Il Rinascimento dei Classici

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Il Rinascimento dei Classici
Paideia/Humanitas. I Classici per la scuola dell'Europa
Associazione Italiana di Cultura Classica
Venezia, 26 febbraio 2010
IL RINASCIMENTO DEI CLASSICI
PER L'EUROPA MODERNA
FILIPPOMARIA PONTANI
(Università Ca' Foscari Venezia)
Per evitare di cadere nel tranello della retorica, sempre incombente
quando si parla di Umanesimo e Rinascimento da Burckhardt in poi, nella
conversazione veneziana ho provato a rapportare il passato all'oggi, sotto
diversi aspetti.
1) Anzitutto, in che misura noi consideriamo ancora momenti "canonici"
e "insuperabili" l'Umanesimo e il Rinascimento? Una risposta divertente sta
in una scena delle "Invasioni barbariche" di Denys Arcand (non un Italiano,
dunque), nella quale si ribadisce, aggiornata al Duemila e aumentata del
riferimento a Philadelphia 1787, la medesima visione degli umanisti (da
Bruni e Alberti a Machiavelli e Vasari) circa l'irriducibile superiorità di quel
momento storico (per loro, rispetto al passato; per noi, rispetto a ciò che è
venuto dopo, e comunque al nostro presente). Per il tenore del nostro
incontro, e per l'oggettiva importanza della materia, fra i tanti ambiti di
quell'eccellenza prendo sommariamente in considerazione non l'arte, non la
letteratura, non la scienza, ma un settore che in certo senso li abbraccia tutti:
quello dell'educazione.
Gli anni attorno al 1530 sono un momento decisivo nell'elaborazione
della pedagogia europea, significativamente coincidente con il discrimine
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tra "fase ascendente" e "fase discendente" del movimento umanistico e in
particolare della fede nei Classici. Come esempio si può citare il Gargantua
di Rabelais, dove la paideia del protagonista prima dell'avvento di
Ponocrate è lentissima (I, 14: «Gli fu assegnato per maestro un teologo di
vaglia chiamato Mastro Thubal Oloferne, il quale gli apprese l'alfabeto così
bene che lui lo recitava a memoria anche alla rovescia; e questo
insegnamento richiese cinque anni e tre mesi»), mentre quella prospettata
anni dopo dallo stesso Gargantua al figlio Pantagruel (nella lettera che gli
indirizza in II, 8) è ormai una compiuta educazione moderna, basata
anzitutto sull'apprendimento di greco, latino, arabo, e votata non alla polvere, bensì alla conquista del mondo nelle sue più diverse manifestazioni. Se il
Pantagruel è del 1532, del 1529 è l'importante saggio De pueris instituendis
di Erasmo da Rotterdam (trattato che forse non brilla per originalità, ma
rappresenta un importante compendio della paideia rinascimentale), e del
1531 è il De disciplinis di Juan Luis Vives, il dotto spagnolo che Ortega y
Gasset ha identificato come il primo "intellettuale" moderno: Vives parla
apertamente della necessità di restaurare le corruptae artes (intende: le arti
liberali della tradizione medievale), rivalutando l'osservazione della natura,
lo studio attivo delle lingue moderne e delle arti, sempre nell'ottica del
programma isocrateo e ciceroniano del «vir bonus dicendi peritus».
2) La visione tradizionale dello sviluppo della pedagogia umanistica,
quella di Eugenio Garin, è stata messa recentemente in discussione, e anzi
tacciata di pesante impronta idealistico-crociana: Robert Black ha mostrato
quanto sia rilevante la continuità fra i metodi dello studio grammaticale del
Medioevo e quelli di età umanistica, così come emergono da quaderni, libri
di testo, manoscritti annotati etc.; A. Grafton e L. Jardine hanno sostenuto
che in realtà la scuola umanistica non manifestava un vero interesse per il
valore morale degli autori, ma si limitava a una mera lettura grammaticale
che non calava gli allievi nelle profondità del testo.
Queste ricerche sono state preziose, in quanto hanno contribuito a
precisare alcune dinamiche, e a sfatare alcuni miti; tuttavia, pare difficile negare che nel primo Quattrocento il "clima" effettivamente muti, che si faccia
strada almeno la consapevolezza di un nuovo orientamento dell'istruzione. E
questo è merito precipuo – a giudizio degli stessi contemporanei – di due
Veneti: Guarino da Verona (1370-1460) e Vittorino da Feltre (1378-1446),
che è specialmente gradito ricordare a Venezia, la città dove si frequentarono nel 1415-16, quando Vittorino apprendeva il greco dal più esperto Veronese.
Le scuole fondate da questi due dotti (tra il 1423 e il 1430) differivano
sotto vari aspetti: quella ferrarese di Guarino si rivolgeva soprattutto agli
aristocratici, mentre a Mantova Vittorino selezionava gli allievi in base al
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solo merito, ammettendo sempre una quota di bambini poveri a titolo
gratuito. Guarino mirava a formare uomini colti e professori eloquenti,
tramite un curriculum più schiettamente letterario e grammaticale, mentre
Vittorino – il vero precursore di Vives e per certi aspetti perfino di Comenio
– prevedeva esercizi ginnici, danza, musica, pittura, e mirava a una
educazione più "a tutto tondo".
Ma comune era l'impostazione:
- un'educazione condivisa, non privata, in cui il contatto fra gli allievi era
produttivo di senso e di conoscenze;
- il ruolo centrale del greco, che Guarino, traduttore fra l'altro del De
liberis educandis di Plutarco, conosceva meglio, ma che Vittorino propugnava con decisione inconcussa, equiparando Omero e Demostene a
Virgilio e Cicerone (le "quattro bestie" che domineranno nel curriculum
occidentale ancora nella Oxford del Dopoguerra), e favorendo la copia e lo
studio di Esiodo, Pindaro, Aristofane, Plutarco etc.;
- l'applicazione di un curriculum fondamentalmente pagano, ispirato e
sorretto da quello tipico dell'istruzione bizantina (dove il canone era
composto esclusivamente di autori dell'età arcaica e classica), ma funzionalizzato alla formazione di buoni Cristiani (lo spazio per la preghiera era
sacro, il culto di Gesù favorito nell'aspetto rituale e in quello etico);
- l'idea di un enciclopedismo diverso da quello medievale, attento agli
auctores e non alle artes, cioè "attivo" (nel senso, potremo dire, di Rabelais)
tanto quanto l'altro era lento e passivo. Va da sé poi che – come avviene
anche in altre scuole d'Italia – lo studio ha anche una valenza morale:
leggere Cicerone significa parlar bene ma anche consigliare per il meglio la
città; assimilare Plutarco significa introiettare la virtù in tutte le sue forme;
più tardi, conoscere Platone significa avere una diversa immagine del
mondo e della natura, e compitare il Nuovo Testamento può offrire
un'immagine della religione assai distante da quella offerta dalla Chiesa.
3) I principî della pedagogia umanistica possono sembrare banali per noi
oggi, ma non credo lo siano davvero. Tralascio qui ogni riflessione sui
progetti ministeriali di ridimensionamento della geografia (nella patria di
Toscanelli e Colombo), o sulle proposte di canonizzazione del dialetto
veneto come materia di studio curricolare (venute ahimè da autorevole
fonte). E non prendo in considerazione l'ovvia e condivisa (ma quanto poi
attuata?) necessità che i ludi siano stabili e salubri, una posizione sostenuta
con vigore da Vives come precondizione di ogni corretta attività educativa.
- Si è detto autorevolmente che "la classe non è il luogo deputato per fare
politica". Questa veduta richiama il precetto di Giovanni Dominici (13561420), noto Domenicano fiorentino che proprio a Venezia rifondò il
convento del Corpus Domini (demolito nell'Ottocento per far spazio alla
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stazione di Santa Lucia), nella sua Regola del governo di cura familiare (ed.
D. Salvi, Firenze 1860, 130): «Per lo primo si vogliono crescere iusti, colla
diritta bilancia in mano, separati da ogni parte, setta e divisione; … però a
buonora si vuol guardare da questi particulari affetti, e molto bene gastigarlo
se mai paresse inchinato più a questa parte che a quella; tanto che usi a dire
non essere guelfo né ghibellino, ma iusto fiorentino». Di altro avviso è, nel
contesto dell'"Umanesimo civile" fiorentino, Leonardo Bruni, nella
prefazione alla traduzione della Politica di Aristotele (1419): «Inter moralis
disciplinae praecepta, quibus humana vita instituitur et docetur, eminentissimum quodammodo locum obtinent, quae de civitatibus earumque
gubernatione conservationeque traduntur… Cumque homo imbecille sit
animal, et quam per se ipsum non habet sufficientiam perfectionemque ex
civili societate reportet, nulla profecto convenientior disciplina homini esse
potest, quam quid sit civitas, et quid respublica intelligere, et per quae
conservetur intereatque civilis societas non ignorare» (H. Baron, Leonardo
Bruni Aretino, Berlin 1928, 73).
- Si è recentemente innalzato per decreto il rapporto alunni-classe. Di
altro avviso era Guarino (i cui principi sono fedelmente riportati dal figlio
Battista Guarini nel De ordine docendi ac studendi, del 1459: ed. L.
Piacente, Bari 2002): «Non tamen id probamus, ut sub eodem praeceptore
magnus puerorum numerus prima simul elementa doceatur. Dum enim
omnibus satisfacere cupit, omnibusque se impartit, nemini aut integram aut
magnam impendit curam».
- Si è progettato (da parte di un ministro di questa regione) di tramutare
l'ultimo anno di obbligo scolastico in un apprendistato lavorativo. Non so se
questo vada nella direzione corporativistica contemplata dal già citato
Dominici (che nella Regola chiedeva alla scuola di formare «zappatori,
legnaiuoli, muratori, intagliatori, dipintori, sartori, armaiuoli…»: cfr. Garin,
Umanesimo, 87); di certo sembra remoto l'ideale enciclopedico vittoriniano
celebrato dal Plàtina (Victorini Feltrensis Vita, ed. Biasuz, Padova 1948, 2223): «Laudabat illam quam Graeci ejgkukliopaideivan vocant, quod ex
multis et variis disciplinis fieri doctrinam et eruditionem dicebat: asserens
perfectum virum de natura, de moribus, de motu astrorum, de linearibus
formis, de harmonia et concentu, de numerandis dimetiendisque rebus
disserere pro tempore et utilitate hominum oportere» (è addirittura lampante
il debito di questo brano nei confronti della dottrina antica secondo cui –
come abbiamo ascoltato da L. Pernot – "la formazione della mente non si
riduce a un apprendimento pratico e tecnico").
- Si ribadisce da più parti che la scuola privata dev'essere sostenuta tanto
quanto quella pubblica. Di altro avviso Erasmo da Rotterdam, che nel De
pueris del 1529, dopo aver illustrato i pericoli dell'affidare l'istruzione a chi
deve anzitutto badare ai propri interessi personali - sentenzia (ed è forse uno
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dei tratti più originali dell'opera, sebbene faccia eco alla sorpresa di Polibio
dinanzi all'assenza di una scuola pubblica in Roma: cfr. Cic. de rep. 4, 3):
«Oportet scholam esse publicam vel nullam esse».
4) In vari ambiti del nostro progetto paideutico (ma altri se ne potrebbero
citare) siamo dunque ancora oggi dinanzi a scelte non ovvie, a opzioni che
si aprono e che sta a noi percorrere o ripudiare. Ma, per restringere il cono
visivo all'insegnamento dei Classici (che tali insegnamenti ci tramandano),
tutto questo cela in realtà questioni più profonde, sulle quali chiuderò.
Né la scuola di Guarino né quella di Vittorino conobbero un vero futuro
dopo la morte dei fondatori. Si potrebbe sostenere che in fondo le idee lì
nate fruttificarono poi ovunque nel mondo rinascimentale, e che la
formazione di un allievo come Federico da Montefeltro, per tanti versi il
principe ideale del Quattrocento, giustificherebbe da sé ogni intrapresa. Ma
il punto è che, come già accennato, alla metà del '500 il modello educativo
basato sui Classici entrò in crisi.
Una delle ragioni più evidenti (a mio avviso la più attuale) sta nella
rapida obsolescenza dei contenuti fattuali dei testi antichi, nel momento in
cui per es. Colombo – pur istruitosi sulle carte di Tolomeo – apre il mondo a
nuove dimensioni, Copernico – che prende le mosse da Ecfanto e Aristarco
di Samo – rivoluziona la visione del cosmo, Galileo – che cita in apertura
Pappo e Archimede – rinnova le conoscenze fisiche e astronomiche.
Quando dei classici rimangono "vivi" solo gli autori letterari (per lo più,
come iniziatori di generi) e la forma ormai scissa da un "contenuto utile", la
filologia si separa dalla pedagogia, e il rischio del pédantisme, della
documentazione erudita fine a se stessa, è sempre in agguato. Scrive un
dotto francese che da piccolo era stato educato a parlare esclusivamente in
latino: «Noi sappiamo dire "Cicerone dice così; ecco i mores di Platone;
queste sono le parole di Aristotele". Ma noi, cosa diciamo noi? Come
giudichiamo? Che cosa facciamo?» (Montaigne, Saggi 1, 25).
Nel passaggio dall'Umanesimo alla scienza dell'antichità (praticata ben
presto con maggior profitto fuori d'Italia: basti pensare alle istituzioni di
Parigi, Lovanio, Wittenberg) si pone con forza anche un altro problema di
fondo (peraltro legato al precedente), ovvero l'intrinseco elitarismo della
formazione classica, destinata – nelle parole di Grafton – a rifornire di idee,
metodi e paradigmi "una minoranza politicamente attiva che eredita una
cultura straniera già matura", non certo a sostanziare un'acculturazione di
massa come quella con cui si confronta ogni giorno la nostra scuola
pubblica.
Credo – e qui la palla deve passare agli oratori della seconda parte della
mattinata – che solo prendendo di petto, senza retorica e in termini concreti,
questi annosi problemi, si potrà cercare di dare una risposta non solo ai
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dilemmi attuali dell'insegnamento del greco e del latino, ma anche a uno dei
Truisms (1977) esposti in vividi displays dalla celebre artista americana
Jenny Holzer, peraltro habituée della Biennale veneziana:
«Humanism is obsolete».
MINIMI RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
R. Black, Humanism and Education in Medieval and Renaissance Italy, Cambridge
2001.
E. Garin, Il pensiero pedagogico dell'Umanesimo, Firenze 1958.
A. Grafton – L. Jardine, From Humanism to the Humanities, Cambridge Mass. 1986.
G. Müller, Mensch und Bildung im italienischen Renaissance-Humanismus: Vittorino
da Feltre und die humanistischen Erziehungsdenker, Baden-Baden 1984.
N. G. Wilson, Da Bisanzio all'Italia, Alessandria 2000.
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