bisogno di un programma occupazionale per riportare i disoccupati al lavoro in tempi brevi. La
spesa in infrastrutture può essere utile, ma occorrono anni e anni
per mettere in moto i grandi progetti di costruzioni e questi, a
loro volta, potranno sostanzialmente fornire posti di lavoro soltanto a lavoratori qualificati. E allora, il governo federale dovrà
sponsorizzare progetti per assumere persone per far fare loro
quello che sanno fare meglio, includendo anche le arti, le lettere, il teatro, la danza, la musica, la ricerca scientifica, l’insegnamento, la tutela dell’ambiente, e il settore non-profit, compresa
– perché no? – l’organizzazione delle comunità.
Infine, un periodo di sospensione delle trattenute fiscali sulla
busta paga sarebbe utile a ricostituire il potere d’acquisto delle
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famiglie dei lavoratori, oltre a incoraggiare i loro datori di lavoro a mantenerli a libro paga. Questa è un’indicazione estremamente efficace, perché si applica su vasta scala e con effetto
immediato; inoltre, se la crescita ripartirà in tempi brevi, sarà
anche possibile ridimensionarla. Non c’è nulla di irreparabile se
si pecca per eccesso, basta correggersi riducendo gli interventi.
Quando queste misure cominceranno a farsi sentire, il governo
dovrà assumere il controllo delle banche insolventi, per quanto
grandi esse siano, e porre mano al lavoro di riorganizzazione,
riregolamentazione, decapitazione dei vertici e ricapitalizzazione
di tutto il sistema bancario. Sarà necessario imporre una garanzia totale sui depositi per evitare fughe di clienti, e il capitale privato di rischio (azioni ordinarie e privilegiate e debito connesso) dovrà essere il primo a subire i colpi della crisi. Si dovranno
imporre limiti effettivi alle remunerazioni – è un fatto positivo
che ciò incoraggerà i vertici delle banche ad andarsene. Come
ha giustamente osservato il senatore del Connecticut Christopher Dodd nel trambusto generale –, allorché si è scoperto che i
senatori democratici avevano imposto limiti rigorosi nella legge
anticrisi – non mancano certo le persone competenti per sostituire chi se ne andrà.
In ultima analisi, le grandi banche potranno essere cedute, al
pari degli istituti privati più piccoli, gestite su una scala tale da
consentire di operare con prudenza sia l’accertamento dei crediti
che la gestione dei rischi, con persone abbastanza vicine ai loro
clienti da favorire un’effettiva ripresa, fra l’altro, del credito alle
famiglie e alle piccole imprese indipendenti – un’altra caratteristica degli anni ’50 ormai perduta. Nessuno deve immaginare che
si voglia lavorare per un ritorno del mondo dell’alta finanza, dei
banchieri rampanti e delle bolle creditizie. Le grandi banche
saranno gestite principalmente da uomini e donne che operino in
una prospettiva a lungo termine, con la visione e il temperamento dei middle managers, e non con quella dei plutocrati autoreferenziali della finanza ‘mordi e fuggi’, come avviene adesso.
È poco ma sicuro: si tratta di un programma che farà inorridire i numerosi, e rumorosi, falchi del deficit e i riformatori dei
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diritti ai servizi sociali. Ma allora, il deficit? E il debito pubblico?
Che facciamo? Sono domande inevitabili, e allora cerchiamo di
rispondere.
Primo punto, il deficit e il debito pubblico degli USA potranno, dovrebbero, dovranno necessariamente aumentare, e aumenteranno durante la crisi. Aumenteranno a prescindere, quali che
siano gli interventi del governo. Si tratta di scegliere fra un programma attivo, che fa salire il debito mentre si creano nuovi
posti di lavoro e si ricostruisce il paese, e un programma passivo,
che fa salire il debito perché i redditi crollano, perché la popolazione deve essere sostenuta con i sussidi di disoccupazione, e
perché il Tesoro, senza alcun motivo concreto, desidera salvare i
grandi banchieri e rimetterli in sella.
Secondo punto. Fin tanto che l’economia seguirà un percorso virtuoso, un aumento massiccio del debito pubblico non creerà il rischio che gli Stati Uniti si trovino a ripetere l’esperienza
dell’Argentina e dell’Indonesia. Perché? Ma perché il resto del
mondo riconosce il fatto che gli Stati Uniti svolgono alcune
funzioni indispensabili – in particolare, sono il fulcro della sicurezza collettiva e una fonte importante di innovazione scientifica e tecnologica. Finché assolveremo tali responsabilità, è probabile che il resto del mondo vorrà continuare a farci credito.
Terzo punto. Nella situazione attuale, con la debt deflation, la
‘trappola della liquidità’ e una crisi globale, non c’è alcun rischio
che anche un programma massiccio possa generare inflazione o
più alti tassi d’interesse a lungo termine. Almeno questo è evidente, alla luce delle condizioni finanziarie attuali: i tassi d’interesse dei titoli del Tesoro a lunga scadenza sono sorprendentemente bassi. Questi tassi ci dicono anche che i mercati non sono
preoccupati per il finanziamento della sicurezza sociale e di
Medicare. Si preoccupano piuttosto – come me – del fatto che lo
scenario economico generale continuerà ad essere molto cupo
ancora a lungo.
E, infine, c’è il grosso problema: come ricapitalizzare le famiglie nel loro complesso? Come restituire loro la sicurezza e la prosperità produttive per la prossima generazione? Esiste qualcosa di
fattibile, oggi, che abbia dimensioni paragonabili alla grande traS T A T O
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sformazione provocata dalla Seconda guerra mondiale? Quasi
certamente no; la Seconda guerra mondiale ha raddoppiato la
produzione nel giro di cinque anni.
Al giorno d’oggi, i problemi più generali che dobbiamo
affrontare riguardano la sicurezza energetica e il cambiamento
climatico – problemi imponenti, perché l’energia è alla base di
tutte le nostre attività, e perché il cambiamento climatico
minaccia la sopravvivenza stessa della civiltà. Per questo, evidentemente, occorre un impegno nazionale a tutto campo. Una
cosa del genere, fatta bene, combinando la pianificazione e l’attivazione dei mercati, potrebbe aggiungere il 5 e anche il 10%
del PIL agli investimenti netti. Non siamo ancora ai livelli della
mobilitazione bellica, ma già questo probabilmente basterebbe a
riportare il paese alla piena occupazione, stabilmente per molti
anni.
Inoltre, il lavoro da fare presenta effettivamente importanti
analogie con la mobilitazione bellica. Protezione contro le inclemenze climatiche, conservazione dell’ambiente, trasporti pubblici, fonti d’energia rinnovabili e reti intelligenti sono tutti
investimenti pubblici. Come è avvenuto per gli armamenti nella
Seconda guerra mondiale, il lavoro in questi settori dovrebbe
generare redditi non assorbiti dalla maggiore produzione di beni
di consumo. Gestiti con cautela – diciamo, con un nuovo programma di diritti a futuro potere d’acquisto, come i titoli di guerra – i redditi guadagnati lavorando sulla sicurezza dell’approvigionamento energetico e il cambiamento climatico hanno la
potenzialità di porre le fondamenta per ricostruire la ricchezza
finanziaria della middle class.
Tutto questo non potrà realizzarsi in appena tre anni, come
abbiamo fatto nel 1942-1944. Ma potremmo riuscirci, diciamo,
nell’arco di venti anni, o qualcosa di più. Gli elementi necessari sono una pianificazione attenta e costante nel tempo, una
linea politica coerente, e la consapevolezza che adesso non ci
sono rimedi immediati, non c’è una strada agevole per il ritorno
alla ‘normalità’, non si può tornare a un mondo dove comandano i banchieri – e non c’è alcuna alternativa, se non lavorare per
una prospettiva ancora lontana.
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PARTE SECONDA
Paradossalmente, è proprio questo il momento di dar prova di
lungimiranza, di lavorare su tempi lunghi. Dobbiamo metterci in
moto prima che si commettano errori disastrosi, fatali, quali i
salvataggi dei banchieri e i tagli a Medicare e alla sicurezza sociale. Per questo, è della massima importanza muoversi velocemente, pensare e imparare rapidamente. Il team del ministro del
Tesoro, costruito e addestrato in tempi normali, avrà l’apertura
mentale e la flessibilità necessarie? In caso contrario, alla fine
tutto dipenderà – come ai tempi di Roosevelt – dall’immaginazione e dalla tempra del presidente Obama.
Traduzione di Rita Imbellone
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