A mio padre ea mia madre

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A mio padre ea mia madre
A mio padre e a mia madre
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI
PERUGIA
Facoltà di Medicina e Chirurgia
Corso di Laurea in Fisioterapia
Presidente Prof.ssa Maria Bodo Lumare
ASPETTI COGNITIVI E
COMPORTAMENTALI NEL
TRATTAMENTO RIABILITATIVO
DELLA
SINDROME FRONTALE
Relatore
Dott. Mauro Zampolini
Candidata
Manuela Micanti
AA
“ La Creazione di Adamo”
Michelangelo Buonarroti, 1511
Osservando la volta della Cappella Sistina l'occhio del medico può cogliere nella
"Creazione di Adamo" insospettate somiglianze tra l'immagine di Dio che infonde lo
spirito in Adamo, e l'immagine di un cervello umano.
Nella "Creazione di Adamo", con enorme sorpresa, è stato infatti constatato che il
gruppo di angeli attornianti la figura di Dio crea una sagoma incredibilmente simile
all'immagine di una sezione sagittale del cervello.
Sono ben visibili il contorno della volta del cervello, e della base; l'arco del braccio
sinistro di Dio delinea il giro del cingolo, il panneggiamento verde alla base descrive
il corso dell'arteria vertebrale; la schiena dell'angelo che sorregge Iddio corrisponde
al ponte di Varolio, mentre le sue gambe si prolungano a costituire il midollo spinale.
Perfino il dettaglio della struttura bilobata dell'ipofisi è riprodotto fedelmente nel
piede apparentemente bifido di un angelo, a differenza degli ordinari piedi di Dio e
degli altri cherubini, dotati delle consuete cinque dita; mentre la coscia dello stesso
angelo si staglia in corrispondenza del chiasma ottico.
Il dito indice di Dio, che punta verso Adamo, e lo rende umano, emerge dalla
corteccia prefrontale.
Nessuno sa se l’allegoria fosse stata cercata da Michelangelo, o se si tratti di una
coincidenza.
D’altra parte, è difficile immaginare un simbolo più potente del profondo effetto
umanizzante dei lobi frontali: essi sono davvero l’ ”organo della civiltà”.
Premessa
Il movimento e la sua patologia possono essere analizzati facendo ricorso a ottiche
diverse nei vari ambiti scientifici.
In riabilitazione, dove il paradigma di base è quello dell’apprendimento o il
riapprendimento di strategie, è necessario analizzare il comportamento umano nella
sua globalità.
Fino a pochi anni fa la riabilitazione neuromotoria era focalizzata selettivamente sui
pattern motori. Più recentemente, si è sempre più delineata l’importanza delle
strategie comportamentali in relazione al contesto ambientale come base per
facilitare o inibire specifiche attività motorie.
Argomento del presente lavoro è l’interpretazione del comportamento alla luce delle
attuali conoscenze sul funzionamento del sistema nervoso e la sua ricaduta pratica
nella riabilitazione neuromotoria.
Le neuroscienze sono diventate una chiave di lettura generale dell’interazione
dell’uomo o degli animali con l’ambiente, correlando l’attività neuronale a specifici
comportamenti, in un modo che solo fino a qualche anno fa nessuno avrebbe avuto
l’idea di analizzare mediante uno studio sperimentale; la stessa didattica sta sempre
più assumendo un’ottica fondata sulle neuroscienze, utilizzando programmi e
modalità di valutazione che fanno riferimento diretto alle teorie dell’apprendimento
nei termini della relazione tra processi mentali e strutture cerebrali.
La metodologia di riferimento è fornita dalla neuropsicologia, il settore delle
neuroscienze che è nato come studio dei disturbi cognitivi e del comportamento
conseguenti ad una patologia cerebrale ma che rapidamente, e ancor più ai nostri
giorni grazie al contributo delle più recenti tecnologie, è divenuta studio del
comportamento a tutto campo.
Le conseguenze neuropsicologiche di una lesione cerebrale, coinvolgono sia le
componenti comportamentali che quelle cognitive. I disturbi cognitivi, riflettendo i
deficit organici e quelli funzionali derivanti dalla lesione cerebrale, rappresentano
un grave e costante problema, interferendo con i processi di recupero, con
l’equilibrio psichico e comportamentale e con le possibilità di reinserimento
scolastico e lavorativo. I processi cognitivi che implicano la prontezza di risposta
ad uno stimolo sensoriale, l’attenzione, la capacità di capire le informazioni, l’inizio,
l’inibizione, la pianificazione e l’obiettivo dell’attività mentale, sono tutti esempi
della funzione cognitiva essenziale che converte il movimento in un’azione diretta e
mirata. Quindi la disfunzione del movimento può essere il risultato sia del deficit
delle capacità cognitive che di quelle motorie.
La scelta di sviluppare un tema complesso come quello della sindrome frontale, così
come l’impostazione generale del lavoro, è stata fortemente influenzata dalla
professionalità e competenza dimostrata da coloro che si occupano di rieducazione
presso quegli Istituti di Riabilitazione in cui ho fatto le mie prime esperienze, dove la
neuropsicologia viene considerata una scienza eminentemente interdisciplinare per
la gestione di queste problematiche.
All’interno di queste strutture ho potuto osservare direttamente gli effetti devastanti
di questa patologia sul comportamento dei soggetti colpiti; da questo ho maturato la
consapevolezza che la rieducazione fisica dei pazienti con lesioni frontali richiede
un’approfondita conoscenza non soltanto delle funzioni motorie, ma anche di tutte le
altre funzioni corticali superiori.
Per queste ragioni, questo lavoro affronta il tema della riabilitazione neuromotoria
da una prospettiva più ampia, che è quella neuropsicologica.
Ringraziamenti
Questa tesi è il risultato di un percorso di studi ma, soprattutto, di un percorso
interiore che mi ha portato a scegliere questo argomento per due ragioni: la prima,
che è più facile da esprimere, è stato un interesse personale nei confronti di una
patologia che, per la sua complessità, risulta spesso difficile da interpretare ed
altrettanto difficile da trattare in riabilitazione; la seconda ragione, che è più
significativa, è stata la crescente consapevolezza che a volte, per dare un significato
alla riabilitazione, è necessario guardare oltre le conoscenze didattiche che può
fornire un Corso di Laurea in Fisioterapia.
Sono riconoscente a tutte le persone che hanno contribuito a trasmettermi questo
genere d’interesse: a tutti i Coordinatori del Corso di Laurea in Fisioterapia, per
essersi resi sempre disponibili nel venire incontro alle esigenze di tutti noi studenti;
a tutti i tutor e ai docenti, per avermi insegnato, non solo gli aspetti metodologici,
ma soprattutto quelli propriamente umani della professione e grazie ai quali ho
avuto modo di mettere alla prova le mie capacità; a tutti i pazienti, per avermi dato
l’opportunità di apprendere dalle loro condizioni patologiche.
Desidero ringraziare coloro che, operando presso l’Unità Operativa di
Riabilitazione Intensiva Neuromotoria (U.O.R.I.N.) di Trevi, hanno collaborato
all’elaborazione di questo lavoro: il Dott. Mauro Zampolini, per la sua disponibilità
e per aver suscitato in me una profonda inclinazione nei confronti della
riabilitazione
neuromotoria;
Rita
Moretti,
logopedista
del
Servizio
di
Neuropsicologia, che ha ispirato il mio lavoro e messo a disposizione la sua
professionalità dedicandomi il suo tempo; ancora, la Dott.ssa Elisabetta Todeschini,
Responsabile dell’U.O.R.I.N., presso il quale ho seguito l’iter riabilitativo del
paziente; infine, ringrazio il paziente e la sua famiglia, per avermi consentito di
descrivere la sua storia.
A tutte queste persone, grazie…
Indice
Introduzione _________________________________________________________ 1
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale___________________________________ 3
1.1 Lobo frontale e sviluppo cognitivo ________________________________________3
1.2 Organizzazione del movimento e pianificazione dell’azione____________________5
1.3 Richiami anatomici_____________________________________________________6
1.3.1 Corteccia motoria _________________________________________________________7
1.3.2 Corteccia premotoria _______________________________________________________8
1.3.3 Corteccia prefrontale _______________________________________________________9
1.3.4 Corteccia prefrontale dorsolaterale____________________________________________11
1.3.5 Area frontale oculocefalogira ________________________________________________12
1.3.6 Corteccia cingolare anteriore ________________________________________________12
1.3.7 Corteccia orbitofrontale ____________________________________________________13
2. La sindrome frontale _______________________________________________ 15
2.1
Patogenesi __________________________________________________________16
2.2 Sindrome frontale e trauma cranico ______________________________________17
2.3 Strategie comportamentali e sindrome disesecutiva _________________________18
2.4 Disturbi del comportamento e della personalità_____________________________22
2.5 Disturbi dell’attenzione ________________________________________________26
2.6 Disturbi di memoria ___________________________________________________28
2.7 Disturbi dell’apprendimento ____________________________________________30
2.8 Disturbi del linguaggio _________________________________________________31
2.9 Anosognosia __________________________________________________________32
2.10 Confabulazione ______________________________________________________32
2.11 Disinibizione / Disforia ________________________________________________33
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi________________ 35
3.1 Plasticità neuronale ___________________________________________________36
3.2 La riabilitazione come apprendimento ____________________________________39
3.2.1 Comportamentismo ________________________________________________________40
3.2.2 Cognitivismo _____________________________________________________________43
3.2.3 Conclusioni ______________________________________________________________46
3.3 La riabilitazione neuropsicologica ________________________________________47
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale ________________ 49
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali ________________ 61
5.1 Riabilitazione dei disturbi delle funzioni esecutive __________________________62
5.2 Trattamento dei disturbi comportamentali_________________________________67
5.2.1 Trattamento dei comportamenti inadeguati “in difetto” ____________________________69
5.2.2 Trattamento dei comportamenti inadeguati “per eccesso” __________________________70
5.2.3 Trattamento dei comportamenti inadeguati per condizioni, tempi e modalità____________72
5.2.3.1 Trattamento dei disturbi della consapevolezza ____________________________ 72
5.2.3.2 Trattamento della disinibizione________________________________________ 73
5.2.3.3 Trattamento della confabulazione______________________________________ 74
5.3 Conclusioni ___________________________________________________________74
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su
un singolo caso _______________________________________________________ 76
6.1 Problem solving _______________________________________________________76
6.1.1 I “passi” del processo di problem solving_______________________________________77
6.2 Descrizione di un caso clinico ____________________________________________79
6.2.1 Materiali e metodi dello studio _______________________________________________82
6.2.2 Risultati _________________________________________________________________86
6.2.3 Discussione dei risultati ____________________________________________________97
Conclusioni ________________________________________________________ 100
Bibliografia ________________________________________________________ 103
Introduzione
Introduzione
Il comportamento di un individuo con lesione cerebrale è direttamente collegato
all’integrità della funzione cognitiva: i disturbi comportamentali sono le
manifestazioni esterne osservabili quando l’individuo, privato di questa facoltà,
reagisce o risponde all’ambiente circostante.
I test neuropsicologici , le valutazioni del linguaggio e della parola, gli esami visivi e
percettivi e le analisi comportamentali e sociali sono esempi di strumenti clinici
utilizzati per determinare il livello del disturbo cognitivo e comportamentale.
Il terapista deve saper interpretare il deficit sia delle lesioni fisiche e cognitive, sia
del modo in cui queste interagiscono, per disporre di un quadro clinico completo che
rispecchi il vero livello di disabilità del paziente.
Esprimere il livello di capacità fisica di un soggetto, senza far riferimento ai deficit
cognitivi, può portare ad una errata valutazione
del livello di indipendenza
funzionale. Questo implica anche il fatto che il terapista deve allargare le proprie
prospettive ed aspettative ai risultati funzionali e al ruolo della sua attività nella
rieducazione funzionale: un individuo che può muoversi da solo in casa, ad esempio,
ma non è capace di
chiamare aiuto in caso di emergenza, è tanto dipendente
dall’assistenza, quanto un individuo che sa chiamare aiuto, ma non può muoversi.
Mentre il terapista non è il membro dell’equipe principalmente responsabile della
valutazione delle lesioni cognitive e comportamentali, è invece responsabile della
possibilità di espandere le abilità fisiche
nel contesto di un comportamento
determinato, che porti a risultati funzionali, rilevanti e di successo.
Questo approccio, che enfatizza gli aspetti più specificatamente cognitivi del
comportamento, è particolarmente adatto per affrontare i problemi della
riabilitazione dei disordini neuropsicologici, e permette di definire i limiti che la
struttura stessa del sistema cognitivo e l’organizzazione delle aree corticali che
sottendono tali processi impongono sulle possibilità di recupero funzionale.
Per evitare che la riabilitazione si basi su criteri puramente empirici, che
rischierebbero
di
produrre
comportamenti
riabilitativi
non
replicabili
o
generalizzabili, è necessario che la diagnosi clinica del danno si accompagni alla
conoscenza dei modelli neurocognitivi delle funzioni interessate, affinché possano
1
Introduzione
essere sollecitati e messi in atto i meccanismi risparmiati dalla lesione in modo da
poter sfruttare tutto il potenziale cognitivo del paziente in funzione del recupero.
La complessa sintomatologia neuropsicologica conseguente a lesioni dei lobi frontali
(soprattutto delle loro porzioni anteriori) va conosciuta da coloro che si occupano di
rieducazione per almeno due importanti ragioni:
1) molto spesso questi pazienti sono apatici, hanno scarsa iniziativa, mancano di
senso critico e autocritico, sono indifferenti alla propria malattia: al contrario, talora
possono presentarsi inappropriatamente euforici e quindi essere poco collaboranti
con il rieducatore.
Questo comportamento non va erroneamente interpretato come disturbo psichiatrico
o altro, ma va riconosciuto come sintomo caratteristico della sindrome;
2) i difetti perseveratori (motori e verbali), i deficit attentivi e il disturbo di memoria
possono gravemente ostacolare il compito del rieducatore.
Alla luce di queste considerazioni l’intervento riabilitativo deve tener conto di tutti i
parametri del comportamento ritenuti soggettivi ( intenzionalità, attenzione,
motivazione, spazialità, ecc…) poiché la lesione altera la capacità di elaborare
significativamente le informazioni esterne, che a loro volta influenzano il
movimento, espressione di un gesto motorio evoluto che deve essere significativo,
ossia avere una precisa relazione con il contesto.
In questo lavoro viene presentata una revisione critica sull’argomento, accompagnata
da uno studio su un caso clinico di sindrome frontale.
Il taglio complessivo è neuropsicologico clinico, al fine di fornire gli elementi
semeiotici fondamentali per poter riconoscere una sindrome frontale e per guidare lo
sviluppo di interventi terapeutici che facilitino l’apprendimento di comportamenti
sempre più complessi in condizioni patologiche.
Nella parte finale verrà esposto l’iter riabilitativo di un paziente, focalizzato
sull’apprendimento e l’attuazione del problem-solving.
Questa descrizione intende da un lato favorire la comprensione della patologia
frontale e dall’altro permette di osservare “sul campo” l’impatto di una strategia di
intervento, con uno sguardo particolare al profilo globale del paziente, con le sue
peculiarità e problematiche sia cliniche che umane.
2
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale
Capire il ruolo dei lobi frontali nella cognizione umana rimane una sfida per i
neurologi ed i neuroscenziati. Tuttavia, i dati ottenuti da studi recenti di
neurofisiologia dimostrano che il comportamento finalizzato dipende criticamente
dalla funzione dei lobi frontali e, in modo specifico, dalla corteccia prefrontale.
In questo capitolo viene avanzata l’ipotesi che una conoscenza approfondita dei
meccanismi neuronali che stanno alla base della funzione della corteccia prefrontale,
può aiutarci a capire i deficit derivanti da una sindrome frontale e, cosa più
importante, può potenzialmente guidare lo sviluppo di interventi terapeutici efficaci.
1.1 Lobo frontale e sviluppo cognitivo
I lobi frontali, che nell’uomo costituiscono da soli circa 1/3 della corteccia cerebrale,
sono l’ultima conquista nell’evoluzione del sistema nervoso e raggiungono uno
sviluppo significativo solo negli esseri umani. Un’ipotesi molto seguita, anche se non
universalmente accettata, associa ai lobi frontali, ed in modo particolare alle loro aree
prefrontali, le funzioni intellettive superiori.
Esistono molte ragioni per attribuire alla corteccia prefontale tali funzioni: nell’uomo
è una delle regioni corticali a subire la maggiore espansione sia nel corso
dell’evoluzione che nella maturazione individuale, è una delle strutture cerebrali
filogeneticamente più recenti e tra quelle che maturano più lentamente nel corso
dell’ontogenesi, inoltre essa è molto più sviluppata rispetto alle altre aree corticali,
tanto da farla sembrare la parte della corteccia tipicamente umana.
Il prolungato sviluppo, relativamente ampio, della corteccia prefrontale, è evidente
sia nella morfologia che nella struttura: essa è estremamente ricca di connessioni
efferenti ed afferenti che la collegano a tutti i sistemi funzionali del cervello. Durante
lo sviluppo individuale, la tarda maturazione è associata alla tarda mielinizzazione
delle sue connessioni assonali. Questo ed altri segni di sviluppo morfologico sono
correlati con lo sviluppo delle funzioni cognitive, attribuite a questa corteccia dai più
recenti studi neuropsicologici sugli animali e sull’uomo.
Legati all’intenzionalità, alla determinazione e all’attività decisionale complessa, i
lobi frontali sono coinvolti in tutti gli aspetti del comportamento adattivo
3
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale
all’ambiente e sono fondamentali ai fini di tutti i comportamenti di ordine superiore
diretti ad uno scopo: l’identificazione dell’obbiettivo, la progettazione e l’ideazione
di piani per raggiungerlo, l’organizzazione dei mezzi con i quali tali piani possono
essere eseguiti, il monitoraggio e la valutazione delle conseguenze per la verifica del
risultato.
Essi sono essenziali per la coscienza superiore, il giudizio, l’immaginazione,
l’empatia; guidano l’essere umano nelle novità, nelle innovazioni e nelle avventure
della vita, sono fondamentali per la motivazione, l’attenzione, l’impulso, la capacità
di previsione e la chiara visione dei propri obiettivi, elementi essenziali affinché
qualsiasi processo di apprendimento vada a buon fine e per conseguire il successo in
molte attività.
In altre parole i lobi frontali rappresentano quell’unica parte del cervello che fa di un
individuo ciò che è, definisce la sua identità e ne racchiude pulsioni, ambizioni,
personalità ed essenza.
La cognizione umana guarda avanti, prende attivamente l’iniziativa piuttosto che
limitarsi a reagire, è mossa da obiettivi, piani, aspirazioni, ambizioni e sogni, tutte
cose che hanno a che fare con il futuro e non con il passato. Queste facoltà cognitive
dipendono dai lobi frontali ed evolvono con essi.
In senso lato, i lobi frontali sono il meccanismo per liberarsi dal passato e proiettarsi
nel futuro, conferiscono all’organismo l’abilità di crearsi i modelli neurali delle cose,
quale prerequisito per far si che quelle cose accadano, modelli di ciò che non esiste
ancora ma che noi vogliamo portare in essere. La civiltà non avrebbe mai potuto
sorgere senza il grande sviluppo, nel cervello umano, dei lobi frontali. D’altra parte,
uno scarso sviluppo, o una lesione che li abbia danneggiati, possono produrre un
comportamento privo di vincoli sociali e di senso di responsabilità.
Poiché essi non sono legati ad una singola funzione facilmente definibile, le prime
teorie sull’organizzazione del cervello negarono loro qualsiasi ruolo importante ed
essi furono anzi indicati come “lobi silenti”, zone del cervello cioè la cui lesione non
dava origine a manifestazioni clinicamente evidenti. Questa considerazione aveva
implicazioni cliniche dirette, basta pensare al successo della pratica della lobotomia
frontale; tuttavia il paradosso risultava evidente e costituiva il cosiddetto “enigma dei
lobi frontali”. Sulla scorta dello sviluppo storico delle conoscenze e di quanto è
attualmente noto, le difficoltà incontrate nella comprensione del ruolo dei lobi
frontali appaiono giustificate. Il fatto è che la sintomatologia frontale non si
4
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale
manifesta attraverso deficit specifici di senso o di moto ma con una
disorganizzazione generale del comportamento.
1.2 Organizzazione del movimento e pianificazione dell’azione
Mentre l’esecuzione di un movimento riflesso o automatico richiede un montaggio
relativamente semplice in quanto biologicamente determinato e strettamente
dipendente dalla maturazione neurologica e fisiologica, la realizzazione di un
movimento intenzionale è molto sofisticata.
Atto finale di una serie di tappe computazionali, esso dipende dalla combinazione di
maturazione, motivazione, pratica e possibilità di apprendimento: si parla pertanto di
pianificazione dell’azione.
E’ importante notare che mentre alcune funzioni incluse in questa “concatenazione”
rinviano a strutture primarie sensomotorie (corteccia motoria e somestesica) altre si
basano su processi cognitivo-comportamentali (corteccia premotoria, corteccia
prefrontale, corteccia parietale) ( Figura 1). In più, questo insieme funziona
essenzialmente in modalità ad “anello chiuso”. Le afferenze somestesiche informano
di ritorno sia le aree primarie che quelle associative. La scelta del o dei programmi è
legata intimamente al lavoro centrale compiuto dalle strutture associative (corteccia
prefrontale, corteccia cingolare anteriore, corteccia parietale posteriore) in un
contesto motivazionale. Il programma scelto corrisponde a una classe generale di
risposte motorie adatta allo scopo motivato.
La pianificazione dell’azione è in generale fondata su una concezione gerarchizzata:
Hughlings Jackson l’ha modellata mescolando localizzazionismo e filogenesi. Così,
ogni settore corticale o sottocorticale sottende una funzione.
In seguito le
archeostrutture si vedono infeudate nelle paleostrutture e infine le paleostrutture
nelle neostrutture.
Questo modo di pensare domina lo studio del funzionamento neuronale in rapporto
con il movimento fin negli anni 1980. La concezione gerarchizzata o diacronica ha
visto attenuato il suo peso da lavori più recenti in anatomia, elettrofisiologia e
indagini per immagini funzionali. In particolare il lavoro di Godman-Rakic ha
rivelato che diverse aree associative, tra cui la corteccia parietale posteriore, sono
formate da sottoinsiemi che si attivano simultaneamente durante la pianificazione
dell’azione (Godman-Rakic, 1988). Infine gli studi, soprattutto nell’uomo, con
5
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale
immagini funzionali (RMNf, PET, MEG), fanno emergere chiaramente la nozione di
reti attive in modalità parallela in numerosi compiti cognitivo-motori.
In altri termini, il concatenamento in reti distribuite in parallelo tende a instaurare un
funzionamento sincrono delle strutture che partecipano alla pianificazione e
all’esecuzione dell’azione.
1.3 Richiami anatomici
La corteccia frontale, sita anteriormente alla circonvoluzione post-centrale, può
essere suddivisa in tre regioni principali: la circonvoluzione precentrale, la regione
premotoria e la regione prefrontale.
Nei mammiferi inferiori esiste un’unica regione senso-motoria che incorpora sia
l’area motoria che l’area premotoria. Queste due aree si differenziano nei carnivori,
nei quali cominciano a comparire elementi cellulari caratteristici della corteccia
prefrontale, la quale giunge a pieno sviluppo solo nei primati ed in particolare
nell’uomo. Il processo di ontogenesi è parallelo alla filogenesi: prima si differenzia
l’area motoria, poi quella premotoria ed infine quella prefrontale. Quest’ultima
giunge a pieno sviluppo solo tra i 7 e i 12 anni di età: infatti, il processo di
mielinizzazione delle fibre nervose termina nelle aree prefrontali. Questo dato
ontogenetico va di pari passo con l’osservazione di comportamenti perseverativi in
risposta ad ordini verbali complessi (sintomo, questo, presente in pazienti adulti
affetti da lesioni frontali) in bambini di 3-4 anni di età.
Lo sviluppo importante del lobo frontale è dunque caratteristico delle specie più
evolute, in particolare di quella umana.
Questo fatto, insieme alla particolare
sintomatologia neuropsicologica osservata a seguito di lesioni dei lobi frontali, ha
indotto molti Autori ad attribuirgli un ruolo cruciale nella regolazione dei
comportamenti più complessi ed “intelligenti”, cioè del comportamento tipicamente
“umano”.
6
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale
Figura 1. Aree corticali primarie e associative implicate nella pianificazione dell’azione. La numerazione
corrisponde alla classificazione di Brodmann. Corteccia motoria area 4; corteccia somestesica aree 3, 1, 2:
corteccia premotoria area 6 (faccia laterale); area motoria supplementare area 6 (faccia mesiale); area frontale
oculocefalogira area 8. Settore prefrontale: corteccia dorsolaterale prefrontale area 46, 45, 9 e 10, corteccia
orbitofrontale 47, 25, 11 e 10. L’area 10, iscritta nei punteggiati, è comune ai due territori. Corteccia cingolare
anteriore area 24 c, 32 (faccia mesiale). Settore parietale posteriore: aree 5 e 7 (7a e 7b) allargate alle aree 39 e
40 (da Gazzaniga et al., modificata).
1.3.1 Corteccia motoria
La corteccia motoria si trova nella regione pre-centrale (area 4 di Brodmann) (figura
1), anteriormente al solco centrale ed occupa all’incirca il terzo posteriore dei lobi
frontali. Dall’area 4 partono i comandi motori per i motoneuroni del tronco
dell’encefalo e del midollo.
Si caratterizza per la presenza di cellule piramidali giganti del Betz nel 4° strato e per
la completa assenza dello strato granulare. La funzione motoria di quest’area e la
rappresentazione corticale con ordinamento somatotopico sono note dalla seconda
metà dell’800: zone diverse del corpo sono rappresentate in zone diverse della
corteccia. I muscoli del volto sono rappresentati nella parte inferiore del giro
7
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale
precentrale, sulla superficie laterale dell’emisfero, mentre braccio, tronco e gamba
sono rappresentati più medialmente. I gruppi muscolari deputati ai movimenti fini
hanno una rappresentazione più ampia rispetto ai gruppi muscolari deputati ai
movimenti grossolani.
Secondo la visione tradizionale, basata sulle interpretazioni di Jackson e di
Sharrington, la corteccia motoria sarebbe organizzata in termini di movimenti, cioè
coordinerebbe e comanderebbe la contrazione di interi gruppi muscolari. Questa
visione si basava sul fatto che stimolazioni elettriche sulla superficie corticale
provocavano la contrazione di molti muscoli contemporaneamente, mantenendo la
relazione attesa tra agonisti e antagonisti. Per stimolare le cellule motrici dell’area 4
della superficie corticale è necessaria una corrente che penetri in profondità fino al 5°
strato dove sono localizzati i motoneuroni. Gli esperimenti di Asanuma e colleghi
invece hanno dimostrato, stimolando la
corteccia con microelettrodi profondi,
l’esistenza di zone discrete di neuroni efferenti che controllano la contrazione di
singoli muscoli. Gli sudi di Asanuma hanno anche dimostrato che questi neuroni
ricevono degli impulsi afferenti dagli stessi muscoli a cui proiettano. Inoltre le cellule
che proiettano ad un particolare pool di motoneuroni spinali si raggruppano in
colonne radiali del diametro di circa 1 mm. Altri studi hanno mostrato che i neuroni
corticali, oltre a far contrarre singoli muscoli, codificano la forza con cui il muscolo
si deve contrarre, sia la velocità di variazione della forza che il livello di forza in
condizioni statiche.
1.3.2 Corteccia premotoria
Le cortecce premotorie comprendono la parte posteriore delle tre circonvoluzioni
frontali.
Situate davanti alla corteccia motoria primaria si differenziano da questa per
l’assenza delle cellule giganti e per la presenza di grosse cellule piramidali nel 3°
strato. Hanno un ruolo importante nella pianificazione dell’azione, integrando delle
informazioni sensoriali necessarie alla realizzazione del gesto e controllando
l’attività dei neuroni della corteccia motoria primaria. La realizzazione di un
movimento armonioso richiede la combinazione di numerosi muscoli la cui
contrazione obbedisce ad una programmazione spazio-temporale precisa.
8
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale
Le cortecce premotorie sono implicate nella coordinazione e nel concatenamento nel
tempo delle contrazioni muscolari sinergiche necessarie per la realizzazione dell’atto
motorio, in funzione del contesto motivazionale e ambientale.
Diverse regioni corticali intervengono in questa funzione; ognuna di esse realizza un
trattamento parallelo dell’informazione. Si distinguono due tipi principali di
corteccia premotoria, situati rispettivamente in regione dorsolaterale (area 6 laterale)
e mediana (area 6 mediana o area motoria supplementare) (figura 1). Sono a loro
volta suddivise in diverse aree che hanno delle specificità funzionali e delle
connessioni anatomiche proprie.
Un elemento importante che determina il funzionamento delle regioni premotorie è la
loro connessione con il lobo parietale. Esistono in effetti delle proiezioni precise tra
ogni regione della corteccia parietale e ogni regione della corteccia premotoria.
Questi circuiti prefrontali rappresentano altrettanti moduli di trattamento
dell’informazione in seno ai quali si elaborano gli schemi motori fondamentali o
rappresentazioni
centrali
dell’attività
gestuale
(coordinazione
vasomotoria,
prensione, manipolazione, pianificazione sequenziale). D’altra parte, l’attività in
seno a queste cortecce premotorie viene modulata da altre cortecce associative
prefrontali situate più a monte nel processo decisionale. Queste prendono in carico
gli aspetti motivazionali (corteccia orbitofrontale e cingolare) e computazionali
(corteccia prefrontale dorsolaterale) del comportamento.
1.3.3 Corteccia prefrontale
La regione prefrontale comprende la parte anteriore delle tre circonvoluzioni frontali,
il giro frontale mesiale e il giro orbitale,corrispondente alle aree 9, 10, 11, 12, 46, 47
secondo la classificazione di Brodmann (fig. 1). Tali aree si distinguono dalle regioni
attigue (aree 4, 6 e 8) per l’assenza di cellule piramidali giganti, per il considerevole
sviluppo dello strato granulare e per le connessioni talamiche. La regione prefrontale
è collegata con le aree corticali di elaborazione delle informazioni visive, acustiche e
somestesiche (lobi occipitale, temporale e parietale), con le restanti aree frontali
(motorie), con il sistema limbico, principalmente tramite il nucleo dorso mediale del
talamo, e con l’ipotalamo.
9
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale
Le aree prefrontali occupano una posizione unica nell’economia cerebrale, perché
non esiste funzione cognitiva cui esse siano estranee, e che quindi non risenta della
loro sofferenza, e non esiste nemmeno funzione che esse assolvano in modo
esclusivo, e quindi venga meno in loro assenza.
La loro peculiarità sembra consistere nel provvedere l’intera attività cognitiva e
comportamentale di regole e modalità che sono indispensabili perché l’orizzonte del
soggetto sia abbastanza ampio da consentirgli scelte coerenti e decisioni proficue,
evitando invece quelle in prospettiva dannose o inutili. Esse appaiono in tal modo al
centro dell’attività nervosa cui sono connesse le qualità intellettive e caratteriali che
connotano la personalità dell’individuo e ne determinano lo stile di vita.
La pianificazione dei comportamenti si basa su un’analisi cognitiva delle
informazioni che porta a delle risposte comportamentali adeguate alle condizioni
dell’ambiente. Qualsiasi attività finalizzata presuppone tuttavia uno stato
motivazionale sufficiente, così come una capacità da parte del soggetto di focalizzare
la sua attenzione su alcuni aspetti del trattamento dell’informazione.
Questi due elementi fondamentali, motivazione e attenzione, sono intimamente legati
e rappresentano la base stessa dell’intenzionalità dell’azione, che sottende qualsiasi
processo decisionale.
Il ruolo della corteccia prefrontale è fondamentale nella formazione di scopi e
obbiettivi e nell’ideazione dei piani d’azione necessari per raggiungerli, selezionando
le abilità cognitive necessarie per realizzare i piani, coordinando quelle abilità e
applicandole nel giusto ordine.
La corteccia prefrontale è responsabile della valutazione delle nostre azioni,
classificandole come successi o fallimenti in base alle nostre intenzioni. Diverse
regioni associative della corteccia prefrontale, organizzate in circuiti funzionali con
le strutture sottocorticali, sono implicate nella regolazione di questi fenomeni. La
loro conoscenza nell’uomo si basa soprattutto sulle tecniche di imaging funzionale
(RMNf, PET, MEG) che danno una visualizzazione globale del funzionamento del
cervello in situazione comportamentale. Hanno permesso di descrivere, in maniera
più o meno esaustiva, le reti implicate nell’una o nell’altra funzione cognitiva, senza
autorizzare, tuttavia, la comprensione dei meccanismi neuronali che sottendono
queste funzioni.
10
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale
1.3.4 Corteccia prefrontale dorsolaterale
La corteccia frontale dorsolaterale, che ingloba le aree 9, 46, 45 e una parte dell’area
10, è sede delle funzioni cognitive più alte nell’uomo. La sua lesione perturba
l’analisi, il trattamento sequenziale, il mantenimento cosciente di informazioni
pertinenti e l’elaborazione di piani d’azione adeguati ai vincoli ambientali. Queste
funzioni sono assicurate grazie alle numerose afferenze che riceve dalle altre
cortecce associative.
Una migliore conoscenza delle proprietà cognitive fondamentali che sottendono le
funzioni della corteccia prefrontale è stata ottenuta grazie agli studi di
elettrofisiologia nel primate non umano.
I primi sono stati centrati soprattutto sulla memoria a breve termine, detta memoria
di lavoro, mostrano che quando si introduce un intervallo tra uno stimolo visivo e
una risposta, numerosi neuroni di questa area presentano un’attività sostenuta.
Goldman-Rakic riferisce come i neuroni dell’area 46 scatenino, in un compito
ritardato, una cascata di eventi che produce delle cascate oculari molto finalizzate
(Goldman-Rakic, 1988 ). Questo tipo di attività è fondamentale per numerose attività
cognitive. Questi dati sono stati in seguito confermati nell’uomo grazie alle tecniche
di imaging funzionale.
I comportamenti complessi non si basano tuttavia solo su una memorizzazione. Le
informazioni debbono essere selezionate e integrate con altri messaggi pertinenti.
Un’altra funzione essenziale è quella di permettere la focalizzazione volontaria
dell’attenzione su certi stimoli, pensieri o atti. Questo processo di selezione è
indispensabile perché le capacità di lavoro delle funzioni cognitive sono limitate. La
possibilità di ignorare dei distrattori e di selezionare una informazione pertinente è
pertanto un processo critico nella pianificazione dell’azione. Per beneficiare delle
esperienze passate, dobbiamo essere capaci di selezionare delle conoscenze acquisite,
anche le azioni più semplici obbediscono a molteplici vincoli, per esempio, quando si
cerca un oggetto ci si ricorda della sua forma, del posto dove potrebbe essere, della
sua ultima utilizzazione. Numerosi neuroni della corteccia prefrontale modificano
così la loro attività quando la scimmia deve ricordarsi nello stesso tempo della forma
e della localizzazione spaziale di un oggetto. Gli studi di neuroimaging mostrano che
la corteccia prefrontale dorsolaterale ha un ruolo importante nell’integrazione di
sorgenti di informazione multiple e nel processo di presa di decisione.
11
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale
La complessità del comportamento nei primati è legata anche al fatto che questi
possono fissarsi su dei nuovi obiettivi e dei nuovi metodi per raggiungerli. Il ruolo
esecutivo risulta all’acquisizione e dalla rappresentazione di regole che guidano i
comportamenti finalizzati.
Stabilire delle regole consiste nel fare l’associazione arbitraria tra informazioni di
natura differente. Si tratta di costruire un «modello interno», per esempio,
apprendiamo che il rosso al semaforo significa «stop».
Gli studi elettrofisiologici effettuati sulla scimmia rivelano che l’attività di neuroni
della corteccia prefrontale dorsolaterale riflette queste associazioni. Alcuni autori
hanno infine suggerito che questi ultimi potrebbero rappresentare il contesto
dell’azione. Si tratta di informazioni a carattere multimodale che debbono inglobare i
differenti aspetti in rapporto con le istruzioni, gli aspetti motivazionali e le
conseguenze prevedibili dell’azione (Miller EK., 1999).
1.3.5 Area frontale oculocefalogira
L’area frontale oculocefalogira è posta al davanti della corteccia premotoria e
corrisponde all’area 8 nella classificazione di Brodmann. A lungo considerata come
una corteccia premotoria implicata nel controllo dei movimenti oculari (frontal eye
field), è sempre più riconnessa, sul piano funzionale, alla corteccia dorsolaterale.
Gli studi di imaging hanno in effetti dimostrato la sua attivazione in numerosi
compiti cognitivi, in particolare quando questi richiedono una mobilizzazione
dell’orientamento dello sguardo e pertanto dell’attenzione visiva.
1.3.6 Corteccia cingolare anteriore
Le connessioni anatomiche della corteccia cingolare anteriore (area 24c) con la
corteccia prefrontale dorsolaterale sono strette e la loro coattivazione nel corso di
numerosi compiti cognitivi suggerisce ad un tempo una dualità funzionale e una
sinergia di azione di queste due regioni. Si ammette di solito che la corteccia
prefrontale dorsolaterale tratti e mantenga on line l’informazione necessaria alla
scelta di una risposta mentre la corteccia cingolare anteriore facilita e controlla la
realizzazione dell’azione. Quest’ultima riceve anche delle afferenze dai nuclei libici,
12
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale
dal talamo e dal tronco encefalico, il che ne fa naturalmente un luogo di integrazione
per gli aspetti emozionali e motivazionali del comportamento. Invia a sua volta delle
proiezioni verso le cortecce premotorie, motorie e il midollo spinale.
È così in grado di avere un ruolo diretto nella attuazione di una posizione strategica
che le consente di integrare delle informazioni di ordine emozionale nel quadro di
processi decisionali e di avere di ritorno una parte importante nella pianificazione
dell’azione. La funzione esatta della corteccia cingolare anteriore e dei meccanismi
cellulari che la sottendono resta tuttavia poco nota. Negli anni novanta gli studi
d’imaging funzionale hanno mostrato che era implicata in numerosi aspetti della
cognizione, in particolare quando si tratta di gestire una situazione di scelta tra le
informazioni di natura contraddittoria.
I dati della sperimentazione nel primate subumano restano molto frammentari.
Hanno soprattutto consentito di dimostrare il legame tra processo di ricompensa, e
quindi di motivazione, e la pianificazione dell’azione. L’annuncio della quantità di
ricompensa attesa modifica l’attività dei neuroni della corteccia cingolare anteriore
nello stesso tempo del comportamento dell’animale.
D’altra parte, i neuroni delle stesse regioni rispondono in modo diverso se le prove
hanno successo o falliscono in un compito sequenziale memorizzato.
1.3.7 Corteccia orbitofrontale
La corteccia orbitofrontale rappresenta la parte anteriore della corteccia prefrontale
(figura 1, 26).
Raggruppa delle aree rostrali localizzate a livello della convessità corticale (aree 10 e
47/12), così come delle aree situate in regione ventromediale (aree 11, 12, 13, 14).
La corteccia orbitofrontale riceve delle afferenze multiple provenienti dalle cortecce
associative temporali ma anche dall’amigdala. Sembra essere implicata in situazioni
nel corso delle quali il soggetto deve adattare il suo comportamento per ottenere un
rinforzo positivo. Questa regione interviene negli aspetti emotivi della presa di
decisione. In effetti, alcuni pazienti che soffrono di lesioni orbitarie presentano delle
grandi difficoltà nel prendere delle decisioni perché diventano incapaci di anticipare
le
conseguenze della loro azione. Questi deficit sono particolarmente netti nei
comportamenti sociali.
13
1. I sistemi di controllo e il lobo frontale
I risultati elettrofisiologici contenuti nel primate indicano che i neuroni della
corteccia orbitofrontale sono implicati nel trattamento di informazioni quando queste
sono associate con dei processi di rinforzo. Queste cellule diventano particolarmente
attive quando il soggetto è posto in una situazione nella quale si spera di ricevere una
ricompensa.
La corteccia orbitofrontale ha un ruolo importante nel controllo motivazionale del
comportamento. In più, si è potuto dimostrare che quando l’animale non riceve la
ricompensa attesa, l’attività dei neuroni viene modificata. Questo settore corticale
partecipa, con la corteccia cingolare anteriore, al processo di rilevazione degli errori.
14
2. La sindrome frontale
2. La sindrome frontale
Le lesioni che interessano il lobo frontale sono da tempo riconosciute responsabili di
gravi conseguenze sullo stato emotivo-comportamentale e, più in generale, sulla
personalità del soggetto, per la funzione egemone di queste strutture sulla
modulazione e regolazione delle condotte sociali e sulla qualità delle reazioni
emotive.
Le relazioni tra danno frontale e disturbi comportamentali sono ormai ampiamente
accertate ed altrettanto ampiamente accertate sono le correlazioni tra le sequele
comportamentali successive a danno frontale e la scarsa integrazione sociale del
paziente.
Nell’insieme comportamento e funzioni neuropsicologiche che sono sotto il controllo
frontale vengono anche definiti rispettivamente come comportamento adattivo e
funzioni esecutive, in quanto portano l’uomo a prendere delle decisioni in modo
motivato, appropriato e modificabile in base alle variabili del contesto sociale in cui
opera, libero da interferenze di imitazioni di comportamenti stereotipati o da risposte
automatiche a impulsi primitivi.
Le cause eziopatogenetiche possono essere numerose: dagli insulti cerebrovascolari
focali sia ischemici che emorragici, alle patologie di tipo degenerativo, ai traumi
cranio-encefalici, alle resezioni chirurgiche in caso di deafferentazione funzionale a
partire dalle strutture sottocorticali con sostanza grigia o gangli della base.
Una patologia come questa risulta particolarmente efficace nell’evidenziare
l’importanza di affrontare questi deficit in una prospettiva come quella
neuropsicologica, che integra diversi livelli di spiegazione.
Nella sindrome frontale abbiamo, infatti, implicate componenti biologiche che
causano la lesione e che possono essere le più svariate. Vi sono deficit cognitivi ma
anche le componenti di personalità e quelle emotive vengono chiamate in causa.
In questo capitolo vengono presi in esame gli aspetti critici fondamentali per poter
diagnosticare una sindrome frontale, confermati dai risultati di recenti studi
sperimentali.
15
2. La sindrome frontale
Ovviamente, come presupposto deve esserci la certezza o quantomeno il fondato
sospetto che il paziente abbia avuto un danno nella zona anteriore dell’encefalo,
substrato biologico per questa patologia.
2.1
Patogenesi
Gli studi neurofisiologici e neuropsicologici volti a chiarire la funzione delle aree
prefrontali iniziarono in modo sistematico verso la fine del secolo scorso. I dati
clinici indicarono che le lesioni massicce dei lobi frontali determinano gravi
alterazioni della personalità e costituirono uno stimolo alla ricerca di una verifica
sperimentale negli animali: i primi risultati furono però deludenti, soprattutto se
rapportati alle brillanti acquisizioni parallelamente conseguite sulla corteccia motoria
e sui centri visivi corticali. Ciò condusse all’opinione che le aree prefrontali fossero
prive di funzione specifica; inoltre, poiché la stimolazione e l’ablazione di queste
aree non determinavano alterazioni nella sfera sensoriale né in quella motoria, tali
aree vennero definite “mute”. Successivamente alcuni ricercatori, quali Bianchi
(1895) e Franz (1907), osservarono che negli animali con lesioni prefrontali si
producevano profonde modificazioni comportamentali, confermando, in tal modo,
l’ipotesi formulata in precedenza da Jackson (1869) secondo cui le aree anteriori del
lobo frontale rappresentano “il sistema di centri più complesso dell’encefalo”.
Da allora sono stai raccolti numerosi dati sulle conseguenze comportamentali
derivanti da lesioni dei lobi frontali. Una delle caratteristiche più evidenti, e pertanto
meglio studiata, dell’animale “frontale”, è la perdita della capacità di eseguire
compiti di risposta ritardata (Jacobsen, 1936): l’animale non è in grado di riprodurre
un comportamento appena appreso (ad esempio, scegliere correttamente fra più
contenitori quello con il cibo) se viene distratto dal compito anche solo per pochi
secondi. In altre parole, per effetto della lesione frontale, l’animale diviene più
distraibile, maggiormente sensibile all’interferenza prodotta da stimoli concomitanti
(Malmo, 1942), si dimostra incapace di inibire le risposte comportamentali a stimoli
irrilevanti ed è, in definitiva, dipendente dagli stimoli esterni (Pribram, 1973).
Inoltre, l’animale con lesioni frontali mostra comportamenti perseveratori: una volta
messa in atto una risposta l’animale tende a riprodurla anche se l’azione ha perso la
propria funzione di adattarlo alla situazione ambientale che l’ha provocata (Fulton,
1935). Infine, in conseguenza delle lesioni, gli animali divengono impenetrabili a
16
2. La sindrome frontale
qualsiasi effetto frustrante degli errori commessi (Jacobsen, 1936) e non sono in
grado di rendersi conto delle conseguenze delle proprie azioni (Pribram, 1960).
Nell’insieme, il comportamento dell’animale “frontale” appare espressione
dell’impossibilità di formulare un corretto programma d’azione; ciò sembra essere in
relazione alla dipendenza dagli stimoli esterni, all’incapacità di analizzare i risultati
delle proprie risposte motorie e di correggere le reazioni inadeguate. La maggior
parte dei dati sperimentali (e di quelli clinici) oggi disponibili può essere interpretata
alla luce delle connessioni esistenti fra la regione prefrontale e le strutture corticali e
sottocorticali. Le aree prefrontali, infatti, funzionerebbero come un “comparatore”
interposto fra le aree posteriori di elaborazione dei messaggi sensoriali, le aree
precentrali motorie, il sistema limbico (che interviene nella modulazione della vita
emotivo-affettiva) e l’ipotalamo (che regola le funzioni neurovegetative). La regione
prefrontale opererebbe, dunque, la sintesi fra le informazioni relative al mondo
esterno e quelle relative agli stati interni dell’organismo rendendo in tal modo
possibile la formulazione di previsioni (attese) rispetto alle variazioni dell’ambiente,
la regolazione dell’emotività e l’attuazione di un comportamento finalizzato
(intelligente).
2.2 Sindrome frontale e trauma cranico
Risulta piuttosto comune, in letteratura, considerare la sindrome frontale (sindrome
conseguente a lesione del lobo frontale) come conseguenza “naturale” di un trauma
cranico. Ciò è dovuto al fatto che, per motivi anatomici, i traumi cranici (ferite
traumatiche chiuse) tendono a danneggiare soprattutto le aree orbitofrontali del
cervello. I danni a seguito di trauma cranico raramente sono circoscritti. Le lesioni
più grossolane possono essere diagnosticate attraverso l’uso di bioimmagini, ma altri
tipi di lesioni, quali il danno assonale diffuso, edema o danni conseguenti ad ipossia
sono difficilmente visualizzabili.
La sintomatologia frontale non è, di per se, prova di danno frontale, in quanto
potrebbe essere conseguente ad una disconnessione delle proiezioni prefrontali del
nucleo talamico dorsomediale o delle fibre ascendenti del sistema reticolare
mesencefalico.
Nel trauma cranico, indipendentemente dalla sua tipologia, le lesioni coinvolgono
sempre i lobi frontali e temporali. Esse si associano al danno assonale diffuso che
17
2. La sindrome frontale
determina l’insorgenza di una sindrome da disconnessione, compromettendo le aree
cerebrali deputate alle attività integrative e le loro vie associative. Tutto ciò comporta
il decadimento dei processi attentivi, elaborativi e mnesici che stanno alla base dello
sviluppo cognitivo, di qualsiasi apprendimento e di ogni azione finalizzata.
Non stupisce, quindi, che i dati disponibili in letteratura abbiano evidenziato che in
età evolutiva il quadro neuropsicologico e l’outcome non sono migliori rispetto
all’adulto, soprattutto se l’età al momento del trauma è inferiore ai quattro anni.
Il gran numero di variabili in gioco rende difficile fornire orientamenti generali
sull’evoluzione dei disturbi cognitivi, poiché ogni quadro clinico è specifico e
dinamicamente mutevole, in rapporto ad una vasta gamma di circostanze interne ed
esterne.
I ricercatori sono concordi nell'affermare che il trauma cranico determina una
disfunzionalità globale, all'interno della quale si inscrivono disturbi cognitivi,
comportamentali, emotivi e motori.
I disturbi cognitivi conseguenti a trauma cranico dipendono in larga misura dalla
gravità del trauma stesso e dalla dinamica della lesione.
Un’altra variabile importante è l’età del soggetto: in età evolutiva, infatti, le
conseguenze neuropsicologiche si manifestano con una loro peculiare tipologia,
poiché il bambino sta sviluppando le diverse funzioni cognitive. A questa età, i
disturbi neuropsicologici si discostano dalle classiche sindromi riportate per l’adulto
tanto minore è l’età del paziente.
La lesione cerebrale conseguente al trauma, essendo multifocale e diffusa,
difficilmente determina deficit isolati, anche se è possibile individuare alcuni disturbi
neuropsicologici derivanti dalla maggiore compromissione di un’area cerebrale.
2.3 Strategie comportamentali e sindrome disesecutiva
L’evidenza della ricerca neuropsicologica, elettrofisiologica e funzionale di
neuroimmagini attribuisce un ruolo critico ai lobi frontali (specialmente la corteccia
prefrontale) nel controllo esecutivo del comportamento finalizzato.
Le estese connessioni dei lobi frontali con tutta la corteccia e con le strutture
sottocorticali, pone i lobi frontali in una posizione neuroanatomica unica nel
monitorare e manipolare vari processi cognitivi: essi sono deputati alle condotte più
elaborate dell’essere umano; non svolgono, come le altre aree, un compito definito,
18
2. La sindrome frontale
ma soprassiedono all’organizzazione generale del comportamento finalizzato,
coordinando tutte le modalità operative (sensoriali, motorie, percettive, attentive,
mnesiche, motivazionali e così via).
Finché le funzioni esecutive sono integre un individuo riesce a sopportare perdite
cognitive considerevoli mantenendo un notevole grado di autonomia; quando sono
danneggiate non è più capace di una cura sufficiente di sé e di mantenere normali
relazioni sociali indipendentemente dal grado di anomalia delle restanti funzioni
cognitive. Ne deriva che la disfunzione frontale compromette tutto il comportamento
e che il deficit risulta evidente soprattutto nella vita quotidiana.
“L’essere umano non si limita a reagire in modo passivo all’informazione che
riceve ma ha intenzioni, elabora piani e fa un programma delle proprie azioni di
cui poi valuta la riuscita; egli controlla e dirige in ogni movimento il suo
comportamento affinché sia conforme alla programmazione e alla pianificazione e
verifica la sua attività cosciente comparando gli effetti delle proprie azioni con le
intenzioni originali e correggendo gli errori compiuti” (Lurija) .
Il neuropsicologo sovietico Alexandr Romanovic Lurija utilizzava questi termini per
definire il concetto di strategia comportamentale: il comportamento rappresenta
sempre un atto finalizzato a raggiungere un obbiettivo. Il raggiungimento di uno
scopo implica adottare una strategia, ossia attivare una procedura che prevede di
passare in modo ordinato attraverso una serie di fasi; finalizzare una modalità
comportamentale, indipendentemente dal problema che bisogna affrontare, richiede
la capacità di coordinare almeno quattro stadi funzionali: analisi, pianificazione,
esecuzione e verifica. Una volta identificato il problema, è necessario raccogliere
tutti i dati disponibili per la corretta valutazione della situazione.
Le informazioni provengono sia dall’ambiente esterno, attraverso i canali sensoriali,
che dall’ambiente interno dell’organismo, includendovi anche i dati depositati in
memoria.
In questa fase le informazioni non vengono considerate singolarmente, ma nei loro
reciproci rapporti in modo da giungere ad una “sintesi afferente”: le informazioni
sono vagliate cioè nel loro complesso in relazione alla rilevanza che assumono per la
soluzione del problema. Il risultato della sintesi afferente viene utilizzato per la
pianificazione del comportamento: la formulazione del piano d’azione prevede la
19
2. La sindrome frontale
definizione dettagliata dell’obbiettivo da raggiungere e il reclutamento sequenziale
delle abilità e delle strutture corrispondenti necessarie allo svolgimento dell’attività.
Infine, una volta messo in atto il comportamento programmato, è necessario un
confronto tra l’esito e l’obbiettivo. Se il risultato è stato raggiunto, il problema ha
trovato la sua soluzione ed il processo si arresta.
In caso contrario la verifica porta da una parte al riconoscimento dell’errore e
dall’altra al suo aggiustamento; tutte le fasi precedenti vengono riesaminate in modo
ricorsivo: l’errore infatti potrebbe aver avuto luogo sia durante l’esecuzione che nel
corso della pianificazione o nel momento dell’analisi. Il processo inizia di nuovo ma
con una importante differenza: nel frattempo sono state acquisite nuove informazioni
derivanti dal tentativo fallito precedentemente e la strategia viene modificata in
relazione all’analisi del tipo di errore effettuato. Il meccanismo che porta alla
soluzione del problema quindi non riprende dallo stesso punto di partenza iniziale, in
modo circolare, piuttosto procede secondo un percorso a spirale in cui ogni nuovo
tentativo fa tesoro dell’esperienza precedente: così si impara dagli errori effettuati.
Nell’essere umano esiste quindi un meccanismo che consente di adattare il
comportamento allo scopo da raggiungere. Di fatto in ogni momento della vita
l’ambiente pone una richiesta all’organismo, richiesta che l’organismo deve
affrontare e cercare di risolvere.
Il comportamento equivale dunque ad un processo di soluzione dei problemi; quando
l’ambiente cambia, il comportamento viene modificato di conseguenza.
La programmazione di una sequenza comportamentale è accompagnata dalla
anticipazione e dalla previsione del risultato; ogni comportamento è associato quindi
con la conoscenza delle sue possibili conseguenze.
Un simile sistema di aggiustamento alle condizioni ambientali risulta tanto più
indispensabile per un organismo quanto più possieda ricche e molteplici modalità
comportamentali. Se le risposte ai problemi posti dall’ambiente fossero definite una
volta per sempre, in modo precostituito, come avviene per i comportamenti
geneticamente determinati, un meccanismo preposto alla scelta della strategia
sarebbe poco utile.
Il segreto dell’incredibile flessibilità dell’essere umano è invece proprio
rappresentato dal fatto che l’evoluzione ha barattato la sicurezza di una condotta
predeterminata con l’insicurezza di una condotta che deve essere continuamene
appresa. Il vantaggio è significativo. Il neonato umano è incapace di sopravvivere,
20
2. La sindrome frontale
non è pronto ad affrontare le condizioni ambientali ed a questo deve provvedere un
adulto, ma in cambio il contatto con l’ambiente lo rende sempre pronto ad
apprenderne le caratteristiche, per quanto mutevoli. Quando ciò che è stato ormai
fortemente consolidato dall’evoluzione non è più sufficiente e quando anche le
modalità comportamentali apprese con l’esperienza diretta non risultano adeguate, è
necessario avere a disposizione un sistema in grado di trovare soluzioni nuove. A
questo compito sono preposti i lobi frontali.
Probabilmente lo sviluppo dei lobi frontali è stato necessario quando l’aumento dei
gradi di libertà comportamentale, reso possibile dall’organizzazione cerebrale,
impose un ordine volto ad evitare il potenziale caos derivante dall’emergenza casuale
di numerose possibilità di scelta in condizioni di ambiguità. Da una modalità reattiva
di comportamento l’essere umano passa ad una modalità attiva soltanto quando la
soluzione non è univoca ma sono possibili scelte alternative; in un certo senso la
libertà di scegliere è possibile solo in presenza dell’ambiguità; i lobi frontali
intervengono proprio nel momento in cui le soluzioni possibili sono molteplici.
È importante sottolineare che scegliere tra più alternative implica l’esistenza di un
meccanismo di inibizione: è cioè necessario essere capaci di non rispondere in modo
immediato allo stimolo. Maggiore la capacità di ritardare la risposta ed
eventualmente sopprimerla, minore la dipendenza dallo stimolo, migliore la
possibilità di scelta nell’ambito del repertorio comportamentale.
Il livelli gerarchicamente più elevato di inibizione è rappresentato dai lobi frontali:
per questo
in caso di lesione i fenomeni di disinibizione riguardano in modo
indiscriminato tutti gli aspetti del comportamento.
Se si osservano pazienti con patologia frontale, la disfunzione esecutiva è quella che
emerge in modo predominante. La lesione comporta una disorganizzazione generale
del comportamento in cui vengono a mancare quelle funzioni di controllo delle
strategie comportamentali: tutte le condotte sono caratterizzate dall’impossibilità di
portare a termine una serie di atti adattati ad un fine; “il paziente è incapace di
svincolarsi dal presente e pianificare il futuro, di far tesoro dell’esperienza e
acquisire nuovi apprendimenti, di adattarsi alle esigenze della vita quotidiana; di
conseguenza perde l’autonomia e la competenza sociale.” (Lurija).
I disturbi delle procedure esecutive possono essere così schematizzati:
•
Difficoltà di corretta formulazione dei problemi da affrontare;
21
2. La sindrome frontale
•
Incapacità di stabilire preliminarmente gli obiettivi da raggiungere;
•
Errori di pianificazione e di mantenimento della sequenza dell’azione;
•
Errata scelta di strategie con cui condurre la sequenza operativa;
•
Incapacità di automonitorarsi e, quindi, ad apportare eventuali e necessarie
modifiche;
•
Perseverazione su una precedente strategia divenuta non più idonea.
I disturbi cognitivi sopradescritti vanno spesso di pari passo con la tendenza ad
adottare comportamenti abituali e stereotipati, quali di volta in volta gli aspetti più
superficiali delle situazioni suggeriscono, senza considerare della loro eventuale
inutilità o della loro difformità rispetto allo scopo che in quel momento il paziente si
prefigge.
Questo riflette la scarsa capacità di giudizio, le carenti competenze sociali e il difetto
nell’utilizzo delle proprie capacità intellettive per modulare le risposte secondo gli
schemi più adeguati al contesto.
2.4 Disturbi del comportamento e della personalità
Il risultato di un danno della corteccia frontale consiste sempre in un cambiamento
del comportamento con alterazione della condotta sociale.
Le alterazioni della personalità sono un dato di immediata evidenza clinica e sono
state osservate fin dai primi Autori che hanno descritto questi pazienti; oggi
costituiscono una componente saldamente acquisita della sindrome.
Un caso clinico famoso nella storia della medicina è quello di Phineas P. Gage,
descritto dal dr. John Harlow alla fine del 1800 per la sua eccezionalità e di cui solo
molti anni più tardi è stato compreso il significato.
Nel 1848 a Cavendish, nel Vermont, Gage stava lavorando alla costruzione della
linea ferroviaria e doveva far saltare la parete rocciosa che ostacolava il tracciato; in
conseguenza dell’esplosione di una mina, una barra metallica, penetrando nella
guancia sinistra, gli attraversò la scatola cranica danneggiando le porzioni anteriori
del cervello.
22
2. La sindrome frontale
Caso Gage
Vermont, 1848
Accorrendo immediatamente sul luogo dell’incidente, gli altri operai si accorsero
che Gage non solo era sopravvissuto, ma incredibilmente era in grado di parlare
(tanto da raccontare dettagliatamente l’accaduto) così come di muoversi e
camminare. Egli fu dichiarato guarito in meno di due mesi ma dopo l’accaduto la
sua vita cambiò radicalmente. Come dicevano i suoi amici “Gage non era più Gage”,
sembrava cioè non essere più la stessa persona: ben noto per la sua serietà e la sua
efficienza sul lavoro, per la sua disponibilità e cortesia, era divenuto “incostante,
capriccioso, volubile, irriverente, incline alle più pesanti oscenità, intollerante delle
costrizioni o dei consigli, ostinato”; se in precedenza era stato del tutto alieno da
insolenze e imprecazioni, il suo linguaggio era divenuto “talmente osceno che alle
donne si consigliava di non rimanere a lungo in sua presenza per non restarne
turbate”. Nella sua relazione il dr. Harlow riferisce che egli camminava con passo
fermo, usava le mani con destrezza, non mostrava impaccio nel parlare, ma
l’equilibrio, per così dire, tra la sua facoltà intellettiva e le sue disposizioni animali
era venuto a mancare. Inoltre, mentre era sempre stato considerato da quanti lo
conoscevano come un uomo “abile e avveduto”, “energico e tenace nel perseguire i
suoi obiettivi”, ora era “sempre pronto a elaborare molti programmi di attività future
che abbandonava non appena li aveva iniziati”.
Il caso descrive bene la caratteristica principale dei pazienti con lesione frontale: la
perdita delle strategie che consentono di modificare il comportamento in relazione
alle esigenze ambientali.
23
2. La sindrome frontale
La mancanza delle strategie comportamentali può manifestarsi in modi variabili e il
paziente può essere incapace di: individuare gli elementi significativi della
situazione, di conseguenza può essere in balia di elementi irrilevanti per lo scopo da
raggiungere e non sa inibire la risposta immediata né le associazioni secondarie,
associazioni che si formano continuamente in modo spontaneo ma che normalmente,
se non sono utili sul momento, vengono soppresse proprio grazie all’attività
inibitoria del sistema frontale; utilizzare le informazioni disponibili per prevedere le
conseguenze del proprio operato; controllare lo svolgimento delle proprie azioni e
impedire il perpetuarsi dello schema d’azione in corso anche quando non è più
opportuno; valutare il risultato ottenuto e apprendere dagli errori.
Ognuno dei meccanismi suddetti può alterare la capacità di organizzare gli eventi nel
tempo; di conseguenza il soggetto non è più in grado di formulare progetti e di
portare a termine una sequenza comportamentale adeguata al raggiungimento dello
scopo prestabilito: gli è impossibile svincolarsi dal presente, pianificare l’avvenire e
apprendere dall’esperienza.
Un carattere distintivo della sintomatologia è l’estrema variabilità, sia da paziente a
paziente che, anche da un giorno all’altro, nello stesso soggetto.
Sono state comunque evidenziate, ferma restando l’estrema mutevolezza del quadro,
due varianti fondamentali della sindrome: la presenza dell’una o dell’altra, spesso
presenti contemporaneamente nello stesso paziente in relazione al cambiamento del
contesto ambientale, può essere correlata alla sede della patologia, rispettivamente
dorsolaterale e orbitomesiale.
1) La sindrome “pseudodepressiva” (o acinetica), indica mancanza di iniziativa,
abulia, apatia, acinesia, perdita della fluenza verbale fino al mutismo, perdita
degli interessi abituali, indifferenza emotiva, tono dell’umore depresso, disturbi
dell’attenzione e della memoria, disorientamento temporo-spaziale, nei casi più
gravi confusione. La sintomatologia è state definita pseudodepressiva da Blumer
e Benson, in quanto il paziente ha l’aspetto di un depresso ma non ne mostra gli
aspetti affettivo-emotivi caratteristici, anzi appare “triste senza tristezza
interiore”.
2) La sindrome “pseudomaniacale”, definita anche sindrome moriatica, è
la
conseguenza della perdita dei meccanismi inibitori, caratterizzata da euforia
24
2. La sindrome frontale
inappropriata e immotivata, disinibizione verbale e motoria, tendenza alla
giocosità in situazioni inappropriate, iperattività inconcludente fino all’agitazione
psicomotoria. Il quadro clinico può accompagnarsi a bulimia, ipersessualità (o,
per meglio dire, manifestazioni incongrue di sessualità) e comportamenti
socialmente inappropriati. Tali condizioni appaiono in realtà collegate ad una
dipendenza dallo stimolo ambientale che non può essere soppresso; la bulimia è
più spesso una necessità di mangiare ciò che si ha davanti, indipendentemente dal
senso di fame; l’ipersessualità è strettamente dipendente dalla presenza dello
stimolo; l’incontinenza è la risposta non inibita allo stimolo di urinare che va
soddisfatto immediatamente e indipendentemente dall’ambiente in cui il soggetto
si trova.
Un altro tipo di disturbo è rappresentato dalla irritabilità e aggressività (discontrollo
degli impulsi), che ancora trovano la loro giustificazione in una dipendenza dagli
stimoli ambientali cui viene fornita una risposta impulsiva, non sottoposta a critica né
alla valutazione delle possibili conseguenze.
In ogni sua manifestazione la sindrome frontale comporta una trasformazione delle
caratteristiche di personalità del soggetto che induce i familiari a dire che si trovano
davanti una persona diversa che non riconoscono più e che non riesco più a capire; le
conseguenze sono solitamente catastrofiche: perdita del lavoro, degli averi, delle
amicizie, degli affetti.
Apparentemente tutto avviene senza una giustificazione plausibile, dato che gli
aspetti comunemente associati di malattia non sono affatto visibili e non vengono
percepiti. I disturbi sopradescritti compaiono a seguito di lesioni massicce e si
manifestano in pieno quando sono interessati entrambi i lobi frontali.
A questo proposito è importante sottolineare che il quadro clinico della sindrome non
include
necessariamente
tutte
le
manifestazioni
comportamentali
descritte
precedentemente; al contrario solitamente ogni specifico soggetto presenta risposte
patologiche soltanto ad alcune delle prove proposte in laboratorio.
Questi deficit trovano una loro spiegazione nelle numerose connessioni della
corteccia prefrontale, in particolare appunto delle sue parti mediali e orbitarie, con le
strutture sottocorticali (amigdala e ippocampo) responsabili dell’attivazione di una
risposta emotiva. In questo caso il lobo frontale avrebbe una funzione di controllo
25
2. La sindrome frontale
rispetto all’attività di queste strutture sottocorticali, ed una sua lesione ne
impedirebbe l’attività di modulazione e di controllo.
2.5 Disturbi dell’attenzione
Fra le caratteristiche più appariscenti, anche se difficilmente quantificabili, del
paziente frontale sono la distraibilità, che costringe il terapista a ricordargli
continuamente il compito, la tendenza a divagare da un argomento all’altro nel corso
della conversazione, l’inconcludenza nel portare a termine qualunque operazione
prima di intraprenderne altre suggeritegli dal minimo richiamo dell’ambiente. La
prima impressione di chi frequenta il malato è che il difetto riguardi la capacità a
fissare l’attenzione. Il termine attenzione, tuttavia, così come è usato nel linguaggio
corrente, è ambiguo e copre realtà che dal punto di vista psicologico,
neurofisiologico, ed anche clinico appaiono distinte.
L’attenzione corrisponde alla facoltà, introspettivamente sperimentale, di avvertire
gli eventi che accadono nell’ambiente esterno e interno a se stessi o i propri bisogni.
Sul piano neurofisiologico è interpretabile come eccitabilità del sistema nervoso di
fronte alle variazioni energetiche, e sul piano comportamentale come capacità di
reagire agli stimoli cui il soggetto è sottoposto. In questo senso l’attenzione è
designata come diffusa (Benson e Geshwind, 1975), per significare che essa è rivolta
a qualunque possibile tipo di evento in qualunque parte dello spazio percepibile e a
qualunque tipo di possibile risposta motoria.
Così intesa l’attenzione è sinonimo di vigilanza, ad ogni diminuzione di attenzione
corrisponde una diminuzione di vigilanza, come si realizza fisiologicamente nel
sonno, o, in condizioni patologiche, nel sopore, stupore e coma.
Nell’uso più comune il termine attenzione si riferisce però ad un fenomeno diverso
dalla vigilanza, consistente nell’avvertire solo alcuni generi di eventi, trascurando,
anzi attivamente ignorando, gli altri.
Il processo di elaborazione delle informazioni è estremamente flessibile, cioè sceglie
di volta in volta quale informazione elaborare e come elaborarla, e questa possibilità
di elaborare il materiale informativo avviene proprio in base a meccanismi di tipo
attentivo. Sul piano comportamentale ciò si traduce nella capacità di reagire
selettivamente solo ad alcuni stimoli. In questo senso, l’attenzione è designata come
selettiva (Benson e Geshwind, 1975), per indicare che essa è rivolta a specifici
26
2. La sindrome frontale
eventi, preferenzialmente rispetto ad altri. Diminuzione di attenzione selettiva
corrisponde ad aumentata distraibilità.
Non sono pochi i dati sperimentali che dimostrano un intervento del lobo frontale nei
fenomeni di attenzione selettiva sia motoria che sensoriale soprattutto se in forma
intenzionale. I risultati di alcune ricerche (Ladavas et al. 1991), mettono in luce nei
pazienti frontali una dissociazione tra attenzione selettiva volontaria e automatica.
Questi pazienti, infatti, avrebbero un’attenzione volontaria deficitaria e un’attenzione
automatica patologicamente intensificata. L’attenzione selettiva volontaria è un
meccanismo che entra in gioco quando bisogna affrontare situazioni nuove e richiede
l’impiego volontario di risorse di processamento.
L’attenzione automatica, invece, è guidata dall’ambiente e non dalle intenzioni e
dagli scopi dell’individuo. In presenza o assenza di movimenti oculari, l’attenzione
automatica è orientata senza che il soggetto abbia preso una decisione,
semplicemente perché sono cambiate alcune caratteristiche degli stimoli esterni o
perché se ne sono presentati di nuovi. I pazienti con lesioni frontali presenterebbero
appunto una intensificazione di queste forme automatiche di risposta, che potrebbero
essere la causa della loro forte distraibilità. È possibile ipotizzare che questi pazienti
spesso non possano completare i loro compiti, o non si possano impegnare a fondo
nella loro esecuzione perché l’attenzione viene continuamente distolta da stimoli
irrilevanti, come un rumore, una voce, o altro. Queste osservazioni sul
coinvolgimento del lobo frontale nei processi attentivi hanno trovato recentemente
una conferma sperimentale in studi in cui sono stati applicati dei paradigmi dalla
psicologia sperimentale.
Un esempio di intensificazione delle risposte automatiche lo si può trovare in un
lavoro di Guitton, Buchtel e Douglas (1985). I risultati hanno dimostrato che,
pazienti sottoposti ad uno stimolo visivo, erano incapaci di inibire il riflesso di
orientamento degli occhi e di attivare movimento oculari volontari in direzione
contraria alla stimolazione periferica.
In altre parole il paziente frontale non sembra in grado di utilizzare l’attenzione come
filtro per selezionare le informazioni rilevanti a scapito di quelle irrilevanti.
27
2. La sindrome frontale
2.6 Disturbi di memoria
Contrariamente ad una opinione diffusa, il contenuto della memoria esplicita a lungo
termine non è compromesso nel paziente frontale. Non vi sono prove che la corteccia
frontale intervenga nemmeno nei processi di memoria a breve o medio termine. Al
pari di quella esplicita, la memoria implicita appare conservata. Sono le modalità con
cui il paziente frontale gestisce i ricordi, e non il contenuto della memoria, che lo
differenziano dal normale.
Un aspetto del difetto mnesico frontale riguarda l’esperienza temporale: questi
pazienti confondono l’ordine e la frequenza con cui gli avvenimenti sono accaduti in
passato, mentre per il tempo futuro mancano la previsione di ciò che verosimilmente
accadrà e la consapevolezza delle operazioni ancora da compiere.
La difficoltà a collocare gli avvenimenti in ordine cronologico emerge dai risultati di
uno studio di Schimamura (1990), che evidenziò il fallimento dei pazienti frontali nel
riprodurre la successione con cui avevano appena letto 15 parole e la successione in
cui erano accaduti 15 avvenimenti famosi a loro sicuramente noti, anche se in
entrambi i casi riuscirono a rievocare e a riconoscere come i soggetti normali il
materiale usato.
In sostanza, in tutte le prove, sia verbali che figurative o spaziali, la corteccia frontale
si è dimostrata necessaria per rammentare la collocazione temporale degli eventi
sperimentati, con specificità relativa del lobo frontale sinistro per il materiale verbale
e del lobo frontale destro per il materiale figurativo o spaziale. L’organizzazione
categoriale richiede, infatti, la capacità di astrarre l’informazione necessaria che vada
oltre la costellazione delle proprietà fisiche degli stimoli e di analizzare i rapporti tra
le proprietà specifiche di stimoli diversi. La possibilità di cogliere questo tipo di
relazioni dipende dalla capacità di formulare dei concetti astratti. In questi pazienti
verrebbe a mancare la capacità di cogliere nei multiformi elementi che compongono
la realtà le caratteristiche essenziali che di volta in volta li accomunano fra loro e li
differenziano dagli altri.
In mancanza di concetti astratti i pazienti rimarrebbero legati alla concretezza e
immediatezza della situazione, in balia di reazioni automatiche e abitudinarie.
Lo studio precedentemente citato dimostra chiaramente come questi pazienti non
abbiano un disturbo di memoria vero e proprio, dal momento che le tracce mnesiche
sono conservate e recuperabili, bensì una difficoltà ad utilizzare strategie di accesso a
28
2. La sindrome frontale
tale materiale. Il paziente frontale, non solo confonde l’ordine degli eventi accaduti,
ma non riesce nemmeno a valutare la frequenza con cui li ha sperimentati. Le
conseguenze di questo difetto sono ben più gravi di quanto a prima vista possa
sembrare. Se, infatti, si ignorano le probabilità (frequenze relative) con cui gli eventi
sono soliti accadere, non si possono nemmeno costruire previsioni realistiche su
quale sarà il futuro e ci si presenterà sprovveduti di fronte ad esso.
Ancora più sconcertante appare l’incapacità del paziente frontale nel distinguere il
proprio tempo passato da quello futuro. Pur essendo in grado di realizzare le singole
operazioni necessarie nell’espletazione di un compito complesso, è incapace di
organizzarle in una sequenza produttiva, come se durante l’azione dimenticasse quali
stadi sono già stati superati e quali sono ancora da affrontare.
Prove ripetute effettuate su soggetti con ablazione prefrontale latero-mediale
(Petrides e Milner, 1982) hanno dimostrato l’incapacità di questi pazienti di
affrontare compiti con un piano generale secondo cui organizzare l’ordine delle
risposte, e di riconoscere ad ogni fase della sua attuazione quali risposte sono già
state date e quali devono ancora esserlo. La mancanza di un programma o
l’incapacità di rispettarlo può da sola compromettere il rendimento e l’esecuzione di
qualsiasi attività. La carenza di un progetto operativo, che tenga presenti, nella giusta
collocazione temporale, tutti gli elementi di giudizio e le possibili risposte,
sceverandoli di volta in volta durante l’esecuzione, costituisce probabilmente la
ragione delle difficoltà mostrate dai pazienti frontali: il sintomo, nelle forme più
gravi, risulta estremamente invalidante, in quanto il paziente può divenire incapace di
organizzare la propria vita e la propria quotidianità.
In questo senso la “memoria” di cui manca il paziente frontale è di tipo “operativo”.
In assenza di questo ruolo critico dei lobi frontali diventa impossibile organizzare il
comportamento rispetto alla dimensione temporale e controllare la sequenza
appropriata in cui le varie operazioni mentali vengono messe in atto per realizzare
l’obiettivo; ciò può avere conseguenze devastanti anche nella interazione sociale; il
paziente non sa attenersi ad una condotta guidata da motivazioni interne: il ricordo
del futuro non lo riconduce più al punto in cui era prima di essere distratto da un
evento intercorrente e lo lascia in balia di un presente continuo in cui non esiste una
priorità di intervento (ad esempio il paziente può iniziare tante attività senza mai
portarne a termine alcuna).
29
2. La sindrome frontale
Nelle condizioni più gravi vengono alterate anche le procedure necessarie per
eseguire piani motori e cognitivi acquisiti; il danno non riguarda la memoria ma
l’utilizzazione delle informazioni memorizzate. Ne risulta che qualsiasi attività che
richieda il coordinamento di molte capacità cognitive in un processo coerente
orientato ad un fine è gravemente compromessa.
2.7 Disturbi dell’apprendimento
Come gli altri processi cognitivi, l’apprendimento è un processo cognitivo non
direttamente osservabile, poiché è la conseguenza di funzioni e processi che
avvengono all’interno del sistema nervoso. Il paziente frontale ha un disturbo
dell’apprendimento che può essere riferito ad incapacità di costruirsi, di
automatizzare, o di usare spontaneamente una strategia con cui operare.
I dati ottenuti da uno studio su pazienti sottoposti a corticectomia (Milner, 1965)
impegnati in un compito di apprendimento, dimostrano che i pazienti frontali non
apprenderebbero perché incapaci di scegliere il comportamento consono alle
informazioni che ricevono dall’esterno, quali sono le regole imposte dall’esaminatore
e i segnali che indicano un errore.
Uno dei motivi che impedisce un normale apprendimento e che in parte giustifica
l’insuccesso dei pazienti frontali in prove di apprendimento consiste nelle cosiddette
“perseverazioni”, che rappresentano un aspetto centrale della sindrome. Essi, cioè,
mettono in atto un comportamento rigido, non flessibile, che li porta ad insistere in
strategie palesemente inadeguate, a volte riconosciute come tali dai pazienti stessi.
Va comunque sottolineato che le perseverazioni possono comparire anche dopo
lesioni che non interessano la corteccia prefrontale, ma in questo caso si manifestano
limitatamente ad una modalità sensoriale o ad un tipo di compito, mentre quando la
lesione
interessa
la
corteccia
prefrontale
le
perseverazioni
riguardano
contemporaneamente tutti i processi cognitivi, indipendentemente dalla modalità o
dal sistema di risposta, ad esempio la strategia cognitiva, il recupero
dell’informazione dalla memoria semantica ed anche le operazioni motorie
elementari. I pazienti frontali incontrano difficoltà non solo a guidare il
comportamento secondo informazioni provenienti in successione temporale
discontinua dall’ambiente, ma anche ad interiorizzare le regole di comportamento,
così da poter poi operare pur in assenza di suggerimenti esterni.
30
2. La sindrome frontale
Se l’apprendimento di abilità motorie consiste nel passaggio da una prima fase in cui
il movimento è guidato da informazioni sensoriali, visive e cinestesiche, ad una
seconda in cui la successione e i ritmi del movimento sono regolati da un programma
interiore, le difficoltà in prove di apprendimento sequenziale sono indicative del fatto
che i pazienti frontali sono compromessi proprio nella capacità di interiorizzare ed
automatizzare il programma motorio: essi non impiegano spontaneamente strategie
di apprendimento, anche quando ne sarebbero capaci.
2.8 Disturbi del linguaggio
Le funzioni linguistiche, in seguito al coinvolgimento dei lobi frontali, possono
manifestare due ordini di problemi: un disturbo del comportamento comunicativo e
un disturbo nella ideazione e formulazione del discorso.
I disturbi del comportamento comunicativo sono sostanzialmente da ricondursi a
disturbi della competenza cosiddetta “pragmatica”: e cioè della competenza che
modula il linguaggio come strumento di formazione del pensiero, di organizzazione
del discorso, di efficacia e di interazione interpersonale e sociale. I disturbi di questo
ordine sono così caratterizzati da carente rispetto del sistema di convenzioni, regole e
consuetudini linguistiche che, seppur non formalmente codificate, consentono di
variare e flettere il significato dell’espressione verbale a seconda della situazione e
del contesto (concettuale, emotivo e sociale) in cui la comunicazione avviene.
I disturbi dell’ideazione e formulazione del discorso invece, sono rappresentati
prevalentemente da riduzione della flessibilità sintattico-grammaticale e lessicale con
difficoltà nel reperire espressioni di efficace qualificazione, sintesi o astrazione,
nonché da incapacità di mantenere l’organizzazione tematica del discorso, la
“coerenza globale” al di sopra del livello delle singole frasi. Ad esempio, il paziente
frontale, se inerte, si esprime con frasi brevi, molto concrete, ripetitive nei contenuti,
circoscritte alla realtà quotidiana oppure scarsamente informative. Se disinibito, è
logorroico, inopportuno, sia nel prendere l’iniziativa verbale che nell’interazione
comunicativa, fatuo negli argomenti espressi, scarsamente aderente al contesto.
Per quanto riguarda la pianificazione ed elaborazione del messaggio verbale invece,
questo appare dispersivo o ridondante nella articolazione delle argomentazioni,
spesso limitato agli aspetti più superficiali o incentrato su particolari scarsamente
rilevanti.
31
2. La sindrome frontale
2.9 Anosognosia
Il nostro successo nella vita dipende in modo critico da due capacità: quelle di intuire
e comprendere il mondo mentale nostro e altrui. Queste abilità sono strettamente
legate e si trovano entrambe sotto il controllo dei lobi frontali.
Uno degli aspetti più sconcertanti del comportamento del paziente frontale è la
pressoché completa mancanza di consapevolezza del disturbo. Il non riconoscere
esplicitamente le proprie difficoltà rappresenta un disordine dei meccanismi preposti
al monitoraggio e alla consapevolezza delle condizioni del nostro corpo e del nostro
stato cognitivo.
L’anosognosia è una condizione devastante che priva il paziente della capacità di
comprendere la propria malattia: essa può assumere diverse forme, ma nessuna
forma risulta più completa e impermeabile di quella causata da un grave danno
frontale.
I meccanismi dell’anosognosia frontale sono scarsamente compresi. In senso lato,
essi probabilmente hanno a che fare con la compromissione della funzione
“editoriale” dei lobi frontali, ossia quella funzione che opera il confronto fra l’esito
delle proprie azioni da una parte, e quelle che erano le intenzioni, dall’altra. Oppure,
può darsi che riflettano un aspetto ancor più profondo della patologia frontale, ossia
la fondamentale mancanza di intenzionalità che le è intrinseca.
Un organismo senza desideri, senza scopi, senza obiettivi, per definizione non
sperimenterà alcun senso di fallimento. E tuttavia, la consapevolezza del deficit è il
prerequisito fondamentale di qualsiasi sforzo, da parte del paziente, per migliorare la
propria condizione.
Un paziente con anosognosia non sperimenta alcun senso di perdita o carenza, e
pertanto non sente alcun bisogno di impegnarsi a correggerlo. Poiché la cooperazione
del paziente è essenziale per il successo di qualsiasi sforzo terapeutico, l’anosognosia
trasforma il processo terapeutico in una battaglia da combattere, rendendo perciò
particolarmente devastanti le conseguenze delle patologie frontali.
2.10 Confabulazione
Questo tipo di comportamento è uno degli aspetti che caratterizzano il quadro di
disfunzione mnesica associata alla patologia frontale.
32
2. La sindrome frontale
Alcuni Autori hanno definito questa alterazione cognitivo-comportamentale come
“falsificazione della memoria”, facilmente riscontrabile in soggetti cerebrolesi con
gravi deficit delle funzioni mnesiche e dell’autocontrollo. Gli stessi Autori, riferendo
le diverse ipotesi formulate circa i meccanismi neuropsicologici che sottendono ai
comportamenti confabulanti, osservano il fatto che il termine “confabulazione” è
stato attribuito a fenomeni di vario genere e di diversa natura (psicogena e organica),
quali, elevata suggestionabilità, alterazioni della capacità di sequenzializzazione
cronologica, modalità di meccanismo di difesa, tentativo di “riempimento” di un
“vuoto” mnesico e difetto di auto-monitoraggio.
Nonostante sia tuttora aperta la discussione circa le possibili connessioni tra queste
condizioni cliniche e i comportamenti confabulanti, i pazienti che ne sono affetti in
generale presentano un’amnesia globale o una sindrome frontale.
Il paziente “confabulante”, nel caso sia amnesico, tende a “costruire” ricordi
mescolando elementi ricavati da fatti autobiografici diversi, mentre nel caso presenti
una compromissione di tipo “frontale”, produce spontaneamente informazioni aventi
manifesta non aderenza alla realtà, in assenza di intenzionalità ad ingannare. La
presenza di due diversi meccanismi patogenetici, spesso concomitanti (amnesia
globale e patologia dei lobi frontali), a cui corrispondono i suddetti due “livelli” di
confabulazioni, è stata da tempo dimostrata anche in ambito sperimentale.
2.11 Disinibizione / Disforia
Tanto la confabulazione quanto la disinibizione appartengono a quella classe di
comportamenti che sono inadeguati per le condizioni e i tempi in cui vengono
manifestati: comportamenti che, da un lato, rendono il soggetto socialmente
inaccettabile e, dall’altro, invalidano qualsiasi tentativo di riabilitazione.
La maggiore frequenza e le forme più gravi di disinibizione si osservano in seguito a
lesioni diffuse ma coinvolgenti prevalentemente i lobi frontali e le connessioni
temporo-limbiche, come nei traumi cranici, nei processi infettivi o degenerativi e nei
casi di ipossia cerebrale.
La presenza di condotte disinibite può essere indicativa di deficit a vari livelli e più
precisamente:
a) Deficit dell’autoconsapevolezza (come nel caso in cui un paziente con gravi
limitazioni motorie o cognitive, sembra euforico);
33
2. La sindrome frontale
b) Deficit dell’autocontrollo (per esempio, atteggiamenti di esibizionismo e
richieste sessuali imbarazzanti, manifestate in pubblico e con persone
incontrate occasionalmente);
c) Insufficienti capacità di critica e difficoltà nel discriminare o recepire i
segnali di “feedback” ambientali (per esempio, apprezzamenti o domande
eccessivamente personali, rivolti ad interlocutori con cui non sussistono
rapporti di confidenza, oppure “battute di spirito” prodotte in un contesto non
idoneo.
Un fenomeno spesso associato alla disinibizione è rappresentato dalla sindrome d'uso
(Shallice, 1982), nota anche come sindrome da dipendenza ambientale: è la tendenza
ad utilizzare oggetti o strumenti presenti nell'ambiente, anche nelle circostanze in cui
tale comportamento è inopportuno od inadeguato, o ad imitare in modo compulsivo
le azioni dell'interlocutore. Questo comportamento sottolinea la difficoltà a tenere in
considerazione i feedback ambientali, e particolarmente gli indizi a disconferma delle
proprie ipotesi (perseverazione nell'errore).
È interessante notare come questi comportamenti sono normali ed adattativi in età
evolutiva, e costituiscano le modalità di apprendimento più importanti in età preverbale, per poi scomparire in età adulta.
34
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
I disturbi cognitivi compromettono gravemente la capacità dell’individuo di
interagire con i propri simili e con l’ambiente; il paziente non è più in grado di far
fronte in modo adeguato alle richieste poste dal contesto sociale in cui vive; egli
soffre di una limitazione grave delle possibilità di scelta comportamentale e, in
ultima analisi, è costretto a reagire in modo stereotipato agli stimoli complessi e
variegati che la vita quotidiana presenta.
Quando la patologia è diffusa, si assiste al decadimento progressivo delle funzioni
corticali secondo una modalità spesso uniforme, che inizia con disfunzioni attentive e
dei processi mnesici, per giungere a difficoltà di linguaggio, della gestualità
finalizzata e del riconoscimento percettivo fino alla perdita della capacità di analisi
della situazione contestuale e di programmazione del comportamento, che risulta
limitato ad atti afinalistici e strettamente dipendenti dalla natura dello stimolo.
In definitiva l’insorgenza di una sofferenza cerebrale, imponendo una drastica
interruzione delle usuali modalità di interazione individuo-ambiente, comporta non
solo un cambiamento radicale del vissuto personale, dell’autonomia nella vita
quotidiana e della sua qualità, ma anche una alterazione profonda del ruolo che
l’individuo svolge nell’ambito familiare e nel contesto sociale.
Una serie di variabili socio-demografiche ed economiche stanno trasformando la
neuroriabilitazione in una disciplina centrale della medicina, soprattutto nei paesi
industrializzati. L’allungamento della vita media, ad esempio, comporta che l’attesa
di vita dei pazienti colpiti da patologie neurologiche sia assai più lunga che in
passato. I notevoli miglioramenti delle tecniche riabilitative e l’aumento della
scolarizzazione media comportano che pazienti con sequele di patologie
neurologiche possano attingere a potenziali residui più elevati che in passato. La
crescente domanda di interventi riabilitativi è inoltre legata al forte impatto sociale
dei traumi cranici, patologie invalidanti che riguardano, spesso, soggetti giovani.
Il pensiero neurobiologico ha considerato estremamente limitato il potenziale
plastico del sistema nervoso adulto e quindi velleitario ogni tentativo di
riabilitazione.
35
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
Le indagini epidemiologiche hanno sottolineato l’attuale preponderanza delle
disabilità croniche rispetto alle patologie acute e ciò ha indotto ad integrare la
classificazione
internazionale
delle
malattie
(ICD)
con
la
classificazione
internazionale delle menomazioni, disabilità ed handicap (ICIDH), più recentemente
sostituita dall’ICF. Non è più sufficiente che l’intervento sanitario riesca ad
affrontare la fase acuta della malattia; è necessario rivolgere l’attenzione verso le
conseguenze croniche della malattia.
Sebbene il numero di persone che presentano una grave disabilità cognitiva sia
estremamente elevato, raramente a questi pazienti viene offerta la possibilità di
migliorare la qualità della loro vita. Al contrario fino ad anni recenti si è registrato un
atteggiamento terapeutico fortemente rinunciatario alla cui origine può essere
verosimilmente individuato il riferimento culturale a modelli di funzionamento del
sistema nervoso centrale ormai superati ma profondamente radicati e difficili da
sostituire.
Un ostacolo rilevante è cioè rappresentato dallo stereotipo culturale secondo cui non
esisterebbero trattamenti efficaci. Non è ancora divenuta patrimonio conoscitivo
comune la vera rivoluzione copernicana che le nuove acquisizioni delle neuroscienze
hanno determinato anche nel settore riabilitativo.
3.1 Plasticità neuronale
Il concetto di riabilitazione cognitiva riposa sull’accettazione di un assunto
fondamentale: il cervello umano è dotato di un certo grado di adattamento che, in
caso di lesione, permette la riorganizzazione di quei circuiti neuronali responsabili
dei processi cognitivi.
Le recenti acquisizioni delle neuroscienze hanno apportato innovazioni straordinarie
a livello diagnostico e terapeutico, ma la diffusione delle nuove conoscenze sembra
incontrare una serie di ostacoli, tra cui l’indifferenza, timore ed ostilità che colpisce
ogni operatore sanitario di fronte alla complessità dei problemi posti dalle patologie
neuropsicologiche.
La consapevolezza di questo iato crescente tra le conoscenze di base e la loro
applicazione pratica ai problemi di salute della comunità ha rappresentato uno dei
motivi principali che ha indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a sollecitare
36
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
come interesse primario le indagini volte a documentare la reale efficacia della
riabilitazione neuropsicologica.
I dati disponibili hanno determinato una revisione critica di nozioni che sembravano
costituire dogmi immutabili:
•
le cellule nervose sono perenni;
•
il tessuto nervoso è “nobile” e non riproducibile;
•
ognuno nasce con un patrimonio fisso e non sostituibile di neuroni;
•
l’organizzazione anatomofunzionale del sistema nervoso è statica; superato il
periodo evolutivo le possibilità di riorganizzazione subiscono una limitazione
progressiva fino alla stabilizzazione delle configurazioni strutturali in aree
con funzioni specifiche definite.
Una visione così rigida del sistema nervoso precludeva ogni plausibile approccio
teorico alla riabilitazione. Di necessità i primi tentativi di riabilitare i disturbi delle
funzioni cognitive sono stati empirici, privi di un supporto scientifico convalidato: è
impressionante oggi pensare che, soltanto qualche decennio fa, quando non era
pratica di routine la fisioterapia, la grande maggioranza dei pazienti emiplegici
perdeva qualunque autonomia nella deambulazione e restava confinata a letto per
tutto il resto della vita.
L’efficacia della riabilitazione ha quindi fatto da traino per lo sviluppo di ricerche
finalizzate alla comprensione dei meccanismi alla base del recupero da una lesione
cerebrale, ricerche che hanno reso indispensabile introdurre il concetto di plasticità
come proprietà fondamentale del sistema nervoso.
Il concetto di neuroplasticità ha numerose implicazioni teoriche e pratiche:
•
in netto contrasto con le opinioni precedenti, le più recenti indagini sulle
cellule staminali suggeriscono che il cervello è in grado di produrre neuroni
durante tutta la sua esistenza; in ogni caso, la capacità dell’individuo di
modificare il comportamento in rapporto alle mutevoli condizioni ambientali
e di far fronte alle novità ha un correlato fisiologico nella continua
adattabilità della sinapsi, cioè nella capacità della cellula nervosa di stabilire
connessioni funzionali;
37
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
•
le connessioni fra neuroni non sono fissate una volta per tutte ma sono
dinamiche e sempre modificabili tanto da poter affermare che non solo non
possono esistere due cervelli identici, ma che il cervello di un individuo non è
mai esattamente lo stesso da un istante all’altro; le connessioni sinaptiche
danno origine a circuiti di complessità variabile che non sono precostituiti ma
vengono selezionati sotto la spinta delle caratteristiche ambientali di cui il
soggetto fa esperienza diretta;
•
l’unità funzionale del sistema nervoso può essere concepita meglio come una
rete neuronale piuttosto che come singolo neurone; la rete neuronale
corrisponde ad un sistema funzionale costituito da componenti multiple, di
tipo modulare; le singole componenti sono situate in sedi cerebrali distinte ma
interconnesse e possono essere condivise da più sistemi funzionali,
appartenere cioè a più reti che in parte si sovrappongono; maggiore la
complessità del sistema nervoso, maggiore la capacità di riorganizzazione;
naturalmente esistono limiti ben definiti al processo di recupero, ad esempio
la ridotta possibilità di sostituzione di componenti ad alta specializzazione
funzionale.
Brillanti
documentazioni
sulla
neuroplasticità
derivano
dagli
studi
sulla
modificabilità delle mappe cerebrali: la topografia cerebrale può andare incontro a
variazioni sia in seguito ad una defferentazione, da lesione periferica o centrale, che
in seguito all’esercizio, all’apprendimento e alla iperattività funzionale. Le indagini
di imaging funzionale mostrano come la rete neuronale attivata da una determinata
prestazione cognitiva cambia con l’esperienza che il soggetto ha del compito.
Il sistema nervoso è quindi caratterizzato da un meccanismo intrinseco in grado di
consentire un continuo rimodellamento funzionale.
In un sistema così organizzato, il singolo componente perde la sua funzione
strategica e in caso di danno può essere rimpiazzato.
Grazie a questo meccanismo l’ambiente, fisico e sociale, plasma la materia cerebrale
e il sistema nervoso assorbe le caratteristiche dell’ambiente in cui vive.
Le acquisizioni sulla plasticità cerebrale hanno modificato profondamente
l’atteggiamento culturale nei confronti di una serie di condizioni che, in base alle
precedenti teorie sul funzionamento del sistema nervoso, venivano considerate
l’effetto inevitabile di un danno delle strutture cerebrali.
38
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
I due esempi più significativi sono rappresentati dalla possibilità di limitare le
conseguenze negative dell’invecchiamento cerebrale e di recuperare l’efficienza
delle funzioni cognitive danneggiate da una lesione: di fatto né l’età né la patologia
modificano l’attitudine del sistema nervoso di organizzarsi in relazione agli stimoli
che riceve.
3.2 La riabilitazione come apprendimento
Il recupero dopo lesione cerebrale può essere visto come un processo di
apprendimento in condizioni patologiche.
Di conseguenza l’intervento riabilitativo, inteso come l’attuazione di mezzi per
rendere più completo il recupero, deve assumere i caratteri di una condotta di
insegnamento volta a far acquisire al paziente comportamenti che gli permettano di
interagire col mondo in maniera sempre più complessa in rapporto sia alle
caratteristiche di questo sia ai propri scopi.
È nozione comune che l’apprendimento implica cambiamenti funzionali e/o
strutturali nel sistema nervoso. Una rigida applicazione della regola della fissità delle
connessioni nervose in età adulta contrasta con il fatto che l’apprendimento, in
assenza di specifiche patologie, può avere luogo praticamente a qualunque età.
Studi primatologici hanno fornito dimostrazione diretta dei mutamenti nervosi indotti
dall’apprendimento documentando un ampliamento delle aree di rappresentazione
nervosa riguardanti elettivamente strutture coinvolte nell’apprendimento di un
determinato compito.
Se da un lato è chiaro che l’allenamento e la corretta esecuzione di un determinato
compito modificano il sistema nervoso al fine di ottimizzare il compito stesso,
dall’altro comincia ad essere compreso che l’esercizio strenuo ed improprio induce
cambiamenti neurali in senso disorganizzativo e quindi dannoso.
Molti interventi terapeutici in neuropsicologia riabilitativa trovano il loro
fondamento in alcune teorie dell’apprendimento sviluppate nel corso del tempo.
La storia e lo sviluppo della ricerca sul cambiamento cognitivo dell’uomo possono
essere descritti considerando l’importanza e l’influenza reciproca che i diversi
studiosi hanno attribuito ai fattori interni e a quelli esterni di tale evoluzione: cioè se
l’acquisizione di conoscenze, idee e abilità sia frutto dell’influenza dell’ambiente in
cui l’individuo vive oppure se sia determinata esclusivamente da meccanismi interni.
39
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
È possibile condensare questo tema nel rapporto tra apprendimento e recupero, che
ha delle implicazioni importanti nel campo della riabilitazione: porre l’accento sulle
influenze esterne o sui meccanismi interni significa formulare diversi obiettivi di
trattamento e adottare metodiche distinte.
Mentre il comportamentismo rifiuta di considerare rilevanti ai fini della conoscenza i
meccanismi interni all’individuo, e quindi concentra la propria attenzione solamente
sull’apprendimento, il cognitivismo non tiene presenti i fattori esterni e spiega il
cambiamento cognitivo in termini di modificazione di strutture possedute
dall’individuo ( Boscolo, 1997).
Posizioni completamente opposte, quindi, che con l’approfondirsi degli studi in
questo campo trovano una loro collocazione logica e conciliante nella posizione del
costruttivismo,
ma
soprattutto
di
Vygotskij,
che
rifiuta
la
pretesa
del
comportamentismo di identificare l’apprendimento con lo sviluppo, ma allo stesso
tempo
respinge
il
concetto
piagetiano
dello
sviluppo
indipendente
dall’apprendimento: in realtà, apprendimento e sviluppo sono due aspetti
complementari che dialogano continuamente tra loro.
La riflessione sullo stretto rapporto tra esperienza e cognizione ha portato ad
allontanarsi dalle tesi universalistiche di Piaget , per attribuire invece un’importanza
maggiore, e quindi una considerazione più attenta, al ruolo dell’esperienza nello
sviluppo cognitivo, e passare quindi da un’attenzione particolare puntata sul contesto
o sul soggetto, allo studio delle profonde interazioni tra i due fattori.
3.2.1 Comportamentismo
La corrente del comportamentismo prende spunto dagli studi del fisiologo russo
Pavlov (1849 / 1936), anche se elementi di questa teoria possono essere rinvenuti in
Darwin.
Nell’esperimento più famoso condotto dal fisiologo russo, Pavlov
suonava un
campanello ogni volta che porgeva del cibo ad un cane. Ogni volta che il cane
sentiva il campanello sapeva che da lì a poco il cibo sarebbe arrivato, e per tale
motivo iniziava a salivare. Successivamente Pavlov iniziò a suonare il campanello,
ma senza porgere il cibo al cane: nonostante la mancanza di quest’ultimo, il cane
salivava comunque. Questo perché l’animale era stato “condizionato” a salivare al
suono del campanello.
40
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
Pavlov sosteneva che anche l’uomo reagisse agli stimoli secondo lo stesso schema,
definito “condizionamento classico”, e questa idea venne sostenuta e rafforzata da
Watson ( 1878 / 1958 ). Egli fu il primo ad applicare le teorie di Pavlov nel campo
dell’apprendimento umano, affermando che tutti i comportamenti umani, tranne
alcuni riflessi e reazioni emotive innate, fossero fissati attraverso il condizionamento
per mezzo delle associazioni stimolo-reazione.
Fu proprio Watson a coniare il termine “comportamentismo”, perché sosteneva che
la psicologia non era collegata con la mente o la coscienza umana, ma solamente
con il comportamento: in tal modo, l’uomo poteva essere studiato in modo oggettivo,
tanto quanto i ratti e le scimmie.
Le teorie elaborate da Pavlov hanno trovato un forte riscontro nei metodi di
trattamento dei disturbi comportamentali: sono stati sviluppati, seguendo il principio
del “condizionamento classico”, alcuni approcci di intervento basati sul controllo
degli stimoli ambientali, mirati all’apprendimento di nuove abilità e a favorire
l’emissione di comportamenti adeguati con lo scopo di aumentarne la stabilità .
Skinner ( 1904 / 1990 ) riprese gli studi di Watson, affermando a sua volta che i
processi di apprendimento erano osservabili grazie a dei cambiamenti nel
comportamento, senza tenere conto di eventuali cambiamenti avvenuti nella mente.
Egli studiò il “condizionamento operante” nell’apprendimento: secondo questa
teoria, le contingenze ambientali o le reazioni dell’ambiente al comportamento di un
individuo determinano il comportamento dell’individuo stesso. Se la reazione
dell’ambiente è positiva, l’azione che l’ha causata viene rinforzata e quindi è più
probabile che venga ripetuta. Per Skinner chi apprende agisce sull’ambiente che lo
circonda e le reazioni che ne conseguono, positive o negative che siano, sono le fonti
dell’apprendimento: è l’ambiente che seleziona i comportamenti più o meno
funzionali, e le reazioni dell’ambiente alle azioni umane sono un segnale che rinforza
o scoraggia i diversi modi di agire.
Fu proprio Skinner ad introdurre nello studio dell’apprendimento umano i concetti
elaborati dai primi comportamentisti: secondo lui, “l’apprendimento umano, inteso
come induzione di comportameni desiderati, può essere favorito attraverso il
rinforzo positivo” (Skinner, 1954).
Da questa sua affermazione, tratta dall’articolo “the science of teaching and the art
of learning” del 1954, che da l’avvio agli studi behaviouristi nell’apprendimento
umano, si può evincere come l’acquisizione di concetti sia un processo passivo
41
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
controllato dall’esterno (si parla infatti di “induzione”), misurato in base alla
comparsa di comportamenti esteriori ( e non quindi in base a modificazioni a livello
intellettivo e psicologico), che prende il via da un rapporto “positivo” con
l’ambiente: la dinamica che prevale in tale rapporto è quella del trial and error,
denominata da Thorndike come “legge dell’effetto” (1931).
I comportamentisti hanno cercato di spiegare le dinamiche dell’apprendimento senza
indagare i processi mentali sottesi. Nonostante gli esperimenti sull’apprendimento
fossero stati condotti in modo semplificato e incentrati
comportamenti
riflessi
principalmente sui
dell’individuo sottoposto a precisi stimoli, le teorie
comportamentiste si sono diffuse
ed hanno portato a forti generalizzazioni
riguardanti le funzioni di livello superiore.
Skinner, infatti, ha avuto un forte impatto sia sulla psicologia che sulla medicina
riabilitativa: secondo i
comportamentisti ogni comportamento è seguito da una
risposta ambientale le cui caratterisiche, gradevoli o sgradevoli, dipendono dal tipo di
comportamento prodotto, è essenziale dunque che l’apprendimento sia un’esperienza
positiva, dato che qualsiasi associazione emotiva spiacevole può interferire con il
processo.
La mente di chi apprende è considerata una sorta di “scatola nera” all’interno della
quale è impossibile vedere i processi che vi avvengono: quindi risulta inutile evocare
i meccanismi interni per spiegare il comportamento, quando è più facile e dimostrato
come quest’ultimo possa essere determinato dall’esterno in modo lineare.
In base alle ipotesi di Skinner, l’obiettivo della riabilitazione neuropsicologica è di
cambiare o comunque plasmare il comportamento di un individuo con lesione
cerebrale servendosi di “rinforzi” o “punizioni”: in altre parole le metodologie
comportamentistiche intervengono applicando tecniche in grado di modificare
comportamenti inadeguati nell’interazione ambientale e sociale, dove ogni intervento
è finalizzato a modificare la frequenza, la durata o la locazione di determinati
comportamenti attraverso il variare sistematico delle condizioni ambientali.
Tale approccio è caratterizzato da un esiguo, se non assente, numero di gradi di
libertà del paziente, fattore che ha dei risvolti positivi e negativi. La debolezza del
metodo risiede nel fatto che il paziente può trovarsi in una situazione in cui lo
“stimolo” che dovrebbe portare all’adozione di comportamenti desiderati, di cui parla
Skinner, viene a mancare e di conseguenza l’apprendimento non avviene.
D’altra parte è anche vero che un approccio di questo tipo può essere utile durante
42
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
la seduta terapeutica, in quanto richiede un basso grado di processamento delle
informazioni.
Una delle leggerezze compiute dal comportamentismo è stata quella di generalizzare
le teorie ricavate dall’osservazione di esperimenti di basso livello di apprendimento,
basati principalmente sui riflessi, applicandole a funzioni di più alto livello, nelle
quali vengono chiamati in causa altri processi più complessi. L’influenza delle teorie
darwiniane emerge dal fatto che il processo di apprendimento altro non è che un
adattamento all’ambiente circostante, che tramite le risposte alle nostre azioni su di
esso ci fornisce degli stimoli che ci inducono a ripetere o ad abbandonare il
comportamento fonte dello stimolo.
Inoltre, nell’approccio comportamentista sono assenti due aspetti importanti:
1) un interesse verso il meccanismo utilizzato dall’individuo per apprendere il
processo completo: studi successivi, infatti, hanno dimostrato che un
processo complesso non può essere appreso semplicemente scomponendolo
in elementi e insegnando i sottoprocessi senza considerare il conteso
all’interno del quale il processo avviene.
2) un interesse verso la significatività della tematica appresa per l’individuo:
se il processo appreso è in conflitto con la conoscenza già posseduta
dall’individuo, quest’ultimo può risolvere tale discrepanza o non riuscendo
ad accomodare 1 la nuova conoscenza in modo significativo alle proprie
strutture mentali, oppure costruendo strutture conoscitive parallele a quelle
possedute o in conflitto con esse.
Il comportamentismo si presenta quindi come una sorta di “addestramento” piuttosto
che come processo di apprendimento.
3.2.2 Cognitivismo
Attorno agli anni Settanta, nell’ambito delle teorie del condizionamento operante, ha
assunto molta importanza lo studio dell’apprendimento e si è così cercato di
1
Per accomodamento si intende, secondo Piaget, il momento in cui i dati provenienti dall’esperienza
modificano la struttura mentale dell’individuo adattandola alle loro caratteristiche (Vygotskij, Piaget,
Bruner, “concezioni dello sviluppo” a cura di Liverta Sempio O., 1998)
43
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
stabilirne le principali regole, come, ad esempio, se è più utile un apprendimento
massivo o distribuito o il rapporto ideale tra il numero di stimoli e rinforzi.
L’affermarsi della psicologia cognitivista, che veniva ad affiancarsi e a superare le
impostazioni comportamentiste, è valso ad attirare l’attenzione degli studiosi dei
prodotti del sistema nervoso centrale dell’uomo, sulla necessità di tener presente
come oggetto di studio, oltre agli input e agli output del sistema, anche i processi che
avvengono all’interno di esso, processi che fino ad allora non erano ritenuti possibili
come oggetto di studio.
La psicologia cognitivista ha sottolineato alcune nozioni che rivestono la massima
importanza nell’analisi dell’organizzazione del comportamento, quali i processi
cognitivi, il concetto di schema, la definizione di attenzione e di memoria a lungo e a
breve termine, vista quest’ultima come sede delle operazioni di organizzazione del
comportamento.
Questa impostazione nello studio dell’attività umana è stata significativa, almeno in
parte, per far riflettere anche il riabilitatore sulla reale correttezza di proposte
operative che rimandavano ad un secondo tempo in riferimento ai processi di
elaborazione che nella realtà erano contemporanei al movimento.
Fino al 1970 la maggior parte dei neurofisiologi studiava prevalentemente il
funzionamento del singolo elemento (neurone, sinapsi) o più gruppi di elementi
indipendentemente dall’attività dell’animale. Infatti, la maggior parte delle ricerche
era condotta nell’animale inferiore e per lo più decerebrato, cioè posto in condizioni
di non programmare il suo movimento e di elaborarlo sulla base di finalità presenti al
suo sistema nervoso centrale. Gli studi di questo tipo hanno condotto a notevoli
acquisizioni per quanto riguarda la conoscenza dei circuiti riflessi a partenza
muscolare e dei meccanismi di integrazione nel senso sherringtoniano del termine,
non sono però riusciti, se non in maniera assai ridotta, ad evidenziare e specificare i
rapporti con i livelli superiori.
Intorno agli anni Settanta un numero maggiore di fisiologi prende a studiare l’attività
motoria in un modo più globale ricorrendo con maggiore frequenza ad animali
superiori, conducendo gli studi su animali integri, senza sezioni a carico del sistema
nervoso centrale, non anestetizzati e addestrati a determinati compiti, cioè ad attivare
comportamenti finalizzati che potessero essere oggetto di studio.00000000I vecchi
concetti dell’attività motoria riflessa come mattone del comportamento, vengono
44
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
superati quando il fisiologo riesce a dimostrare che l’attivazione del circuito riflesso
è in relazione con l’intenzionalità di chi si muove e con la finalità del movimento.
Altri parametri del movimento prima trascurati perché ritenuti soggettivi e quindi
non sufficientemente quantificabili, vengono ritenuti fondamentali per spiegare
l’intervento del sistema nervoso centrale nell’organizzazione del comportamento.
Sulla spinta delle osservazioni critiche derivate dalla psicologia cognitivista, il
comportamento viene ora proposto come lo studio dei processi messi in atto da un
sistema che interagisce con l’ambiente secondo le proprie necessità, dove l’attività
umana viene a rappresentare l’oggetto dell’intervento riabilitativo. Il recupero è
considerato come la conseguenza dell’attivazione di una serie di processi cognitivi e
quindi di funzioni nervose superiori: migliore la loro integrazione, migliore il
recupero. Fondamentale è la conoscenza dei processi che strutturano le contrazioni in
sequenze significative all’interno di un contesto relazionale.
Dal momento che si parla di apprendimento, bisogna considerare ovviamente le
funzioni cognitive di base o di servizio, come ad esempio le funzioni esecutive,
l’attenzione, la memoria, la percezione e sensazione, il linguaggio, le associazioni,
nonché la plasticità del sistema nervoso centrale e i meccanismi di riparazione.
Un’analisi del movimento di tipo pragmatico che tenga conto non solo delle
caratteristiche fenomeniche del movimento e delle alterazioni in loro indotte dalla
patologia, ma soprattutto delle necessità del paziente oltre che delle caratteristiche
dell’ambiente col quale deve interagire, conduce alla definizione che l’oggetto
dell’intervento riabilitativo può essere ritenuto il recupero dell’adattabilità, intesa
come capacità di interagire e possibilità di adeguare alle necessità informative la
relazione con il mondo esterno. Inoltre, se si ritiene che il movimento debba essere
analizzato come elemento in grado di permettere la conoscenza del mondo, è
indispensabile perfezionare la comprensione del suo ruolo: interagire con l’oggetto
non è equivalente a ricostruire meccanicamente l’oggetto nella mente, operazione
peraltro impossibile, ma significa in ogni caso interpretare l’oggetto in funzione delle
proprie necessità.
Esiste un’importante differenza di impostazione tra un programma di trattamento dal
punto di vista del comportamento, e quello relativo all’apprendimento. Una strategia
comportamentale è essenziale nelle prime fasi della riabilitazione, quando la lesione
cerebrale evolve nel corso del processo di recupero; in ogni caso, se gli approcci
terapeutici vengono diretti soltanto alla sintomatologia della lesione (per esempio
45
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
occupandosi della memoria o dell’attenzione, controllando le risposte agli stimoli
ambientali), allora non vengono proposte quelle attività indispensabili al
raggiungimento delle abilità necessarie per consentire risultati funzionali ottimali e
permanenti. La determinazione delle abilità richieste, si svilupperà dall’interazione
dei deficit organici e cognitivi, e dal modo in cui questi limitano la capacità
dell’individuo di occuparsi della cura di se sesso, il grado di dipendenza fisica dagli
altri e l’adattabilità psicosociale nell’occuparsi di attività produttive, importanti dal
punto di vista sociale.
Inerente alle abilità richieste vi è quella di acquisire un comportamento pratico ed
esperto.
Come per tutti, per un individuo con lesione cerebrale il comportamento pratico ed
esperto consiste nell’esperienza e nella capacità di eseguire i compiti della vita
quotidiana. L’esperienza è l’abilità di raggiungere in modo costante un obiettivo, in
un’ampia varietà di condizioni. La capacità di risolvere i problemi e di generalizzare
le nuove situazioni si basa sulla capacità di apprendimento dell’individuo, che indica
l’efficienza nell’organizzare le risorse interiori disponibili, per creare e controllare
soluzioni che portano ad interazioni significative tra lui e l’ambiente.
3.2.3 Conclusioni
Sono stati fatti molti tentativi per descrivere i processi dell’apprendimento umano,
teorie
affascinanti,
tanto
più
interessanti
perché
possiamo
verificarle
quotidianamente, anche riflettendo sulle esperienze di apprendimento che abbiamo
vissuto nella nostra vita.
Ma la domanda che ora è necessario porsi è se esiste una teoria dell’apprendimento
migliore e più efficace delle altre, e quindi quali possono essere i metodi migliori per
applicare tale teoria nell’ambito riabilitativo.
Il fatto è che la lesione cerebrale può dare origine ad un’ampia varietà di disturbi
comportamentali, che vanno però indagati sulla base delle caratteristiche individuali,
tenendo in considerazione una serie di fattori soggettivi che possono favorire od
ostacolare il processo di recupero. Non è quindi possibile generalizzare gli interventi
e non è altrettanto auspicabile ottenere gli stessi risultati funzionali se si considera
l’individuo nella sua globalità.
46
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
3.3 La riabilitazione neuropsicologica
La lesione cerebrale può dare origine a comportamenti “bizzarri” che vengono
solitamente interpretati come reazioni psicologiche, anziché come una conseguenza
inevitabile della lesione, creando un circolo vizioso che conduce spesso alla
esclusione del paziente dal contesto in cui vive. In generale i deficit cognitivi
possono avere conseguenze molto più devastanti sul comportamento quotidiano
rispetto ai deficit di moto o di senso; tuttavia il problema comportamentale non è
immediatamente rilevabile e compare solo al momento dell’interazione sociale.
La maggior parte delle difficoltà incontrate dai soggetti che hanno subito un trauma
cranico vengono attribuite dai familiari ad un cambiamento generale del carattere,
ma sono in effetti la conseguenza di alterazione dei processi attentivi e della perdita
delle strategie di analisi e programmazione che richiedono l’integrità funzionale dei
lobi frontali. In questo senso bisogna considerare che vittima della lesione cerebrale
non è solo il paziente ma anche la sua famiglia.
Non poco aiuto deriva ai conviventi da una migliore comprensione del
comportamento del paziente e della influenza che su di esso possono esercitare le
modificazioni del contesto, di cui fanno parte in prima istanza proprio i conviventi;
informare che le prestazioni cognitive e gli aspetti emotivo-affettivi seguono
determinate regole, che la lesione ha provocato una riduzione di vario grado delle
possibilità di scelta comportamentale (fino al limite di una sola possibilità) e che
generalmente il paziente fornisce la migliore risposta che ha a disposizione in quella
determinata
situazione
può
abbattere
alcune
barriere
che
ostacolano
la
comunicazione con il paziente; suggerire la inopportunità di atteggiamenti derivanti
dal continuo confronto con le abilità e le caratteristiche comportamentali che si
conoscevano prima della lesione o dall’applicazione degli stessi criteri di giudizio
usati in precedenza, quando si dava per scontato che il comportamento fosse la
conseguenza di una scelta volontaria e spontaneamente modificabile, può aiutare a
limitare il manifestarsi di condotte problematiche.
Un corollario di grande rilievo è rappresentato dalla riabilitazione nella cronicità;
sono sempre più numerose le documentazioni di miglioramenti funzionali
significativi in soggetti con lesione insorta da molti anni grazie alla utilizzazione di
piani riabilitativi individualizzati. Per il recupero sembra cioè più importante il tipo
di strategia riabilitativa che il tipo di lesione.
47
3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi
Se il comportamento può essere considerato un imperativo neurologico, nella
relazione cervello-ambiente la variabile dipendente è il cervello; la plasticità, che
caratterizza l’individuo nella sua singolarità ha la sua massima espressione in età
evolutiva, ma si mantiene per tutta la vita, anche in età geriatrica, e non viene persa
nemmeno in caso di patologia.
La perenne modificabilità delle mappe cerebrali è la migliore garanzia delle
possibilità di successo della riabilitazione neuropsicologica, un settore delle
neuroscienze che appare ormai affrancato dall’empirismo, pur solido, su cui aveva
fondato le sue origini ed ha acquisito un suo corpus dottrinario che ne giustifica la
prassi, permettendo di superare lo scetticismo che effettivamente appariva
giustificato sulla base delle conoscenze teoriche antecedenti.
Allo stato attuale delle conoscenze, la riabilitazione neuropsicologica assume un
ruolo decisivo nel progetto di salute di ogni soggetto che soffra di una disabilità
cognitiva.
48
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale
In questo capitolo sarà descritta la metodologia dell’intervento riabilitativo nei
pazienti con sindrome frontale, degenti durante la fase postacuta in un ospedale di
riabilitazione.
Il progetto proposto è inserito all’interno di un più ampio protocollo di riabilitazione
neurologica che vede l’intervento interdisciplinare di numerose figure professionali:
medici neurologi e fisiatri, infermieri, fisioterapisti, logopedisti, psicologi e assistenti
sociali.
L’obiettivo generale dell’intervento, in accordo con la nuova concettualizzazione
delle disabilità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (2003), che tiene conto per
la prima volta anche di fattori ambientali, è quello di fare regredire le menomazioni
psichiche, le limitazioni delle attività e le riduzioni della partecipazione attraverso
interventi diagnostici, prognostici e riabilitativi.
L’ESAME NEUROPSICOLOGICO
L’esame neuropsicologico fornisce informazioni sul comportamento, le capacità
cognitive, la personalità, le abilità apprese e il potenziale riabilitativo delle persone
che hanno subito una lesione cerebrale.
Il suo obiettivo è quello di rilevare le manifestazioni comportamentali delle funzioni
cerebrali, siano esse compromesse o preservate.
La sua metodologia richiede l’utilizzo di tecniche specializzate nella relazione
comportamento-cervello.
L’esame neuropsicologico tiene conto di tre dimensioni del comportamento:
•
le funzioni cognitive;
•
le funzioni esecutive;
•
l’emozione e la motivazione;
e di una attività mentale:
•
la consapevolezza o coscienza.
49
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale
La
valutazione
neuropsicologica
si
basa
su
un’osservazione
clinica
multiprofessionale.
Essa contribuisce:
•
a determinare la diagnosi neuropsicologica;
•
a completare la diagnosi neurologica, supportandone la diagnosi
differenziale;
•
a individuare la prognosi clinica generale;
•
a strutturare il progetto riabilitativo integrato;
•
a sviluppare il programma di riabilitazione neuropsicologica;
•
a fornire al paziente e alla famiglia indicazioni sulle abilità compromesse e su
quelle residue, per poter riadattare in modo congruente le aspettative e gli
obiettivi per il futuro, nonché le strategie di compenso;
•
a fini assicurativi e legali.
Nella sindrome frontale è opportuna una valutazione di minima di tutte le funzioni
corticali superiori ed una valutazione specifica delle funzioni esecutive.
L’esame neuropsicologico si avvale dei seguenti strumenti:
•
l’intervista;
•
l’osservazione;
•
i test neuropsicologici standardizzati.
L’esame neuropsicologico sarà preceduto da una preliminare consultazione di: referti
neuroradiologici; anamnesi medica generale e neurologica in particolare; relazioni
cliniche e scolastiche.
L’INTERVISTA NEUROPSICOLOGICA
L’intervista neuropsicologica ha lo scopo di rilevare:
•
la storia personale: educativa, familiare, occupazionale, cognitiva, sociale,
medica, psicologica;
50
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale
•
la descrizione soggettiva dei disturbi cognitivi;
•
la motivazione e la presenza di apatia;
•
l’emozione e la presenza di disturbi emotivi;
•
l’autocontrollo e la presenza di disinibizione, aggressività e altri disturbi da
discontrollo comportamentale;
•
l’esame di realtà e la presenza di disturbi tipo psicotico (deliri e
allucinazioni) o pseudopsicotico (paramnesie reduplicative, confabulazioni,
allucinosi);
•
la personalità premorbosa e la presenza di modificazione della personalità;
•
i livelli di consapevolezza dei disturbi e la presenza di anosognosia,
meccanismi di negazione o altre alterazioni della consapevolezza;
•
l’impatto della menomazione, le limitazioni dell’attività, la riduzione della
partecipazione, il grado di disadattamento;
•
le relazioni familiari.
Infine, il primo colloquio neuropsicologico ha una funzione fondamentale: quella di
porre le basi per iniziare a costruire una collaborazione e una relazione terapeutica
con il paziente.
L’intervista neuropsicologica è uno strumento essenziale della valutazione
neuropsicologica; sebbene sia strutturata per aree di approfondimento, viene condotta
in modo flessibile, non ha una forma rigida e fissa e segue il tema proposto dal
paziente .L’intervista neuropsicologica deve essere trascritta su un modulo specifico,
per poter essere conservata e facilmente consultata.
L’OSSERVAZIONE
L’osservazione del comportamento è il fondamento della valutazione psicologica.
Viene effettuata secondo quattro modalità:
1. indiretta: comportamenti riferiti da familiari, medici, terapisti; interviste; liste
comportamentali;
2. indiretta strutturata: questionari di self report o di eterovalutazione;
3. diretta informale: comportamenti emersi durante l’intervista e i test;
51
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale
4. diretta strutturata: monitoraggio e scheda di osservazione di un comportamento
specifico; test neuropsicologici non standardizzati.
I TEST NEUROPSICOLOGICI
I test neuropsicologici rilevano le funzioni e i deficit cognitivi:
•
la memoria e l’amnesia;
•
l’attenzione e disturbi dell’attenzione
•
la percezione e le agnosie;
•
la cognizione spaziale e i disturbi spaziali;
•
il linguaggio e le afasie, dislessie, disortografie;
•
il sistema dei numeri e del calcolo e le discalculie;
•
le funzioni esecutive o di controllo e le sindromi disesecutive;
•
il pensiero, le funzioni intellettive superiori e il loro deterioramento;
Nessun test neuropsicologico è una misura pura di una specifica funzione o processo
cognitivo, poiché ciascuno di essi attiva molteplici abilità cognitive. I test di
memoria ed esecutivi operano sempre anche su una funzione neuropsicologica
strumentale.
Non è possibile misurare una funzione cognitiva somministrando uno o due test;
l’individuazione
di
un
deficit
cognitivo
avviene
attraverso
l’analisi
multidimensionale delle prestazioni a un gruppo di test selezionati man mano, in base
alle prestazioni individuali.
Criteri di selezione dei test neuropsicologici
Attualmente sono disponibili numerosi test neuropsicologici per le differenti funzioni
cognitive, molti dei quali, nel nostro Paese, standardizzati.
I test neuropsicologici iniziali o di screening vanno scelti in base alle seguenti
variabili:
52
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale
•
dati anagrafici: età, scolarità, professione e caratteristiche socioculturali del
paziente;
•
natura o eziologia della malattia: vascolare, traumatica, degenerativa,
tumorale, dismetabolica;
•
tempo intercorso dall’esordio, fase della malattia (acuta, postacuta), esiti
oppure stato evolutivo (iniziale, intermedio, terminale); tipo di decorso della
malattia: progressivo, cronico, regressivo;
• motivo dell’esame: diagnostico, prognostico, riabilitativo, legale.
I test di approfondimento vengono selezionati in base ai risultati dei test iniziali o di
screening.
Per ciascun test devono essere registrati, nell’apposita scheda di notazione:
•
la risposta;
•
il tempo impiegato;
•
gli errori autocorretti;
•
le risposte perseverative;
•
l’inchiesta dell’esaminatore;
•
le facilitazioni;
•
le risposte successive;
•
l’attenzione;
•
La motivazione e la collaborazione allo svolgimento del test;
•
la presenza di risposta catastrofica o di ansia da prestazione.
53
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale
TEST NEUROPSICOLOGICI NELLA SINDROME FRONTALE
Inibizione di imitazione e perseverazione
AMI
Flessibilità di risposta automatica
STROOP TEST
Flessibilità di risposta
WCST TRAIL MAKING TEST
Giudizio
GIUDIZI VERBALI MPR 38
STIME COGNITIVE
Classificazione
WEIGL’S SORTING TEST
Pianificazione e strategie
TEST DI FLUENZA
TORRE DI LONDRA
Pianificazione e apprendimento
FIGURA DI REY
Working
RIP.
memory
Consapevolezza
INVERSA
DI
CIFRE
SCALA DI OSSERVAZIONE
DEL COMPORTAMENTO
54
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale
PROTOCOLLO DI RIABILITAZIONE
La plasticità cerebrale in seguito a lesione corticale è ampiamente documentata anche
in individui adulti. Affinché i processi di riorganizzazione corticale abbiano luogo,
l’ambiente deve fornire una specifica stimolazione volta a compensare i deficit.
Oggetto della riabilitazione è creare questa stimolazione ambientale con un
approccio olistico e individualizzato, che risponda ai bisogni cognitivi, emotivi e
motivazionali del paziente.
Lo scopo dell’intervento riabilitativo è migliorare l’adattamento funzionale del
paziente nonostante il danno cerebrale subito.
I disturbi neuropsicologici trattati sono:
1. di tipo cognitivo, quali agnosia, aprassia, amnesia, discalculia, deficit di
attenzione;
2. di tipo emotivo-motivazionale (detti anche affettivi o neuropsichiatrici), quali
inerzia, apatia, labilità, irritabilità, depressione, ansia;
3. di tipo esecutivo (detti comportamentali o frontali), quali disinibizione, riduzione
del controllo, incapacità di critica, rigidità, disorganizzazione, difficoltà a
risolvere i problemi;
4. la mancanza di consapevolezza, l’anosognosia.
In questa prima fase dell’intervento si integra la diagnosi neuropsicologica e le
associazioni e dissociazioni con la menomazione, disabilità e le limitazioni.
Si
effettua
un’analisi
cognitiva
e
comportamentale
del/i
disturbo/i
neuropsicologico/i:
•
per i disturbi cognitivi si inizia individuando i processi alterati e preservati
sottostanti la funzione cognitiva da riabilitare, con l’utilizzo di test cognitivi
tratti o modificati da studi sperimentali pubblicati in riviste scientifiche del
settore ;
•
per le alterazioni esecutive e della motivazione vengono eseguite delle
osservazioni dirette e indirette sui livelli di motivazione, iniziativa e
partecipazione del paziente al programma riabilitativo, sull’adeguatezza della
55
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale
condotta sociale, sulla capacità di inibizione e controllo, sulla fluidità/rigidità
del pensiero e del problem-solving. Queste osservazioni durano per tutto il
periodo del trattamento.
•
per il funzionamento emotivo si individuano, per mezzo del colloquio
psicologico individuale, l’organizzazione di personalità del paziente,
l’adattamento psicologico alla nuova realtà, la presenza e l’entità di disturbi
emotivi (labilità, irritabilità, ansia, depressione, mania), l’eventuale
modificazione di personalità intercorsa, la qualità delle relazioni familiari.
La consapevolezza del disturbo neuropsicologico, la relativa reazione e
partecipazione emotiva vengono costantemente monitorate con l’osservazione e il
colloquio.
Successivamente si integrano i dati raccolti, si individuano le disabilità, le limitazioni
dell’attività e le riduzioni della partecipazione, conseguenti ai disturbi e alle
menomazioni neuropsicologiche oggetto di riabilitazione.
I dati vengono quindi codificati con il sistema di Classificazione Internazionale del
Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) dell’OMS (2003).
L’integrazione tra disturbo neuropsicologico, menomazione, disabilità e limitazioni
viene riassunta in una scheda predefinita.
OBIETTIVI
L’obiettivo generale della riabilitazione è quello di favorire una maggiore autonomia
(ridurre le limitazioni) e integrazione psicosociale dell’individuo (aumentare la
partecipazione).
Si tenta di raggiungere l’obiettivo generale prefiggendo dei sottobiettivi specifici, che
abbiano una valenza “ecologica” nella vita della persona.
Gli obiettivi sono formulati per stadi di riabilitazione:
1. l’obiettivo iniziale prevede di rendere il paziente consapevole delle proprie
limitazioni, e di stimolarne un ruolo attivo;
2. la seconda fase prevede un intervento di rieducazione e di compenso per i disturbi
cognitivi e comportamentali, e un intervento psicoterapeutico sui disturbi
emotivi;
56
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale
3. la terza fase prevede la generalizzazione delle strategie di compenso
nell’ambiente.
Necessariamente queste tre fasi si sovrappongono nel percorso riabilitativo.
METODI TERAPEUTICI
La riabilitazione nei disturbi frontali prevede un trattamento riabilitativo olistico, che
consenta cioè di gestire in maniera sistematica ed integrata le problematiche di tipo
cognitivo, emotivo e comportamentale e le difficoltà di inserimento sociale.
La metodologia terapeutica è il mezzo con il quale raggiungere l’obiettivo, ha le sue
radici nelle scienze cognitive e nel comportamentismo e può essere schematizzata nei
seguenti interventi.
•
Metodi cognitivi: stimolazione specifica di un processo cognitivo leso
Viene facilitato l’accesso a un’informazione che è relativamente intatta, ma
inaccessibile.
Stimolazione e riadattamento funzionale di moduli cognitivi preservati, o
abilità residue, e superamento degli effetti inibitori.
Vengono sviluppate nuove abilità, coinvolgendo differenti processi cognitivi,
per svolgere una determinata funzione.
•
Tecniche comportamentiste: costituiscono lo strumento con il quale
implementare i metodi cognitivi e affrontare i disturbi comportamentali da
disfunzione esecutiva e dell’autocontrollo; tramite esse, vengono riaddestrate
le procedure per eseguire un determinato compito (condizionamento
operante, task analisi, fading, shaping, chaining, modeling, condizionamento
classico e apprendimento senza errori).
•
Psicoterapia cognitiva individuale adattata al paziente cerebroleso (detta
neuropsicoterapia): prevede prevalentemente l’uso del problem solving,
l’automonitoraggio, la ristrutturazione cognitiva, i colloqui guidati per il
recupero della consapevolezza.
•
Modificazione ambientale e intervento protesico: viene strutturata una
modificazione dell’ambiente, fornendo un aiuto dall’esterno.
57
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale
La scelta degli obiettivi e della metodologia dipende dall’integrazione di diversi
fattori:
•
il tipo di disturbo cognitivo-comportamentale e il relativo impatto sul
funzionamento quotidiano;
•
il tipo di lesione cerebrale: sede e natura;
•
le risorse cognitive risparmiate dalla lesione e le abilità residue;
•
l’abilità di apprendere nuove strategie;
•
la funzionalità esecutiva per generalizzare le strategie e per risolvere
problemi quotidiani in situazioni reali;
•
l’analisi delle funzioni cognitive necessarie allo svolgimento di un’abilità;
•
le differenze individuali che possono contraddire le previsioni formulate in
base a studi di gruppi o alle analisi statistiche;
•
il contesto socioculturale ed educativo;
•
le competenze cognitive premorbose;
•
la personalità e l’adattamento psicologico premorboso;
•
la consapevolezza del disturbo, dell’impatto e della disabilità;
•
la reazione emotiva manifestata in seguito alla lesione cerebrale;
•
la motivazione essenziale e al trattamento;
•
la modificazione della personalità intercorsa;
•
la disabilità globale e le conseguenze psicosociali individuali;
•
la qualità del supporto familiare.
DURATA DELL’INTERVENTO
La durata del trattamento viene necessariamente condizionata, più che dal
raggiungimento dell’obiettivo, dalla durata della degenza, che raramente supera i due
mesi. Quando l’obiettivo proposto non è stato raggiunto a fine degenza, si propone
una riabilitazione in day-hospital o si demanda ad altra struttura.
58
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale
VERIFICA DEI RISULTATI
La modificazione delle menomazioni e delle limitazioni del paziente viene
monitorata costantemente dal responsabile del programma di riabilitazione
neuropsicologica, che valuta se i cambiamenti sono quelli attesi o se è necessario
modificare tecniche di intervento od obiettivi.
Alla fine del trattamento riabilitativo viene effettuata una valutazione di controllo
utilizzando gli stessi strumenti impiegati nella fase di analisi del disturbo (che
possono essere test cognitivi, questionari o sessioni strutturate e graduate di
osservazione), e vengono analizzati i risultati.
I dati vengono quindi codificati con il sistema di Classificazione Internazionale del
Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) (OMS, 2003).
I risultati del trattamento vengono poi trasformati in indicatori di efficacia.
OPERATORI COINVOLTI
L’esecuzione della riabilitazione richiede l’intervento di numerosi operatori
professionali, in particolare quando deve essere aumentata l’autonomia nelle attività
di vita quotidiana o devono essere modificati comportamenti disfunzionali: il
neuropsicologo, il fisioterapista, il logopedista e il personale di reparto.
Le ricerche e le osservazioni cliniche dimostrano che la famiglia gioca un ruolo
essenziale e insostituibile all’interno del processo riabilitativo, e che esiste una
relazione tra l’efficacia dell’intervento riabilitativo e la capacità della famiglia di
adattarsi all’evento cerebrale.
Lo scopo dell’intervento con la famiglia è sia quello, iniziale, di acquisire
informazioni anamnesiche e osservazioni indirette, che quello di informare/formare e
assistere la famiglia sulle problematiche neuropsicologiche del congiunto.
L’intervento è rivolto ai caregiver ed eventualmente allargato ad altre persone che
hanno una relazione costante con il paziente.
Il familiare, se disponibile, viene direttamente coinvolto nel programma di
riabilitazione,
messo a conoscenza degli obiettivi, addestrato alla gestione dei
disturbi cognitivi comportamentali del paziente e sulle modalità di interazione da
tenere per favorire il recupero nelle varie fasi del processo riabilitativo.
59
4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale
Se necessario, prima della dimissione, viene effettuata una consulenza a operatori
sociali, insegnanti o chiunque venga coinvolto nel percorso di programmazione del
reinserimento sociale, lavorativo o scolastico.
Il progetto illustra come il terapista, avvalendosi di metodi e strumenti che spaziano
dalle neuroscienze alla psicologia generale, dal cognitivismo alla psicoterapia
cognitiva e comportamentale, dalla neuropsicologia alla psicologia clinica, possa
contribuire a costruire un intervento integrato e olistico, mirato a ridurre non solo le
menomazioni conseguenti la lesione cerebrale, ma anche le limitazioni dell’attività e
le riduzioni della partecipazione, come è indicato dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS, 2003).
I protocolli presentati sono frutto di un’esperienza decennale di presa in carico delle
problematiche cognitive, emotive e comportamentali del paziente cerebroleso
inserito all’interno di un’unità di riabilitazione
Vorrei soffermarmi sulla valenza interdisciplinare del progetto; il programma
neuropsicologico non è un’isola a sé stante, ma acquista valore nel momento in cui è
integrato dal contributo di altri diversi programmi riabilitativi, aventi tutti il
medesimo scopo di far raggiungere al paziente cerebroleso la migliore indipendenza
funzionale possibile.
60
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
I deficit cognitivi rappresentano, molto spesso, la più grave causa di disabilità nei
pazienti che hanno subito un danno cerebrale. Quando l’obiettivo ottimale di
ripristino della funzione lesa non può essere raggiunto, lo scopo di una riduzione
della disabilità o dell’handicap deve comunque essere perseguito.
Un problema spesso presente in ambito riabilitativo è quello della valutazione della
sua efficacia.
In effetti, al di là di un “sapere” riabilitativo basato su più o meno validi presupposti
teorici ed esperienza personale, si fa sempre più pressante la richiesta di una
valutazione di efficacia che risponda ai principi della medicina basata sull’evidenza.
Diversi sono i problemi che nascono quando si voglia esprimere un giudizio
obiettivo sui contributi che la letteratura scientifica produce a tale riguardo. Ci sono,
infatti, tutta una serie di variabili da prendere in considerazione nella valutazione
dell’efficacia del trattamento riabilitativo.
Una di esse è il tipo di intervento riabilitativo a cui i pazienti sono sottoposti. Oltre
allo specifico tipo di trattamento (che può variare in funzione non solo dello
specifico problema presentato dal paziente ma anche in base alla diversa “scuola”
riabilitativa), altri fattori potenzialmente in grado di incidere in maniera significativa
sull’outcome del deficit cognitivo sono il diverso grado di esperienza / competenza
dei singoli team riabilitativi e/o operatori, così come la durata e frequenza delle
sessioni riabilitative.
Un’altra variabile da prendere in considerazione è la tipologia del paziente sottoposto
al trattamento. Proprio perché il deficit cognitivo non può essere concepito secondo
una dicotomia tutto/nulla ma può variare nei suoi aspetti sia qualitativi che
quantitativi, la valutazione di efficacia di un trattamento, così come il confronto tra
singole metodiche riabilitative, dovrebbe tener conto della variabilità interindividuale
dei pazienti afferenti ai vari studi.
C’è da rilevare, peraltro, che la variabilità nella tipologia dei pazienti è anche da
ricercare sia nelle caratteristiche socio-anagrafiche dei pazienti (con un relativo
maggior beneficio dal trattamento riabilitativo nei pazienti più giovani) sia nel
diverso stadio evolutivo del deficit (acuto, subacuto, cronico), con una suscettibilità a
61
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
trarre giovamento dal trattamento riabilitativo che si va via via riducendo man mano
che ci si allontana dal momento di insorgenza del deficit stesso.
Un ultimo elemento da tenere in considerazione quando si vogliano trarre, dalla
letteratura scientifica disponibile, elementi di giudizio circa l’efficacia della
riabilitazione cognitiva riguarda il tipo di disegno sperimentale.
La variabilità tra i vari studi riguarda, in questo caso, i target di outcome considerati,
il tipo di randomizzazione dei pazienti afferenti al trattamento sperimentale e,
soprattutto, la tipologia della condizione di controllo. Questa potrà essere
rappresentata da nessun tipo di trattamento (nel qual caso l’eventuale beneficio della
condizione sperimentale potrebbe essere la mera espressione di un’aspecifica
attivazione cognitiva), un trattamento aspecifico (che evita il problema sopradetto ma
che non ci dà alcuna informazione circa l’efficacia di una metodica riabilitativa
rispetto ad un’altra) o, infine, un altro trattamento riabilitativo (rappresentando, in
questo caso, un reale confronto di metodiche riabilitative).
In questo capitolo sono riassunti i risultati di una serie di meta-analisi condotte sugli
studi
sperimentali
relativi
alla
riabilitazione
dei
più
frequenti
disturbi
neuropsicologici conseguenti a lesione dei lobi frontali.
I risultati sono relativamente incoraggianti riguardo l’efficacia della riabilitazione
cognitiva.
Ulteriori dati sperimentali si rendono, tuttavia, necessari soprattutto per documentare
l’efficacia di tali metodiche nel migliorare l’autonomia dei pazienti nella vita di tutti i
giorni
5.1 Riabilitazione dei disturbi delle funzioni esecutive
La letteratura neuropsicologica clinica attribuisce alle funzioni esecutive il più alto
livello delle abilità cognitive come l’attenzione, la fluidità e flessibilità di pensiero
nella generazione di soluzioni a nuovi problemi, la pianificazione e regolazione
adattiva e il comportamento finalizzato.
Le alterazioni delle procedure esecutive, come è noto, producono disfunzioni nei
compiti di governo, di elaborazione, di coordinazione di tutte le funzioni cerebrali,
sia basiche che strumentali, nonché disturbi del comportamento, delle capacità
logiche, di giudizio astratto e di problem-solving.
62
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
Nell’ambito della patologia tali disturbi possono manifestarsi con varie modalità e in
varie combinazioni. Contestualmente si osservano anche disturbi della capacità di
elaborazione logico-astratta e di generalizzazione, che si riflettono anche nella
qualità del rendimento in ogni altra funzione neuropsicologica . Lo svolgimento delle
varie
attività
prassico-procedurali
è
affrettato
o
eccessivamente
lento,
qualitativamente approssimativo, inaccurato nei dettagli, con frequenti errori della
sequenza procedurale. La perdita di creatività e originalità è una costante in tutte le
attività, anche nelle più comuni e quotidiane, con tendenza a perseverare in soluzioni
già adottate per incapacità ad adattarsi ai mutamenti. Nel condurre un ragionamento
logico verbale o logico-matematico si manifestano difficoltà nell’analisi degli aspetti
del problema, nella pianificazione e realizzazione della sequenza di ragionamento,
come pure incapacità a trarre conclusioni.
L’integrità delle funzioni esecutive è essenziale per la maggior parte delle abilità
pratiche e la sua disfunzione risulta estremamente debilitante sia per i pazienti che
per le loro famiglie.
Queste abilità risultano a volte non solo difficili da definire, ma anche da valutare,
motivo che ha condotto allo sviluppo di un grande numero di test neuropsicologici
clinici e sperimentali.
Sebbene gran parte del progresso sia rivolto alla risoluzione dei deficit sensitivomotori conseguenti al trauma, la terapia cognitiva rimane una sfida: nonostante lo
sforzo considerevole di medici e ricercatori nello sviluppare strategie riabilitative per
migliorare i disturbi delle funzioni esecutive, la strada verso un trattamento efficace è
stata piena di difficoltà ed ha spesso prodotto risultati deludenti: sono poche le
strategie che attualmente possono esser ritenute efficaci, tuttavia, oltre all’intervento
farmacologico, la terapia cognitiva rimane l’approccio elettivo di intervento e gioca
un ruolo essenziale per l’outcome funzionale e la reintegrazione sociale.
È difficile sviluppare un approccio terapeutico cognitivo standard per i disturbi delle
funzioni esecutive per diverse ragioni:
1) come è stato precedentemente discusso, ci sono un’ampia varietà di deficit che
possono derivare da una lesione del lobo frontale che rientrano nell’ambito delle
funzioni esecutive (pianificazione, inibizione, iniziativa, consapevolezza di sé,
ecc…) ;
2) le condizioni neurologiche che possono provocare una lesione del lobo frontale
sono molteplici (trauma cranico, ictus, encefaliti, ecc…) ;
63
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
3) molti pazienti con lesione del lobo frontale manifestano deficit comportamentali
come la mancanza di consapevolezza di sé, scarsa motivazione o disturbi della
personalità e dell’umore che costituiscono un serio impedimento al processo
riabilitativo.
Pertanto, è difficile generalizzare gli interventi riabilitativi per deficit cognitivi e
comportamentali così differenti fra loro.
L’estrema variabilità dei disturbi e, soprattutto, l’estrema mutevolezza del quadro
clinico dei pazienti anche da un giorno all’altro, sottolinea la necessità di sviluppare
programmi di intervento individualizzati e specifici, adattati al livello di disabilità e
adeguati in rapporto alle fasi di recupero cognitivo-comportamentale e funzionale.
Questi limiti, così come i diversi livelli cognitivi delle funzioni esecutive, hanno
condotto ad una divergenza nell’approccio generale adottato dagli specialisti della
riabilitazione.
Negli ultimi anni, sono apparse in letteratura un certo numero di meta-analisi volte a
valutare, con il metro della medicina basata sull’evidenza, il peso delle evidenze
sperimentali riportate in letteratura relative all’efficacia del trattamento riabilitativo
di specifici deficit cognitivi.
La letteratura scientifica propone varie tecniche di intervento, la cui validità è stata
testata attraverso studi di ricerca che descrivono gli interventi individuali su singoli
pazienti o su piccoli gruppi. Questi diversi interventi hanno in comune la possibilità
di essere generalizzati ed estesi ad altri contesti e ad altre abilità.
Gli studi attuali suggeriscono che la strategia specifica di riabilitazione impiegata,
nonostante l’approccio generale, rientra all’interno di tre diverse ma sovrapponibili
categorie:
•
Manipolazione e modificazione ambientale;
•
Controllo del comportamento;
•
Interventi diretti mirati a migliorare il deficit specifico.
L’eterogeneità di queste forme di terapia rende necessari diversi tipi di valutazione.
Gli studi valutativi hanno permesso di raggiungere diversi livelli di evidenza: mentre
le forme di terapia cognitiva hanno raggiunto livelli di evidenza elevati, gli studi
basati sulla manipolazione ambientale e sul controllo del comportamento, presentati
64
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
soprattutto come studi su singolo caso con parametri di outcome individuali, hanno
raggiunto solo bassi livelli di evidenza.
La manipolazione ambientale sottolinea i fattori esterni al paziente. L’ambiente non
è caratterizzato solo da determinate caratteristiche fisiche, ma anche e soprattutto dal
fatto di contenere in maniera più o meno esplicita, in rapporto alle intenzioni di chi si
muove, informazioni che devono / possono essere raccolte, per dare senso in
rapporto agli scopi. L’adattabilità che caratterizza il comportamento, non deve essere
intesa solo nei confronti degli oggetti, ma anche dalle intenzioni del soggetto, si tratta
cioè di una caratteristica appartenente al processo dell’interazione piuttosto che
all’uno o all’altro degli elementi che entrano in rapporto. Il contesto viene a
rappresentare un elemento dinamico in continua evoluzione sulla base delle
acquisizioni compiute all’interno della stessa azione in grado di determinare gli
sviluppi e di guidarne lo svolgimento in ogni istante.
La componente motoria dell’azione deve essere quindi in grado di adeguarsi alle
necessità del contesto in ogni fase evolutiva.
Questo approccio mira a ricercare l’adattabilità del comportamento relativo al
contesto, riducendo gli elementi di distrazione, semplificando le richieste e
rispettando i tempi del paziente.
Sebbene potrebbe essere una strategia efficace per migliorare determinate funzioni,
utilizzando fattori esterni al paziente essa pone una grande quantità di richieste ed è
inflessibile.
Una recente revisione sottolinea validi meccanismi esterni che possono dare il via
all’azione per pazienti con problemi di iniziativa e deficit della memoria prospettica
e offre raccomandazioni per il loro utilizzo, identifica i fattori importanti per
selezionare un particolare piano d’azione e suggerisce le modalità per monitorare la
loro efficacia.
Il controllo del comportamento è una strategia che focalizza l’attenzione sui
meccanismi compensatori concepiti per permettere al paziente di portare a termine
un compito in un modo nuovo che minimizza le abilità compromesse dalla lesione.
Un esempio di tecnica compensatoria è il “costo della risposta”, sviluppato da
Alderman e colleghi (1991), consiste in penalizzazioni come immediata conseguenza
di comportamenti indesiderati (condizionamento operante). Viene impiegata per
trattare problemi di disinibizione, come il linguaggio ripetitivo e il comportamento
65
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
aggressivo. Questa tecnica si è dimostrata efficace dove altre tecniche come il “time
out” e i rinforzi positivi non lo sono stati.
Gli approcci compensatori per i disturbi delle sequenze di azione, includono un
sistema codificato di azioni che assiste gli individui nel riconoscimento di errori,
nell’omissione o nell’ordine e sono applicate per migliorare le abilità della vita
quotidiana. Le strategie compensatorie come queste fanno spesso affidamento a
fattori esterni al paziente, come avviene nella manipolazione ambientale, ma sono
mirate a cambiare il comportamento preso in esame, spesso provando a migliorare la
consapevolezza.
Le strategie che impiegano interventi diretti, occupano probabilmente la più ampia
vastità degli interventi di riabilitazione delle funzioni esecutive in letteratura.
Sono approcci metodologici rivolti alla stimolazione di singole funzioni cognitive
quali l’attenzione, la memoria, l’apprendimento, la pianificazione e l’organizzazione
dell’attività mentale.
Un esempio di intervento che ha mostrato di possedere un certo grado di efficacia per
la riabilitazione dei disturbi attentivi è l’“ Attention Process Training” ( APT )
(Solberg, 1992), sebbene esistano altri validi programmi di intervento.
È un programma di riabilitazione dell’attenzione costruito secondo un approccio
funzione-specifico. Questo comporta un trattamento modulare delle principali
funzioni in cui può essere suddivisa l’attenzione, quali: attenzione sostenuta,
selettiva, alternata e divisa. Il training è altresì strutturato gerarchicamente, in modo
che le funzioni con minori richieste di elaborazione vengano trattate prima di quelle
con esigenze maggiori. Sulla base di questa logica, il trattamento dell’attenzione
sostenuta precederà quello dell’attenzione selettiva , perché si presuppone che fino a
quando il paziente non sarà in grado di mantenere dei livelli sufficienti di vigilanza
in compiti semplici, tantomeno lo sarà in presenza di informazioni distraenti. Allo
stesso modo, se il soggetto non è capace di sopprimere delle risposte inadeguate o di
ignorare delle informazioni irrilevanti, difficilmente riuscirà a gestire compiti che
richiedono una forte dose di attività controllata, come accade nei compiti di
attenzione alternata o di attenzione divisa. Oltre che tra le diverse sezioni (o cicli)
esiste una gerarchia anche entro ognuna di esse: gli esercizi più semplici devono
essere infatti somministrati prima di quelli più complessi.
Questo approccio è basato sul principio che l’esercizio su compiti selezionati di
attenzione favorisce il recupero delle vie nervose danneggiate e, di conseguenza,
66
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
delle abilità attentive che possono essere estese in vari contesti. Per valutare
l’efficacia di questa tecnica è stato effettuato uno studio controllato su 23 soggetti
con trauma cranico ed è emerso che, sebbene ci sia stato un miglioramento
significativo del livello di attenzione nel gruppo sperimentale, non è stata evidenziata
alcuna differenza con il gruppo di controllo.
Una recente meta analisi ha valutato tutti gli studi in cui sono state implementate
tecniche di intervento diretto come questa, ( non solo APT ), paragonando in modo
specifico i risultati degli studi che prevedevano la sola valutazione dei gruppi
sperimentali con gli studi controllati. L’analisi ha rivelato che, mentre nei primi si
producevano una grande quantità di effetti, gli studi con il gruppo di controllo non
hanno dato risultati significativi.
Questi dati sono utili a mettere in evidenza il significato metodologico dei gruppi di
controllo, importanti per valutare l’efficacia di ciascun intervento.
È importante notare, comunque, che i risultati degli studi sul singolo caso hanno
rivelato che i pazienti con lesione dei lobi frontali, attraverso l’esercizio e la pratica
possono apprendere una varietà di compiti specifici, nonostante ci siano tuttora
minime evidenze sulla capacità di riaddestramento diretto dei processi attentivi.
Questo dato è stato supportato anche dai risultati incoraggianti ottenuti da studi
focalizzati su un approccio funzione-specifico, come ad esempio il training per
l’apprendimento delle attività della vita quotidiana ( ADL ), ed hanno suggerito che
la riabilitazione mirata sull’acquisizione di funzioni importanti e specifiche potrebbe
essere un potente approccio riabilitativo.
Sono molti gli interventi che attualmente vengono sperimentati, ed è chiaro che, per
il recupero delle funzioni esecutive, indipendentemente dal tipo di strategia
impiegata, anche combinando i due approcci (training funzione-specifico e training
per i processi di riaddestramento) e i tre tipi di strategie (modificazione ambientale,
controllo del comportamento e intervento diretto) , l’esercizio e la pratica sono
fondamentali per promuovere i processi di apprendimento.
5.2 Trattamento dei disturbi comportamentali
La vasta terra incognita nella dottrina non ha certo portato a nichilismo terapeutico
nella pratica. Al contrario, l’urgere delle istanze poste dalla drammaticità dei
67
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
problemi ha stimolato i riabilitatori a saggiare ogni indirizzo metodologico suggerito
dalla ricerca neuroscientifica.
Nella maggior parte dei casi, e segnatamente nelle prime fasi del decorso, i disturbi
del comportamento conseguenti a lesioni cerebrali (e quindi di natura
eziopatogenetica non “psichiatrica” in senso stretto) non consentono trattamenti
basati su colloqui psicoterapici o su farmaci, anche se interventi di questo tipo
possono sempre dimostrarsi utili in singoli casi, o in via sussidiaria, o nel prosieguo
del decorso. Il che ben si comprende se si considera la patogenesi lesionale e la
conseguente presenza nel quadro clinico di componenti quali deterioramento
cognitivo, amnesia, anosognosia, ed altre, che non consentono elaborazioni quali la
memorizzazione stessa di un colloquio clinico, la disamina cognitiva delle
argomentazioni, nonché la capacità di insight (introspezione), che generalmente non
consentono pure, per le stesse ragioni, l’uso di farmaci anche se, come si è detto, la
complessità delle componenti e delle possibili evoluzioni possono giustificare ogni
tipo di intervento quando sembrino esservi le indicazioni.
Tutto questo spiega la ragione per cui i riabilitatori, dopo molti tentativi ed errori,
abbiano ampiamente adottato la linea metodologica che, nel quadro delle
neuroscienze
terapeutiche,
viene
comunemente
denominata
“cognitivo-
comportamentista”.
Nei termini più generali, i metodi cognitivo-comportamentisti tendono a modificare i
comportamenti patologici in via “indiretta” e quindi mirano ad indurre un
apprendimento “implicito” dei suggerimenti forniti. Tale apprendimento dei
comportamenti corretti in via indiretta e implicita si ottiene mediante vari metodi di
condizionamento (classico e operante), ampiamente applicati in situazioni
sperimentali. Tuttavia, il trattamento non si esaurisce certo con la semplice
applicazione di questi metodi. Nella pratica clinica altre condizioni sono necessarie
per ottenere risultati. Innanzitutto, è importante la predisposizione di un “ambiente”
di per sé “terapeutico”, in cui tanto le caratteristiche ambientali (luoghi e
attrezzature) quanto gli atteggiamenti, la capacità empatica, le metodiche applicate,
le competenze tecniche delle varie figure professionali e l’abilità di operare in
equipe, siano i cardini dell’intero processo riabilitativo, fino al raggiungimento
dell’obbiettivo, comune a qualsiasi tipo di intervento, rappresentato dal miglior
reinserimento e adattamento sociale possibile. Un’altra decisiva condizione è che,
una volta definiti i metodi e le tecniche , si deve stabilire a cosa andranno applicati,
68
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
poiché si potrebbe facilmente commettere l’errore di applicarli ai deficit in sé: in
realtà vanno applicati ai problemi e alle loro implicazioni “ecologiche”.
È questa la ragione per cui il primo passo per l’avvio di un efficace programma di
intervento riabilitativo è nella predisposizione di strumenti di rilevamento che
consentono una visione ecologica del problema: una visione, cioè, del paziente nella
sua realtà e nelle sue istanze esistenziali. Scale, questionari e check-list compilati per
osservazione diretta dagli operatori sanitari, o sulla base di resoconti dei pazienti
medesimi e dei familiari, possono esser variamente “costruiti”, o adattati alle
caratteristiche di ciascuna patologia prendendo spunto dai numerosi già esistenti.
5.2.1 Trattamento dei comportamenti inadeguati “in difetto”
In generale, il trattamento dei comportamenti considerati inadeguati “in difetto”
(cioè, insufficienti in frequenza, intensità e durata) dovrebbe prevedere
l’applicazione di metodologie ispirate ai principi del condizionamento, in cui alla
“passività” del paziente non viene assegnata alcuna ricompensa, mentre la
manifestazione di qualsiasi intenzione viene prontamente ricompensata.
Come è stato descritto nei precedenti capitoli, i pazienti sembrano in uno stato di
indifferenza verso l’ambiente circostante che si manifesta con atteggiamenti di
demotivazione fino ad una totale inerzia. Secondo i principi del condizionamento, è
quindi necessario mantenere il paziente costantemente impegnato in qualche attività
secondo “piani” quotidiani “personalizzati” nei quali vengono indicati i tempi, le
modalità di esecuzione, le conseguenze positive (vantaggi) che le prestazioni
potranno avere e le conseguenze negative (penalizzazioni) derivanti dalle
inadempienze, sulla base di vere e proprie “contrattazioni”. Benché nella stesura di
questi “contratti” dovrebbero essere previsti momenti dedicati ad attività di svago
(guardare la TV, leggere, giocare a carte, fare una passeggiata, ecc.), non dovrebbe
essere consentito al paziente di rimanere a riposo più a lungo del necessario o di
dipendere dagli altri nell’esecuzione di compiti per i quali sussistono potenziali
abilità residue.
Affinché il paziente demotivato/inerte possa essere stimolato ad assumersi la totale
responsabilità nelle attività quotidiane di routine (cura ed igiene personale,
preparazione di semplici merende, svolgimento di piccoli lavori domestici, uso del
denaro per le piccole spese quotidiane, ecc.), può essere utile l’uso di “rinforzi
69
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
negativi”. Ad esempio, per sollecitare il paziente all’agire, può dimostrarsi più utile
prevedere la possibilità di mangiare una merenda gradita se preparata
spontaneamente, anziché un altro alimento, meno gradito, preparato da altri; oppure,
può essere una sollecitazione più efficace a migliorare l’igiene personale, poter
ottenere la riduzione della durata o della frequenza delle sedute nel caso in cui si
presenti curato ed ordinato, anziché continuare a “subire” le sedute ad intervalli di
tempo relativamente brevi; e ancora, si può concedere al paziente la possibilità di
seguire un programma televisivo di proprio gradimento, qualora venga scelto
spontaneamente, piuttosto che continuare a “subire” la sgradevole sintonizzazione su
programmi scelti da altri ecc.
5.2.2 Trattamento dei comportamenti inadeguati “per eccesso”
I comportamenti che denotano la carenza di autocontrollo (impulsività, irritabilità,
atteggiamenti oppositori e aggressivi) sono conseguenze molto frequenti dopo eventi
lesivi che coinvolgono la corteccia prefrontale e le sue connessioni ai complessi
circuiti sotto-corticali. Questi disturbi pongono seri problemi nell’interazione col
paziente poiché viene messa a dura prova la capacità “empatica” delle persone
addette all’assistenza, siano esse operatori sanitari o familiari. Inoltre, le turbe
comportamentali di questo tipo, come gran parte dei comportamenti inadeguati “per
eccesso”, rappresentano condizioni assai sfavorevoli per la riabilitazione, limitando o
annullando la necessaria collaborazione del paziente ai vari trattamenti, tanto che, nei
casi in cui le reazioni assumano le caratteristiche di vere e proprie aggressioni
fisiche, può avvenire che siano proponibili solamente terapie farmacologiche e di
contenimento. In ogni caso, è opportuno che tutti gli operatori sanitari e i familiari
addetti all’assistenza siano in grado di condurre attente osservazioni e monitoraggi
utili ad individuare le condizioni ambientali scatenanti (dove, quando, con chi si
verificano gli episodi di discontrollo verbale o comportamentale). La rilevazione di
tali coordinate ambientali può apparire un compito relativamente semplice: in realtà
richiede un certo addestramento poiché numerose sono le condizioni e le variabili da
considerare. Occorre sottolineare che, in molti casi, è possibile prevenire o contenere
le reazioni oppositorie e le esplosioni aggressive adottando semplici “strategie”
nell’interazione col paziente. Così, è opportuno che gli operatori sanitari evitino
espressioni di disapprovazione, di ansia o di eccessivo allarme; al contrario,
70
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
avvicinare il paziente con rassicurazioni, mantenendo un tono di voce costante,
sollecitare la collaborazione proponendo attività e argomenti diversificati, prevedere
frequenti pause soprattutto nelle prime fasi del recupero, sottolineare i progressi
ottenuti, ecc., sono modalità di approccio valide per evitare le frustrazioni e le paure
che possono suscitare le reazioni aggressive. In molti casi, tuttavia, l’atteggiamento
empatico, che comunque è una componente essenziale per una valida interazione
operatore/paziente, non è una condizione sufficiente a prevenire o contenere gli
atteggiamenti oppositori ed i comportamenti aggressivi, mentre l’inserimento anche
di metodiche mutuate dal modello comportamentista può incrementare l’efficacia
dell’intervento riabilitativo.
Le osservazioni sperimentali suggeriscono che nella pratica clinica l’uso sistematico
delle cosiddette procedure di “time out” è specificatamente indicato nei casi in cui è
necessario aumentare il grado di collaborazione del paziente. Il time-out, sulla base
del paradigma del condizionamento operante, consiste nella sospensione di qualsiasi
stimolo (rinforzo), gradevole o sgradevole, alla comparsa di una comportamento
bersaglio che si intende modificare (in questo caso, gli atteggiamenti oppositori e le
reazioni aggressive). Tale sospensione di rinforzi si ottiene “ignorando” il soggetto
immediatamente dopo il comportamento indesiderato, allo scopo di offrire
l’opportunità di apprendere “per via condizionata” che i propri atteggiamenti non
producono alcun effetto sull’ambiente circostante. Nei casi in cui i comportamenti
aggressivi siano riferibili a deficit della funzione di autocontrollo secondari a danno
dei lobi frontali, sembrano essere efficaci anche le procedure di “costo della
risposta” basate sul metodo della “contrattazione delle contingenze”(stesura di un
vero e proprio contratto tra operatore e terapista in cui vengono stabilite delle regole
di condotta e le conseguenze positive in caso di adempienza o negative in caso di
inadempienza). Queste procedure prevedono delle penalizzazioni (ad esempio,
attività non gradite,perdita di piccoli “privilegi”, ecc.) come immediata conseguenza
di comportamenti indesiderati, ed hanno, per così dire, la stessa funzione deterrente
delle comuni “contravvenzioni”, in quanto l’esistenza
di una “regola” punitiva
acuisce la consapevolezza del “costo” qualora non venga rispettata.
71
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
5.2.3 Trattamento dei comportamenti inadeguati per condizioni, tempi e modalità
Come è già stato precedentemente affermato, sarebbe in particolare questo tipo di
alterazioni comportamentali a rendere il soggetto socialmente inaccettabile e
difficilmente gestibile in ambito riabilitativo. Per questo motivo, il trattamento dei
disturbi quali l’anosognosia, la disinibizione e la confabulazione, spesso, si impone
come prioritario rispetto alla rieducazione cognitiva di deficit neuropsicologici
concomitanti.
5.2.3.1 Trattamento dei disturbi della consapevolezza
La sussistenza di “anosognosia” (intesa, nella più ampia accezione del termine, come
difficoltà più o meno evidente sia nel riconoscimento di specifici deficit percettivi,
motori o cognitivi, sia nell’accettazione dello stato di disabilià conseguente a tali
deficit) rappresenta una delle condizioni più sfavorevoli al processo riabilitativo e
una delle maggiori difficoltà per il riabilitatore, quando debba affrontare deficit sui
quali non è possibile alcun intervento “diretto”. In questi casi si rende necessaria
l’attivazione delle strategie d’intervento definite “indirette”, cioè, incentrate
essenzialmente sulle modificazioni delle caratteristiche ambientali.
L’applicazione di interventi di tipo cognitivo-comprtamentale è particolarmente
indicata sia nelle fasi immediatamente successive all’insorgenza del danno cerebrale
e, quindi, nella fase in cui i deficit sono di natura direttamente “lesionale” e connessi
a difetti strumentali di comprensione delle informazioni, sia nelle fasi successive, in
cui possono emergere difficoltà emotive connesse all’accettazione della condizione
di “malato” e delle implicazioni sociali che ne derivano. Pertanto, il trattamento dei
deficit della consapevolezza, come qualsiasi altro intervento neuro-comportamentale,
deve essere strutturato secondo uno schema che procede per “livelli”. Questo
significa che, individuando la diversa natura della “non conoscenza” a seconda del
livello di insorgenza del deficit (neurologico, neuropsicologico, emotivo), in fase
acuta il terapista debba aiutare il paziente a riconoscere i propri deficit,
sottolineandone l’evidenza in modo sistematico, fornendo spiegazioni semplici e
comprensibili, ma realistiche. Ad esempio, nei pazienti che presentano difficoltà a
riconoscere i propri deficit mnesici, può essere utile monitorare gli “insuccessi” che
si verificano quotidianamente e discuterli col paziente al fine di motivarli all’uso
72
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
degli ausili esterni (agenda, calendario, appunti, ecc.) e all’attivazione di adeguate
strategie di compenso.
Via via che si consolida il processo di riacquisizione della consapevolezza, il deficit
assume connotazioni neuropsicologiche o più francamente emotive che potrebbero
risultare
ulteriormente aggravate
da caratteristiche premorbose negative (ad
esempio, tratti “narcisistici” con scarsa flessibilità, difficoltà a tollerare le
imperfezioni e le frustrazioni, ecc.). in questa fase possono essere indicate sessioni di
“neuropsicoterapia”, che devono offrire al paziente l’opportunità di esprimere i
sentimenti di depressione, per la perdita della normale funzionalità, gli eventuali
timori e frustrazioni che possono derivare dalla condizione di “malato”, i sentimenti
di diffidenza e sospettosità nei confronti degli operatori sanitari, per prevenire
l’insorgenza di reazioni catastrofiche e facilitare l’aumento di autostima e
l’accettazione dei propri limiti, pre-condizioni indispensabili per un soddisfacente
reinserimento sociale.
5.2.3.2 Trattamento della disinibizione
Nei casi in cui i comportamenti disinibiti costituiscano un serio ostacolo per l’avvio
di programmi riabilitativi, si rendono necessari interventi preliminari di
modificazione comportamentale secondo il principio del condizionamento operante
e, cioè, mettendo in primo piano le diverse conseguenze che accompagnano le varie
condotte a seconda che siano adeguate o inaccettabili. Con alcuni pazienti può
essere utile valorizzare altri comportamenti adeguati osservabili nel loro repertorio e
incompatibili con il comportamento inaccettabile, attraverso la somministrazione
sistematica di “rinforzi positivi”(ricompense) o di “rinforzi negativi”(interruzione di
situazioni o attività non gradite alla comparsa di un comportamento desiderato e
socialmente adeguato) che inducono il soggetto a ripetere l’azione in situazioni
analoghe. In altri casi, può essere efficace un’azione più diretta sulle condotte
disinibite, utilizzando tecniche basate sul “principio dell’estinzione” (assenza di
qualsiasi effetto positivo o negativo), oppure applicando procedure di costo della
risposta (penalizzazioni o abolizione di premi) che inducono il soggetto ad
abbandonare il comportamento inadeguato.
73
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
5.2.3.3 Trattamento della confabulazione
Nella maggior parte dei casi, si osserva la presenza di due diversi meccanismi
patogenetici, spesso concomitanti (amnesia globale e patologia dei lobi frontali), a
cui corrispondono due livelli di confabulazioni. Sul piano operativo, ne consegue che
le condotte del riabilitatore e di tutte le persone che interagiscono col paziente
dovranno diversificarsi a seconda delle caratteristiche che assumono di volta in volta
i comportamenticonfabulanti. Uno dei metodi cognitivo-comportamentali che si sono
rivelati particolarmente efficaci, è quello che potremmo definire “confutazione
sistematica”, una tecnica avversiva attuata con modalità differenti a seconda della
natura della confabulazione.
Nei pazienti prevalentemente “frontali”, risultano efficaci esercizi di scambio
dialettico e di confutazione, “frustranti” per il paziente (ad esempio, vere e proprie
“provocazioni” quali: “Lei non dice la verità”, “Non credo ad una parola di quanto
racconta”, ecc.) e finalizzate ad attivare un “moto” attentivo ed un impulso alla
concentrazione.
5.3 Conclusioni
È opinione oggi largamente condivisa che per un numero rilevante di pazienti con
lesione cerebrale il deficit cognitivo è il maggior determinante di disabilità
funzionale.
Per questi pazienti, non sempre l’obiettivo del trattamento cognitivo potrà essere il
ripristino della funzione lesa. In questi casi, una riduzione della disabilità o anche
solo dell’handicap andranno comunque perseguiti.
Una riabilitazione cognitiva razionale, cioè fondata su validi presupposti teorici,
necessita di interazioni efficaci con ambiti scientifici che si occupano del
funzionamento cognitivo normale (ad esempio, la psicologia cognitiva) e patologico
(ad esempio, la neuropsicologia).
Allo stato attuale, la dimostrazione della reale efficacia delle metodiche riabilitative
nel migliorare i deficit cognitivi dei pazienti cerebrolesi fa riferimento, in larga
misura, a studi clinici e sperimentali non controllati.
La sfida per il prossimo futuro è quella di fondare su basi più solide le dimostrazioni
di efficacia della riabilitazione cognitiva. Obiettivo, più a lunga scadenza, è quello di
74
5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali
mettere a confronto diversi approcci riabilitativi per giungere alla realizzazione di
linee guida di intervento, almeno per i disordini cognitivi di più elevata incidenza.
75
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
Il processo di recupero nella sindrome frontale implica due fasi: il trattamento
neuropsicologico, mirato principalmente alla singola funzione cognitiva lesa, e la
reintegrazione dell’individuo nella famiglia e nella società.
Per facilitare il reinserimento sociale, il trattamento deve passare dagli interventi
mirati alle singole funzioni, agli interventi che promuovono l’acquisizione delle
abilità comportamentali.
Uno degli ambiti maggiormente soggetti a compromissione funzionale nella
sindrome frontale è quello delle “funzioni esecutive”, ovvero di quelle capacità che
implicano la volontà, la pianificazione, l’attuazione di strategie organizzative per la
risoluzione dei problemi, l’autocontrollo e l’autoconsapevolezza. Naturalmente, tali
deficit sono gravemente inabilitanti, soprattutto da un punto di vista psicosociale;
basti pensare alle conseguenze della mancanza di motivazione o di volontà
nell’intraprendere un qualsiasi comportamento, o alle difficoltà che possono scaturire
dal non sapere pianificare adeguatamente le strategie necessarie per risolvere anche i
più banali problemi della vita quotidiana.
6.1 Problem solving
Il problem solving è forse l’area delle funzioni esecutive più facili da capire, in
quanto è direttamente collegata alla vita quotidiana: ognuno di noi affronta ogni
giorno molte situazioni di problem solving, è quindi facile immaginare come un
disturbo nella capacità di risolvere i problemi possa compromettere profondamente
ogni aspetto della nostra vita.
Il problem solving è un’abilità cognitiva che interviene quando una persona si trova
di fronte ad una situazione da risolvere senza che sia immediatamente disponibile
una soluzione.
Risolvere un problema vuol dire attuare dei comportamenti secondo un percorso che
porta da una situazione presente in direzione di una meta da raggiungere. Si può
quindi parlare di una situazione iniziale, di una condizione desiderata che
76
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
rappresenta l’obiettivo prefigurato, di un processo teleologico di soluzione, inteso
come quella serie di operazioni da eseguire per poter raggiungere l’obiettivo.
In tutti i casi in cui vi sono problemi da risolvere, si crea uno stato di squilibrio nella
persona, che cerca di farvi fronte applicando le conoscenze e le strategie
precedentemente utilizzate in situazioni simili.
Impegnandosi nella soluzione si ha un’alterazione di stati non solo cognitivi, ma
emozionali e motivazionali: si percepisce di aver intrapreso un itinerario corretto o
sbagliato e tale percezione avrà influenza sulla motivazione successiva, sull’impegno
e in definitiva sulla corretta soluzione del problema.
6.1.1 I “passi” del processo di problem solving
Il processo di risoluzione dei problemi è un processo complesso che richiede la
modulazione ed il controllo di diverse funzioni cognitive fondamentali che devono
essere utilizzate nel momento giusto e con flessibilità; esso si snoda attraverso le
seguenti tappe:
•
Identificazione del problema;
•
Definizione e rappresentazione del problema;
•
Formulazione di una strategia per la soluzione;
•
Organizzazione delle informazioni;
•
Allocazione delle risorse;
•
Controllo del processo di soluzione;
•
Valutazione dell’efficacia della soluzione stessa.
Innanzi tutto è necessario rendersi conto che esiste un problema, dirigere
volontariamente l’attenzione per controllare l’ambiente circostante (attenzione
sostenuta) e distribuire le risorse in modo appropriato (attenzione divisa)
sopprimendo le informazioni e le risposte irrilevanti (attenzione selettiva); bisogna
saper individuare quali sono le informazioni significative (astrazione e inferenza);
formulare un piano di azione; anticipare i risultati delle varie fasi di esecuzione;
essere sensibili al feedback proveniente dal risultato dell’esecuzione e capaci di
cambiare l’approccio al problema quando necessario. Inoltre un comportamento
77
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
adatto richiede spesso che le scelte siano limitate dalla necessità di osservare regole
prestabilite.
Tra queste tappe particolare importanza assume quella iniziale, cioè l’approccio
generale al problema e la motivazione a risolverlo. Si tratta di una fase di
“orientamento” che comprende elementi quali la percezione del problema, la sua
accettazione, il tipo di valutazione che si fa del problema, il grado di controllo che
ognuno di noi pensa di esercitare (aspettative di successo/insuccesso nella solvibilità
stessa del problema e circa la concreta possibilità che la persona si autoattribuisce di
giungere ad una corretta soluzione), la valutazione dei tempi e dello sforzo richiesti
nella soluzione del problema .
L’identificazione di una situazione come problematica è un momento delicato:
infatti, una volta identificata l’esistenza di un problema, occorre definirlo e
rappresentarlo in maniera tale da capire come risolverlo. Tale momento è cruciale,
perché, se il problema si definisce e si rappresenta in modo inesatto, si è molto meno
abili nel risolverlo. Si può inoltre sbagliare a riconoscere quale sia l’obiettivo da
raggiungere e quali siano gli ostacoli che ostruiscono il percorso di soluzione, così
come pure sbagliare a riconoscere che la soluzione che abbiamo in mente non
funziona.
Un ulteriore passaggio consiste nel progettare una strategia per risolvere il problema.
La strategia può richiedere l’analisi/scomposizione di tutto il complesso problema in
elementi più semplici, oppure in aggiunta, un processo complementare di sintesi da
effettuare mettendo insieme i vari elementi per risistemarli in qualcosa di utile. Nella
soluzione dei problemi della via reale si può aver bisogno di entrambe le strategie,
analisi e sintesi: la strategia ottimale dipende sia dal tipo di problema sia dalle
preferenze personali che ha il solutore in relazione ai metodi di risoluzione.
Una volta che la strategia, o almeno un tentativo di strategia, è stata formulata, si è
pronti per organizzare le informazioni disponibili, trovando una rappresentazione di
tali informazioni che permetta di implementare la strategia. Si parla in tal senso di
organizzazione strategica delle informazioni. Naturalmente, durante il ciclo del
problem solving, le informazioni disponibili vengono organizzate e riorganizzate
costantemente.
La capacità di monitorare il risultato delle proprie azioni è un elemento fondamentale
nel processo di problem solving. Un solutore efficace, infatti, non aspetta la fine del
78
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
percorso di soluzione per controllare dov’è arrivato; piuttosto, controlla se stesso
lungo tutto il percorso. A mano a mano che va avanti nella soluzione deve tener
conto sia di quanto ha già fatto, sia di ciò che sta facendo, sia di ciò che resta ancora
da fare.
Oltre a controllare il problema lungo il percorso di soluzione, è necessario valutare la
soluzione dopo la fine di tale processo. Spesso è attraverso questa valutazione che si
trova il modo di andare oltre, ridefinendo il problema, producendo nuove utili
strategie, riconoscendo nuovi problemi, nuove risorse possono diventare disponibili o
risorse già esistenti possono essere usate più efficacemente. Dunque il ciclo può dirsi
completato quando porta a nuove intuizioni e di nuovo si ricomincia.
È anche importante sottolineare l’importanza della flessibilità nella successione dei
vari passi del ciclo. Il successo del problem solving può richiedere, infatti,
occasionalmente la presenza di alcuni “aggiustamenti” in relazione a come meglio
procedere. Raramente possono risolversi problemi con una sequenza ottimale nella
successione dei vari passaggi del problem solving. Spesso si deve tornare indietro e/o
andare avanti attraverso le varie fasi cambiando il loro ordine secondo il bisogno, o
saltare o aggiungere passaggi, quando ciò si renda necessario.
È sufficiente l’alterazione di una sola delle tappe dell’intero processo a far sì che il
disturbo si rifletta su tutte le situazioni della vita quotidiana in cui bisogna effettuare
scelte non precostituite ma dipendenti dalle caratteristiche dell’esperienza in corso.
6.2 Descrizione di un caso clinico
In questo paragrafo vengono presentati i risultati di uno studio su singolo caso che,
da un lato, ci aiutano a comprendere meglio le difficoltà che incontrano i pazienti
frontali di fronte a situazioni da risolvere, dall’altro, ci permettono di valutare
l’impatto di una strategia di intervento sull’apprendimento di procedure
comportamentali.
Questa descrizione mette in evidenza come i deficit
derivanti
da una lesione
frontale coinvolgono non solo le singole abilità cognitive, ma soprattutto il modo con
cui tali abilità sono sfruttate dal soggetto per mantenere un comportamento
appropriato ai diversi contesti personali e sociali.
79
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
La scelta di condurre uno studio su un singolo caso è stata dettata da esigenze
pratiche e logistiche, legate alla difficoltà di selezionare campioni rappresentativi
della popolazione da studiare e alla necessità di considerare come campione dello
studio le “misurazioni ripetute” di un certo comportamento, abilità e caratteristiche
manifestate dal soggetto.
Questo metodo ha permesso di osservare il comportamento in maniera molto precisa
ed ha facilitato l’evidenziazione, con un’analisi “momento dopo momento”, di lievi
modificazioni avvenute ad un certo punto dell’intervento. La possibilità di effettuare
un monitoraggio continuo ha permesso in tal modo di apportare delle modificazioni
anche “in itinere”, introducendo delle variabili in funzione dei miglioramenti
osservati.
Prima di descrivere lo studio, vengono presentati i dati salienti che caratterizzano il
quadro clinico del paziente.
Dati anamnestici
Paziente: R.M.
Data di nascita: 23/02/1967
Scolarità: III° media
Stato civile: coniugato, due figli
Attività lavorativa: autotrasportatore dipendente
Il paziente viene ricoverato presso l’Unità Operativa di Riabilitazione Intensiva
Neuromotoria ( UORIN ), di Trevi , il 24/02/2006 per esiti di arresto cardiaco con
ipossia cerebrale durante un intervento di tenorrafia del tendine d’Achille destro
(9/02/2006).
Dopo l’evento ha avuto un periodo di coma durato una settimana e PTA di durata
superiore alle 25 settimane.
80
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
Esami diagnostici
•
TAC encefalo (fase acuta, febbraio 2006): negativa;
•
RMN encefalo (fase acuta, febbraio 2006): negativa;
•
EEG (febbraio 2006): modiche alterazioni dell’organizzazione dell’attività
bioelettrica cerebrale, assenti aspetti di sicuro specifico significato
patologico;
•
RMN encefalo (dicembre 2006): note di atrofia corticale cerebellare; lieve
ampliamento del sistema ventricolare sovratentoriale e dei solchi delle
convessità; i fasci cortico-spinali presentano un segnale superiore alla media
a livello dei bracci posteriori delle capsule interne; minima asimmetria di
calibro delle arterie vertebrali per destra < sinistra, si segnala inoltre che
l’arteria basilare è un po’ sottile ma con normale segnale di flusso; caduta di
segnale lievemente superiore alla media a livello dei nuclei pallidi nelle
immagini in doppio echo;
•
EEG ( febbraio 2006): nella norma.
Valutazione clinico-riabilitativa all’ingresso
Al momento della presa in carico il paziente era vigile, manifestava uno stato di
agitazione subcontinua, marcato disorientamento temporo-spaziale, grave deficit
delle funzioni attentive di base, era scarsamente collaborante e anosognosico.
Erano presenti perseverazioni verbali e confabulazioni, GOS 3, LCF 4, DRS 17 .
Il paziente necessitava di assistenza continua, se lasciato solo si metteva in situazioni
di pericolo.
Il primo obiettivo del progetto riabilitativo è stato quello del controllo farmacologico
dell’agitazione psicomotoria e il potenziamento delle componenti intensive della
funzione attentiva mediante strutturazione di un programma giornaliero con attività
fortemente contestualizzate alternate a momenti di riposo.
Ad una prima valutazione strutturata delle funzioni corticali superiori ( aprile ’06) si
è delineato un quadro di sindrome disesecutiva con associata ridotta iniziativa
caratterizzato da disordini attentivi multipli, soprattutto nelle componenti selettive,
81
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
disordini delle funzioni mnesiche con deficit di apprendimento nel lungo termine sia
in modalità verbale che visuo-spaziale, confabulazioni, disordini di pianificazione e
categorizzazione, perseverazioni nella ricerca di nuove strategie.
Il paziente ha effettuato giornalmente trattamento riabilitativo neuropsicologico
caratterizzato da: training per l’attenzione sostenuta e shifting attentivo, esercizi
finalizzati a stimolare la consapevolezza con utilizzo di feedback da parte del
paziente e addestramento all’uso di ausili esterni (calendario e agenda semplificata)
per migliorare la memoria prospettica per eventi routinari e addestramento dei caregiver.
6.2.1 Materiali e metodi dello studio
Sulla base del quadro clinico del paziente sono state scelte due prove che rispondono
alle seguenti caratteristiche:
•
Adatte al profilo cognitivo e al livello di disabilità del paziente;
•
Utilizzabili in modo standardizzato anche al di fuori del contesto clinico;
•
Consentono l’esame, oltre che dell’efficienza globale della prestazione,
anche delle strategie usate dal paziente.
Nella prima prova abbiamo chiesto di risolvere un compito di vita quotidiana che
veniva usualmente svolto e gestito dal paziente prima dell’evento morboso.
Nella seconda il paziente si trova ad affrontare un compito “astratto” di
pianificazione.
Si tratta di prove pur sempre cognitive, ma è bene precisare che, mentre il primo è un
compito strettamente legato al contesto che il paziente può verificare attraverso la
pratica, nel secondo non c’è il rinforzo dell’esecuzione e quindi il paziente non ha
nessun riscontro con l’esperienza.
Inoltre, il secondo compito richiede un’analisi molto più dettagliata dei dati, una
maggiore capacità di giudizio astratto e una maggiore flessibilità cognitiva nella
ricerca di strategie operative.
Le prove hanno lo scopo di valutare le capacità di risoluzione attiva e creativa dei
problemi.
82
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
Strumenti per la valutazione
Per questo studio non abbiamo fatto riferimento a scale di valutazione standardizzate
per due motivi:
1. L’obiettivo dello studio è stato quello di analizzare, non solo come le singole
abilità cognitive intervengono nel processo di soluzione di un problema, ma
soprattutto il modo in cui la loro integrazione influenza le possibilità di
successo.
1. I test di valutazione neurocomportamentale comunemente in uso in letteratura
sono francamente inadeguati per la misura di queste abilità;
Per queste ragioni è stato creato un Modello di valutazione comportamentale,
strutturato in 9 items, che ha come modello teorico di riferimento l’integrazione di
tutte le componenti esecutive responsabili del processo di soluzione di un problema.
La valutazione è stata condotta attraverso l’osservazione diretta di ciascuna abilità
cognitiva, i tipi di risposte per ciascuna delle abilità sono state codificate in tre livelli,
dalla risposta meno idonea a quella migliore.
I rispettivi punteggi sono stati attribuiti in base al grado di compromissione di ogni
funzione cognitiva indagata, secondo il seguente criterio:
•
Livello 0 (abilità totalmente compromessa)
•
Livello 1 (abilità parzialmente compromessa)
•
Livello 2 (abilità preservata)
Questo modello ci ha permesso di analizzare gli aspetti oggettivi e osservabili del
comportamento in ogni sua fase evolutiva e di descrivere graficamente l’andamento
generale, i miglioramenti, e di mettere a confronto i risultati ottenuti nelle due prove.
Le misurazioni ripetute del comportamento del paziente, registrate su un’apposita
scheda di osservazione, ci hanno permesso di dare un’interpretazione dei risultati,
altrimenti difficilmente comprensibili.
I grafici descrivono l’evoluzione del comportamento nel corso delle varie fasi di
osservazione; sull’asse delle ascisse viene riportato il numero delle misurazioni
effettuate durante la sperimentazione; sull’asse delle ordinate vengono rappresentati i
punteggi ottenuti in ogni prestazione, in base al modello di valutazione
comportamentale che è stato messo a punto per questo studio.
83
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
MODELLO DI VALUTAZIONE COMPORTAMENTALE NELL’APPROCCIO
AL PROBLEM SOLVING
COMPONENTI
Tipi di risposte
P
Note per la valutazione
ESECUTIVE
CONSAPEVOLEZZA
INIZIATIVA
ATTENZIONE
ƒ
Scarsa, non capisce il problema
0
Fa riferimento alla presa di
ƒ
Moderata, prova a risolverlo
1
coscienza del problema
ƒ
Piena, sa come risolverlo
2
ƒ
Assente
0
Comportamento spontaneo
ƒ
Moderata, necessita di facilitazioni
1
per 2 minuti, se necessario
ƒ
Spontanea
2
dare facilitazioni
ƒ
Perde subito il compito
0
Capacità di focalizzare,
ƒ
Mantiene l’attenzione solo per una parte
1
mantenere e dirigere
del compito
ƒ
volontariamente l’attenzione
Mantiene l’attenzione per tutta la durata
2
sul compito
ƒ Assente
0
Capacità di individuare le
ƒ
Parziale
1
informazioni significative e di
ƒ
Totale
2
sopprimere quelle irrilevanti
ƒ
Non formula ipotesi
0
Capacità di interpretare
ƒ
Formula ipotesi non adeguate
1
adeguatamente la situazione
ƒ
Formula ipotesi adeguate
2
in base a ragionamenti
del compito
ANALISI DEI DATI
ASTRAZIONE
adeguati
PIANIFICAZIONE /
ESECUZIONE
FORMULAZIONE / USO
DI STRATEGIE
AUTOMONITORAGGIO/
AUTOCORREZIONE
VERIFICA DEI
RISULTATI
ƒ
Non porta a termine il compito
0
Formulazione di un piano di
ƒ
Porta a termine il compito con facilitazioni
1
azione e mantenimento della
ƒ
Porta a termine il compito da solo
2
sequenza operativa
ƒ
Assenza di strategie
0
Flessibilità nella scelta di
ƒ
Procede per tentativi ed errori
1
strategie con cui condurre la
ƒ
Utilizza strategie adeguate
2
sequenza operativa
ƒ
Persevera nello stesso errore
0
Sensibilità al feedback
ƒ
Riconosce l’errore ma non lo corregge
1
proveniente dal risultato
ƒ
Cambia l’approccio al problema
2
dell’esecuzione
ƒ
Non verifica il risultato
0
ƒ
Verifica il risultato senza esercitare
1
autocritica
ƒ
Verifica il risultato ed esercita autocritica
84
2
Confronto fra l’esito e
l’obiettivo
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
Trattamento Riabilitativo
Per questo studio è stato sviluppato un training di apprendimento procedurale che
focalizza l’attenzione su ogni singola fase del processo di problem solving: partendo
quindi dall’ ANALISI DEI DATI, il paziente viene facilitato a percorrere tutte le
tappe necessarie a concludere il compito con successo: l’individuazione
dell’obiettivo, la selezione delle informazioni significative, la pianificazione del
piano di azione, l’esecuzione e infine la verifica del risultato.
Il training è stato sviluppato anche attraverso la somministrazione giornaliera di un
questionario strutturato, creato in base alle maggiori difficoltà incontrate dal paziente
nelle prime osservazioni e modificato in funzione dei miglioramenti osservati.
Le domande sono state formulate in maniera semplice e comprensibile, adattate al
suo grado di scolarità e al suo livello di disabilità.
L’intervento è inteso a promuovere la riacquisizione delle varie strategie attraverso le
quali si devono criticamente analizzare, definire, riordinare, classificare le
informazioni o i compiti proposti e, più in generale, è mirato all’apprendimento di
strategie e regole che, se acquisite, gli permettano di identificare e risolvere diversi
problemi della vita in una vasta gamma di situazioni e in vari contesti (processo di
generalizzazione).
Disegno sperimentale
Per questo studio abbiamo adottato un disegno sperimentale che prevede:
•
Una prima fase di baseline, durante la quale abbiamo osservato il
comportamento spontaneo e le strategie autonome del soggetto di fronte alla
richiesta di eseguire i compiti previsti. Il comportamento è stato sottoposto ad
un’attenta analisi, in modo da definire una linea di base che, fornendo dei dati
quantificabili, ha descritto l’evoluzione del comportamento da modificare
prima dell’attuazione dell’intervento. Il comportamento è stato misurato
durante un periodo di tempo sufficientemente lungo, in modo da ottenere una
linea di base stabile con la quale confrontare il comportamento successivo.
•
Una seconda fase di apprendimento, in cui abbiamo osservato il
comportamento in concomitanza con l’introduzione del trattamento.
85
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
•
Una terza fase di verifica, nella quale abbiamo sospeso il trattamento e
continuato a monitorare il comportamento del soggetto di fronte ad un
compito simile (prima prova), e di fronte allo stesso compito (seconda prova).
6.2.2 Risultati
PROVA N° 1
Compito: “Deve spedire questa raccomandata con ricevuta di ritorno, la deve
spedire ora” (forniti busta e i relativi indirizzi).
La sperimentazione si è protratta per un mese.
Abbiamo chiesto al paziente di eseguire il compito con due diverse modalità di
approccio:
1. Pianificazione scritta della procedura
2. Esecuzione (in un luogo non conosciuto dal paziente)
L’importanza della pianificazione scritta sta, per prima cosa, nel verificare se le
difficoltà del paziente aumentano quando si trova a dover ripercorrere la procedura
“mentalmente”; in secondo luogo, il mezzo scritto può essere utilizzato come uno
strumento di facilitazione per fissare i dati.
Tra la fase di apprendimento e quella di verifica abbiamo introdotto una fase di
sospensione del compito, sia in apprendimento che in esecuzione.
La presenza di una fase di sospensione è fondamentale ai fini della verifica, poiché,
tendenzialmente, le attività distraenti inducono questi pazienti a riprendere il
comportamento abituale.
In questa settimana abbiamo quindi lavorato su altre attività, mirate al potenziamento
delle funzioni attentive e mnesiche, e delle componenti di pianificazione.
Lo scopo è stato quello di verificare, in seguito, se il miglioramento osservato è stato
in funzione dell’intervento implementato o se invece sia stato la conseguenza di un
processo di apprendimento.
86
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
In altri termini, per poter parlare di apprendimento è necessario, da un lato, che le
abilità mostrate durante l’addestramento si mantengano nel tempo, e dall’altro, che
egli sia in grado di trasferirle in altre situazioni e in contesti diversi.
Rappresentazione grafica dei risultati
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7
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5
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3
2
1
0
Baseline
Apprendimento
Sospensione
Verifica
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Numero delle misurazioni
Esecuzione
Pianificazione
Osservando i dati riportati nel grafico è possibile evidenziare alcuni aspetti
interessanti: innanzitutto la differenza tra i due tipi di prestazione, che si mantiene
costante per tutta la durata della sperimentazione, poi, la relativa stabilità del
comportamento del paziente durante le ultime 7 misurazioni, che si è mantenuto ai
livelli raggiunti durante la fase di apprendimento, in entrambe le modalità di
risoluzione del compito, infine, il diverso comportamento nelle prime due fasi, in
relazione al training di apprendimento cui è stato sottoposto.
87
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
Fase 1 : baseline (7 gg)
Questa prima fase corrisponde all’osservazione degli aspetti comportamentali sui
quali siamo poi intervenuti.
Le prime misurazioni hanno fatto emergere una serie di difficoltà, legate, in primo
luogo, alla scarsa consapevolezza del compito, ad un’analisi pressoché assente dei
dati e ad un’incapacità di formulare ipotesi e verificarle.
I primi giorni il comportamento del paziente si è mantenuto su un livello
relativamente basso, poiché non ha preso in considerazione la richiesta di risolvere
subito il compito (come specificato dalla consegna), rimandandolo ad un secondo
momento.
Nei giorni successivi abbiamo fornito alcuni suggerimenti, abbiamo focalizzato
l’attenzione sul fatto che il compito richiedesse la spedizione a “mezzo di
raccomandata” e non di una semplice lettera, ma questo non è bastato a migliorare la
sua prestazione, poiché il paziente ha continuato a cercare il bar per acquistare il
francobollo e la cassetta della posta per imbucarla.
Un dato d’estrema rilevanza è che, sebbene il paziente abbia eseguito lo stesso
compito per più giorni consecutivi e, nonostante i suggerimenti, egli ha continuato a
perseverare sugli stessi errori, e, dato ancor più sconcertante, ha abbandonato il
compito alle prime difficoltà senza mai curarsi del risultato dell’esecuzione.
Le maggiori problematiche emerse da queste prime osservazioni sono state la
mancanza d’iniziativa, il deficit attentivo, che ci ha spinto a ricordargli
continuamente il compito, il disturbo mnesico, inteso come difficoltà a trovare
strategie di accesso ad informazioni presenti in memoria, una forte tendenza alla
perseverazione e una scarsa flessibilità cognitiva: questi disturbi non gli hanno
permesso di seguire nessuna delle fasi del processo di problem solving.
La carenza di un piano strategico è emersa soprattutto quando si è chiesto al paziente
di scrivere le tappe che secondo lui erano necessarie per risolvere il compito: le
difficoltà si sono intensificate e il paziente non è stato in grado di formulare ipotesi.
In questo caso, come è facile notare dal grafico, le prestazioni sono risultate
maggiormente deficitarie rispetto all’esecuzione.
In conclusione, il compito non è stato portato a termine.
88
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
Fase 2: apprendimento dei dati e impiego di facilitazioni esterne (7 gg)
Questa fase descrive l’evoluzione dell’intervento, che è stato articolato in 7 giorni di
trattamento.
L’addestramento giornaliero è stato sviluppato secondo questo programma:
1. Analisi dei dati (categorizzazioni, comparazioni, differenze e facilitazioni) e
somministrazione di un questionario strutturato
2. Pianificazione scritta della procedura
3. Esecuzione “a secco” della procedura
Osservando il grafico si può notare come, complessivamente, l’effetto del training sia
stato estremamente positivo.
Dopo un processo di analisi dei dati, il paziente ha individuato il luogo esatto in cui
effettuare la spedizione (alla posta e non al bar).
Le prestazioni si sono rivelate sensibilmente migliori sin dall’inizio: il paziente ha
mostrato un incremento dell’attenzione volontaria (da imputare probabilmente ad una
maggiore consapevolezza del compito), riduzione degli errori di procedura e delle
perseverazioni, e, dopo qualche giorno d’addestramento e reiterazione di
facilitazioni, è riuscito a concludere il compito con successo.
Il paziente ha impiegato strategie adeguate per cercare il luogo della spedizione,
chiedendo informazioni che poi ha utilizzato senza difficoltà; una volta entrato alla
posta ha atteso il suo turno, ha specificato in modo chiaro la richiesta all’operatore,
ha scritto correttamente gli indirizzi sulla cedola della raccomandata, ha effettuato il
pagamento e atteso la ricevuta.
È importante sottolineare come, durante le ultime prove, il paziente abbia dimostrato
una certa “familiarità” con il compito, cosa che non era emersa nella prima
settimana.
Questo fatto ci fa pensare che il programma di addestramento abbia favorito la messa
in atto di schemi procedurali già depositati in memoria, e che quindi il successo
debba essere inteso come il risultato dell’attuazione di una procedura divenuta
automatica.
Eseguita la procedura è stato chiesto al paziente di trascrivere tutte le tappe appena
effettuate.
89
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
In questo caso sono emerse ancora alcune difficoltà: è stato in grado di esplicitare
correttamente solo alcuni passaggi, lasciando spazio a produzioni confabulanti e
quindi non rispondenti alla realtà.
Ciò ha evidenziato un’alterata capacità strategico-organizzativa , una persistente
compromissione della funzione attentiva e mnesica, nonché una difficoltà di
pianificazione linguistica (frasi brevi, poco esplicative e strettamente legate alla
guida che gli veniva data).
Un altro dato da sottolineare è che, anche in questa fase, nonostante i miglioramenti
nell’esecuzione, il paziente non ha mai esercitato alcuna verifica sul risultato.
Come illustra il grafico, possiamo concludere che l’apprendimento procedurale abbia
determinato un miglioramento significativo delle performance, con un andamento
crescente sia nell’esecuzione che nella pianificazione
Sospensione (7 gg)
Fase 3: verifica (7 gg)
Abbiamo proposto al paziente lo stesso compito ma in un luogo diverso.
Complessivamente le sue prestazioni sono risultate soddisfacenti.
I risultati dell’esecuzione sono stati incoraggianti: nonostante ci sia stato un periodo
di sospensione il paziente ha eseguito subito il compito senza difficoltà, utilizzando
le stesse strategie precedenti: non conoscendo il luogo, ha chiesto informazioni e si è
diretto presso l’ufficio postale, dove ha effettuato correttamente tutti i passaggi della
procedura.
Complessivamente, rispetto alle osservazioni iniziali il paziente è andato meglio
anche nella pianificazione scritta, soprattutto quando questa era guidata da domande.
Al momento di descrivere di nuovo le fasi della procedura, il paziente ha tenuto in
considerazione che il luogo era cambiato e quindi ha fornito delle risposte congrue
con la situazione appena sperimentata, anche se non è stato in grado di riportare
correttamente tutti i passaggi della procedura, e non ha esercitato alcun tipo di
verifica su quello che aveva scritto; tuttavia si sono notevolmente ridotte le
produzioni confabulanti.
90
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
Durante la pianificazione sono quindi emersi ancora una serie di problemi:
atteggiamento confabulante, difficoltà nella ricerca di strategie, scarsa iniziativa,
disturbi mnesici e di attenzione, difficoltà nell’organizzazione del linguaggio.
Questi risultati sono significativi del fatto che il trattamento abbia avuto effetto, in
primo luogo sull’esecuzione, e quindi su uno schema procedurale divenuto
automatico, ma, per certi aspetti anche sulla pianificazione, poiché ha sollecitato,
anche se non in maniera eccellente, un meccanismo strategico flessibile, ovvero
applicabile anche al mutare di alcune variabili ambientali.
Il fatto che, come mostra il grafico, il comportamento si sia mantenuto sullo stesso
livello anche quando l’intervento è stato sospeso, è estremamente significativo dal
punto di vista terapeutico, perché dimostra la stabilizzazione degli effetti del
trattamento, il loro mantenimento e la loro possibilità di generalizzazione.
In conclusione, si può dire che l’intervento ha determinato delle modificazioni
stabili, ovvero l’acquisizione di determinati contenuti e abilità che hanno permesso al
soggetto di affrontare una situazione diversa da quella sperimentale.
91
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
PROVA N° 2
Compito:
“ HA UNA MATTINATA MOLTO IMPEGNATA, DEVE COMPIERE
QUESTE ATTIVITA’”
•
Rinnovare carta d’identità
•
Ore 12,30: Riprendere i bimbi a scuola
ORARIO APERTURA
•
Ore 11,30: Appuntamento dal medico
•
Fare spesa
•
Ore 8,00: Accompagnare i bimbi a scuola
•
Fare un bonifico in banca
Banca: 9.00 – 12.30
Comune: 8.30 – 12.30
Supermercato: 8.30 – 13.00
“ DESCRIVA L’ORDINE CON CUI SVOLGE LE VARIE ATTIVITA’ , IMPIEGANDO IL
MINOR TEMPO POSSIBILE ”
CASA
BANCA
700 mt
SUPERMERCATO 500 mt
SCUOLA
300 mt
600 mt
700 mt
COMUNE
400 mt
AMBULATORIO
92
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
La sperimentazione si è protratta per un mese.
Per questa prova non abbiamo introdotto una fase di sospensione, ma si è ritenuto
necessario prolungare il periodo dell’apprendimento, poiché il problema conteneva
un maggior numero di dati da analizzare e imponeva delle regole strutturate e
vincolanti per la corretta risoluzione.
Inoltre, il problema implicava la deduzione di dati non espliciti: ( es.“ Ha una
mattinata molto impegnata”, indica che tutte le attività devono essere svolte
nell’arco della mattinata; “Impiegando il minor tempo possibile”, indica che deve
tenere in considerazione il dato delle distanze; “Rinnovare carta d’identità”, indica
che deve recarsi in comune).
Altri elementi di complessità erano che le commissioni sono state elencate secondo
un ordine casuale e che il compito richiedesse una risoluzione “a tavolino”, non
rinforzata da un’esecuzione nel contesto.
Rappresentazione grafica dei risultati
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P 9
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3
2
1
0
Baseline
Apprendimento
Verifica
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28
Numero delle misurazioni
Pianificazione “astratta”
93
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
Anche in questa seconda prova, la prima impressione che si ha osservando il grafico
è che ci sia una notevole differenza tra le prime due fasi della sperimentazione:
tuttavia, poiché il compito era più impegnativo del precedente, le prestazioni non
hanno raggiunto i livelli ottenuti nella prima prova.
Si può affermare comunque che il trattamento abbia avuto anche qui un effetto
positivo sulle performance del paziente, e che il miglioramento si sia parzialmente
mantenuto anche nella fase della successiva verifica.
Fase 1: baseline (7 gg)
Il rendimento complessivo del paziente in questa prima fase è stato gravemente
deficitario ed ha fatto emergere un quadro di compromissione di tutte le componenti
esecutive ed una situazione di generale carenza su tutto il repertorio delle abilità
cognitive: l’attenzione, l’iniziativa, la memoria, l’astrazione, la pianificazione e la
consapevolezza.
Come si nota dal grafico, i risultati di questa prima fase di osservazione si collocano
intorno ad un livello basso e tendenzialmente costante, che oscilla tra i valori 1 e 2
(range 0-18).
Il primo giorno il paziente non ha compreso il compito: ha effettuato una lettura
parziale dei dati focalizzando l’attenzione solo sulla mappa ed escludendo tutte le
altre informazioni contenute nella consegna, è rimasto in silenzio senza neanche
tentare di risolvere il problema.
Inoltre, non è stato in grado di accedere autonomamente alle informazioni utili
contenute implicitamente nelle consegne del compito.
A questo punto si è reso necessario fornire delle facilitazioni per aiutarlo nella
comprensione (esclusione visiva della mappa e richiami verbali).
Proseguendo nell’osservazione si è evidenziata una marcata alterazione di tutti i
processi attentivi, che gli hanno impedito di focalizzarsi sulle informazioni rilevanti
(componenti selettive) e di portare a termine il compito abbandonandolo
ripetutamente senza curarsi del risulto (componenti intensive).
94
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
Fase 2: apprendimento (14 gg)
L’ obiettivo dell’intervento, articolato in 14 giorni di apprendimento, è stato quello
di promuovere la comprensione del compito.
Abbiamo quindi lavorato su ogni singolo elemento del problema, scomponendolo in
sottofasi ed effettuando un apprendimento fase per fase: compito, elenco delle
attività, condizioni vincolanti, analisi della mappa.
Il processo di analisi dei dati è stato condotto, in primo luogo, sollecitando il
paziente a focalizzarsi sulle varie attività e chiedendogli di elencarle immediatamente
dopo aver visto la consegna. I primi tentativi hanno evidenziato una difficoltà nella
fissazione di questi dati, mentre se veniva chiesto di disegnare la mappa egli riusciva
a ricostruire tutto il percorso e quindi anche le varie attività da svolgere.
Il training di apprendimento è stato continuativo, ed ha visto coinvolti i familiari che
hanno proseguito il training anche a domicilio.
Tuttavia il paziente spesso riferiva di non ricordare quello che aveva fatto il giorno
prima e quello che il compito richiedesse, mentre alla visione della consegna
rammentava di averlo già visto ed era in grado di dedurre delle informazioni non
esplicitate dal compito (es. “ ha una mattinata molto impegnata” , il paziente
deduceva che tutte le attività dovevano essere svolte nell’arco della mattinata;
oppure, “ deve impiegare il minor tempo possibile”, capiva che doveva scegliere il
percorso più corto; “rinnovare carta d’identità”, sapeva che doveva andare in
comune).
I primi tentativi di risoluzione hanno reso necessario l’impiego di molte facilitazioni
esterne, e l’attenzione è stata mantenuta solo per una parte del compito con tendenza
ad abbandonarlo alle prime difficoltà.
Le risposte sono state spesso impulsive ed hanno portato quindi a soluzioni non
sempre adeguate: il paziente non è stato in grado di confrontare i dati utilizzati con
quelli ancora da utilizzare, perseverando nelle risposte.
Tuttavia, insieme al difetto di memoria, che può da solo giustificare le sue difficoltà,
è da riconoscere anche una carenza di strategie organizzative.
Nella seconda parte di questa fase il paziente è stato autonomo nel ricordare le
attività specificate dal compito, utilizzando come strategia di autofacilitazione la
95
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
ricostruzione della mappa: le perseverazioni sono diminuite e alcuni degli errori di
procedura sono stati riconosciuti dal paziente stesso e quindi corretti.
Complessivamente, il paziente è stato più propositivo rispetto alla fase iniziale e,
come si nota dal grafico, le osservazioni hanno fatto registrare un immediato e
consistente miglioramento delle performance mostrando un andamento crescente
fino a stabilizzarsi nelle ultime cinque misurazioni.
Fase 3: verifica (7 gg)
In questa fase della sperimentazione abbiamo sospeso l’intervento e ci siamo limitati
ad osservare il comportamento spontaneo del paziente sullo stesso compito.
L’obiettivo è stato quello di verificare, tramite l’osservazione dell’approccio globale
del paziente al problema, se i miglioramenti osservati durante l’applicazione del
training si sono mantenuti, e quindi se il trattamento abbia influito in maniera
positiva sulle abilità cognitive del paziente.
Complessivamente, abbiamo notato un miglioramento nell’analisi dei dati del
problema, che non si è limitata esclusivamente alla mappa, ma anche alle altre
informazioni riportate nella prima parte della consegna.
Alla visione del compito, il paziente è riuscito ad entrare autonomamente nelle
informazioni, a dedurre quelle non esplicitate dalla consegna, a tenerle
operativamente in memoria e ad utilizzarle per la formulazione di ipotesi.
Tuttavia, non è stato in grado di stabilire le priorità secondo cui collocare
temporalmente le varie attività, ordinandone solo due su sei, consultando sempre le
distanze tra un posto e l’altro ma non integrando la parte del compito relativa agli
orari.
Per tutti questi motivi, e ancora, per la difficoltà a pianificare, il compito non è stato
mai portato a termine e il paziente non ha mai verificato il risultato.
Queste osservazioni hanno comunque evidenziato un generale miglioramento
rispetto alla fase iniziale della sperimentazione, soprattutto per quanto riguarda la
frequenza degli errori di procedura e delle perseverazioni, il mantenimento
dell’attenzione sostenuta, la memoria e l’iniziativa.
96
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
Sulla base di questi aspetti, ed osservando il grafico, si può concludere che gli effetti
del trattamento non si siano del tutto stabilizzati, poiché, al momento della
sospensione del training il comportamento è tornato a raggiungere un livello più
basso, anche se non è sceso fino ai livelli della fase iniziale.
6.2.3 Discussione dei risultati
Le prove e le osservazioni di cui si è riferito sono forse insufficienti a giustificare una
teoria interpretativa globale delle funzioni esecutive.
Ciò nonostante essi evidenziano nel paziente modalità di pensiero e di
comportamento che ricorrono con insistenza significativa, indipendentemente dal
tipo di compito.
I risultati ottenuti da queste sperimentazioni sottolineano come la maggiore difficoltà
del paziente, e dei pazienti frontali in generale,
sia nel costruirsi strategie con cui
operare, e quindi di far fronte ai problemi che la vita quotidiana pone, in contesti
diversi e mutabili.
Esso può essere in grado di risolvere problemi quando viene testato in situazioni ben
strutturate, con facilitazioni contestuali e con il rinforzo della pratica, e avere invece
prestazioni fallimentari in situazioni che richiedano abilità organizzative e di
programmazione di cui il paziente non è più capace.
Solitamente le maggiori difficoltà non si osservano nelle situazioni di routine in cui il
paziente può fare affidamento su conoscenze e procedure consolidate, ma soprattutto
quando deve affrontare situazioni non routinarie, di cui non ha fatto sufficientemente
esperienza prima dell’inizio della patologia, quando si tratta cioè di utilizzare le
proprie conoscenze in modo inusuale: il paziente ha a disposizione tutti gli strumenti
cognitivi ma non sa utilizzarli in modo appropriato.
La differenza fra i risultati ottenuti nelle due prove dimostra infatti che le maggiori
difficoltà dei pazienti frontali emergono nei compiti che richiedono l’utilizzo del
pensiero astratto, quando cioè devono ripercorrere “mentalmente” una procedura e
accedere ad informazioni già sperimentate e quindi consolidate, mentre durante
l’esecuzione, nella giusta situazione contestuale, questi schemi vengono fuori in
maniera automatica.
97
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
È possibile, infatti, che nel secondo compito si sia trovato più in difficoltà, dal
momento che è stato costretto ad utilizzare una strategia di ricerca insolita, mentre
nel primo caso ha potuto effettuare una ricerca del tutto compatibile a quella in atto
nella vita di tutti i giorni, quando si compie un compito di routine.
La difficoltà a selezionare, organizzare e sintetizzare secondo un principio direttivo
le informazioni ricevute in modo discontinuo nel tempo, o che devono essere
rievocate e ordinate traendole dalla memoria, rende le esperienze trascorse
inutilizzabili al momento in cui le circostanze impongono forme nuove di pensiero e
di comportamento.
La “flessibilità cognitiva” è una funzione indispensabile per poter essere in grado di
mutare le strategie di pensiero e di azione per fronteggiare le richieste del contesto,
quindi, qualsiasi tipo di intervento riabilitativo diventa efficace nel momento in cui
crea le condizioni affinché il paziente sia in grado di confrontarsi con le situazioni
che la vita quotidiana gli presenta; non si tratta solo di mantenere efficienti le abilità
già possedute ma soprattutto di sviluppare la capacità di affrontare situazioni nuove
come se fossero familiari, utilizzando cioè i modelli di riferimento acquisiti
precedentemente con l’esperienza.
La proposta di trattamento riportata in questo studio non è il risultato di uno studio
clinico controllato, ma piuttosto un’applicazione esplorativa di conoscenze acquisite
recentemente in questo campo.
In altri termini, se da un lato esistono singole osservazioni sulla generica validità
della riabilitazione delle funzioni esecutive, disegni sperimentali volti a determinare
se il disturbo esecutivo possa giovarsi di un trattamento riabilitativo mirato sono
estremamente limitati. Conseguentemente, risulta difficile trarre conclusioni
sull’efficacia del trattamento.
Dai pochi studi condotti fino ad oggi sembrerebbe che i disturbi delle funzioni
esecutive siano suscettibili di trattamento ma che, tuttavia, gli effetti raggiunti siano
strettamente compito-specifici.
Per questo motivo è importante che la selezione delle componenti esecutive da
rieducare debba essere basata sulla loro rilevanza funzionale e che il trattamento
riabilitativo debba essere condotto il più possibile all’interno del contesto ecologico
del paziente.
98
6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:
studio sperimentale su un singolo caso
Per concludere, si può affermare che nel campo della riabilitazione delle funzioni
esecutive molto resti ancora da fare, sia in termini di definizione delle scale di
valutazione funzionale, che fanno da premessa alla elaborazione del programma
riabilitativo, sia in termini di progettazione e applicazione delle metodiche.
99
Conclusioni
Conclusioni
La patologia frontale va assumendo sempre maggiore importanza in ambito
riabilitativo, non solo in quanto può essere grave in sé stessa e nelle conseguenti
implicazioni personologiche e sociali, ma anche per essere spesso causa di
insufficiente collaborazione da parte del paziente, quindi, di impedimento al
trattamento dei deficit presenti nel quadro complessivo e potenzialmente suscettibili
di miglioramento.
In questo lavoro si è cercato di illustrare a titolo esemplificativo i principali disturbi
che insorgono quando la patologia aggredisce i lobi frontali e si è visto come questi
problemi incidono pesantemente sulla capacità di adattamento personale e sociale e,
soprattutto, come essi rappresentino la causa delle maggiori difficoltà per i parenti e
per il team di riabilitazione.
I disturbi di cui si è riferito sono peculiari della patologia frontale ma possono
manifestarsi dopo una qualsiasi lesione cerebrale; ho scelto di descrivere questa
patologia perché è quella che meglio rappresenta tali disturbi e, soprattutto, perché le
considerazioni fatte finora possono e devono essere calate all’interno di un contesto
più ampio, che è quello della riabilitazione neuromotoria.
Certamente i deficit cognitivi e le loro manifestazioni sono i problemi più difficili da
trattare in riabilitazione perché il paziente è come se avesse perso la sua mente e la
sua personalità; egli resta tuttavia la stessa persona, con le stesse esperienze e con lo
stesso carattere, solo che egli ora cerca disperatamente di affrontare un “mondo
inesplicabile”, senza però poter disporre dei processi necessari per esplorarlo,
adattarsi ed organizzarsi.
L’incapacità del paziente di svolgere attività della vita quotidiana, che egli dal punto
di vista fisico sarebbe in grado di effettuare, è difficile da accettare se non si
comprendono i disturbi cognitivi che sono alla base del suo comportamento.
Il trattamento delle patologie neurologiche deve essere mirato al recupero delle
competenze motorie, ma spesso l’impatto che hanno i disturbi cognitivi sul recupero
funzionale tende ad essere sottostimato, o comunque non si considera che essi sono
alla radice di tutte le difficoltà del paziente, compresa la perdita di capacità motorie.
100
Conclusioni
Un approccio di trattamento sensibile all’interazione della lesione cognitiva e
comportamentale, ed il modo in cui queste influenzano l’acquisizione delle abilità,
può essere più efficace per definire e sviluppare le abilità e le capacità che,
accrescendo il livello di indipendenza e di autonomia, riducono il carico assistenziale
gravante sui membri della famiglia.
I fattori che influenzano il livello di assistenza necessaria includono la capacità
fisica, ma, cosa altrettanto importante, la capacità di eseguire le attività della vita
quotidiana ed i compiti professionali, in modo costante ed in contesti ambientali
diversi.
Non si può dimenticare che la riabilitazione assume il suo pieno significato quando si
occupa della relazione individuo-ambiente senza privilegiare nessuno dei due poli a
scapito dell’altro, ma lo scopo può essere raggiunto solo prendendo in
considerazione il paziente nella sua singolarità di individuo con un deficit specifico
inserito in un determinato contesto.
Sfortunatamente viene spesso dimenticato il ruolo che l’ambiente svolge, mentre si
usano programmi per modificare il comportamento del paziente e la sua disponibilità
a collaborare, con il risultato che egli impara soltanto ciò che piace o dispiace al team
di riabilitazione, ma non viene scoperta o eliminata la reale causa del suo
comportamento indesiderato.
Se non vengono riconosciuti e trattati i problemi alla base del suo comportamento,
egli non sarà in grado di far fronte alle sempre nuove e complesse esigenze della vita
fuori dai confini protetti dell’ospedale o del centro di riabilitazione.
Il terapista dovrebbe guardare oltre questi confini, e sviluppare un programma di
trattamento che massimizzi i risultati funzionali e migliori la qualità della vita del
paziente, riduca il peso dell’assistenza per i membri del nucleo familiare e soddisfi le
aspettative della società.
Una riabilitazione che tenga conto delle particolari esigenze di ogni paziente e delle
circostanze in cui viene a trovarsi, che miri a risolvere i reali problemi quotidiani,
sottolinea l’importanza del lavoro in team: un’equipe che può valutare accuratamente
le lesioni fisiche, cognitive e comportamentali, stabilire le risorse sociali e finanziarie
disponibili, ed identificare i risultati funzionali e professionali più realistici, sarà
molto più efficiente nel soddisfare le esigenze del paziente e della sua famiglia.
101
Conclusioni
In questo senso, le aree frontali del nostro cervello, regolando l’espressione
comportamentale e quindi l’interazione dei nostri movimenti con l’ambiente,
costituiscono un “ponte” tra l’esecuzione motoria e il suo risultato sociale.
Il fisioterapista, dovendo contribuire al “risultato sociale”, non può prescindere dalla
conoscenza di questi meccanismi, sia per ottimizzare l’intervento durante l’esercizio
terapeutico che nel definire gli obbiettivi del programma riabilitativo.
Obiettivo prioritario della riabilitazione è l’abbattimento delle “barriere cognitive”,
che ostacolano l’intervento riabilitativo tanto quanto le più note barriere
architettoniche.
Il paziente deve essere messo nelle condizioni di collaborare e partecipare
attivamente al programma di trattamento, anche nelle condizioni più sfavorevoli,
ottimizzando le risorse disponibili.
Il reinserimento lavorativo e sociale è un obiettivo perseguibile anche quando ad
essere colpita è la mente e non il corpo.
102
Bibliografia
Bibliografia
•
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