Note e Rassegne

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Note e Rassegne
Note e Rassegne
«dove il dolore c’è / ma non si vede».
Per la quarta raccolta poetica di Elena Salibra (la svista)
La cadenza triennale (il debutto, con Vers.es, data al Maggio del 2004;
sulla via di Genoard reca il finito di stampare del Marzo 2007 e il martirio
di ortigia quello del Marzo 2010) con cui l’autrice, tentata fin dagli esordî
dalle lusinghe teleologiche del «gioco dei numeri»,1 si era fin qui presentata
all’appuntamento con i suoi lettori è ora inopinatamente contraddetta dal
vient-de-paraître la svista, che vede la luce a poco più di un anno di distanza
(Giugno 2011) dalla pubblicazione precedente; né è questo l’unico motivo di
sorpresa che ci riserva una silloge cui il predicato di lieve compete in prima
istanza in ragione della sua consistenza ponderale, altra appariscente novità
risiedendo precisamente nell’esiguità numerica dei suoi componenti (tredici
pezzi appena, a fronte dei cinquanta del primo libro, dei sessantacinque del
secondo e dei quarantacinque del terzo), per giunta non ripartiti, come invece senza eccezione per l’addietro, in sezioni tematicamente compatte od
omogenee per contingenze lato sensu formali. Ancora: ogni lirica vi appare
debitamente provveduta di un titolo – sia pure depresso al tutto minuscolo
di caratteri corsivi in corpo piccolo – come non accadeva dai tempi di Vers.
es (in sulla via di Genoard ben trenta poesie non portano intestazione e nel
martirio di ortigia sono anepigrafi due elementi del trittico eponimo e sei
delle sette storielle, soltanto fregiate da un numero progressivo). Se poi, dalla
considerazione dell’indice, della plaquette si proceda a sfogliare le pagine,
un’ulteriore insigne singolarità si ravviserà nell’uniformità tipologica dei
testi (la classica definizione di «poemetti», in apertura delle Note in calce, è
d’altronde autoriale)2 di contro all’esuberanza di metri, benché modernamente liberissimi e disinvoltamente mescidanti schemi chiusi e aperti, cui
la pregressa produzione della poetessa siciliana, anche tipograficamente
improntata a un blando sperimentalismo verbo-visuale, ci aveva abituato:
«stanze e madrigali», «canzoni libere», canzonette rap e perfino, nel volume
del 2007, un sonetto per un incontro almeno dal rispetto morfologico (quartine
e terzine di canonici endecasillabi) sufficientemente regolare.
Giusta il titolo di una poesia contenuta nell’opera prima.
Si tratta di composizioni diseguali per le misure dei versi, svarianti fra le tre e le
diciassette sillabe, e tutte eterostrofiche eccetto due (la stanza da bagno e il girone) conteste
di sole terzine, una (duale) di otto terzine più un verso finale irrelato e una (il fachiro) di
sole quartine.
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Una raccolta, dunque, nel segno di un’anomalia, che, lo scopriamo
non appena incamminatici nella lettura, si connota come mutamento della
voce parlante non meno che come difformità estrinseca del manufatto.
Innanzitutto, un’urgenza nuova di dire, che trova nel respiro relativamente
arioso del poemetto, genere a vocazione narrativa per eccellenza, la misura
più confacente a una pronuncia che, pur senza abbandonare i modi sincopati ed ellittici che rappresentano una fra le più vistose cifre stilistiche
della lirica salibriana, fitta di tiretti e di aposiopesi, si è nondimeno fatta
alquanto più piana e articolata, distendendosi in un, pur secco e spigoloso,
recitativo. Se la formula del journal intime (ma a una convinta paladina di
Colloqui per e-mail potranno forse sembrare più acconce etichette di nuovo
conio telematico quali wordlog o weblog) riesce, una volta ancora, la più
pertinente per designare quello che di fatto si propone come l’ulteriore
capitolo di una progrediente cronistoria privata, si dovrà tuttavia sùbito
affrettarsi a precisare che qui non è più questione del taccuino di un viaggio nello spazio (e sia pure affidato alle coordinate sentimentali di una
ricognizione geografica che da mete odeporiche concretissime soavemente
trascorre al fiabesco esotismo di eldoradi dell’anima) tali quelli dell’opera
seconda e della serie rotte della terza, e a ben vedere nemmeno nel tempo
(la diacronia minutamente dettagliata e gli andirivieni memoriali di Vers.
es; i richiami più labili e indeterminati, talora con un che di svagatamente
surreale – «l’altrieri» «febbraio dell’anno prima» –, ma non per questo meno
cogenti del martirio,3 nell’assillo di candire l’attimo anche apparentemente
il più insignificante nell’ambra di istantanee a loro modo vittoriose), bensì
di un diario che, se può continuare a definirsi viatorio («mi rallentano la
via gli appuntamenti / imprevisti […]» [il secondo lavoro], «[…] rimettiti / in
cammino…» [la svista]), tale è in accezione eminentemente agostiniana: un
percorso cioè, che, per quanto esteriormente ancora agganciato a scansioni calendariali in rigorosa sequenza («una sera d’agosto», «una sera /
d’autunno» [il balcone], «in questa primavera» [il salotto], «maggio», «undici
maggio» [la stanza da bagno], «quella domenica di fine ottobre» [duale], «in
un natale di ghiaccio dell’anno / duemiladieci» [il girone], «l’inverno» [la
svista], «nel sole di gennaio» [i campi elisi])4 e qua e là segnato di impronte
Cfr., ad esempio, a crocino[ss. 206] e le data in epigrafe a prove di selezione e a mentre ballo.
Si danno anche indicazioni temporali – mai orarie, diversamente che per il passato –
meno circostanziate («stanotte» [la stanza da bagno]; «ieri» [duale]; «oggi», «di prima mattina» [la conchiglia]) e non sempre meramente realistiche («al principio della sera», «notte /
morbida», «alla fine della sera» [ballando diego]; «quel giorno», «l’altrieri» [il secondo lavoro]).
Un’unica, mascroscopica infrazione nella successione delle poesie – disposte in ordine
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dell’ieri a rifluire sull’oggi moniti e presagi, comporta in realtà – il lettore
ne è avvertito al secondo componimento – un inerte immorare in luogo,
addipanandosi nel moto immobile di una discesa nel profondo di sé alla
ricerca delle «radici» di un male arcano che assume le inquietanti apparenze,
ahimè neanche tanto metaforiche, di «una gramigna / speciale»:
[…] – tu dicevi
che ti faceva ribrezzo perché
sembrava all’aspetto maligna
anche se non era invasiva e proliferava
appena più folta dei capelli (altre erbe).
Un non tempo, insomma (il «tempo nuovo» del secondo lavoro), appiattito
sull’acronia di un presente che è quello, incerto e impotente, dell’attesa:
attesa di assoggettarsi, alienante ticket numerico alla mano, a indifferibili
terapie che accalca in un “comico” cerchio di inferno ospedaliero turbe
soverchie di genti dolorose («sono in esubero in questo girone / i dannati
e gli addetti / non bastano a dividere i vivi // secondo i tempi d’attesa.
s’affollano / dopo l’appello davanti al display / aspettando la formula di
lettere // e numeri che li ordina in duplice fila» [il girone], «ora sono un
numero – 43… l’importante è il tre – / precisa la portantina. all’appello
rispondo. / […] sette il numero nuovo… ma devo aspettare…» [il fachiro]),5
e attesa, ben altrimenti aleatoria e dubitosa, di una sentenza ultima («[…]
solo io rimanevo / in sospeso sperando / di abbandonare la terra così /
su due piedi // …oppure come un vuoto a perdere / di infilarmi nel contenitore
giusto» [il verdetto], «[…] ognuno è un dolore / sospeso […]» [il fachiro]).6
cronologico per espressa ammissione dell’interessata nelle Note – si registra nella svista,
a conferire peculiare rilievo alla circostanza decisiva da cui la silloge muove e acquista
significato: «in mezzo al calendario non hai visto / quella domenica di fine luglio / con
la nota in calce. / che quel giorno non era possibile / prendere l’appuntamento l’hai /
saputo dopo […]».
5
Generiche suggestioni ed echi puntuali (ma stranianti per contesto) dall’Alighieri, specialmente dall’Alighieri della prima cantica della Commedia, tramano a tal segno
l’intero corpus poetico salibriano che sarebbe forse da auspicare uno specifico contributo
in merito (cfr. comunque la seguente nota 9); si richiamerà qui, per l’affinità situazionale con l’attacco del girone, l’avvio del sesto dei Colloqui per e-mail, Classificazione (a sua
volta ispirato dal “dantesco” Superstite di Primo Levi, da cui deriva l’epigrafe), in Vers.es:
«m’accalco tra i sommersi nella semplice / classificazione che il chimico compone sulla tavola / di tipi umani in trasformazione // ad ora incerta affronto il mio destino».
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Docile aspettazione, venata però di speranza, è anche nell’ultimo verso di duale:
«[…] e attendo… un giorno nuovo».
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Le mille formicolanti occasioni (oggetti di ordinaria esperienza domestica, fatti e riti del quotidiano anche il più futile, scampoli di cronaca
spicciola, sensazioni eraclitee) di cui finora voracemente si alimentava
l’onnivora ispirazione salibriana si sono d’un tratto rapprese in un’unica, fatale, occasione (la «questione / di vita o di morte» solennemente
agitata dagli innominati ippocrati del verdetto, parenti stretti dei «vecchi
saputi» «dottori» gozzaniani di Alle soglie), pure a sua volta scomposta in
una congerie di minuti frangenti nel tentativo apotropaico di arginare lo
smarrimento sforzandosi di decifrare un senso nei dati e negli accadimenti
della veglia o nelle derive inconscie del sonno, si tratti di «undici / provette in fila sul lavandino» di una toilette d’ospedale da cui trarre sibillini
oroscopi cromatico-aritmetici («quale sarà la mia non so ancora / forse
quella d’un bianco opaco come / il piatto doccia. sto a rimuginare //
mentre cade una goccia poi due… tre… / dal rubinetto di fianco sul mix
/ di liquidi in attesa d’analisi. // lo stick col reagente cambia / i colori
(e i miei umori) […] / […] – data presunta del parto undici maggio –» [la
stanza da bagno]); della fortuita rottura, paventata pronostico nefasto, di un
talismano della famiglia salvifica dell’eburneo topolino doramarkusiano,
un «garagòlo» montato a ciondolo («mi si è spezzata tra le dita oggi / la
conchiglia / che portavo al collo. mi ci provo / a ricomporla / e non ne
sono capace / forse ci vuole un attack speciale / e un protocollo d’intervento
/ ma ho paura di perdere // il rumore del mare che ascoltavo / avvicinandola
all’orecchio […]» [la conchiglia]),7 o delle visionarie elaborazioni dell’immaginario onirico, dall’enigmatica, ancipite simbologia («volevo approdare
nell’isola dalla marina grande. / ma la navigazione non era sicura. sentivo
/ un tempo nuovo che increspava il mare. / d’improvviso vidi un’onda
gonfiarsi / a picco e infrangersi sulle mie spalle» [il secondo lavoro]; «stanotte ho sognato una luna / crescente in un cielo preestivo» [la stanza da
bagno]). L’evasiva intitolazione campeggiante al centro di una leggiadra
copertina magrittiana già per suo conto debitamente allusiva (avendo il
compassato pèlerin in bombetta, cravatta e monopetto ivi effigiato perso,
letteralmente, la testa) dice il disorientamento del soggetto poetante di
fronte all’improvvisa emergenza di una realtà sconvolgente che non era
stato in grado di prevedere («ora ci sei tra di noi mi spiazzi / m’adeguo» [la
Tale «mollusco gasteropode dotato di una conchiglia dalla forma attorcigliata» (giusta
la precisazione fornita dalla stessa autrice nelle Note) già figurava, sia pure come fittizio
secondo termine di una similitudine, nell’explicit di una delle storielle del martirio, s sei | il
puzzle, dove per l’appunto era questione di «ricomporre» i «frantumi» dell’essere amato
lontano: «[…] mi sorprendi / a torcigliare le nostre piccole / storie come garagoli».
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stanza da bagno]) e che gli appare incomprensibile («avevano pronunciato il
verdetto a voce alta / scandendo bene le parole eppure / non risultava chiaro lo
stesso» [il verdetto], «il mio caso non è chiaro» [il fachiro]): e gioverà sottolineare,
al proposito, come il termine svista, oltre a denominare il penultimo testo
del fascicolo, occorra in guisa di mot-clé nel secondo componimento, altre
erbe (al v. 17, in figura etimologica con il, concettualmente antonimo, vista
del verso precedente), ossia sigli giusto gli estremi tra i quali propriamente
si srotola il tema della malattia che forma il peculiare argomento della
raccolta, costituendo la lirica d’ingresso e quella d’uscita una sorta di fuor
d’opera, di vitalistica cornice amorosa a circoscrivere e, al tempo, a esorcizzare mercé l’evocazione iterata di personalissimi paradisi citramondani
la zona del libro su cui alita algido il fiato della morte:8 preludio librato
sull’onda lontana di una fantasia-ricordo madrilena inquadrata «nell’eden
di un inverno goduto a pieno» l’uno (ballando diego), congedo coraggiosamente uncinato all’hic et nunc di una maldestra escursione alpinistica a
due in traccia del varco inaccesso a un luminoso ade apuano l’altro (i campi
elisi). Con trasparente intento palinodico, dunque, rispetto alla penultima
stazione del martirio, in cui il miracolo scritturale di Tobia che rende la vista
all’omonimo genitore fungeva da emblema della nuova chiaroveggenza che
si riteneva conseguita appunto dopo i giorni di tobia, ora preso traumaticamente atto dell’errore, è proclamata a chiare lettere la propria perdurante
incapacità percettiva, rinunciando a ogni residua pretesa gnoseologica
sul reale. Se, tuttavia, nel testo eponimo il moto ostinato dell’anafora e
una martellante rima in -ia conferiscono all’enunciato un che di troppo
drastico e programmaticamente esibito («non hai visto la rima in fondo
alla poesia / […] non hai visto la svolta al crocevia / […] non hai visto
il birillo in mezzo alla via / […] in mezzo al calendario non hai visto /
quella domenica di fine luglio / con la nota in calce»), in altre erbe il riconoscimento di quel vizio di prospettiva che viene ora indicato senz’altro
Assai notevole che il lemma, in tanto scabrosa congiuntura, conti all’interno dell’opera una sola occorrenza (nella già ricordata clausola del v. 14 del verdetto), per giunta
distanziato nel linguaggio stereotipato e impersonale dei medici: «dicevano che era
una questione / di vita o di morte»; è pur vero che nei vv. 34 e 38 del componimento
seguente, il secondo lavoro, il poeta si concede, in persona propria e per ben due volte, la
pronuncia del verbo «morire», ma la carica funesta ne risulta tanto minore sia perché
la voce non è attualizzata mediante la coniugazione bensì demandata alla vaghezza del
modo infinito, sia – e soprattutto – perché collocata, come si vedrà più avanti, in un
contesto che recisamente la nega («si può imparare a morire […]» / «io non so morire
neppure un poco»).
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come cecità si risolve in accenti di franchezza quasi giocosa («[…] così
ero arrivata / al punto di pensare d’essere cieca / e di non capire il parere
/ degli specialisti che volevano intervenire / ad ogni costo per aprirmi / nuovi
orizzonti…»). Qui si registra, io credo, uno degli esiti più persuasivi della
silloge, ove l’invenzione metaforica, leopardianamente sovradeterminata
se altre mai, dell’ostacolo vegetale che impedisce all’occhio di spaziare
liberamente si fa pretesto a un amaro divertissement che, screziato com’è
di tessere dell’Infinito aggiornate e corrette con ludico spirito iconoclasta
(«di là / da quella» «la siepe del vicino» «nuovi orizzonti»), non si perita di
chiamare direttamente in causa il poeta di Recanati con palmare intenzione parodica (il ricordo letterario è del resto ingrediente costitutivo della
stessa fantasia della “professoressa” Salibra, valente specialista di letteratura
italiana contemporanea).9 L’immagine simbolo della «siepe» che dell’ultimo
Un – più scolasticamente compiaciuto – collage di schegge desunte dal medesimo
idillio leopardiano materiava una scanzonata meditazione sul tempo nella parte conclusiva
del rap fine novembre, nel martirio di ortigia: «[…] riprovo a riflettere / quanto contano gli anni i
minuti // o le morte stagioni una vita / due… adesso qui con la presente e viva / voglio ricominciare».
Squisitamente colta, la poesia dell’autrice siciliana si nutre ab ovo di poesia, introiettando
con naturalezza talvolta inficiata da un filo di intellettualismo, in recuperi anche spericolati
e smitizzanti ma sempre amorosi, le parole di coloro che l’hanno preceduta sulla via letteraria. In questa raccolta di così pressante impellenza comunicativa, tuttavia, i debiti con la
tradizione appaiono, rispetto al passato, meno rimarchevoli e assai inferiori per quantità:
tra le allusioni più vaghe si segnaleranno, oltre quelle già ricordate al colloquio gozzaniano
Alle soglie nel verdetto e ai dannati danteschi nel girone, quelle ai metaforici «traghetti», danteschi ma anche montaliani, nel secondo lavoro e (meno accusata) in duale, o un tenuissimo
riferimento, ancora, montaliano in altre erbe (il mare in cui la Salibra vorrebbe «doppiare» la
sua vita arieggia alla lontana l’«Antico» su cui l’estensore della serie Mediterraneo aspirava a
riplasmarsi); tra le riprese più puntuali, oltre al lacerto melodrammatico incluso ad verbum
nel salotto di cui nella seguente nota 11, gli svariati tasselli danteschi rinvenibili nei campi
elisi (di là dal «muoviti che fai…», patentemente ricalcante il «Volgiti! Che fai?» di Inferno,
X, v. 31, dietro i «massi / dell’altura» pisana si scorgono i «duri massi / de l’alta ripa» di
Purgatorio, III, v. 70-71, mentre la «petraia» è quella medesima di Purgatorio, XIII, v. 9) e due
ulteriori richiami montaliani: nel fachiro «il permesso / per l’aldilà», che rimanda, attesa
pure la congruenza tematica, al «fischio» «per l’aldilà» di Xenia, I, vv. 1-2, e nella svista «[…]
un percorso frettoloso / tra portoni e finestre. ora l’inverno / ti riporta indietro […]»,
dove è avvertibile una centonaria reminiscenza dei vv. 37-43 dei Limoni: «[…] ci riporta il
tempo / nelle città rumorose […]. / […] s’affolta / il tedio dell’inverno sulle case / […].
Quando un giorno da un malchiuso portone / […]». Un paio di meri calchi sintagmatici
sarebbe infine temerario ravvisare (né l’una né l’altra iunctura appare infatti bastantemente
callida da garantire con certezza la derivazione) nel «vizio solitario» di ballando diego (in un
aforisma sbarbariano dei Fuochi fatui lo stilema designa la poesia) e nel «sole meridiano»
della conchiglia (il «meridianus fulgor» dell’amato Libro di Giobbe, 11, 17).
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orizzonte il guardo esclude, già spregiudicatamente esperita – dilatandola
ad asindetico catalogo di essenze specificate con botanico (e parnassiano)
scrupolo pascoliano – in [condominio-fattoria.] di sulla via di Genoard («nel
giardino magnolie incatramate / allori edere pitosfori sforano / i cancelli.
se il mare non si vede / si consiglia di far potare i rami / oltre la proprietà di K. che non sporgano / troppo nemmeno gli oleandri […]»)10 e,
ma nel senso inverso – e ancor più prosaico – di provvida schermatura a
occultare disameni panorami, in lungarno gambacorti del martirio («[…] e il
casermone della scuola è coperto dalla siepe / alta sulla palestra di fianco
[…]»), dà qui il la a un piccolo prodigio di understatement e di levità che,
nella modestia quasi sciatta di una dizione colloquiale – fino a misure di
falsamente dilettantistica casualità di tra qualche dissimulato endecasillabo –,
si colora di uno straniato candore palazzeschiano:
un’altra erba più buona avviluppata
allo steccato davanti alla casa
mi impediva la vista del mare.
era stata una svista del giardiniere
non averla strappata. tanto – pensava –
io ero capace di guardare di là
da quella come fanno i poeti. mi aveva
sopravvalutato – era chiaro – e poi
c’era anche la siepe del vicino
troppo alta per vedere la mia vita
doppiarsi nella sua […].
Eccomi dunque, giunta quasi al termine di queste rapide note, ritornare
sul requisito della leggerezza cui facevo riferimento in apertura, ancorché
in riguardo a una caratteristica meramente materiale dell’oggetto libro:
perché quel che in quest’esile incartamento lascia soprattutto interdetti
e, al contempo, induce al consenso è proprio la sottile mediazione ironica e autoironica (il vocabolo «ironia» cade opportunamente al v. 10 del
secondo lavoro), il tocco lene e garbato con cui viene maneggiata materia
tanto ostica e disamena (e di nuovo il nome che cade inevitabilmente
Conforme a quanto detto nella nota precedente, sorge legittimo il dubbio se pitosfori
in luogo di pit(t)ospori sia da ritenersi semplice grafia popolare, peraltro assai diffusa, o
non rappresenti piuttosto una civetteria letteraria (è appena il caso di ricordare che nei
testi di Montale il comune sempreverde viene invariabilmente designato nella forma
meno corretta).
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sotto la penna è quello di Gozzano, esemplarmente condensando siffatta
disposizione d’animo nei confronti della propria infermità il memorabile
novenario doppio con cui il titolare dei Colloqui sigillava il poemetto Alle
soglie: «sereno come uno sposo e placido come un novizio»). L’ottimismo,
oserei dire, fisiologico che, pur in ora così cruciale, non cessa di assistere la
scrivente, esimendola dal rovinare in baratri di angoscia e di furore, soffia
infatti in questi fogli impastati di dolore una sorta di impalpabile “allegria”,
una sommessa ma inestinguibile joie de vivre che inibisce al sentimento
ogni effusione immediata e scomposta, sia essa singulto interiettivo o enfasi
gesticolante, talché l’intonazione espressiva prevalente non vi è già, non
dirò quella drammatica, che chi abbia una pratica anche minima con il
trascorso itinerario poetico salibriano conosce essere costituizionalmente
estranea all’autrice, ma nemmeno quella elegiaca: pochi infatti (non più
di un terzo del totale) sono i componimenti in cui la corda patetica vibra,
e comunque sempre in mirabile compostezza timbrica e tonale, esclusiva,
tali – per arrestare l’esemplificazione ai più segnalati – il balcone (il titolo
forse più scoperto e disarmato della compagine, l’unico tra l’altro in cui
il referente tematico venga, con designazione familiare comunque esente
da inflessioni autocommiseranti, definito «il mio male») o quell’olfattiva
madeleine, trionfante compenso dell’inclemenza del presente, che è il salotto,
non per nulla marcata da un vistoso contrassegno librettistico (molla al
cortocircuito spaziotemporale l’esalazione acre di una stanza di day hospital
resuscitante l’«odore / di salsedine» aspirato nella nativa Sicilia nei giorni di
«rivutura»: «uno stupore strano / che mi riporta indietro/ con uno sbando
d’anni… / la felicità persa forse la ritrovo»).11 Nella maggior parte dei
casi il registro lirico si contempera, in dosatissima commistione, a quello
ironico e finanche umoristico – qualche volta patente già dai titoli: altre
erbe, il secondo lavoro, il fachiro, il girone –, ed è proprio da tale salutare caliI vv. 21-22 («ma dio stesso il nostro palpito / in letizia tramutò»), pour cause disassati
rispetto al resto del corpo testuale, costituiscono una ripresa letterale delle parole, a firma
Franceso Maria Piave, rivolte da Alfonso a Leonora sul principio della scena iii del I atto
della verdiana Forza del destino: il contesto osta risolutamente acché si attribuisca a tale
intarsio melodrammatico, nazionalpopolare se altri mai, valenza ironica o, tanto meno,
parodica. L’autrice non è nuova, del resto, a orecchiature dal teatro d’opera nostrano:
in [ex paradiso], un trepido componimento del martirio in ricordo della madre da poco
scomparsa, è mutuato (con spirito che sembra, e non è affatto, dissacrante) un arcinoto
frammento dall’aria di Rodolfo nel I quadro della Bohème di Puccini e Illica-Giacosa:
«[…] – che gelida manina - /. con un aperitivo rosso – te / la voglio riscaldar – […]» (una
lontana eco, invece, dal repertorio canzonettistico italiano anni ’60 – «[…] ora / anche lì
i ciliegi non sono in fiore» – si avverte, nel medesimo volumetto, in fine novembre).
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bratura che i testi derivano la loro grazia aerea e un po’ trasognata, quasi
passi di danza mossi sul cratere di un vulcano (se davvero, come asserito
in controvento, l’ultima delle ipotesi del martirio di ortigia, l’amica Salibra si
è risolta a «scrivere versi / per togliere quel tanto di gravezza / alle sue manie»,
ebbene ad attestare il pieno conseguimento dello scopo sta per l’appunto
– né sarà forse troppo esiguo risarcimento – il parvus libellus scaturito dalla
situazione esistenziale la più onerosa). Così, ad esempio, nel secondo lavoro
allo squarcio intimistico aperto, con nostalgico abbandono, dalla penultima
strofa (il desiderio di lasciare questo mondo con l’inconsapevole naturalezza degli animali marini dell’«isola avita»)12 viene sùbito criticamente
contrapposta – si faccia caso all’anafora con variatio rettificante incentrata
sul verbo interiettivo morire: «si può imparare» / «io non so» – la schermatura ironica della terzina conclusiva, che serra sul fulmen di un faceto
paradosso le fila dell’iperbolica metafora di base: posto che la diuturna
sottomissione a trattamenti sanitarî e accertamenti diagnostici equivale a
un’occupazione che assorbe totalmente «corpo e spirito», per impratichirsi,
se del caso, a uscire di scena sarà necessario sfruttarne i, rari, tempi morti:
si può imparare a morire sulla spiaggia
dei gelsi come quelle meduse alla deriva
o i quattro cinque pesci boccheggianti
sul fondo della barca.
io non so morire neppure un poco. forse posso
simularlo quando il secondo lavoro mi lascia
un giorno vuoto o un week-end libero.13
Lo spegnersi delle creature equoree è motivo cui la Salibra si dimostra particolarmente sensibile già nelle sillogi precedenti: in Vers.es Per un ponte appena franato presenta
un’immagine assai simile a quella fermata in questo componimento («sul pontile palpita
la rete / di vite in agonia […]») e Madrigali descrive il supplizio dei «[…] ricci pescati /
dai bambini in un’alba di lunga luna» («le valve s’aggrinzano alla roccia / poi schiumano
un’agonia di sale / quando la lama gli trafigge il cuore»); in sulla via di Genoard [siamo
ancora qui tra la crepatura] prospetta invece semiseriamente l’eventualità di «spiaggiare a
caso sulla costa ionica – / con qualche / cetaceo di passaggio –». Significativo, infine,
che, mentre in quest’ultima raccolta, nella lirica [a impervia ora], l’io poetante assimilava
la propria esistenza a quella di una «famiglia di merli» («[…] se a una / vita loro la mia /
s’eguaglia un gravore / mi preme all’imbrunire»), proprio la sorte di «una merla» posatasi
sul davanzale costituisca ora oggetto di implicita invidia nella stanza da bagno («– cosa fai
tu qui… io vorrei sorvolare… –»).
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Si direbbe che al concreto prospettarsi di un’eventualità in precedenza contemplata in via meramente ipotetica le enunciazioni sulla morte, o comunque su «transiti» e
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Una silloge, insomma, con le parole del componimento eponimo, «dove
il dolore c’è / ma non si vede»: che anzi la posizione caparbiamente positiva,
la vitalità non scalfibile che inerisce all’operazione poetica («[…] – sono
/ viva… se vuoi mi puoi salutare…–» [il girone]) conducono di tempo in
tempo la scrivente a formulare auspici eudemonici, avanzando pur caute
aperture – e la clausola ne è, in genere, il luogo deputato – sul possibile
domani («per contare altri giorni declinati / al futuro» [il balcone], «sarà
mattino ancora per me…» [il secondo lavoro], «[…] quasi al termine / del
viaggio mi riassetto tra le ellittiche // del cielo e attendo… un giorno nuovo»
[duale], «[…] tutto è / come prima – lo so – rotoliamo // inciampando
sui sassi del ghiaione. / tu esanime resisti al mio incalzare…» [i campi elisi]).
Ed è alla tenace speranza che illumina di luce così limpida e ferma due
vertici della raccoltina quali il balcone e i campi elisi (perfetta la collocazione
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«varchi» palesemente à double entendre, che nell’opera prima e seconda riuscivano talora
alquanto convenzionali e librescamente atteggiate (per richiamare qualche esempio: in
Vers.es il corazziniano «è il nostro morire un poco ogni giorno» della clausola di Lettera
da Limerick e «[…] il fuoco di una vita // che si spegne» di quella del Gioco dei numeri;
in sulla via di Genoard «[…] la vita che si / taglia tra l’oggi e l’ieri e non aspetta / il poi
[…]» di [le mie poesie cominciano col se]; il montaliano «che cosa a mente avevamo studiato
/ per l’aldilà» della chiusa di [forse dio è un socio in affari indaffarato], «il tempo è scaduto.
/ sono in attesa / di transito» di […la tua partenza di prima mattina]), abbiano perduto
ogni pretestuosa, ammiccante artificialità, trovando naturalmente gli accenti pacati di una
sobria autenticità. Peraltro già il martirio di ortigia, compenetrato dell’afflizione per lutti
familiari e amicali – vi spesseggiano infatti i tombeaux e gli epicedî –, veniva tingendosi
(l’ha opportunamente rilevato la sua prefatrice, Maria Cristina Cabani) di accenni oscuri
e presentimenti ferali, sempre più insistiti in vista dell’epilogo (nel funerale di […], sorta
di prova generale del proprio trapasso: «la morte nel quartiere di san marco / s’acquatta
sotto le foglie dei giardini. / […] poi ricordi agli astanti / che io non sono viva // più
[…] / […] forse pensi a quanto è stato / triste quel verso in fondo alla poesia / l’ultima
da vivente»; in prove di selezione, su una rappresentazione teatrale del Metodo Gronholm:
«[l’undicesimo piano era d’un grattacielo] / la manager esitò si buttò / a capofitto a
cercare di capire / poi calò il sipario»; in al capolinea, tributo alla memoria del collega
d’ateneo Carlo Alberto Madrignani: «– vano questo affannarsi sulla soglia / – al capolinea ci vado da solo – / – non avevi voglia di entrare»; in conviviale: «[…] ma il tempo è
svelto / all’incuria risponde con un toc»; in [d’un mm]: «[…] [un movimento dentro /
come un’ansia di perderti improvviso]»; in e non ti chiedo venia: «con un piede nell’aldilà
t’aspetto»; in in fila, sulle esequie di un vecchio liparota: «[…] rileggi il necrologio / di
fianco a san bartolomeo […] / […] / e se ritrovo il varco al mare sotto / l’arco mi blocco
sulla soglia / ché l’imbocco è // scuro…»; in s quattro, accorata rievocazione dell’agonia
materna, con reminiscenza evangelica perfettamente assimilata: «qui la morte lottizzata
/ come la vita si misura a cumuli / di terra e marmo. / […] ora il respiro / s’allenta come
una rete smessa. // sei in attesa di infilare la porta stretta»).
Note e Rassegne
liminare di quest’ultimo pezzo, che fissa in un gioioso fermo immagine
la sua protagonista al sommo, reale e metaforico, di un’ardua salita: «[…]
a sorpresa mi giro // ridendo ferma al crocevia / che si sfa nella petraia –
[…]») che noi tutti amatori di poesia e aficionados della prima ora dei versi
salibriani cordialmente ci associamo, fiduciosi che il supremo giardiniere
abbia rimediato alla sua svista correggendo «la mossa sbagliata».
Marzia Minutelli
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