Pedagogia il gioco

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Pedagogia il gioco
INTRODUZIONE
Cos’è il gioco e che valore ha per il bambino? Questa è la domanda che
da sempre ha stimolato gli studiosi di varie scienze: dall’etologia alla
filosofia, dalla pedagogia alla psicologia, fino ad arrivare alla psicoanalisi.
Il gioco è una attività che coinvolge gran parte dell’infanzia; infatti, dalla
nascita fino all'ingresso nella scuola, il gioco è il tramite principale che il
bambino utilizza nei rapporti con gli altri. Successivamente altri fattori
acquistano sempre maggiore importanza, ma il gioco non è mai
abbandonato completamente. Anche nell’età adulta è ancora presente, ma
è relegato a momenti particolari ed ha funzioni particolari. Il gioco in età
adulta ha funzione di rilassamento e distrazione ed è spesso ben
strutturato. Giochi “da adulti” sono gli hobbies e lo sport. In ogni caso il
gioco, dopo una certa età, non deve ricoprire che un tempo parziale
rispetto alle attività “serie” della vita quotidiana.
Il gioco è considerato un’attività ricreativa e, pertanto, nell’età adulta,
deve avere spazi e momenti limitati, mentre ai bambini è consentito che
questa attività venga esercitata in ogni momento o quasi. Perché questo?
Perché il gioco è da tutti ritenuto un’attività fondamentale dell’infanzia.
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Il bambino gioca perché ha bisogno di scaricare un eccesso di energia,
questa è la teoria del “surplus” di energia di H. Spencer (1855), il quale, verso
la metà dell’Ottocento, elaborò questo pensiero ricavandolo dagli scritti
filosofici ed estetici di Friedrich Schiller.
Schiller (1826) aveva definito il gioco come l’espressione di un eccesso
di energia e come l’origine di ogni arte. Anche Spencer considerò il gioco
come origine dell’arte e come espressione senza scopo di energia in
eccesso, ma diede a quest'idea un'importanza tipicamente evoluzionistica.
Il gioco si sviluppa negli animali superiori perché impiegano meno tempo
per le necessità di sopravvivenza e hanno quindi a disposizione più energia
per giocare.
E’ importante notare che spesso il gioco è un incentivo: ad esempio, un
bambino stanco da una passeggiata si riprenderà e camminerà svelto verso
casa se gli si promette che, una volta arrivato, potrà giocare. Questo ci
dimostra che non è necessaria energia in più per il gioco.
Un’altra teoria sul perché i bambini giocano è stata quella di G. S. Hall
(1907), il quale riteneva che i bambini, nel loro gioco, rivivessero gli
interessi e i comportamenti che i loro antenati avevano vissuto nei tempi
precedenti.
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Alcuni particolari giochi, come l’andare in bicicletta o il giocare con i
telefoni, non possono, tuttavia, essere riconducibili ad attività degli uomini
primitivi.
Karl Groos (1896, 1899) ipotizzò che il gioco infantile, come quello
degli animali, è basato sulla necessità di esercitare gli istinti della loro
specie, questa esercitazione avviene tramite l’imitazione. Uno dei giochi
preferiti dai bambini è, infatti, quello di imitare il comportamento e le
attività degli adulti.
Per Froebel (1960) il gioco è il lavoro non alienato del bambino, dove
egli può fare esperienze determinanti instaurando un rapporto libero e
creativo col mondo. L’attività ludica prende i caratteri di puro
divertimento e diviene il prototipo della libera attività creatrice, in
contrapposizione alla ripetitività alienante del lavoro, a cui era stata
sottoposta anche l’infanzia fino a quell’epoca.
Così come la filosofia e la pedagogia anche la psicologia ha cercato di
spiegare il significato e il valore del gioco. Un’importante contributo è
stato dato da J. Piaget (1923, 1945, 1947, 1964), il quale considerò il gioco
e l’imitazione come parti integranti dello sviluppo intellettuale e che, come
questo, seguono lo stesso processo.
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Secondo Piaget (1945) la maggior parte del gioco è eseguita dal
bambino per pura gioia ed eccitazione che l’attività in se stessa suscita,
anche se, qualche volta, è un mezzo per elaborare e assimilare una
esperienza immaginativa.
Per questo Autore (op. cit.) il gioco inizia nello stadio sensomotorio,
che va dalla nascita fino ai diciotto mesi. Infatti, al quarto mese guardare e
toccare sono ormai movimenti coordinati e il bambino impara che, dando
una spinta al giocattolo appeso alla culla, lo farà muovere e tintinnare.
L’azione imparata e ripetuta in continuazione è già gioco. Il piacere di
“essere una causa” nasce dal ripetere le azioni, non appena sono state
dominate. Il gioco di questo periodo può essere chiamato funzionale,
perché consiste nel riprodurre azioni senza scopo, con l’unico fine del
piacere del funzionamento (Piaget, op. cit.). Una volta che l’infante di
sette-dodici mesi ha imparato a trovare giocattoli o altri oggetti
rimuovendo ciò che li nasconde, lo stesso togliere ciò che li copre si
trasforma in un gioco piacevole. Il gioco non è più solo la ripetizione di
qualcosa che ha avuto successo, ma è anche una ripetizione con variazioni.
La sperimentazione attiva non inizia prima dei dodici-diciotto mesi.
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Nel periodo finale dello stadio sensomotorio sono possibili l’azione in
assenza degli oggetti e, con essa, la simbolizzazione, la simulazione e la
finzione.
Il gioco simbolico e fantastico ha la stessa funzione nello sviluppo del
pensiero nello stadio preoperatorio che il gioco “per esercizio” aveva nel
periodo sensomotorio. È pura assimilazione e di conseguenza ripete e
organizza il pensiero in termini di immagini e simboli di cui il bambino ha
padronanza. Le situazioni, gli oggetti e le azioni che vengono riprodotti nel
gioco non sono immediatamente presenti. Le azioni ludiche sono, in
questo periodo, decontestualizzate e rappresentano altre azioni. Il gioco
simbolico serve anche ad assimilare e a rafforzare le esperienze emotive
del bambino. Qualsiasi cosa importante sia accaduta viene riprodotta nel
gioco. Quel che è successo nella realtà viene distorto nel gioco, perché è
questa che si adatta ai bisogni individuali del bambino. Questa importanza
è notata anche da S. Millar (1968), la quale afferma che
il gioco, i sogni e le fantasie sono determinati dai desideri. Il bambino
distingue il gioco dalla realtà, ma si serve di oggetti e situazioni presi dal reale per
creare un mondo suo, nel quale può ripetere le esperienze piacevoli quanto
vuole e può ordinare e alterare gli eventi come preferisce. Il bambino vorrebbe
essere grande e fare ciò che fanno gli adulti: nel gioco questo è possibile.
[Millar, 1968, p. 24]
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Il simbolo ludico, per Piaget (1945), è assimilazione deformante nel senso
che distorce la realtà fino a farla aderire ai propri desideri egocentrici.
Successivamente, il gioco, diventando collettivo, diviene più realistico, più
vicino alla realtà. Il gioco da simbolico diventa costruttivo. Gli episodi che
vengono riprodotti sono “rappresentazioni adattate”. Questa attività di
gioco si pone ora a metà strada tra il lavoro (attività finalizzata) e
l’imitazione (attività adattata).
Anche Bruner (1972) sostiene che il gioco dei bambini è essenzialmente
imitativo, gli adulti sono i modelli i cui comportamenti vengono osservati
e riprodotti in modo nuovo. Tale simulazione non è semplicemente
mimetica ma è anche simbolica: più che le azioni sono i significati di
queste che vengono riprodotti, infatti, per questo Autore, il gioco è veicolo
di trasmissione di comportamenti e valori culturali.
Vygotsky (1932) si oppone criticamente alla visione piagetiana del
primato, nell’infanzia, del pensiero egocentrico rispetto al pensiero
socializzato, nel quale vede una riedizione della contrapposizione
freudiana del principio di piacere e del principio di realtà.
Vygotsky (1966) smussa la contrapposizione tra immaginazione e
pensiero realistico, perché ritiene la prima come necessaria e integrante al
secondo.
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Nell’immaginazione un posto prevalente lo occupa il gioco, non solo
nel senso che nel gioco il bambino crea situazioni immaginarie, ma anche
perché l’immaginazione è l’attributo di ogni tipo di gioco.
Il gioco, per questo Autore, è fondamentale per lo sviluppo perché
consente al bambino di liberare le proprie azioni dall’aderenza con gli
oggetti e le loro caratteristiche. Il pensiero del bambino mentre gioca è
separato dagli oggetti e l’azione prende le mosse dalle idee, il gioco non
dipende dalla realtà percettiva, ma dal significato che il bambino dà a tale
realtà. Gli oggetti sono usati dal bambino come intermediari, come mezzi
per rappresentare un qualche significato. Ciò che è importante è il
significato che viene attribuito all’oggetto rispetto alle proprietà
dell’oggetto stesso.
L’immaginazione, per Vygotsky, non è un elemento di confusione tra
fantasia e realtà, tra mondo interno e mondo esterno, ma è un incentivo
allo sviluppo.
Nelle teorie che sono state accennate l’accento è stato posto sullo
sviluppo, e su come il gioco possa aiutarlo, ma in esse si rileva una quasi
totale indifferenza a ciò che prova il bambino mentre gioca e da quali
sentimenti deriva il gioco. Si deve alla psicoanalisi lo studio approfondito
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di questa interazione tra sentimenti, desideri e gioco, tra fantasia, emozioni
e realtà.
La psicoanalisi ha posto l’accento sul gioco come espressione infantile
della formazione di simboli, dove sentimenti e intelletto sono
indissolubilmente intrecciati. Anche le teorie psicoanalitiche vedono il
gioco come facilitatore dello sviluppo, ma sono favorite soprattutto
capacità di gestione e controllo dell’affettività.
Il gioco è un’attività simbolica, e il simbolo è ciò che permette di
collegare le emozioni con i processi cognitivi. L’attività fantastica che
guida il processo di simbolizzazione ha origine dal bisogno, desiderio o
mancanza e mira alla sua soddisfazione immediata, tramite lo spostamento
della carica pulsionale da un oggetto ad un altro, ritenuto più accettabile. Il
gioco, in questo senso, rivela l’intreccio tra rappresentazioni, fantasie e
pulsioni.
Molte teorie psicoanalitiche vedono il gioco come manifestazione di
pulsioni sessuali che, non potendo essere portate alla coscienza, vengono
sublimate, spostate su altre attività. Così come il sogno, il gioco permette
l’esplicitarsi delle pulsioni e dei desideri sessuali. Così come nel sogno,
anche nel gioco sono presenti gli stessi processi: rimozione,
condensazione, deformazione, spostamento, simbolizzazione. Questo è il
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pensiero di Autori come Freud, Pfeifer, Hug-Hellmuth, A. Freud, Klein,
Segal, Isaacs.
Ma perché il bambino per manifestare i propri sentimenti, pensieri,
pulsioni, utilizza in maggioranza il gioco rispetto al sogno? Perché la
modalità primaria di espressione del bambino è l’azione, è tramite l’azione
che il bambino comunica. E il gioco è il linguaggio con cui il bambino
esprime se stesso, il gioco è il mezzo privilegiato di comunicazione e di
espressione inconscia.
A cosa serve il gioco? Il gioco permette al bambino di affrontare
situazioni angoscianti, come l’assenza e la separazione dalla madre. Nel
gioco il bambino può attivamente elaborare questa esperienza di
frustrazione. Un esempio di questa rielaborazione è dato dal gioco del
cucù che avviene nella primissima infanzia o il gioco del nascondino nei
bambini un po’ più grandi.
Wolman (1972) illustra, in affinità con Peller (1954), la funzione centrale
del gioco che, secondo questi autori, è da attribuire all’assimilazione
dell’angoscia.
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Il gioco offre, inoltre, al bambino gratificazione, catarsi, e rafforza le sue
capacità di sintesi. Il gioco durante la latenza, in cui in genere assume il carattere
di competizione, è più realistico del gioco che si svolge in precedenti fasi di
sviluppo. È spesso associato con vari interessi, hobby, ed esperienze di gruppo.
Le competizioni, in contrasto con il gioco durante il periodo edipico, mettono in
rilievo l’organizzazione, la tradizione, il rituale, l’eguaglianza, la fedeltà alla
squadra, e l’osservanza delle regole. I sentimenti e la spontaneità dell’individuo,
che hanno una importanza primaria durante il gioco edipico, sono relativamente
poco importanti nelle gare. […]
Le gare, inoltre, aiutano il bambino a rafforzare il suo Super Io e a risolvere le
tensioni omosessuali mediante la reciproca identificazione e il mutuo affetto
cementato dalle regole e dall’appartenenza al gruppo. Le competizioni aiutano il
bambino a tradurre i suoi sogni a occhi aperti, dei quali egli è portato a
vergognarsi, in una forma convenzionale e accettabile condivisa dai sui coetanei.
[Wolman, 1972, pp. 90-91]
Il gioco permette di avere, tramite simboli, uno strumento per
sperimentare e padroneggiare l’angoscia, dare sfogo ai propri desideri
senza che questi si manifestino coscientemente, avere il controllo delle
pulsioni sessuali.
Nel gioco le fantasie vengono drammatizzate, vengono sottoposte alla
prova di realtà, permettendo al bambino di sperimentare i limiti che la
realtà impone, avendo così la possibilità di diventare padrone di se stesso
(Bettelheim, 1972).
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Bettelheim (op. cit.) osserva che i rituali del camminare, come il non
calpestare le fessure del marciapiede, o camminare molto vicini agli edifici,
o camminare sui muretti, sono messi in atto dai bambini per
padroneggiare se stessi, per sperimentare la propria volontà e il proprio
autocontrollo, avendo la prova di essere capaci di dirigere le proprie
attività.
Wolman (1972) riporta una interessante osservazione di Kestenberg, il
quale notò che l’interesse per i giochi di prestigio e le marionette, attività
tipicamente maschili, offre al bambino un modo per esteriorizzare e agire
e, dunque, per padroneggiare le angosce connesse alla sua difficoltà di
controllare le erezioni e i movimenti dei testicoli. Così come maneggiare
utensili, attrezzi sportivi e macchinari gli offre un analogo mezzo
simbolico per comprendere e controllare le differenti parti dei suoi
genitali.
Il gioco svolge una funzione catartica, di purificazione e di padronanza
delle esperienze penose e conflittuali. Questa è la tesi di Freud, Pfeifer,
Klein, A. Freud, Berna, Segal, Isaacs, Kalff.
Ma non è solo questo. Come vedremo alcuni Autori (Benjamin,
Erikson, Segal) osservano che il gioco ha anche una funzione di rendere
“familiare” ciò che non lo è, può quindi essere la sperimentazione e la
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riattivazione di esperienze piacevoli e vittoriose, sperimentazione che può
essere ricondotta, comunque, al bisogno di autoaffermazione infantile che
passa attraverso il dominio di eventi e situazioni. Nel gioco è possibile,
inoltre, sperimentare i propri limiti e creare nuove versioni della realtà
dove il bambino è l’eroe a cui tutto è permesso.
Il bambino che chiede che un gioco sia ripetuto infinite volte secondo il
medesimo rituale e che protesta se una fiaba gli viene narrata con qualche
variazione, evidenzia il bisogno di sicurezza che scaturisce dalla constatazione
dell’identità. [Bondioli, 1988, p. 32]
Per alcuni Autori (Klein, Segal) il gioco è assimilabile alle associazioni
libere dell’adulto ed è quindi il mezzo migliore per comunicare con il
bambino in analisi.
Il gioco è anche il tramite con il quale il bambino riesce ad acquisire la
sua identità, il senso del sé, e di distinguere se stesso dall’Altro (Erikson,
Winnicott). Tramite il gioco anche la realtà inizia gradualmente ad essere
distinta dalla fantasia, la realtà esterna inizia a differenziarsi dalla realtà
interna (A. Freud, Berna, Segal, Isaacs, Winnicott).
È comunque nel gioco che è possibile una sospensione del giudizio tra
vero e falso, tra reale e irreale, che fa del gioco un’area di confine tra realtà
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soggettiva e percezione oggettiva del mondo esterno. Nel gioco si ha
l’elaborazione creativa dell’esperienza. L’esperienza creativa è la base del
senso di identità. Vedremo infatti che molti Autori sostengono che il
senso di identità si forma in contrapposizione all’Altro, e che questa
contrapposizione tra interno ed esterno è possibile e viene stimolata grazie
all’attività ludica che si sviluppa dal giocare con il proprio corpo al giocare
con il corpo dell’Altro fino al giocare con l’Altro.
Nel presente lavoro si cercherà di analizzare il pensiero di quegli Autori
che, nell’ambito psicoanalitico, hanno studiato il gioco come momento
fondamentale della vita infantile.
Le teorie psicoanalitiche del gioco si sono evolute su tre linee principali:
quella più osservativa e concettuale che nasce con Pfeifer e Freud, la linea
intermedia della quale fanno parte H. von Hug-Hellmuth e A. Freud, le
quali inseriscono il gioco nell’analisi infantile, ma lo utilizzano ancora per
osservare il comportamento infantile, quella più propriamente clinica che
inizia con M. Klein e prosegue con Berna e la sua “terapia ludica” e, con il
gioco della sabbia di D. M. Kalff.
Un capitolo a parte illustra il pensiero di D. W. Winnicott, che ha
trattato il gioco in un modo completamente nuovo.
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Vedremo che gran parte degli Autori e delle teorie studiano, di volta in
volta, parti o funzioni specifiche del gioco ma non osservano il fenomeno
gioco, cosa che invece viene fatta da Winnicott, il quale considera il gioco
nella sua interezza, peculiarità, nel suo essere fenomeno naturale e
universale.
Nei capitoli seguenti tratteremo con più attenzione le teorie
psicoanalitiche, cercando di approfondire le differenze tra i vari autori. Nel
primo capitolo inizieremo con le prime teorie riguardanti il gioco infantile,
parleremo di Pfeifer, S. Freud, Benjamin ed Erikson.
Nel secondo capitolo tratteremo più dettagliatamente H. von HugHellmuth, A. Freud. Nel terzo capitolo parleremo di M. Klein, H. Segal e
S. Isaacs e J. Berna. Due capitoli a parte tratteranno il pensiero di D. M.
Kalff e D. W. Winnicott.
Nelle conclusioni si cercherà di spiegare come mai la teorizzazione di
Winnicott appare come la più completa ed originale rispetto alle teorie
precedenti.
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