Tradizioni Popolari I A
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Tradizioni Popolari I A
18° ISTITUTO COMPRENSIVO “PETRARCA” SCUOLA MEDIA STATALE “F.PETRARCA” – GANZIRRI- (ME) TRADIZIONI POPOLARI CLASSE PRIMA A MITI, LEGGENDE E SUPERSTIZIONI NELL’AREA DELLO STRETTO Nel centro del Mediterraneo, in un’isola piena di sole, ricca di profumi e fragranze di piante, arbusti, alberi secolari, dal cuore generoso e passionale della Sicilia, è cominciata la nostra storia. L’origine di Messina si perde nella notte dei secoli. I poeti, primi storici dell’era antica, cantarono che Nettuno separò la Sicilia dalla Penisola con un colpo di tridente e Saturno gettò e nascose la falce. L’Italia, tra i Paesi europei, è tra i più ricchi di storie e leggende per un fatto strettamente politico: per secoli la Penisola è stata divisa in tanti staterelli in lotta tra loro. Questa situazione ha alimentato passioni, sentimenti, paure, stati d’esaltazione mistica e religiosa che hanno caratterizzato la cultura e i comportamenti sociali degli abitanti di ogni regione italiana, almeno fino al 1861. La nostra ricerca vuole ricordare alcuni miti, leggende e superstizioni nell’area dello stretto testimonianze preziose della volontà del popolo messinese di credere alla presenza del divino, del sovrannaturale e del fantastico nella storia. In tal senso si possono interpretare le leggende precristiane, cristiane o di ordine civile e militare che si basano sulla volontà popolare di spiegare un mito, di interpretare un bassorilievo, un monumento, una battaglia vinta, un trattato di pace di grande rilevanza locale. MITI DELLO STRETTO Poseidone Nell’antica religione greca, Poseidone era figlio di Crono e Rea, dio del mare, dei cavalli e, nella sua accezione di Scuotitore della terra, dei terremoti. Nella mitologia romana prese il nome di Nettuno. Secondo le tradizioni è ritenuto ora il fratello maggiore ora il minore di Zeus. Al pari dei suoi fratelli e sorelle venne divorato dal padre, che lo rigurgitò quando fu costretto da Zeus, l’ultimogenito, a sfuggire al terribile genitore. Secondo alcune varianti della leggenda Poseidone fu allevato ed educato dai Telchini sull’isola di Rodi e dalla figlia di Oceano, Cefira. Quando il dio del mare raggiunse un’età adulta, s’innamorò di Alia e le diede sei figli maschi e una figlia, chiamata Rodo. In tal modo l’isola di Rodi, in cui il dio trascorse la giovinezza, prese il nome da sua figlia. Quando poi si decise di dividere il mondo in tre regni, Zeus ebbe il dominio sul cielo e tutte le terre, Ade divenne il re dell’oscuro mondo sotterraneo e del regno dei morti, mentre a Poseidone toccarono il mare e le acque. Poseidone è il signore delle acque correnti, del mare e delle isole, su cui scatenava il suo carattere bizzarro e incostante, brandendo il tridente. Talvolta gonfia flutti terribili che si rompono fragorosi sulle coste, talvolta rende la superficie del mare, placida e rassicurante. Abita in un sontuoso castello d’oro, rilucente di corallo e madreperla, situato nelle profondità degli abissi del Mare Egeo, presso la Tracia, nel quale si reca su un cocchio d’oro, trainato da cavalli galoppanti sul pelo dell’acqua, circondato da giocose creature marine che costituiscono il suo seguito: Sirene, Tritoni, Nereidi. Da Anfitrite, la più bella delle Nereidi, convinta alle nozze per la mediazione di un loquace delfino, fedele aiutante di Poseidone, ebbe tre figli, tra cui Rodo che diede il nome all’isola di Rodi nel Mare Egeo. Il dio del mare fu spesso impegnato in storie d’amore con altre donne, con le quali ebbe figli dai caratteri molto diversi, tra questi il ciclope Polifemo e il gigante Orione. Amò l’avvenente ninfa Scilla, di cui si vendicò Anfitrite, generalmente molto tollerante. La Regina infatti, su consiglio della maga Circe, avvelenò con erbe magiche una rada, vicino allo stretto di Messina, in cui la giovane era solita fare il bagno. Così Scilla riemerse dalle acque, trasformata in un mostro ripugnante con sei teste e dodici zampe e da quel momento latrando orribilmente, terrorizzò i marinai che passavano per lo stretto, tra cui lo stesso Ulisse. A Roma era venerato come Nettuno, dio del mare, signore dei cavalli, l’animale a lui sacro insieme al delfino e patrocinatore delle corse del circo dove si trovava il suo tempio. Nell’ Italia settentrionale, soprattutto nelle zone paludose e ricche d’acqua, era considerato il protettore dei pescatori e dei battellieri. Nell’arte dagli scultori è stato rappresentato come un personaggio maestoso, con la barba che impugna un tridente ed è spesso accompagnato da un delfino. In seguito come racconta Omero nell’Odissea, Poseidone dopo l’accecamento del figlio Polifemo, perseguitò Ulisse impedendogli più volte il ritorno ad Itaca. Vi sono anche dei collegamenti con il mito di Scilla e Cariddi, i due mostri marini che sorvegliavano lo stretto. Infatti Cariddi, figlia di Poseidone fu punita da Giove per aver mangiato dei buoi di Eracle così, dopo essere stata trasformata in vortice fu scagliata in mare. Scilla una bellissima ninfa poiché amava Glauco figlio di Poseidone fu punita da Circe e mutata in mostro marino. Secondo altre versioni subì la punizione da Anfitrite, una delle Nereidi moglie di Poseidone, poichè il dio del mare si era invaghito di lei. La figura di Poseidone è frequente nei miti siciliani difatti la mitologia dello Stretto è molto ricca di fatti legati al mare e agli dei. Il culto di Poseidone fu tanto forte a Messina che il Montorsoli, scultore del XVI secolo, formatosi in stretta collaborazione col grande Michelangelo, gli dedicò una statua che si trova in Piazza Unità d’Italia, in cui compaiono anche i due mostri Scilla e Cariddi incatenati. Il gruppo scultoreo venne commissionato dal Senato di Messina, in stretta collaborazione con l’umanista e matematico Francesco Maurolico. La fontana è frutto dell’assimilazione della potente maniera michelangiolesca. Il dio (il cui originale si trova al Museo regionale di Messina, insieme alla Scilla) sorge calmo e invincibile con in mano il tridente che scuote la terra con il gesto di possesso riferito alla città; le mostruose Scilla e Cariddi incatenate ai suoi piedi, lanciano urla bestiali. La fontana nella collocazione cinquecentesca si trovava a pochi passi dal mare e con il fronte verso la città, in quanto doveva essere ammirata con lo sfondo azzurro del mare e del porto, come se i personaggi rappresentati fossero sorti dalle acque. SCILLA E CARIDDI Narrano gli antichi che presso l’attuale Reggio Calabria, un tempo vivesse la bellissima ninfa SCILLA, figlia di Tifone ed Echidna. Scilla era solita recarsi sugli scogli di Zancle, per passeggiare a piedi nudi sulla spiaggia e fare il bagno nelle limpide acque del Mar Tirreno. Una sera mentre era sdraiata sulla sabbia, sentì un rumore provenire dal mare e notò un’onda dirigersi verso di lei. Impietrita dalla paura, vide apparire dai flutti un essere metà uomo e metà pesce, dal corpo azzurro con il volto incorniciato da una folta barba verde ed i capelli, lunghi fino alle spalle, pieni di frammenti di alghe. Era un dio marino Glauco che un prodigio aveva trasformato in un essere di natura divina. Scilla terrorizzata alla sua vista, si rifugiò sulla vetta di un monte che sorgeva vicino alla spiaggia. Il dio marino,vista la reazione della ninfa, iniziò ad urlarle il suo amore e le raccontò la sua drammatica storia. GLAUCO Racconta un’antica leggenda che nella preistoria, venne a Capo Peloro, nella cuspide nord-orientale della Sicilia, un giovane della Beozia di nome Glauco, ritenuto figlio di Nettuno. Aiutato da alcuni amici, tagliò alcuni alberi di pino e con il legno ricavato costruì una barca snella e veloce che dipinse con i colori del mare, azzurro e verde. Allora si mise a fare il pescatore e divenne così bravo e abile che le sue reti alla fine di ogni pesca risultavano sempre piene di pesci. Glauco non tratteneva per sé l’abbondanza del pescato ma la distribuiva tra gli amici e conservava per sé quanto gli bastava per vivere. Oltre ad essere buono e generoso era molto bello, i suoi occhi erano azzurri come il mare, le sopracciglia folte e arcuate, il naso dritto e regolare, la bocca rosea come quella di un fanciullo ed una barba riccia e corta incorniciava il mento. I capelli, lunghi e sottili come fili di seta gli scendevano sulle spalle e sotto il sole brillavano, passando dal ramato al biondo. Tutte le Nereidi, Tetide, Anfitrite e la stessa Galatea bianca come il latte, assieme alle sirene ammaliatrici e alle ninfette delle acque, venivano dalle parti del Peloro per conoscerlo e parlargli. Glauco era gioioso con tutte ma in particolare non guardava nessuna, contento di godersi la libertà della giovinezza. Un giorno, venne la dolce e romantica Scilla, fanciulla bellissima e soave. Nel suo piccolo cuore pulsavano i sogni di giovinetta, quando vide Glauco, sentì il cuore batterle più forte e il sangue le salì alle gote. Da quel momento ogni giorno, all’alba andava alla riva del Peloro ad aspettare il bel pescatore con il cuore innamorato e lo attendeva fino al tramonto fino a quando non lo vedeva tornare con le reti colme di pesci. Scilla era timida, mai avrebbe osato dichiarargli il suo amore, perciò si accontentava di sorridergli e sperare. Glauco invece ricambiava i suoi sorrisi con simpatia e qualche volta forse la accarezzò e Scilla si infiammò ancora di più, cullandosi nel sogno del suo ingenuo amore. Un giorno passò dalle parti del Peloro, la maga Circe, la bianca fanciulla dalla pelle vellutata come un petalo di rosa, ma volubile come una frasca al vento. Scilla divenne sua amica e andarono a fare il bagno nel laghetto dei Margi a Ganzirri, la sera poi ammiravano il fluttuare delle onde del mar Tirreno che correvano lente ma costanti verso il mare Ionio. Scilla allora confidò a Circe il suo amore per Glauco e la maga le promise aiuto e consigli. “Fammi vedere questo giovane così bello”- le disse Circe- “e io t’insegnerò il modo per conquistarlo”. Il giorno seguente le due amiche si recarono sulla spiaggia e poco dopo, apparve Glauco, agile come un atleta e smagliante in tutta la sua giovinezza. Circe se ne innamorò e disse rivolgendosi a Scilla”E’ l’essere più bello che io abbia mai visto, lo farò mio amante, cercati un altro uomo, perché Glauco dai capelli biondi e dagli occhi di mare, ora appartiene a me...!”- Scilla tremò e poco mancò che morisse, continuò a supplicarla. Dapprima Circe l’ascoltò ridendo, beffandosi dei suoi sentimenti di fanciulla, poi seccata avvelenò la fonte in cui Scilla andava a bagnarsi e impugnata una bacchetta magica la toccò su una spalla. Avvenne l’incredibile, Scilla si trasformò in un mostro marino, con sei teste latranti e dodici orribili gambe. La sua pelle si coprì di squame ruvide e lucenti, la voce, prima melodiosa e dolce, divenne rauca e abbaiante. Appena Scilla si accorse di essere divenuta un mostro, non resse alla disperazione e si gettò in mare. Il suo cuore si trasformò in un macigno e s’incrudelì a tal punto da costringerla a far strage dei naviganti che passavano dalle parti della sua caverna. La stessa Circe, descrivendola più tardi a Ulisse, la definì “ un orrore selvaggio con cui non si lotta, contro di lei non c’è riparo bisogna fuggire”. Intanto Circe se la spassava con Glauco e quando venne la primavera, si stancò del suo amore e lo lasciò. Prima pensò di trasformarlo in un animale, come aveva fatto con i suoi amanti, ma non poté farlo perché Glauco era figlio di Nettuno, perciò lo lasciò senza dirgli addio. Quando Glauco si accorse d’essere stato abbandonato, cadde in una tristezza profonda e la sua amarezza divenne sofferenza quando seppe della fine di Scilla. Ogni giorno andava sulle acque dello Stretto e s’avvicinava all’antro in cui abitava Scilla e le rammentava il tempo felice dei loro incontri. L’orrido mostro più d’una volta fu sul punto d’avventarsi contro con le sue bocche latranti ma, forse nel cuore manteneva ancora qualcosa del suo amore per Glauco e dopo aver latrato minacciosa, rientrava nelle buie caverne marine. Glauco afflitto e disperato, tornava alla spiaggia sullo Stretto. Un giorno, dopo una pesca più fortunata del solito, aveva disteso le reti ad asciugare su un prato adiacente alla spiaggia ed allineato i pesci sull’erba per contarli, ad un tratto i pesci cominciarono ad agitarsi in modo strano. Presero vigore, si allinearono come fossero in acqua e saltellando, fecero ritorno in mare. Glauco meravigliato da tale prodigio, non sapeva se pensare ad un miracolo o ad uno strano capriccio di un dio. Scartando l’ipotesi che un dio potesse perder tempo con un umile pescatore, pensò che lo strano fatto dipendesse dall’erba e provò ad ingoiarne qualche filo. Come l’ebbe mangiato, sentì un nuovo essere nascere dentro di lui che combatteva la sua natura umana fino a trasformarlo in un essere acquatico attratto dall’acqua. Gli dei del mare lo accolsero benevolmente tanto che pregarono Oceano e Teti di liberarlo delle sembianze di natura umana e terrena e di renderlo un essere divino. Accolta la loro preghiera, Glauco divenne un tritone del mare, fu trasformato in un dio e dalla vita in giù fu mutato in un pesce.(Ovidio-Metamorfosi,XIII,924 e sgg.). Da quel giorno Glauco volle restare per sempre nel mare dello Stretto. Dice la leggenda che anche ai giorni nostri, quando infuria la tempesta, Glauco solleva il capo al di sopra delle onde e subito il mare diventa calmo e invitante come lo era nella preistoria, quando Scilla era una fanciulla bellissima e non un feroce mostro marino. SCILLA, dopo aver ascoltato il racconto di Glauco, noncurante del suo dolore, andò via lasciandolo solo e disperato. Allora il pescatore pensò di recarsi all’isola di Eea dove sorgeva il palazzo della maga Circe, sperando che potesse fare un sortilegio per far innamorare Scilla di lui. Circe, dopo che Glauco ebbe raccontato il suo amore, lo ammonì duramente, ricordandogli che era un dio e pertanto non aveva bisogno di implorare una donna mortale per farsi amare. Per dimostrargli quanto lui sbagliasse a considerarsi sfortunato, gli propose di unirsi a lei. Ma Glauco si rifiutò di tradire il suo amore per Scilla e lo fece in modo così appassionato che la maga, furiosa per esser stata rifiutata a causa di una mortale, decise di vendicarsi. Appena Glauco se ne fu andato, preparò un filtro e si recò presso la spiaggia di Zancle, in cui Scilla era solita recarsi. Versò il filtro in mare e soddisfatta, ritornò alla sua dimora. Quando Scilla arrivò, accaldata dalla grande afa della giornata, decise di immergersi nelle acque limpide. Ma, dopo essersi bagnata, vide sorgere intorno a sé mostruose teste di cani rabbiosi e ringhianti. Spaventata cercò di scacciarli ma fuggendo nell’acqua si accorse che quei musi erano attaccati alle sue gambe con un collo serpentino che si agitava fremente. Si rese allora conto che sino alle anche era ancora una ninfa ma, dalle anche in giù spuntavano sei musi feroci, ognuno orlato di tre file di denti. L’orrore che Scilla ebbe di se stessa fu tale da indurla a gettarsi in mare e prese dimora nella cavità di uno scoglio, vicino alla grotta dove abitava Cariddi. CARIDDI era figlia di Poseidone e di Gea e per aver rubato ad Eracle i buoi di Gerione venne fulminata da Zeus e trasformata in un terribile mostro marino (alcuni autori narrano invece che fu uccisa da Eracle stesso e resuscitata dal padre Forco).Era condannata a ingoiare e rigettare tre volte al giorno l’acqua del mare. SCILLA e CARIDDI, entrambe due spaventosi mostri marini, erano l’una vicino all’altra a formare quello che le genti moderne chiamano “Lo stretto di Messina” e mentre Cariddi ingoiava e rigettava tre volte al giorno l’acqua del mare creando dei giganteschi vortici, Scilla attentava alla vita dei naviganti con le sue orrende fauci.(Omero-Odissea XII,112 e sgg.). Lo Stretto di Messina, localmente detto “u Strittu”, chiamato nell’antichità Stretto di Scilla e Cariddi, in epoca tardo-medievale e moderna Faro di Messina, è un braccio di mare che collega il mar Ionio con il Mar Tirreno e, delimitando le città di Messina e Reggio Calabria con le rispettive aree urbane, separa la Sicilia dalla Calabria. Sin dai tempi più remoti, lo Stretto di Messina è sempre stato un luogo ricco di suggestione e ha contribuito a creare tanti miti fantastici e misteriosi ad esso collegati. Nell’antichità la navigazione nello Stretto ebbe una pessima fama e realmente presenta notevoli difficoltà, per le correnti rapide e irregolari e i venti talvolta violenti. Spesso le correnti raggiungono la velocità di 9 km. all’ora e scontrandosi danno luogo a enormi vortici che sicuramente terrorizzavano i naviganti. I più noti sono quelli che gli antichi chiamarono Cariddi, colei che risucchia, che si forma davanti la spiaggia di Faro e l’altro Scilla, colei che dilania, che si forma sulla costa calabrese da Alta Fiumara a Punta Pizzo. Questi due vortici famosi derivano dall’urto delle acque contro Punta Peloro e Punta Torre Cavallo. Cariddi è accompagnato talvolta da un rimescolarsi delle acque così violento da mettere in pericolo le imbarcazioni. Tra le leggende più belle è nota quella che ricorda l’esistenza del mostro Cariddi, personificazione di un vortice formato dalle acque dello stretto di Messina. Di Cariddi si sa ben poco ed anzi vi sono delle incongruenze intorno alla sua storia. Per alcuni, Cariddi era una ninfa, figlia di Poseidone e Gea ed era continuamente tormentata da una grande voracità. Si narra che avrebbe rubato e divorato i buoi di Eracle, passato dallo stretto coll’armento di Gerione e che Zeus, per punirla l’avrebbe tramutata in un orribile mostro. Omero fu il primo a parlarne, dicendo che Cariddi ingoiava tre volte al giorno un’enorme quantità d’acqua per poi sputarla, trattenendo tutti gli esseri viventi che vi trovava. Anche Virgilio ne parla nell’Eneide. I naviganti nell’antichità temevano questi luoghi, tutti tranne Ulisse che spinto dalla proverbiale curiosità quando transitò sullo Stretto per la prima volta, sfuggì al mostro ma, dopo il naufragio provocato dal sacrilegio contro i buoi del Sole, fu aspirato dalla corrente di Cariddi. Ebbe la furbizia di aggrapparsi a un albero di fico, che cresceva rigoglioso all’entrata della grotta in cui si nascondeva il mostro, cosicché quando esso vomitò l’albero, Ulisse si mise in salvo e riprese la navigazione. Quando oltrepassò un’altra volta lo Stretto, si mise dei tappi di cera nelle orecchie e si fece legare dai compagni all’albero della sua nave per non ascoltare il canto delle sirene che affollavano quei mari e per vedere in faccia i due mostri. Secondo un’altra leggenda, Scilla era figlia di Niso, re di Megara. Questi sarebbe rimasto invincibile, se avesse conservato in testa un capello d’oro o di porpora. Quando la città fu assediata da Minosse, che voleva vendicare l’uccisione di Androgeo, Scilla s’innamorò di lui e, per farlo vincere, tagliò il capello del padre, dopo aver strappato a Minosse la promessa che l’avrebbe sposata, se ella avesse tradito la città per amor suo. Minosse sconfisse Niso ma poi, scoperto con quale crimine Scilla lo avesse aiutato, inorridito la legò alla prua della sua nave e la fece annegare. Gli dei si impietosirono e la trasformarono in airone. COLAPESCE La leggenda di colui che salvò Messina dalla distruzione. Abbiamo nel nostro Paese una leggenda che può definirsi classica per il risalto che ha assunto presso i popoli del meridione e per aver ispirato scrittori, pensatori, poeti di ogni tempo e di ogni paese (tra i quali Schiller). Ci si riferisce alla leggenda marinaresca di Cola o Nicola Pesce, ossia di un essere umano adattatosi progressivamente alla vita subacquea ed ormai definitivamente posseduto dal mondo marino. Lo stesso Benedetto Croce si occupò di questa curiosa creatura, così come alcuni studiosi che tentavano di dimostrare, la facoltà di ambientamento sub-marino dell’uomo. La leggenda del marinaio siciliano è diffusa in tutta l’area mediterranea, ed ha riflessi europei, come dimostrano gli studi del Croce per le versioni napoletane e mediterranee della leggenda, la ballata del tedesco Schiller intitolata Der Taucher (il palombaro), e gli accenni che troviamo nel Cervantes e nel Verne. La leggenda però è però tipicamente siciliana. Essa riguarda le basi su cui poggia l’isola, rappresentate come tre colonne che la sostengono e contiene un elemento schiettamente siciliano, il fuoco sottomarino dell’Etna. In questo senso può veramente definirsi ed essere considerata, la leggenda nazionale della Sicilia. Poche leggende popolari sono tanto diffuse nella nostra regione quanto questa di Colapesce. Da Messina a Siracusa, da Siracusa a Pachino, da Pachino ad Agrigento, a Trapani, a Palermo si racconta ora nei suoi tratti principali, ora nei suoi minuti particolari. La sua popolarità ha una ragionevole spiegazione nella curiosità della leggenda, nella meraviglia del protagonista ed in un fatto che solo la leggenda popolare ci offre: la conformazione subacquea di Messina, che, come vedremo, ha del poetico e del pauroso. Le credenze e le aspirazioni trasfuse nella leggenda di Colapesce sono elementi connotativi di una messinesità che ha il suo fulcro nella scoperta della colonna che traballa sotto Messina. Per alcuni il terremoto del 1908 è dovuto ad un semplice “cambio di spalla” ad un momento di stanchezza che sorprende Colapesce come può sorprendere un uomo qualsiasi. Il particolare è un segno di quell’umanità che accompagna il personaggio nell’evoluzione della sua leggenda. Colapesce cessa di essere l’ “eroe” che soccombe sotto l’impulso della passione e diviene l’ “uomo” proiettato alla difesa di un ideale di vita da cui sono escluse l’angoscia e la paura. C’era una volta un pescatore bello e forte, di nome Cola, nuotava come un pesce e amava trascorrere le giornate sul mare, facendo vita comune con i pesci. Conosceva le ninfe del mare dagli occhi fulgidi al pari delle stelle, seguiva le sirene che lo seducevano con il loro canto, nei loro giardini di coralli nelle profondità del mare e nei loro palazzi iridescenti e scintillanti. Per queste sue abitudini e per la familiarità col mare e i suoi abitanti, la gente del posto lo chiamava, un po’ per scherzo, un po’ perchè rispondeva al vero, Cola Pesce. Era un mattino di maggio, il giorno delle rose, dell’anno 1140. Re Federico II, fermo sul suo cavallo, contemplava la città di Messina e tutto lo stretto dalla Punta di Faro. Era la seconda volta che visitava la città, già l’anno precedente aveva assistito alle sue magie. Non aveva dimenticato la meraviglia quando dall’altra sponda dello stretto la Fata Morgana aveva espresso il suo potere usando il cielo come uno specchio che rifletteva la città, coi suoi palazzi, le piazze, i giardini, le chiese, le sue genti. Era tornato per motivi politici ma soprattutto, perchè attratto dalla fama di un giovane pescatore, Colapesce, cui la fantasia popolare attribuiva pinne al posto delle braccia e branchie al posto dei polmoni. Re Federico, circondato dalla corte di cavalieri e di principesse e dalla figlia, per la quale cercava un marito degno, interrogava Cola sulle sue esperienze in mare. Cola raccontava come lì sotto vivevano strane creature e un altro mondo sottomarino, viveva sotto il mare. Descriveva la vegetazione, le grotte strane e profonde, le rocce, i fiori e gli alberi del mare, dalle straordinarie e strane forme assieme alle creature che si muovevano, non meno meravigliose. A quel punto il re volle metterlo alla prova, lo convocò a bordo e chiese notizie sui fondali dello Stretto, mentre la Principessa contemplava silenziosa il volto dolce del pescatore che le faceva fremere il cuore. Il Re allora prese una coppa d’oro, la gettò nelle acque e disse a Colapesce di ripescarla con la promessa di doni preziosi se l’avesse ritrovaa. Il giovane non ci pensò su molto, si tuffò e la leggenda racconta che per ore ed ore non riemerse tanto che si temeva per la sua vita; infine apparve quando il sole era al suo culmine e la coppa brillò rifulgente, tenuta in alto dal braccio del giovane sorridente. Il re allora chiese”Raccontami Cola che hai visto” Cola si tuffò ancora. Più volte il Re gli fece ripetere l’impresa,mettendo alla prova il coraggio del pescatore ma le prove diventavano sempre più ardue. Le ore trascorsero lente, il sole tramontò e giunse la notte, una notte chiara, come spesso se ne vedono a Messina, le stelle del cielo brillavano, la luna era piena, il gran carro percorreva il cielo nel mezzo della Via Lattea e la stella Diana cantava alle sorelle misteriosi racconti. Poi trascorse la notte, apparve l’alba e il sole illuminava il ciglio del mare, prima fu un puntino rosso poi assunse le forme sinuose di una pagoda e dopo apparve in tutto il suo splendore. Ma Cola non riemergeva. Dopo tre giorni la folla di gente affacciata alla riva vide emergere una testa bruna ed infine il braccio di Cola levarsi con una corona piena di brillanti che luccicavano ai raggi del sole. Il re, impaziente fece accostare la nave e accolse a bordo Cola che, stremato dalla fatica si accasciò sulla tolda. Cola fissò, negli occhi azzurri come il mare sereno, la principessa e poi disse al re-“Sire, se non tornerò e questa ferula e queste lenticchie torneranno a galla, vuol dire che sarò rimasto in fondo al mare”. Disse e dato un ultimo sguardo attorno spiccò un tuffo nel vortice da cui era emerso e scomparve nell’acqua. I giorni e le notti si alternarono in una vana attesa. Le folle si diradarono impegnate nelle loro faccende e anche il re, atteso da importanti affari di governo doveva andare e non si decideva. Un mattino apparve vicino alla nave un pugno di lenticchie che galleggiavano su un’onda. Le genti di Messina, quando la terra viene scossa dal terremoto, per esorcizzare la paura dicono che ColaPesce è ancora lì nel fondo delle acque a sorreggere la colonna, a fare da guardia perchè la Sicilia non sprofondi. Quando è stanco di sorreggere Messina su una spalla, la passa sull’altra. Nei momenti di riposo si trastulla con gli amici delfini ed ascolta il canto dolcissimo e ammaliante delle sirene. Canzone anonima per cantastorie COLAPISCI 'A ggenti mi chiamava Colapisci pecche` si ietta 'nta mari come 'n pisci: dundi venia non sapia nissunu, forzi era figghiu dillu Diu Nettunu. 'Nu iornu a Cola 'u re feci chiamari, e Cola di lu mari curri e veni "o Cola lu mio regnu hai a scandagghiari supra a chi pedamentu si susteni". "Colapisci curri e va'" "Vaiu e tornu Maistà" "Colapisci curri e va'" "Vaiu e tornu Maistà" Su' passati tanti iorna, Colapisci non ritorna, e l'aspettano 'a marina lu regnanti e la rigina, e si senti la so' vuci di lu mari in superfici: "Maistà, Maistà, sugnu ccà, sugnu ccà" "Maistà, Maistà, sugnu ccà, sugnu ccà" intra lu fundu di lu mari chi non pozzu cchiù turnari, e pregai alla Madonna cu la rreggi 'sta culonna, ca sennò si spezzerà e a Sicilia svanirà. So' passati ormai tanti anni, Colapisci è sempi ddà "Maistà, Maistà, sugnu ccà, sugnu ccà" "Maistà, Maistà, sugnu ccà, sugnu ccà". La leggenda della Fata Morgana Il mito la vuole maga potentissima, abile a stupire i siciliani facendo apparire immagini illusorie sul mare. In realtà, non ci sarebbe nulla di magico, consisterebbe in un fenomeno ottico visibile in particolari condizioni atmosferiche. Un’illusione ottica dovuta ad un’inversione di temperatura negli strati bassi dell’atmosfera, quelli più vicini al mare nelle prime ore del mattino quando il cielo è più terso. Per la diversa densità dell’aria, dalla sponda è possibile vedere le immagini della città costiera riflesse e persino moltiplicate dal mare, trasformato in un enorme specchio. Eppure nonostante le cause scientifiche del fenomeno in Calabria e Sicilia, la magica città delle acque, unica al mondo perché visibile da due diverse sponde, è tramandata da secoli come il castello della Fata Morgana, la sorella di Re Artù che, accompagnato il sovrano sulle pendici dell’Etna, si innamorò della Sicilia al punto di stabilirne la residenza. Vittima di questa malia, secondo le leggende isolane, fu un re dei barbari sulla via della conquista della Penisola. Si racconta che il barbaro, arrivato a Reggio Calabria, progettasse l’invasione della vicina Sicilia ma non possedesse imbarcazioni per raggiungere la terra bramata. Ad offrirgli un ingannevole aiuto fu Morgana, che con un cenno disegnò la costa siciliana a due passi da quella reggina su cui si trovava il re dei barbari. Questi, ebbro di conquista, si lanciò verso le case e le spiagge assolate che vedeva vicinissime e affogò. Andò meglio a Ruggero il Normanno, il sovrano scelto dai siciliani per assumere il comando della guerra che avrebbe liberato l’isola dall’egemonia degli arabi che ne avevano fatto una terra musulmana. Ruggero aveva accettato l’impresa ma non disponeva di un esercito abbastanza numeroso. Anche stavolta Morgana volle aiutare lo straniero, materializzando sullo Stretto un esercito invincibile e un cocchio pronto a traghettarlo in Sicilia. Il normanno rifiutò l’offerta perchè fervido credente voleva liberare l’isola con il solo aiuto del Dio cristiano. L’epilogo della fiaba è nella storia, nel 1061 Ruggero sbarcò a Messina e iniziò la decennale guerra contro gli Arabi liberando la Sicilia e facendone una prosperosa terra cristiana. La Lupa La lupa è la nebbia che avvolge in particolari condizioni atmosferiche lo Stretto di Messina, trasformandolo in un paesaggio surreale stupendo. Tecnicamente il fenomeno, definito “nebbia d’avvezione”, si verifica quando masse d’aria caldo umida scorrono su una superficie fresca per cui l’evaporazione dell’acqua origina la condensazione da cui scaturisce la nebbia. Nello Stretto questo fenomeno avviene molto raramente, di solito dura tre giorni in primavera e in autunno quando arrivano masse d’aria calda provenienti dal Nord Africa per cui, nonostante il cielo coperto, le minime in prossimità delle coste marine non scendono sotto i 15-16 gradi centigradi e le massime raggiungere i 22 gradi centigradi. Ammirando lo Stretto nei giorni della “lupa” dai colli Peloritani o Aspromontani, si può ammirare un vero e proprio mare di nebbia alle bassissime quote. Basta salire 30 o 40 metri sul livello del mare e si supera lo strato nebbioso che, a livello cittadino, interessa esclusivamente le aree litoranee. La festa di San Nicola San Nicola probabilmente nacque a Pàtara di Licia, tra il 260 ed il 280 da Epifanio e Giovanna, cristiani benestanti. Perse prematuramente i genitori a causa della peste ed ereditò un ricco patrimonio che impiegò per aiutare i bisognosi. Le numerose leggende di cui è protagonista lo rendono patrono dei fanciulli, degli studiosi, delle vergini, dei marinai e dei mercanti. Si narra che Nicola, venuto a conoscenza di un ricco uomo caduto in disgrazia che voleva avviare le sue tre figlie alla prostituzione, in quanto non poteva farle maritare dignitosamente, abbia preso una buona quantità di denaro, lo abbia avvolto in un panno e di notte, l’abbia gettato nella casa dell’uomo in tre notti consecutive, in modo che le giovani avessero la dote del matrimonio. Un’altra leggenda racconta che Nicola, già vescovo resuscitò tre bambini che un macellaio malvagio aveva ucciso e messo sotto sale per venderne la carne. Anche per questo episodio san Nicola è venerato come il protettore dei bambini. In seguito lasciò la città natale e si trasferì a Myra dove fu ordinato sacerdote. Alla morte del vescovo metropolita di Myra, venne acclamato dal popolo come suo successore, imprigionato ed esiliato nel 305, durante le persecuzioni anticristiane emanate da Diocleziano, fu poi liberato da Costantino nel 313 e riprese l’attività apostolica. Non è certo se sia stato uno tra i partecipanti al Concilio di Nicea del 325, durante il quale avrebbe condannato l’eresia dell’arianesimo, difendendo la fede cattolica. Dal 7 al 9 maggio si svolge la festa di San Nicola, il patrono di Bari. Qualche giorno prima l’inizio della festività religiosa giungono in città molti pellegrini devoti al Santo. Una delle usanze tradizionali è l’offerta del pane in Basilica, per rievocare l’ arrivo delle reliquie del Santo, la vigilia si tiene un grande corteo storico. Il giorno della festa si svolge la solenne processione in cui la statua del Santo viene portata fino al Molo di San Nicola in cui si tiene una solenne celebrazione eucaristica, presieduta dall’Arcivescovo di Bari. Il Santo viene poi trasportato in mare da un corteo di imbarcazioni e verso sera presso il molo si saluta il ritorno del Santo in basilica, con una sontuosa processione al termine della quale avviene lo scoppio di fuochi pirotecnici. Il giorno dopo, in seguito alla celebrazione eucaristica di saluto che si tiene in Piazza del Ferrarese, nella cripta della Basilica si prosegue ufficialmente al prelievo della santa manna, che i benedettini trassero dalle ossa del santo,alla presenza dei fedeli e delle autorità religiose e civili. Tutta la ritualità religiosa è immersa in una cornice profana di luci e abbellimenti di cui l’intera città è meticolosamente rivestita e di concerti bandistici; tutto contribuisce a creare un’atmosfera alquanto suggestiva. Il 10 maggio, ultimo giorno di festa, dopo la Santa Messa celebrata in Piazza del Ferrarese, la statua di San Nicola, solennemente trasportata in processione, è riposta all’interno della Basilica. Dalle numerose leggende che raccontano le opere del Santo proviene l’abitudine di fare doni in segreto la notte di San Nicola; per la prossimità delle due date, San Nicola e il Natale vengono celebrati insieme in molti paesi dell’Europa centrale e settentrionale. Santa Claus, il Babbo Natale dei Paesi Anglosassoni, porta doni ai bambini nella notte di Natale ed è una corruzione di Sanctus Nicolaus. La Chiesa di San Nicola di Bari a Ganzirri Il terremoto del 1908 distrusse l’antica chiesa, costruita due secoli prima. Essa sorgeva un po’ a Nord dell’attuale e, secondo l’antica tradizione che voleva il popolo in preghiera rivolto verso Oriente, aveva la facciata dal lato occidentale e l’alto campanile addossato nella fiancata che guardava il lago.L’attuale chiesa, sorge con il prospetto verso il lago, su di un piano sopraelevato di circa due metri rispetto alla Via Consolare Pompea. La costruzione fu eseguita dal maggio 1929 al settembre 1931 e il costo è stato di £ 1.105.000.L’edificio ha la forma classica a croce latina, con una navata centrale e due laterali.L’impianto della costruzione è costituito da robusti telai di cemento armato ancorati nello zatterone e collegati tra loro con cordoli a varia altezza, il tutto secondo le norme antisismiche. I tampognamenti sono in mattoni pieni nelle navate laterali e in mattoni forati nelle parti alte della navata centrale e del transetto. La copertura a tetto è sostenuta da capriate e orditura in legno. Il controsoffitto è a cassettoni di gesso. L’insieme architettonico è solenne, con ampi archi a tuttosesto, e si ispira allo stile romanico. Madonna del Buon Viaggio patrona dei pescatori e dei naviganti Fondata a Messina tra il 1598 ed il 1604, per volere di Don Lorenzo Abbate, la chiesa di Gesù e Maria del Buonviaggio, conosciuta come “chiesa del Ringo” è stata più volte modificata nel corso dei secoli. L’attuale costruzione è frutto di interventi seguiti al terremoto del 1783 che, senza distruggere l’edificio, arrecò seri danni. Il prospetto anteriore, a ordine unico è munito di gradevoli paraste in stile corinzio su cui poggia un frontone di forma triangolare. Le due statue raffiguranti Gesù a sinistra e Maria a destra, sono di fattura artigianale. A detta degli anziani, anticamente le due statue reggevano due lampade, al fine di guidare i pescatori nelle ore notturne. L’interno, di forma rettangolare e a navata unica, possiede diverse opere d’arte degne di nota. L’altare neoclassico domina la scena, mentre sulle pareti laterali sono sistemati altri due altari di fattura settecentesca. Interessanti sono i quadri custoditi: una Madonna del Buon Viaggio con veduta di Messina, attribuito a Giovanni Simone Comandè; un Sant ‘Antonio da Padova, probabile opera dello stesso, proveniente dalla distrutta chiesa di Santa Maria di Gesù Inferiore; un seicentesco Gesù e Maria ai lati della Santa Croce, nell’altare maggiore, ed un quadro della Madonna del Rosario di autore ignoto, di probabile fattura settecentesca. All’inizio della navata sono visibili due finestre che venivano usate dagli abitanti di Palazzo Formento e del Palazzo contiguo al lato sinistro della chiesa, oggi distrutto, in modo da poter assistere alle funzioni religiose senza uscire da casa. Degli inizi del XX secolo è la statua policroma della Madonna del Buonviaggio, mentre non antico risulta il simulacro del Crocefisso, le opere sono collocate ai lati dell’altare maggiore. Di qualche interesse sono gli stucchi che sovrastano gli altari laterali. Il 15 luglio del 2007, in occasione della celebrazione della S. Messa, nella zona antistante la chiesa si è tenuto il raduno di cabinati, natanti, imbarcazioni di pescatori e motovedette. Le barche hanno seguito la processione del simulacro della Madonna del Buon Viaggio, imbarcata su una motobarca, per la navigazione tra la chiesa di Ringo e quella di S.Maria delle Grazie di Pace-Grotte e ritorno. Durante il percorso le campane della chiesa di Paradiso e di Pace hanno salutato il simulacro, mentre da una barca della Lega Navale, all’arrivo a Grotte, è stato offerto un omaggio floreale alla Madonna. Al rientro della statua, alla presenza del sindaco Francantonio Genovese, le barche partecipanti sono state benedette e a conclusione della cerimonia è stato offerto uno spettacolo pirotecnico. La chiesa, una delle cinque rimaste intatte dopo il terremoto del 28 dicembre 1908, in realtà si chiama Gesù e Maria del Buonviaggio e sorge nel Borgo del Ringo, prospiciente al mare al limite settentrionale della Messina storica della fine del XVI secolo. Il villaggio abitato anticamente per lo più da pescatori, deve probabilmente il suo nome al fatto che vi si radunavano e si allenavano i cavalieri per i tornei, tenuti poi nella contrada Giostra. Nel quartiere, a forte tradizione marinara, nel 1598 fu costruita la chiesa del Ringo in cui i naviganti entravano per chiedere protezione per un buon viaggio ed inoltre, nelle vicinanze, sorgeva la chiesa di Portosalvo dove gli stessi marinai si recavano rientrando in porto. Canzone del Pesce Spada Mittitul’ a vucare n’ta la puppa, a laparedda voca Peppe Nappa, l’estremu c’è lu figghiu di la puppa e Pantaleu voca a menza bacca. Roccu che passa omu scinziato Supra la puppa n’chiana risulutu, iddu quannu ucchiel’ù pisci spada, tattagghia a lingua c’ò mammutu, se cima l’asta e si pigghia mezza bacca ogni tirata fa n’ bucu n’tall’acqua. Ora patruni c’aviti stì gran marinaruni, prega Dio mi faciti na bell’astasciuni prega Dio e tutti i santi no m’arestate c’u pignateddu vacanti. Bibliografia Messina com’era, Guida del 1902 Messina e dintorni, Libreria Bonanzinga, MESSINA Leonardo Jerace, Storie e leggende siciliane, Tascabili La Spiga Tesi di laurea Collega di spagnolo http://www.tempostretto.it/8/index.php?location=articolo&id_articolo=15080 http://www.sullacrestadellonda.it/mitologia/scilla.htm http://parrocchia.ganzirri.it/ http://it.wikipedia.org/wiki/Fata_Morgana http://www.dwellvacation.com/blog/messina-il-quartiere-del-ringo-la-confraternita-e-la-chiesa/ http://it.wikipedia.org/wiki/Fontana_del_Nettuno_(Messina)