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POSTFAZIONE
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Nata a Oslo nel 1952 da padre norvegese e madre tedesca,
Tove Nilsen è figlia della città, e tale è sempre rimasta, con
convinto attaccamento all’ambiente urbano e senza le nostalgie di molti suoi contemporanei per l’incontaminata
natura nordica. E’ così che ritroviamo in tutti i suoi romanzi il filo conduttore delle strade affollate di un’umanità variopinta e multietnica.
Dopo gli studi universitari in Scienze Umane, ha partecipato con impegno sincero al movimento delle “grandi
generosità” creatosi tra gli intellettuali norvegesi negli anni
Settanta. Giornalista di costume focalizzata sulle questioni
sociali, ha approfondito le sue conoscenze di situazioni e
conflitti in missioni sul campo nei paesi del terzo mondo
scossi dalle guerre civili e dai capovolgimenti politici. Femminista mai esacerbata, mantiene sempre presente l’obiettivo originario del movimento – la parità tra i due sessi, intesa a creare tra uomo e donna un rapporto di amichevole
rispetto piuttosto che una supremazia da parte dell’uno o
dell’altra.
L’esordio letterario è avvenuto nel 1974 con il romanzo Aldri la dem kle deg forsvarsløst naken (Non lasciare
mai che ti vestano d’inerme nudità), pubblicando in seguito altri undici romanzi, raccolte di novelle e libri per la
gioventù e per bambini, dettati dal suo più recente vissuto
di moglie e di madre.
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La fame dell’occhio, apparso nel 1993, è la prima opera dell’autrice tradotta in italiano. Nel libro, invece di
nutrirsi delle proprie viscere come alcuni protagonisti-pellicano della letteratura norvegese, Tove Nilsen si sazia della
visione del mondo, percepita attraverso il suo occhio affamato di verità e trasmessa con partecipe passione dalla sua
penna incisiva quanto una punta secca.
*
Di prima mattina in un uggioso giorno del dicembre norvegese, Azhiz Shabaz Kumar Sen, l’uomo dai troppi nomi,
studente di geologia approdato a Oslo dalle natie rive del
Gange, viene prelevato con buone maniere dalla polizia. A
partire da questa sequenza al rallentatore, l’autrice piomba
il lettore in una narrazione a perdifiato attraverso le silenziose strade di Oslo nell’atmosfera tersa e tesa che precede
il Natale. Fughe disperate e attimi sospesi si alternano nella
cristallina trasparenza della prima nevicata, lungo gli asettici corridoi della questura, regno dell’indefinibile e onnipresente ispettore Foss, attraverso le linde corsie dell’ospedale dalle infermiere di ogni razza e colore, in corsa contro
l’inevitabile arresto, in corsa verso gli incontri rubati con
la donna di un altro. I cristalli di ghiaccio si sfilacciano e si
intrecciano come nubi vaganti con le sere speziate dell’infanzia in un’India pregna di cultura britannica e di rime
shakespeariane, con i suoi mercati sul Gange ingombro di
cadaveri e carogne, con le fumate grevi di morte e le vele
spiegate come ali di gabbiani. Tutte le anime perse del
mondo, che laggiù si ritrovano come il pastore protestante
Andersen, alcolizzato lettore a ritroso sui binari della ferrovia con le sue fatate evocazioni dell’inverno scandinavo, si
confondono, per poi staccarsene, con il fresco rigore, le
confuse melanconie o le arruffate versatilità delle figure in
controluce nell’inverno scandinavo.
In Norvegia, dove è giunto spinto dalle narrazioni del
pastore, Shabaz si rivolge a un medico-ricercatore speciali210
sta del cervello per tentare di risolvere il problema del
padre molto amato, accanito lettore di Shakespeare, che sta
perdendo la luce dell’occhio. L’incontro fortuito e fatale
con la sorella del medico, sposa e madre appagata, precipiterà i due in una ambivalente situazione di vicolo cieco o
apertura senza frontiere.
In sottofondo troviamo l’ospitalità e l’affetto fraterno
dell’ingenuo e incorruttibile amico incontrato per caso, l’eterno studente di veterinaria Salman-Salman, appassionatamente fedele alla sua sposa rimasta in patria, con cui
conta di realizzare improbabili imprese malgrado le interminabili e assurde difficoltà burocratiche che impediscono
alla moglie di raggiungerlo e coinvolgeranno lui stesso e
Shabaz in un costante gioco di pendolo tra il quotidiano e
il virtuale, tra l’aulico e il triviale.
Nella Fame dell’occhio, che con sottile maestria racconta
in prima persona le vicissitudini di un personaggio maschile di razza e cultura lontanissime da quelle dall’autrice,
Tove Nilsen ci coinvolge nell’azione con la sua irrompente
vitalità, con la sua insaziabile curiosità di fronte a ogni
rappresentante della specie homo sapiens, con la sua
acuta sete di conoscenza, con la sua capacità di comunicare e condividere le esperienze di vita in un flusso tragico o
gio-ioso di sguardi e parole.
Con tratto prorompente, pungente, talvolta sferzante, ci
comunica in modo inequivocabile il suo messaggio: l’amore incondizionato per la vita. Sensuale a livello di odori,
nuvole e luminosità, sguardi o forme corporee, ci offre una
visione del mondo lucidamente esuberante, gioiosamente
aperta a ogni manifestazione di umanità, incapace della
cernita imposta dal manicheismo del nostro contro il vostro tanto radicato nell’antica tradizione nordica. In una
sarabanda di situazioni, personaggi, visioni sempre alla
frontiera tra l’onirico e il concreto, dove il concreto è spesso più irreale del pensato, si incontrano personaggi astrusi,
di un’assurda generosità oppure ligi e funzionariali, osses211
sionati da un’idea schizofrenica, inconsapevolmente futili o
candidamente impegnati. Fino all’ultimo il lettore è coinvolto nella surreale corsa a ostacoli, partecipe con indiviso
affetto alle vicende dell’inseguito quanto a quelle dell’inseguitore, verso una soluzione che di attimo in attimo sembra illuminarsi ed esplodere per poi rifondersi nell’oscurità
come le ingannevoli ghirlande di un fuoco d’artificio.
Danielle Braun Savio
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