18/11/1993 - 2° - trascrizione
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18/11/1993 - 2° - trascrizione
Nome file 931118SP1.pdf data 18/11/1993 Contesto ANTE Relatori AA VV PR Cavalleri R Colombo GB Contri Liv. revisione Trascrizione SEMINARIO DI SCUOLA PRATICA DI PSICOLOGIA E PSICOPATOLOGIA 1993-1994 NORMALITÀ E IMPUTABILITÀ NELLE QUATTRO PSICOPATOLOGIE 18 novembre 1993 2° LEZIONE TESTO INTEGRALE GIACOMO B. CONTRI INTRODUZIONE Ricordo una delle idee pratiche della volta scorsa: fa parte non solo dei vostri diritti, ma dei vostri doveri, il partecipare al seminario con quesiti che sorti di volta in volta, in qualsiasi momento, formulati su un pezzo di carta e deposti su questo tavolo. Quesiti di ogni genere e specie, quali essi siano. Infatti, di volta in volta, ogni incontro inizierà con l’esame di questi fogli, dando nella misura del possibile, una anche parziale risposta fin dall’inizio. Io vi invito a farlo davvero. Mettiamo alla prova ciò che ho detto. Potrebbe essere una prova riuscita, potrebbe essere una prova fallita: è la natura della prova. Vi leggo le domande pervenute. Sull’autismo, quindi per Pietro Cavalleri: «Pietro Cavalleri dice: imperativo di totale adeguamento ad un altro, pensato come realtà fisica. L’altro è nemico. Dire che l’altro è nemico ne suppone l’esistenza. A me pare di osservare piuttosto reazioni di terrore, panico, nei soggetti autistici di fronte alla scoperta di una emozione dell’altro o di fronte a un “prodotto finito” realizzato, come davanti a qualcosa di non contemplato, imprevisto, estraneo. A tutto, indistintamente, si adeguano. Ogni cosa è abbordabile, ma nulla è il nesso con ciò che precede. Non c’é trasformazione o possibilità di ordinare in vista di qualche cosa. Ora una cosa, ora l’altra, senza legami o unità di percorso. Una cosa è uguale all’altra. Mi è accaduto di osservare un tentativo di mimesi con i moti dell’altro — vedi i replicanti — esempio il riso o il pianto. Non c’è più un “tu” da odiare. Quando l’altro viene percepito mirato, distinto come permanente potenziale nemico, non è a questo punto che il soggetto autistico inizia a potere guarire?» Un’altra domanda il cui riferimento è al Don Chisciotte; «Mi sembra che Don Chisciotte si mette a “curare” gli altri come fosse uno che l’ha anche scampata bella e volesse vedere come si regolano prete e medico. Che passo ha fatto, secondo lei, di pensiero e di pratica, per uscire dalla malattia e dare così giudizi e consigli? Insomma, come è potuto passare dalla da malato, al di malato? Vorrei un esempio, visto che l’uomo dei Seicento ci è così vicino.» Di mio aggiungo solo questo: fa parte dei vostri diritti-doveri apportare di volta in volta i vostri interrogativi, domande. Una seconda cosa, un filo più laboriosa, e la formulo ancora in modo sommario, io stesso non ho del tutto chiaro che cosa può corrispondere a ciò che ripeto: una buona parte dei presenti ha già una pratica, 1 quale che sia. Allora, chiarirei al meglio così l’idea: mettetevi in mente di cercare di trasformare qualcuno, alcuni dei casi che seguite in resoconti, in brevi interventi che possano poi essere esaminati, consultati insieme, incrementati, trasformati in esperienza con altri, in resoconti, appunti, in materiale iniziale. Che poi possano essere ripresi, essere incrementati e presi in considerazione qui. Iniziare a farne qualcosa dei casi che già seguite. E portandoli, essi saranno presi in esame. C’è un’altra cosa riguardante la pratica di tutti, che rimaneva in sospeso già la volta scorsa e che riprenderò al termine. È un’indicazione della Scuola per tutti e ve ne parlerò al termine. PIETRO R. CAVALLERI L’AUTISMO (SECONDA PARTE) (Testo mancante) DOMANDE AMBROGIO BALLABIO La questione che pongo non è una critica alla relazione; è solo perché il lavoro in corso che tra me e Pietro su certi temi dura da anni, lo stiamo portando avanti e soprattutto a scopo didattico mi sembra utile che questa domanda sia posta in questo momento, cioè l’autismo presentato dal punto di vista concettuale, come è stato presentato oggi, credo che venga molto da chiedersi se è prevalente nell’handicap o nelle psicosi, visto che per noi sono due delle quattro categorie in cui dividiamo la psicopatologia. Indipendentemente dalla prevalenza, ti chiedo se la prossima volta puoi distinguere a un qualche livello, come l’autismo si presenta nell’handicap e come si presenta nelle psicosi. Secondo me questo potrebbe essere utile anche nella definizione dei due campi della patologia. SANDRO BOSSI Volevo chiedere come mai San Paolo dice che uno può dare a bruciare il proprio corpo per gli altri, ma se non ha la carità non gli serve a nulla, dove si vede che la carità appunto non è una legge morale interiore… Lo dico perché è una cosa che a me capita di vedere spesso nei pazienti, che a certe fatiche esiste proprio l’idea che la vita è fatta proprio per aiutare gli altri. E invece la carità non è né una legge morale, né un istinto umano, ma un sano rapporto, un rapporto normale. PIETRO CAVALLERI Direi una sola parola su questo intervento di Sandro Bossi. Credo che quella sedicente carità di cui sopra, sia scissa dal giudizio. Allorché la si intende come scissa dal giudizio è una carità pelosa. In questo senso l’altruismo è veramente una carità senza giudizio, senza esercizio di un giudizio che in primo luogo è distinzione in sé stessi di ciò che conviene e ciò che non conviene e in secondo luogo è distinzione nell’offerta dell’altro di ciò che va bene e ciò che non va bene, là dove l’offerta dell’altro è anche della sua insufficienza, della sua mancanza. Cioè, l’altro lo si incontra. Ci sono diversi modi attraverso cui avviene l’incontro con l’altro. Uno dei modi è che l’altro lo si possa incontrare ancor prima che nell’offesa, lo si possa incontrare nella sua insufficienza. La carità non si precipita a colmare questa insufficienza. Non ha questa pretesa. Credo che in primo luogo lo scopo della carità sia di giudicarla. Solo su questo si costruisce una relazione. Poi avrà gli scopi, i caratteri che i due vorranno o potranno dare. Ora non saprei dire di più. 2 RAFFAELLA COLOMBO LA NARRAZIONE DI CASI (SECONDA PARTE) Riprenderò quasi subito il riassunto del caso che ho presentato la volta scorsa e ricordo il motivo: narrare un caso è vero se questo caso è un caso curato, se si tratta di una guarigione, se è avvenuta una guarigione. È vero perché c’è un nesso fra il raccontare il caso e il filo della cura che porta alla guarigione. Qual è il filo del racconto, se un racconto ha una trama? La trama di un racconto di un caso di guarigione è la trama del figlio. Del figlio. È il racconto di un figlio. Chi lo racconta è colui di cui si racconta. È nel caso del piccolo Hans che c’è un’indicazione a questo proposito: Hans, un bambino di 5 anni, si sente dire dal Dr. Freud che lui c’era già prima ancora che Hans nascesse. Questo mi è venuto alla mente quando Giacomo Contri la volta scorsa introduceva il nesso che c’è fra la cura e la narrazione. E Hans conclude alla constatazione di Freud — c’ero prima che tu nascessi, io c’ero già prima che tu nascessi — Hans conclude: allora il Dr. Freud ha parlato con Dio? C’è qualcuno che sa che chi può guarire può permettere di guarire, chi può guarire può guarire. Riprendo il caso, dandone il riassunto. La trama è elementare, una volta concluso il caso. La prima parte è la parte che si conclude con la malattia, cioè il primo cambiamento. Nel caso che ho raccontato sono i primi sedici anni. Sono atti compiuti da altri che hanno portato una persona ad ammalarsi. Questi primi anni — in questo caso, questi sedici anni — sono ricordati più tardi in un modo particolare. Cioè, il ricordo dei primi anni viene trasformato dalla malattia perché regga la malattia. Cioè alcuni ricordi che precedono la malattia, nella patologia vengono trasformati dal malato come prova che giustifichi il suo essere malato. E ne avevo dato degli esempi. Uno riguardava la bambola ed era un tema che era ritornato più volte: all’asilo rompe le bambole; la maestra regala a una bambina che invece non le rompe la sua bambola preferita. Da allora odia i bambini che giocano con le bambole. Più grande, riceve da un uomo che sta frugando nella pattumiera sulla strada una bambola in regalo. Lo denuncia o fa sì che venga denunciato e ricorda questo come una menzogna. La menzogna, per questa donna, il mentire è un’idea fissa. Tant’è che dice di non riuscire a non mentire. Dice di ottenere ciò che vuole soltanto ingannando, soltanto rubando. Non dice al marito, per tanto tempo, neanche della cura, quale sia il suo sintomo. E questo non dire è contrapposto all’autoaccusa di non dire tutto. Dire la verità = dire tutto, per lei. Un racconto non è dire tutto. Dire il vero, dire la verità non è dire tutto. Dire il vero è parlando, dire è vero questo. Riguardo a ciò che piace: è vero che questo non piace, se qualcuno dice mi piace; se qualcuno dice non mi piace, il giudizio è non è vero che non mi piace. Quindi, la prima caratteristica della narrazione è il fatto che i primi ricordi vengono trasformati e si ritrovano dopo il cambiamento attivo, cioè dopo l’assunzione attiva della malattia, si ritrovano trasformati e messi al servizio, utilizzati per mantenere la malattia. Vengono usati per costruire dei meccanismi di condotta, di parlare, di agire, di trattare cose e persone, in modo che vengano mantenuti da una parte il ricordo dell’offesa ricevuta: sono stata ammalata, sono vittima di…, sono stata ingannata. Questo da una parte. E dall’altra servono a sostenere il meccanismo che si ripete, che sostiene la malattia. Quindi, da una parte i primi ricordi, dall’altra il modo in cui i ricordi vengono ricostruiti nella malattia e persiste nella patologia. Come avviene questa trasformazione che è una trasformazione attiva operata dal malato, dal soggetto? Avviene al momento in cui — qui ripeto le parole di questa donna — in cui viene ribaltato un ordine, cioè in cui il soggetto non domanda più. Nel caso di questa donna, c’è ancora un esempio riguardo a questo: il padre era proprietario di un negozio di radio, televisioni, e tra i 12 e i 14 anni era entrata nel negozio e senza domandare si era servita di dischi ed era uscita. Un commesso la vede e le dice che è una ladra. In quel momento lei ha sottratto qualcosa senza chiedere; cioè si è permessa di portare via qualche cosa senza chiedere. Da adulta prende questo episodio facendone un esempio che utilizza per una teoria, facendone un paradigma: «Credevo che tutto ciò che apparteneva a mio padre fosse mio. Non è vero che quello che è di mio padre è mio. Quello che è suo non è mio». Mentre in quel momento si era permessa di portare via dei dischi senza chiedere. Quindi, vengono ricostruiti i ricordi e vengono anche scelti determinati ricordi, determinati episodi, piuttosto che altri. Ciò che avviene con l’assunzione attiva della malattia, — in questo caso era avvenuto quando si era accorta, quando vedendo l’amica e la madre dell’amica trattare il cibo in modo da non trattarlo, costatandosi giovane così come piacerebbe agli uomini, ma non magra così come piacerebbe agli uomini, 3 allora ha deciso di cambiare — in questo caso è avvenuto questo: viene ricostruito il suo passato, ricostruisce il suo passato, rivolgendosi ai suoi altri in quanto soggetto: a te che mi piacevi tanto, non piacevo. Se è vero così, se è vero che io devo essere magra per piacerti, allora non è vero che ti piacevo. Tu mi piacevi, ma non è vero che ti piacevo. Cambia: ora che sono cambiata, tu non piaci più a me. E questa è la condotta nella patologia. O non dare soddisfazione, come in questo caso, come lo dice lei fare l’offesa che si intende in due sensi: essere offesa e trattare, muoversi, comportarsi come un’ offesa e agire attivamente l’offesa, cioè offendere. Ecco, l’offesa ricevuta viene assunta e diventa offesa attiva. Il cambiamento attivo, il cambiamento della patologia, avviene a questo punto. E questo è nel filo del racconto il passaggio a un’altra posizione da quella di figlio. Qui, nella patologia, non si tratta più di piacere-non piacere. Non c’è più tempo. Il tempo è quello del movimento o dei moti del corpo. Nella patologia non c’è la soddisfazione. C’è insoddisfazione. Il moto del corpo non è la soddisfazione o non ha soddisfazione dal rapporto. Non c’è più tempo. L’impulso a ripetere, la ripetizione è il senza tempo, è l’assenza di tempo della patologia. Ora che sono cambiata, tu non piaci più a me: si nota che in tu non piaci più a me, il termine piacere è ancora presente; tu mi piaci: il termine di rapporto è ancora presente, il termine che indica il movimento del corpo, il movimento del pensiero è ancora presente, il movimento a soddisfazione. Ma nel cambiamento l’interesse non è più al piacere o meno, alla soddisfazione del rapporto. L’interesse è dimostrare all’altro che cosa significhi dire è vero: tu mi hai mentito, adesso ti dimostro cosa vuol dire realizzare, prendere alla lettere quello che tu mi hai detto. Dovevo dimagrire? Te lo dimostro. Non dovevo rubare? Te lo dimostro. L’interesse nel rapporto diventa la dimostrazione all’altro della sua menzogna. E questa è la condotta patologica. È un riassunto della patologia. E andrà poi distinta nelle varie forme, nelle varie categorie di patologia. Pietro Cavalleri ricordava che comunque nella realtà psichica l’altro è presente, e che è presente fin dall’inizio perché fin dall’inizio l’altro è presente insieme con la soddisfazione del corpo. Quindi, la dimostrazione all’altro della sua menzogna, è un modo di rapporto. Il momento successivo non è un momento che continua. È un’interruzione. Perciò l’ulteriore momento del racconto è un’ interruzione di questa assenza di tempo. Ed è il momento in cui la persona, il malato si accorge che non era vero che qualcosa non gli piaceva, non era vero quello che ha ricordato in modo negativo: è un giudizio. Giudizio sulla malattia: è la ripresa della distinzione fra piacere e dispiacere. E basta: questo mi piace e questo non mi piace, tu mi piaci e tu non mi piaci. Se tu agisci in questo modo io me ne vado… Questa ripresa della distinzione fra piacere e dispiacere, fra possibilità di difesa, nel senso di fuggire dal dispiacere e cercare ciò che piace, ciò che conviene, questa ripresa è possibile quando il soggetto si accorge che nella malattia, non tutto è malato. Ossia, che il rapporto, la soddisfazione sussiste. Ciò che impedice questo giudizio sono i meccanismi di difesa. Chiamiamoli ora così. In questa donna, il momento in cui ha cominciato a guarire, ossia, come ha detto lei, a ricomporre il quadro, ha coinciso con l’accorgersi che avrebbe dovuto dire tutto. Cosa che non consisteva nel dovere dire tutto, nel non eludere nulla, ma nel dire l’unica cosa che non diceva: dicendo quello aveva detto tutto. Non voleva neanche dire, confessare, minuziosamente il suo sintomo, in questo caso la costruzione del sintomo; ma l’arrivare ad ammettere, come è accaduto a questa donna, che c’è un meccanismo che dà soddisfazione e al quale occorrerebbe rinunciare, ma che rinunciato a quel meccanismo, cioè rinunciato a qualche cosa che già si sa e che si ripete in modo sempre uguale e che dà sicuramente una soddisfazione, che cosa resta? È questo imprevisto che mantiene nell’indugio chi può passare alla guarigione. Il passaggio alla guarigione è accorgersi che nel rapporto è data la possibilità, — nel rapporto con qualcuno che conviene e che ogni soggetto è in grado di giudicare se conviene o non conviene, — che nel rapporto la soddisfazione è data: il contenuto non è noto, ma la soddisfazione è data. Allora ritornano i termini del giudizio: mi piace, non mi piace, piacevole e spiacevole. Il giudizio sull’altro, sull’altro che conviene, sull’altro che inganna. E in quel momento vengono ripresi i primi ricordi, i ricordi infantili, cosa che non vuol dire che un guarito è ritornato bambino, nel senso che è tornato a…Guarito è colui che ricorda tutto, che ricorda la sua infanzia. Essere figlio non è ricordare ciò che è avvenuto… È anche questo, ma non è solo questo. Essere figlio, cioè essere guarito è avere e fare la memoria della soddisfazione, cosa che nella malattia non era più possibile. Nella malattia la soddisfazione non interessava, interessava altro: interessava recuperare dimostrando l’altro, l’altro che aveva ingannato e prepararsi all’incontro con l’altro che sembrava precluso dall’inganno. L’essere figlio è fare memoria della soddisfazione, è avere la memoria della soddisfazione; é orientarsi in base alla soddisfazione. 4 I termini di questo, li avevo accennati, erano la differenza sessuale — che già Pietro Cavalleri accennava —, il beneficio che ci sia l’uomo e ci sia la donna. Il pensiero della ricchezza che proviene da un altro e il pensiero che ciò che è del Padre è mio. È il pensiero del figlio, in quanto colui che eredita. Ecco ho posto i punti essenziali di quello che è la narrazione. Potrei riprendere più in particolare degli aspetti: ad esempio, il primo cambiamento, ossia la malattia, e come questo è stato trasformato poi. Vale la pena rinforzare l’idea che del cambiamento è meglio non fidarsi: e questo caso presenta proprio la descrizione di un cambiamento derivato da uno sforzo attivo. Già la volta scorsa anticipavo che questa donna ha seguito, ha fatto una psicoterapia, durata quasi due anni e alla fine della psicoterapia è cambiata. Diceva all’inizio — e allora io stessa non avevo afferrato, non mi ero soffermata su questo — diceva: non sono più nella malattia, ma la malattia c’è ancora. Aveva ragione: non era più nella malattia. Aveva imparato — reale apprendimento — a sostituire il cibo con l’alcool, a riempire e svuotare la casa, a cambiare sempre i mobili, ma non ne comprava mai di nuovi, erano sempre di seconda mano; quando riempiva la casa, poi la svuotava. Quindi, trattava la casa e il suo corpo allo stesso modo. Riempiva le sue giornate di attività, e poi passava dei periodi in cui stava male e non faceva assolutamente niente. Non era più nella malattia, cioè c’erano soltanto delle ripetizioni, c’era attività continua. Ma la malattia c’era ancora, la malattia era stata trasformata. Tutta la sua condotta è composta di offese e di ripresa della possibilità di offendere. Ad esempio: il marito non la ama — dice — ma lei si rifiuta di rispondere a ogni suo invito e di credere alle sue dichiarazioni. Un malato non dà assenso all’altro. È il figlio che dà assenso all’altro. Il bambino che chiede perché? e continua a chiedere perché?, quando smette di dire perché, ma non perché smette di domandare? Quando si tranquillizza? Quando è soddisfatto? Quando al bambino va bene la risposta che l’adulto gli dà. E la risposta che va bene al bambino che chiede continuamente perché, è la risposta “Va bene così”, del grande. È la dichiarazione di convenienza — “Va bene così” — del grande che fa star bene il bambino e il bambino aderisce a questo. Il malato non aderisce più a nessuna dichiarazione, anche di convenienza, dell’altro. Non gli crede. Non aderisce: non è vero quello che dici. O altre condotte del cambiamento, fanno tutte parte del cambiamento come operazione attiva. Vorrebbe uccidersi, vorrebbe lasciare il marito e i figli, minaccia il marito di divorziare, ma teme di essere lasciata da lui. Non tollera la presenza del marito in casa, ma quando lui rientra anche solo con mezz’ora di ritardo lo aggredisce e non solo a parole. Gli lancia un oggetto contundente e poi se ne pente e difatti non l’ha mai colpito. Si sente un’incapace eppure insegna lingue in più scuole ed è ricercata come esperta. Si sente sporca e maleodorante: si lava continuamente e veste prevalentemente di bianco. La casa le dà troppo lavoro, ma non tollera che qualcuno l’aiuti. Licenzia una dopo l’altra le donne che prende a servizio a ore e le più tolleranti restano finché non vengono sospettate di eccessivo interesse per il marito. Beve del vino e si ritiene un’alcolista. Se mangia più del necessario, rigetta. Se viene abbracciata dal figlio maggiore, prova ribrezzo. Se fa una gaffe ha un attacco di mal di testa. Si accusa di colpevolezza dell’handicap presunto del figlio maggiore, eppure lo insulta e lo picchia. E si accusa di colpevolezza dell’handicap di origine genetica del figlio più piccolo. Questo perfetto completarsi di opposti è il cambiamento. Quello attivo. DIBATTITO MARIELLA CONTRI Più che una domanda, è una richiesta di precisazione su questo punto: a proposito del nascondere. Credo che sia importante precisare che ci sono due tipi di nascondere: un nascondere difensivo e l’altro è il nascondere come quello di questa persona di cui tu hai parlato. Questo è vero, non solo in analisi, ma è vero sempre. Da quello che ho capito, questa persona nasconde atti — quello per esempio di prendere i dischi, che è un vero furto — ma perché lei pensa che non sia suo, che lei non abbia diritto a prenderlo. Non si dà l’autorizzazione a prenderlo. Lei non è una che pensa: quello che è di mio padre é mio. Se lui è un cattivo padre, io me lo prendo di nascosto. Questo sarebbe puramente difensivo e prudenziale, questo nascondere. Non sarebbe neanche un vero rubare. È mio e non è vero quello che lui mi fa capire… Invece c’è appunto il nascondere un atto che io stessa penso non sia da farsi. Allora, questo è un vero nascondere e un vero mentire. Il caso di questa persona mi sembra di questo tipo, non è difensivo. 5 RAFFAELLA COLOMBO Per adesso, accenno soltanto a una distinzione: difesa, meccanismo di difesa. La difesa passa al meccanismo di difesa, può passare al meccanismo di difesa. Allora un meccanismo ha preso spunto da una difesa, da un’offesa reale e quindi da una difesa da un’offesa reale, ma passa a meccanismo: viene assunto attivamente e funziona autonomamente. MARIELLA CONTRI Su qualcosa su cui io però penso sia sbagliato fare. Diventa un meccanismo quando lo faccio per fare qualcosa su cui io stessa non mi autorizzo. RAFFAELLA COLOMBO Sì. Su cui io stessa non mi permetto. MARIELLA CONTRI Sta tranquillo. Non è neanche furto per chi lo compie. RAFFAELLA COLOMBO Rispetto al rapporto — il pensiero del rapporto non è venuto meno in questa persona — rispetto al rapporto, è un furto. Rispetto all’altro che è sempre presente nel pensiero è un furto. Quindi l’ha fatto di nascosto. Ma un furto che non è più una difesa, è un furto già punito dalla persona stessa. MARA MONETTI Io volevo che tu chiarissi la questione dell’assenza di tempo… L’assenza di tempo è legata all’assenza della ricerca di soddisfazione nel rapporto? RAFFAELLA COLOMBO Sì. Anche questo, anche il concetto di tempo sarà tema, propongo che lo trattiamo a parte. Il tempo è il tempo del movimento del corpo. Di un moto del corpo. L’uomo è l’unico vivente ad accorgersi del tempo. E il tempo cronologico non è il tempo del moto… Il tempo cronologico non è perso, non c’è un perder tempo, non c’è ritardo, se è nel tempo del suo moto. L’essere sempre in ritardo, non avere mai tempo, l’avere troppo poco tempo, sono disturbi del moto. Però, penso che sia il caso di riprendere a parte tutto questo e credo sia il tema corpo-moto-sensi. 6 GIACOMO B. CONTRI CONCLUSIONI Com’è buono che Raffaella abbia introdotto il tema del tempo. Io ora faccio la mia parte che consiste nell’accodarsi come contenuto a quanto è stato detto. Avrei dovuto iniziare questa sera, come preannunciato, le letture di passi scelti di Freud, che rimando alla prossima volta. Ho pensato a un pezzo che per la ragione che dirò subito non è l’esposizione di casi, ma la posizione di un momento preliminare, di quelle che si possono ben chiamare sedute preliminari. Prima ancora mi va di accordarmi un attimo a proposito del cambiamento: conosco alcuni preti i quali sarebbero tutti contenti se i loro ragazzi smettessero di andare troppo a ragazze — questo è un classico — perché così sarebbero dei bravi ragazzi. Se non che non si rendono conto che attraverso i secoli, i decenni, e sempre più gravemente negli ultimi anni, l’accelerazione temporale avviene solo nel peggio: nello stare bene, chissà perché, il tempo passa troppo in fretta. Se non che c’è un caso di cambiamento, — quando al mio ragazzo non va più con le ragazze — che è un cambiamento di cui non ci si accorge essere valida questione, cui aggiungo l’aggettivo civica, ma lo aggiungo come sinonimo dell’aggettivo morale. Noi identifichiamo civico e morale. Qual è il caso di cambiamento in cui il ragazzo che non va più con le ragazze non è precisamente un caso di un bravo ragazzo? Diciamola così. Ci sono di mezzo le calze. Raffaella ricorda perché in un congresso a Parigi di due o tre anni fa si trattò su questo argomento. Può capitare che il ragazzo non vada più a ragazze perché si occupa soltanto delle calze della ragazza. Non perché da un certo momento in poi gli interessano le ragazze con le calze, ma perché gli interessano solo le calze e non le ragazze. Si chiama feticismo. Avete mai sentito parlare di feticismo? Lo sanno tutti, non c’è bisogno di una lezione per sapere cos’è il feticismo. Feticismo non è la ragazza con le calze, il feticismo è le calze senza la ragazza. Si chiama anche omicidio. La ragazza può morire, bastano le calze. Sfugge sempre che la perversione, che finché si tratta del poverino — perché poi i soggetti umani che vivono così sono dei poveretti — ma questa trivialità, questa poverinità, nasconde che il vero fatto è un misfatto: se qualcuno si decidesse a mettere in pratica che cosa c’è, che cos’è l’atto perverso in un caso di feticismo concreto, della ragazza non ha nessun interesse, ha interesse delle calze della ragazza senza la ragazza. Guai se ci fosse la ragazza. È invece della ragazza. Può essere morta la ragazza. Meglio morta la ragazza. Se uno mettesse in pratica questa idea, che comunque è implicita al feticismo, voi comprendete che non è soltanto quello che si chiama un vizietto privato. Può diventare un programma politico. Oggi nel nostro mondo si chiama Movimento Gay, per esempio. Già la cosa vi dovrebbe dare un’idea di una certa malattia. E in questo caso, per chiudere il tema del cambiamento, introdotto da Raffaella come tema alquanto sospetto, l’educatore o prete suddetto si è un tantino sbagliato nel ritenere che il suo ragazzo è diventato migliore per il fatto di non andare più con le ragazze. Nel caso ingentissimo, radicale, omicida cambiamento che consiste nel passaggio alla perversione. Non c’è alcun dubbio: quel prete non si dia più pena, stia pure tranquillo che quel ragazzo che ha fatto così, vita natural durante, non andrà mai più con le ragazze. Semplicemente è passato al delitto capitale, è passato alla moralità. Noi siamo in anni in cui la conclusione su questo punto è totale. Io non so se queste cose vi fanno raggricciare, vi fanno sentire che stiamo mettendo i denti su un osso piuttosto importante. Noi diciamo che le parole d’ordine della politica, quello che conta, sono cambiate, è proprio un cambiamento. Chi l’ha detto poi che il cambiamento è di sinistra? Io non l’ho mai pensato l’idea di associare il cambiamento… Addirittura il marxismo-leninismo è partito dalla opposizione al cambiamento, la rivoluzione. Semmai uno dei dati interessanti del marxismo è di opporsi al cambiamento contemporaneo, contrapponendo la rivoluzione, non valorizzando il cambiamento. E invece il pezzo che si ricollega al tema della narrativa dei casi che ora non espongo è questo. Il caso al quale mi riferisco non lo narro, non sono in grado di narrarlo, per la ragione che non solo non c’è stata guarigione, non solo non c’è stata cura, ma non c’è stata nemmeno l’inizio di essa. Per questo dicevo si è trattato solo di sedute preliminari. Questo soggetto 29enne, di cui dico subito brevissime cose, il meno possibile — perché ancora non sono narrabili, sono alla lettera inenarrabili: in questo caso è un caso inenarrabile, ancora non si dà, anche se non è che io non mi sia occupato di avere la storia, le cartelle cliniche di questo, ma se me ne fossi occupato avrei un grandissimo dossier. Ma non ve lo esporrei, perché 7 rifiuterei, anche se sapessi tutto della biografia, anche clinica, di questo uomo di 29 anni, proprio rifiuterei di narrarvelo per la ragione che ancora non è narrabile, oggettivamente non è narrabile; eppure di costui esistono, sono raccoglibili, montagne di carta. Questo è anche uno che era già andato da uno che vien detto psicoanalista, ma insomma è andato per cinque anni e gli è servito soltanto a precipitarsi ancora di più in questo stato in cui si trova. In quale stato si trova? Dico solo pochissime cose, perché non ero interessato a saperne di più. 29 anni — non c’è bisogno di avere 29 anni per essere giudicato un uomo, nel senso di adulto —; la sua patologia ingente, vistosa, iniziata fra i 13 e i 14 anni, fino ad allora, nelle manifestazioni normali dei ragazzi di quell’età normale e anche vivace: a scuola, nei comportamenti, nella parola. E poi succede un crack — vi sembra una parola poco scientifica? Lo è abbastanza perché preferisco riassumere con questa parola di uso corrente tutte le più o meno confuse narrazioni di ciò che può essere accaduto —. Aggiungo che essendo iniziato questo crack fra i 13 e i 14 e da allora in poi non avendo questo, allora ragazzo, ora uomo combinato più niente nella vita, da 14 a 29 sono 15 anni, giusto il tempo in cui uno nella nostra società si dà da fare, fa le scuole, fa l’università, lavora, prende rapporti, conosce. In breve, pur non essendo un caso di psicopatologia precoce, è certamente un handicappato. Più o meno a 15 anni viene messo in prigione, viene legato e non combina più niente fino a 30 esce che è un handicappato. Non ha più visto nessuno, quindi non ha imparato un mestiere, ha interrotto i rapporti, tutti quelli che conosce lo considerano un disgraziato: è un handicappato nel senso corrente. Allora, c’è questo caso qui, che si potrebbe chiamare di patologia mista, come si dice di un mutamento, sembra psicotico, persino schizofrenico, handicappato oggettivamente, pur essendo piuttosto valido, corporalmente e come ho detto subito a mio giudizio psichicamente. Mi sono accorto fino dal primo incontro che lui riteneva di avere iniziato una cura da me. Per fortuna, perché è molto facile sbagliarsi in questo genere di cose, per fortuna ho avuto l’avvertenza di guardarmi bene dal cascarci, ossia dall’accettarlo in cura, da dar l’idea che dal tale giorno in poi avessimo iniziato un trattamento regolare. Ho anche rifiutato di dargli appuntamento di volta in volta; gli ho detto di ritelefonare; lui tre o quattro volte — non di più — più o meno quindicinalmente. Ecco perché dico che — vi sto parlando in termini anche di tempi — una volta in questa sede mi pare di avere fatto fare un sussulto alla parola tempo; io l’avevo paragonata all’amore — in particolare questo niente affatto ragazzo, mi parlava — ecco l’accento appunto sul parlare — intanto lentamente, lentamente, faticosamente da parte sua , ma poi, ormai sono vecchio per queste cose e ho capito che non era faticosamente da parte sua, era affaticantemente per me, ero io l’affaticato, non era lui che faticava. Per di più con una balbuzie pronunciata. Io non so tutta la vita, ma ci sono alcune cose di cui mi intendo notevolmente, in particolare di balbuzie, perché una volta ero balbuziente anch’io e dunque, uno, come si dice volgarmente, sulla balbuzie non mi frega nessuno. E avete presente quelli che raccontano le barzellette sui balbuzienti? Si capisce subito che loro non sono balbuzienti: fanno una simulazione, ci sono quelli che lo fanno bene. Si capisce che è una balbuzie simulata. Quella era una balbuzie simulata. La parola simulazione oltretutto la riprendo sabato mattina unito a quello che sembrerà un concetto del tutto fuori campo rispetto a quello di cui noi ci occupiamo, ossia quello di docetismo. Allora un simulatore. Al quarto colloquio io gli dissi che non avevo capito tutto, anzi che avevo capito pochissimo, che il suo modo di parlarmi non era certo favorente a che io potessi capirci qualche cosa e anzi dedussi che era proprio lì il punto: che io ero un bottegaio come ci sono tante botteghe al mondo e che ogni bottega … un po’ come si dice sul mercato: prendere o lasciare. Se le piace la mia merce, bene. Se no il mondo è grande. Lasciatemi fare un passo indietro: era stata fatta una domanda prima sulla carità. Secondo gli standard, i modelli correnti, secondo le ideologie dei valori che ci sono in giro, io in questo caso avrei mancato completamente di carità: mi sono rifiutato di curarlo. Bene: qui sono proprio due idee della carità a confronto. Ritorno al punto: gli ho detto che il suo parlare così di sicuro non facilitava, e poi ho rincarato dicendo che a proposito non è che se si comportava così, non capisco bene, ma che ci pensasse, si prendesse tutto il tempo che voleva. La mia bottega era questa ed è una bottega in cui si può soltanto parlare, che è l’unica cosa che uno può fare nella vita è questa: o parlare o sentire uno che parla. E quindi se proprio gli pareva di venirmi a trovare ancora un tipo come me, doveva venire parlante. Poteva benissimo non tornare o ritornare parlante. Come quando si va a pranzo con qualcuno ci si va mangiante: io non invito a pranzo gli anoressici. La carità non consiste nell’invitare a pranzo gli anoressici; consiste nel far credito all’anoressico che l’ospite gradito è l’ospite pranzante. Perché l’ospite pranzante? Proprio come nel Vangelo: il Signore invita della gente a casa sua e quelli non ci vanno e lo snobbano. Poi si arrabbia e invita le larghe masse 8 popolari. Poi fra le larghe masse popolari c’è uno che non è vestito bene: quello lì lo maltratta ancora peggio di quelli che hanno snobbato l’invito. Quel Vangelo — date credito ai non credenti — è il principio della cura. Se quello non viene con la tunica giusta, che sia messo fuori là dove è pianto e stridore di denti. È un principio addirittura tecnico. Mi è stato riferito — naturalmente non faccio nomi — e comunque alcune ore dopo, almeno per un istante questa persona parlava benissimo con altri; e poi in queste cose è difficile sbagliarsi. La mia certezza che questa persona potesse e possa parlare e che fosse un simulatore di balbuzie e di iperlentezza demenziale, la mia certezza era improbabile. Non esisteva la possibilità di errore. E fu assai interessante che mi fece ripetutamente le obiezioni perché pur parlando in questa maniera, superlento e con piena balbuzie, mi ho obiettò — e con parole rapide e non balbuzienti — ma formale nel ripetere per quattro volte la stessa obiezione che consisteva — molto razionalmente, erratamente — «Ma caro dottore, lei pretende che perché io venga a curarmi da lei debba già essere guarito! Lei, dal mio modo di parlare, mi deve guarire!» Quindi, io vengo così, senza la mia brava tunica. È alla fine che io devo ricevere la tunica da lei: e questo si chiama non cascarci. È un programma molto razionale da parte sua: mi voleva secondo fallimento del sua seconda ―analisi‖ da un bravo analista. Naturalmente, stesso programma di fallimento dell’altro e di sé. Rimando a ciò che diceva Cavalleri sul soggetto. Era proprio un programma che certamente non ha preso da lui, non inventato da lui. Ma non sto a narrare dei genitori. Annotate la parola simulazione. Questo è un modo come un altro per introdurre l’idea di cura, se c’è cura è individuale. Ma questo è da sviluppare. E terzo — è la cosa più importante, simbolizzata dalla tunica evangelica — e cioè che è un errore, se volete una mancanza di carità, quello di non individuare, e allora esigere, almeno una condizione per una curabilità. Prolungate quanto volete i cosiddetti periodi di osservazione, ma il periodo di osservazione che ha diversi scopi, a mio avviso ha come scopo questo qui: l’individuazione della condizione senza la quale — in questo caso quello che popolarmente si chiama aprire il becco — individuazione della condizione senza l’osservanza, persino elegante, la mossa, osservanza della quale non si prenderà affatto in cura uno o se già lo si è preso, lo si metterà fuori, magari senza pianto e stridore di denti. Questa è una delle cose più importanti di quella che si chiama tecnica che noi possiamo dire. Individuata una condizione… Vedete che non ho affatto … Il pianto e stridore di denti di questo ragazzo non sta nel fatto che io l’ho buttato fuori, cosa che peraltro non ho assolutamente fatto, anzi, io ho posto la condizione per venire dentro, non l’ho buttato fuori, il pianto e stridore di denti, o usiamo un’altra espressione del Vangelo che è più pertinente, le tenebre esteriori, le tenebre fuori, che vuol dire che in casa c’è luce e fuori specialmente all’epoca c’era buio, il buio, le tenebre di costui, sta nel fatto che neanche a volere possiamo raccontarlo. Su questo caso non possiamo neanche raccontare la storia: possiamo solo raccontare la cenere. Per questo che un trattamento — anche quando si tratta di andare a vedere tutta la vicenda passata, non è mai raccontare la storia passata, ma, come diceva Cavalleri l’altra volta, tutto ha come dimensione il futuro, cioè il tempo è un tempo aperto. Non è che non lo narro perché non vuole parlare. Non c’è niente da narrare. Cosa c’è da narrare? Sarebbe narrare una esistenza comune con alcuni …: cioè c’è che un giorno ho avuto 8 anni, un giorno ne ho avuto 12, poi sono arrivato a 14, poi sono entrato nella banalità infinita di un handicap infinito. Dov’è il racconto? Non c’è racconto. È un nome sulla guida telefonica. Le tenebre stanno nel fatto che anche volendo non c’è niente da fare: non è raccontabile. Non esiste la narrazione possibile. Una volta si sarebbe detto: non c’è storia. Ripeto: con questo cenno ho solo dato un contributo a piè di pagina, una specie di nota.. Una discreta parte delle persone qui presenti, tanti dei presenti o assenti, pur senza essere laureati in medicina o in psicologia o specializzati in qualche cosa, operano — gli operatori: è una buona ragione per sentirsi simili al Padreterno, perché si dice che il Padreterno opera sempre — e ora un consiglio di questa Scuola è quello — con tutta la prudenza e il tempo — di mettersi nell’ordine delle idee di da qui a un tempo che sarà quello che sarà, di operare non solo negli enti dove operano, ma di operare — come si dice nel nostro mondo — privatamente e individualmente. In dieci, cento o mille modi. Potrebbe anche essere quello di fare per un po’ il baby-sitter a un handicappato o come pretesto sociale. Ciò ha una ragione — mi pare che l’idea c’è già — di mettersi nell’ordine di idee che da qui a un tempo che sarà di dedicare in una stanza trovata da qualche parte, un’ora, due ore, per seguire singolarmente un soggetto. Detta l’idea si tratta di darne l’argomentazione. Ma penso di non fare male a lasciare che meditiate personalmente al senso o alla ragione o alla ratio di ciò che dico. Ma diciamo che è soprattutto questo che permette di cogliere di fino, cioè sui polpastrelli, come si dice come sul pianoforte, o si apprezza un oggetto con il tatto — il senso del tatto è un 9 senso importante — per afferrare due cose che dicevo prima: che cura, se la parola è usata con precisione, è individuale. Giusto giusto come l’amore, eh? Se io vi dico Vi amo tutti! sono qui da bugiardo e il minimo che uno possa farmi— è già mite —, è scagliarmi qualche cosa; non siate corretti, ma sarebbe anche più corretto. Sarei scusabile se dicessi: Vi amo tutti follemente! Sarei pazzo, in effetti. Io non vi amo affatto tutti. Se amo qualcuno qui presente, allora gli altri, posto che siano interessati al mio amore, allora hanno qualche speranza. Ammesso che il mio amore sia interessante. Ma se lo fosse, se già amo qualcuno allora c’è una chance. Se solo travalicassi un pochino ciò che sto dicendo avreste diritto a dirmi che mi sto prendendo per Dio. È la maniera di lavorare di Dio. Anzi, non gli viene mai in mente di amarci come massa. Non è mica matto. Uno può dire che non esiste. Ma se esiste non è mica matto. Sono gli gnostici che dicono che Dio è matto. È rigorosamente quello che ho scoperto: il gnosticismo vuol dire che Dio è matto. Cosa vuol dire che Dio è matto? Vuol dire che non esiste. Dire che Dio è matto e dire che non esiste è dire formalmente la stessa cosa. Non aggiungerei assolutamente nulla sulle ragioni di ciò che ho detto prima. Pensateci anche voi, perché noi non facciamo altro che insistere sull’idea di competenza soggettiva. Allora, forza, datevi una mossa. A proposito di darsi una mossa. Finisco su un paragone dignitosamente banale che ho usato l’altra volta. Dicevo: la scacchiera. Dicevo che il nostro procedere, almeno per questi mesi, sarà un saltare da una casella a un’altra. Per un certo tempo vedrete dei pezzi di cose che fra l’altro non avete mai sentito da nessun’altra parte. Anche con un tasso di informazione, persino di informazione nozionale, che sto vedendo piuttosto alto. Allora arriverà il momento in cui la scacchiera si vedrà tutta. In parte, a poco a poco, vedete di disegnarla anche voi. Comunque la similitudine della scacchiera non è quella migliore. Ma credo che quella migliore sia stata ricordata oggi da Cavalleri ed è la similitudine politica, ossia che ognuno di noi vive di due mondi. Mi viene l’occasione per spiegare una virgola, di cui il contenuto della quale è venuto parlando con Mariella un po’ di tempo fa. Il volume La città dei malati ha un detto: Due sono le città. Una, è la città dei malati. Senza quella virgola cambia tutto, è tutto sbagliato. È proprio un’altra idea, un’idea sbagliata. Perché senza la virgola la frase dice che ci sono due città: una è la città dei malati e poi c’è l’altra. Tutto sbagliato. Provate a leggere come si legge in italiano. Due sono le città. Una (se una), è la città dei malati. Quando uno, un essere umano vive di una sola città, o come se il mondo dei rapporti fosse uno solo, se una sola, è malato. E quell’una sola è la città dei malati, che è la nostra peraltro. Ecco, queste sono le finezze della nostra Scuola, che hanno soltanto questo piccolo particolare: che questa finezza, in questo caso rappresentata da una virgola, corrisponde alla nostra teoria e all’osservazione di cos’è il trauma che rende malati. Il trauma che rende malato non è che mi hanno aggredito in metrò, il traumone grosso. Il nostro continuare a insistere sulla menzogna: la menzogna può essere una virgola, è inapparente, non si coglie, sembra niente. La persona che mi frega da bambino, in ogni momento può dire Eh, cosa vuoi che sia? È solo un modo di dire! È una maniera di parlare! Se io, padre o madre, dico al mio bambino: è normale. Sì, sarò una mamma un po’ angosciata. Ancora più inapparente per la persona stessa: il trauma è oleoso, si automodestizza, si autodichiara come cosa da nulla. La grande virtù della modestia viene tutta rovesciata e investita nel rinnegamento dello stare compiendo uno dei peggiori dei delitti. Per questo ho voluto mostrare perché stiamo qui a cincischiare con la piccola virgola. Non è che stiamo lì, come di dice in gergo, dei fighi. È che è un piccolo buon esempio di che cosa è, nel bene o nel male, nel vero o nel falso, il non appariscente secondo il senso più volgare e comune. © Studium Cartello – 2007 Vietata la riproduzione anche parziale del presente testo con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine senza previa autorizzazione del proprietario del Copyright 10