Marzo 2006 - Ordine dei Giornalisti

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Marzo 2006 - Ordine dei Giornalisti
Ordine
Anno XXXVI
n. 3 Marzo 2006
Direzione e redazione
Via Antonio da Recanate, 1
20124 Milano
Telefono: 02 67 71 37 1
Telefax: 02 66 71 61 94
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Sped.abb.post. Dl n. 353/2003
(conv. in L. 27/2/2004 n. 46)
art. 1 (comma 2).
Filiale di Milano
dei
giornalisti
della
Lombardia
Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo
Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo
Accolta
la richiesta
avanzata
dal presidente
dell’Ordine
dei Giornalisti
della Lombardia.
La seduta fissata
per il 13 marzo.
È battaglia finale
Esami con laurea:
decide l’adunanza
generale del CdS
L’assemblea degli iscritti giovedì 23 marzo 2006
La posizione del ministero
dell’Università sostenuta con forza
anche dal ministero della Giustizia
e dal ministero degli Affari regionali.
“Oro” a 24 colleghi
per 50 anni di Albo
Milano, 15 dicembre 2005. Sono 24 i colleghi (18 professionisti e 6 pubblicisti) che nel
2006 compiono i 50 anni di iscrizione negli elenchi dell'Albo. Riceveranno la medaglia d'oro dell’Ordine della Lombardia in occasione dell’assemblea annuale degli iscritti che si
terrà giovedì 23 marzo (ore 15) al Circolo della Stampa. Ed ecco i loro nomi:
PROFESSIONISTI Domenico Alessi, Paolo Arzano, Dario Baldi, Vincenzo Bettiza, Romano
Cantore, Mirella Casei, Gianluigi Cossu, Maurilio Degiorgis, Salvatore La Pietra, Giovanni
Marin, Luciano Micconi, Romolo Mombelli, Sergio Nunziata, Ibio Paolucci, Enrico Giovanni
Pavesi, Pietro Radius, Adriano Sollazzo, Silvano Taugeri.
PUBBLICISTI Pietro Ambrosetti, Francesco Catania, Guido Granata, Gloria Lunel, Cassio
Morosetti, Romain Rainero.
Nel corso dell’assemblea verranno premiati anche i vincitori del “Concorso Tesi di laurea
sul giornalismo” e verrà consegnata la tessera di praticante giornalista agli allievi dell’Ifg
“Carlo De Martino”, della Scuola di Giornalismo dell’Università Cattolica e del Master in
Giornalismo dell’Università Iulm. All’ordine del giorno dell’assemblea degli iscritti all’Albo
figura l’approvazione del bilancio preventivo 2006 e del conto consuntivo 2005.
ALLE PAGINE 6-13 LE BIOGRAFIE DEI COLLEGHI PREMIATI
La sezione Atti normativi
del Consiglio di Stato (CdS)
il 27 febbraio ha rinunciato
ad occuparsi del “Dpr Siliquini”.
Roma, 27 febbraio 2006. Svolta nell’iter del
“Dpr Siliquini”, che coniuga, come vuole la
legge 4/1999 (art. 1, comma 18), gli esami di
Stato di 21 professioni intellettuali (compresa
quella giornalistica) e le lauree della riforma
universitaria.
La Sezione per gli Atti nomativi del Consiglio
di Stato (CdS) oggi ha gettato la spugna e ha
investito del problema, come aveva richiesto
il presidente dell’Ordine dei giornalisti della
Lombardia, l’adunanza generale del Consiglio di Stato. Saranno i magistrati delle 7 sezioni del massimo giudice amministrativo della nazione a rassegnare il 13 marzo il parere
al Governo sullo “Schema di decreto del
Presidente della Repubblica concernente
Regolamento recante disciplina dei requi-
siti per l’ammissione all’esame di Stato, ai
sensi dell’articolo 1, comma 18, della legge 14 gennaio 1999, n. 4”. La Sezione Atti
normativi il 23 gennaio aveva chiesto chiarimenti al ministero dell’Università con il parere
interlocutorio n. 50.
La risposta è arrivata il 22 febbraio successivo con una memoria firmata dall’avv. Daniela
Salmini, capo dell’Ufficio legislativo del ministero dell’Università (Miur) sostenuta da analoghe memorie del ministero della Giustizia e
del ministero degli Affari regionali. Il parere favorevole del Cds precede la pubblicazione
del Dpr nella Gazzetta ufficiale.
SEGUE A PAGINA 2
IL DLGS 40/2006, CHE MODIFICA IL CPC, È UNA MAZZATA PER I LAVORATORI IN LITE CON LE AZIENDE
Cause di lavoro alle Calende greche
Il giudice del lavoro, alla prima udienza, in caso di necessità di risolvere in via pregiudiziale questioni relative all’efficacia, alla validità e alle
interpretazione dei contratti collettivi, dovrà farlo in via immediata con
di Patrizia Sordellini, avvocato in Milano
Il D. Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 (“Modificazioni al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione
nomofilattica”) inserisce nel Codice di procedura civile l’art. 420
bis (“accertamento pregiudiziale sull’efficacia validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi”), che recita “Quando
per la definizione di una controversia di cui all'articolo 409 è
necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l'efficacia, la validità o l'interpretazione delle clausole
di un contratto o accordo collettivo nazionale, il giudice decide
con sentenza tale questione, impartendo distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione o, comunque, per la prosecuzione
della causa fissando una successiva udienza in data non anteriore a novanta giorni. La sentenza è impugnabile soltanto
con ricorso immediato per cassazione da proporsi entro sesORDINE
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2006
sentenza che non sarà soggetta ad appello ma immediatamente ricorribile per Cassazione, con conseguente sospensione del giudizio di merito fino alla definizione della questione pregiudiziale.
santa giorni dalla comunicazione dell'avviso di deposito della
sentenza. Copia del ricorso per cassazione deve, a pena di
inammissibilità del ricorso,, essere depositata presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata entro venti giorni dalla notificazione del ricorso alle altre parti; il
processo è sospeso dalla data del deposito”.
Poche righe per attirare l’attenzione sugli inevitabili problemi e sugli ulteriori ritardi che tale norma comporterà
per molte cause di lavoro.
In pratica, il giudice del lavoro, alla prima udienza, in caso di
necessità di risolvere in via pregiudiziale questioni relative all’efficacia, validità e interpretazione dei contratti collettivi, dovrà
farlo in via immediata con sentenza che non sarà soggetta ad
appello ma immediatamente ricorribile per Cassazione, con
conseguente sospensione del giudizio di merito fino alla definizione della questione pregiudiziale.
Fino ad ora l’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune era riservata al giudice di merito e non era censurabile
in sede di legittimità se non per violazione dei canoni legali di
ermeneutica contrattuale e per vizi della relativa motivazione.
La nuova norma introdotta estende invece alla Corte di
Cassazione un sindacato diretto sull’interpretazione e l’applicazione dei contratti collettivi nazionali di diritto comune, che
sono contratti di diritto privato la cui l’interpretazione, tra l’altro,
potrebbe comportare la necessità di compiere accertamenti in
fatto che la Corte non può fare.
Tra l’altro la devoluzione alla Corte non solo delle questioni riguardanti l’interpretazione ma anche l’applicazione dei contratti
collettivi di diritto comune tende a trasformare il giudizio di cassazione in un normale giudizio di merito con uno stravolgimento di principi giuridici fondamentali ed un prevedibile aumento del carico di lavoro della Corte che non avrà altro risultato che quello di ulteriormente dilatare i tempi, già non brevi,
dei giudizi di lavoro.
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Segue dalla prima pagina
È battaglia finale. Esami con laurea:
decide l’adunanza generale del CdS
Con nota n. 50 del 23 gennaio 2006, la Sezione consultiva
per gli atti normativi del Consiglio di Stato ha richiesto al
Miur un supplemento istruttorio sullo schema del “Dpr
Siliquini” (dal nome del sottosegretario, che è stata l’anima
della riforma) relativamente ai seguenti aspetti:
1. il fondamento costituzionale della potestà regolamentare esercitata ai sensi dell’articolo 1, comma 18, della legge 14 gennaio 1999, n. 4, in materia di esami di Stato;
2. la collocazione della disciplina dei titoli di studio richiesti
per l’ammissione all’esame di Stato che, secondo il
Consiglio di Stato, trascenderebbe la materia “esame di
Stato”, attenendo alla individuazione dei principi fondamentali che regolano l’accesso alle professioni intellettuali;
3. l’ambito della citata potestà regolamentare, che andrebbe limitato soltanto ad interventi riformatori consequenziali alla riforma del diploma di laurea, mentre non comprenderebbe le professioni per le quali tale titolo di studio non
è già richiesto dalle disposizioni vigenti.
Questa l’articolata
risposta dell’avvocato
Daniela Salmini
1.
Con riferimento alla potestà regolamentare dello Stato in materia di esami di Stato, si ritiene di dover
ribadire quanto già espresso nella relazione illustrativa in
ordine alla sussistenza della potestà legislativa esclusiva
dello Stato dalla quale deriva anche la relativa potestà regolamentare. Le materie di competenza esclusiva statale,
infatti, in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione,
non sono solo quelle elencate nell’art. 117, secondo comma, ma anche tutte quelle attribuite espressamente allo
Stato da altre disposizioni costituzionali non modificate dalla riforma del Titolo V.
Tra queste ultime rientra certamente l’art. 33, che attribuisce alla legge statale la disciplina dell’esame previsto per
l’accesso alle professioni – art. 33 quinto comma, – e la disciplina dell’autonomia universitaria – art. 33 sesto comma.
In tal senso si è già espressa la Corte costituzionale, con
un consolidato orientamento, in materia di autonomia universitaria. Al riguardo, la Corte ha anche chiarito che l’attribuzione di una materia alla competenza concorrente può
accompagnarsi alla attribuzione di specifici profili della
stessa materia alla competenza legislativa esclusiva statale. Infatti, dopo aver chiarito che l’autonomia universitaria
rientra nella potestà legislativa statale, la Corte
Costituzionale ha altresì attribuito allo Stato la materia della “ricerca scientifica e tecnologica” che si svolge presso le
strutture universitarie, e ciò pur in presenza della disposizione di cui all’articolo 117, terzo comma, che include la ricerca scientifica tra le materie di legislazione concorrente.
In sostanza, quindi, la Corte ha ritenuto che la riserva di
legge statale, sancita dall’articolo 33 della Costituzione, ricomprenda in sé anche i profili relativi all’attività di ricerca
scientifica che si svolge, in particolare, presso le strutture
universitarie (cfr., ex multis, le sentt. n. 423 del 2004 e 31
del 2005).
Va ulteriormente sottolineato che la Corte ha attribuito la
“ricerca scientifica e tecnologica”, svolta presso le strutture universitarie, alla competenza legislativa esclusiva statale sulla base di una interpretazione sistematica del testo
costituzionale. A maggior ragione le medesime conclusioni
valgono per la materia dell’esame di Stato, attribuita
espressamente alla potestà legislativa esclusiva statale da
una specifica norma costituzionale (art. 33, quinto comma).
La predetta interpretazione del combinato disposto degli
articoli 33 e 117 terzo comma della costituzione con riferimento alla materia delle professioni è pure confortata da
autorevole dottrina; con riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., infatti si è affermato che tale riparto di competenze debba essere letto alla luce dell’art. 33, quinto comma, Cost. il quale, prescrivendo un esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione, configura una
competenza legislativa esclusiva dello Stato (cfr., sul punto, V. CAIANIELLO, “L’inserimento delle professioni nel titolo V
della Costituzione”, in Atti del Convegno nazionale “Quale
federalismo per le professioni” del 18 marzo 2002, tenutosi a Codroipo di Udine con il patrocinio della Regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia, p. 50).
Sulla base di tali premesse si ritiene che dalla materia di
legislazione concorrente “professioni” resti esclusa la disciplina degli esami di abilitazione professionale, di competenza esclusiva dello Stato, competenza che il legislatore
costituzionale del 2001 non ha inteso modificare.
2
Consistendo, infatti, l’esame di Stato in una prova tecnica
circondata da particolari garanzie di imparzialità, serietà e
professionalità specifica, volta a verificare la professionalità
acquisita dal candidato (cfr., in tal senso, Corte cost., sent.
n. 127 del 1985), la sua regolamentazione impone una disciplina omogenea su tutto il territorio nazionale, in funzione di tutela dell’affidamento ingenerato negli utenti dei servizi professionali.
In conclusione, si ribadisce che dal combinato disposto degli artt. 33, quinto comma, e 117, terzo e sesto comma, della Costituzione, discende la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di esami di Stato per l’abilitazione alle professioni, e la connessa potestà regolamentare.
2.
Con riferimento alla collocazione della disciplina dei titoli di studio richiesti per l’ammissione all’esame di Stato si osserva:
– come ricordato dallo stesso Consiglio di Stato nella richiesta di chiarimenti in oggetto, la giurisprudenza costituzionale ha più volte precisato che l’art. 33 Cost. reca in sé
un principio di professionalità specifica, richiedendo che l’esercizio di attività professionali rivolte al pubblico avvenga in
base a conoscenze sufficientemente approfondite ed ad un
correlato sistema di controlli preventivi e successivi di tali
conoscenze, per tutelare l’affidamento della collettività in ordine alle capacità di professionisti le cui prestazioni incidono in modo particolare su valori fondamentali della persona: salute, sicurezza, diritti di difesa, etc. (Corte cost. sentt.
23 dicembre 1993, n. 456, e 26 gennaio 1990, n. 29).
Appare dunque evidente l’inscindibile connessione esistente tra la fase dell’acquisizione delle conoscenze, attraverso il percorso formativo ed il momento della verifica delle stesse, consistente nell’esame di Stato, volto a garantire l’effettiva competenza ed affidabilità del professionista.
In altri termini, la disciplina dei titoli che danno accesso all’esame di Stato, cioè il titolo di studio ed il tirocinio, è inscindibile sul piano logico dalla disciplina dell’esame di
Stato stesso, posto che le prove d’esame mirano a verificare proprio le conoscenze e competenze acquisite dal
candidato e sono su di esse calibrate. Pertanto, l’individuazione dei titoli di studio richiesti quali requisiti per l’accesso all’esame di Stato non può che essere ricompresa
nella disciplina dell’esame di Stato.
Nel nostro ordinamento, infatti, l’esame di Stato per l’accesso alle professioni non è aperto a chiunque, ma esclusivamente a coloro che possiedono i necessari requisiti.
Non è vero, d’altronde, che i titoli di studio richiesti per l’accesso all’esame di Stato costituiscano di per sé titoli per
l’accesso alle professioni. Invero, nel nostro ordinamento
delle professioni regolamentate, il requisito per l’accesso
alla professione è esclusivamente l’abilitazione professionale conseguita a seguito del superamento dell’esame di
Stato.
Occorre altresì rilevare che la disciplina degli esami di
Stato è inscindibilmente connessa alla disciplina dell’autonomia universitaria, come emerge d’altra parte dalla collocazione nel medesimo articolo 33 (commi quinto e sesto)
di entrambe le materie. Al riguardo l’art. 17, comma 95, della legge 15 maggio 1997, n. 127, ha previsto la delegificazione degli ordinamenti degli studi universitari, rimettendone la disciplina a decreti ministeriali che definiscono i criteri per l’autonomia didattica degli Atenei.
In attuazione del citato articolo 17, è stato emanato il regolamento di cui al D.M. n. 509 del 1999, successivamente sostituito dal D.M. n. 270 del 2004; e sono state altresì
definite con appositi decreti ministeriali le classi di laurea e
di laurea specialistica.
Pertanto, nel nuovo ordinamento, attuato da tutti gli Atenei
fin dall’anno accademico 2001-2002, i corsi di studio sono
istituiti dagli stessi Atenei nell’ambito delle classi.
Nella stessa classe, possono essere attivati più corsi di
studio diversi, che peraltro condividono i medesimi obiettivi formativi e le medesime attività formative indispensabili
ed hanno di conseguenza il medesimo valore legale.
Nel nuovo ordinamento, quindi, i titoli di studio ed il relativo valore legale sono individuati non più per legge, ma sulla base di provvedimenti ministeriali di natura regolamentare e non regolamentare.
La flessibilità dei percorsi formativi, assicurata da atti normativi di rango sublegislativo, si propone di garantire l’adeguamento continuo dei percorsi universitari al mutare delle esigenze formative derivanti dal mondo del lavoro e, in
particolare, da quello delle professioni.
In tale quadro normativo si inserisce anche la scelta operata dal legislatore con la legge n. 4 del 1999 che ha delegificato la materia degli esami di Stato. Il regolamento, infatti, è apparso al legislatore lo strumento più idoneo ad individuare i titoli di studio che danno accesso agli esami di
Stato, tenendo conto della continua evoluzione dei percor-
si formativi ad opera dei decreti ministeriali e dei regolamenti di ateneo.
Da quanto sin qui detto deriva che la scelta di individuare
i titoli di studio che danno accesso all’esame di Stato mediante lo strumento regolamentare non soltanto è costituzionalmente legittima, ma appare anche l’unica idonea, posto che l’individuazione per legge di tali titoli contrasterebbe con la disciplina delle fonti, in quanto equivarrebbe a rimettere alla legge l’individuazione di titoli riservati a fonti
non legislative.
Le considerazioni espresse ai punti 1 e 2 trovano inoltre
supporto normativo nel decreto legislativo 2 febbraio 2006,
n. 30, recante “Ricognizione dei principi fondamentali in
materia di professioni, ai sensi dell'articolo 1 della legge 5
giugno 2003, n. 131”, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n.
32 dell’8-2-2006. Al riguardo, va osservato che la Corte costituzionale ha recentemente affermato il valore interpretativo della legge n. 131 del 2003 (“Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale n. 3 del 2001”) in ordine alla riforma del Titolo
V della Costituzione (cfr. sent. n. 12 del 2006). Ne deriva
che il medesimo valore deve essere attribuito anche ai decreti legislativi attuativi delle disposizioni di delega ivi contenute.
Ciò premesso, occorre soffermarsi in particolare sulle disposizioni contenute nel decreto n. 30 del 2006, approvato
all’esito di un iter complesso che ha ampiamente coinvolto
le Regioni e dalle quali è stato condiviso:
a) L’art. 1, al comma 3, stabilisce che “La potestà legislativa regionale si esercita sulle professioni individuate e definite dalla normativa statale”. Tale disposizione, facendo riferimento in modo generico alla “normativa” e non alla “legislazione” dello Stato, riconosce sostanzialmente che costituiscono limiti della potestà legislativa regionale in materia di professioni non solo i principi fondamentali della materia, stabiliti da leggi dello Stato, ma anche la potestà legislativa esclusiva dello Stato sulle materie attinenti alle
“professioni intellettuali” – elencate al successivo comma 4
– per la disciplina delle quali lo Stato può utilizzare, oltre
alla fonte legislativa, anche quella regolamentare. Le materie elencate al comma 4, infatti, non costituiscono una
mera previsione negativa, ma concorrono ad individuare
positivamente i limiti posti alla legislazione regionale dal
comma 3;
b) il comma 4 predetto riconosce la competenza esclusiva
statale, limitatamente alle professioni intellettuali, riguardo
alla disciplina degli esami di Stato, e relativi titoli, compreso il tirocinio, […] richiesti per l’esercizio professionale”, facendo chiaramente riferimento a tutti i requisiti previsti dall’ordinamento per l’accesso all’esame di Stato, inclusi, in
primis, i titoli di studio, che rappresentano un specificazione della più ampia categoria dei “titoli”;
c) l’art. 4, che definisce i principi in materia di accesso alle professioni, ha pertanto una portata limitata alle professioni diverse da quelle intellettuali, disciplinate dall’articolo
1, comma 4. La norma, pertanto, non si riferisce all’accesso alle professioni “intellettuali”, per le quali è previsto l’esame di Stato, ma esclusivamente all’accesso alle altre
professioni, non regolamentate, per le quali spetta allo
Stato la definizione, sub specie di principi fondamentali, dei
requisiti tecnico-professionali e dei titoli professionali.
3.
Con riferimento all’ambito della potestà regolamentare in questione, si ritiene che la disposizione dell’art. 1, comma 18, della legge n. 4 del 1999, non debba
essere intesa con riferimento alle sole professioni per le
quali è già richiesto il diploma di laurea dalle disposizioni
vigenti. Infatti, la predetta norma attribuisce la potestà regolamentare con riferimento a tutte le professioni “per il cui
esercizio la normativa vigente già prevede l’obbligo del superamento di un esame di Stato”; l’oggetto della norma di
delegificazione è pertanto costituito dalla disciplina delle
professioni per le quali è previsto l’esame di Stato, mentre
le disposizioni contenute nelle lett. a), b) e c) costituiscono
principi e criteri direttivi per l’esercizio della potestà regolamentare stessa.
Tale interpretazione della norma in questione è del resto
confermata dal parere facoltativo reso da codesto on.le
Consiglio nell’Adunanza della sezione seconda il 13 marzo 2002, n. 448/2001, proprio con riferimento alla possibilità di includere la professione di giornalista nella citata disciplina regolamentare; in tale parere si afferma la natura
di esame di Stato della prova di idoneità prevista per l’accesso alla professione di giornalista e si conclude per l’insussistenza di motivi ostativi alla riforma dell’ordinamento
professionale dei giornalisti ai sensi dell’art. 1, comma 18,
della legge n. 4 del 1999.
ORDINE
3
2006
Bando di concorso
V “Premio giornalistico
Mauro Gavinelli”
A Paolo Rumiz il premio
NEOS-Porsche Italia 2006
Il Gruppo Altomilanese giornalisti (Gag), istituito nel 1993, con sede in Legnano, intende
ricordare la figura di Mauro Gavinelli, che fu tra i soci fondatori e primo presidente del Gag.
A tale scopo, bandisce la quinta edizione del “Premio giornalistico Mauro Gavinelli”.
Milano, 21 febbraio 2006. - È Paolo Rumiz, giornalista e scrittore inviato di Repubblica, il vincitore della settima edizione del Premio NEOS-Porsche Italia. Il riconoscimento viene attribuito
ogni anno dalla NEOS, associazione di giornalisti e fotografi professionali di viaggio, a un personaggio di primo piano della pubblicistica che si sia distinto per la qualità, l’ampiezza e la
profondità del suo lavoro, nonché per il contributo di conoscenza offerto sui grandi temi del viaggiare come esperienza umana, culturale, etnografica e antropologica. Istituito nel 2000, il premio si avvale della partnership di Porsche Italia e nelle passate edizioni è stato conferito a
Fosco Maraini, Walter Bonatti, Folco Quilici, Ettore Mo, William Allen (direttore di National
Geographic) e Gianni Minà.
Con il triestino Paolo Rumiz, autore di avvincenti reportage su realtà soprattutto - ma non solo - italiane e balcaniche, viene premiato un narratore brillante e un viaggiatore curioso, particolarmente attento alle vicende storiche e umane di quella che definisce la parte più sensibile
d’Europa. Oltre che in reportage, Rumiz ha tradotto le sue numerose e talvolta insolite esperienze in libri come Tre uomini in bicicletta (Feltrinelli), viaggio semiserio dall’Italia a Istanbul
compiuto su due ruote. Tra le sue opere, premiate con la Colomba d’Oro per la pace, c’è anche Gerusalemme perduta che racconta un pellegrinaggio dalle Alpi in Terrasanta alla ricerca
dei cristiani d’Oriente.
REGOLAMENTO
art.1 - Il concorso premia il miglior articolo giornalistico, pubblicato su un quotidiano o un
periodico italiani, che affronti un tema inerente l’attualità politica, economica, sociale, sportiva della Lombardia. Sono ammessi anche articoli pubblicati da riviste on line.
art. 2 - Il premio è riservato ad autori fino a 35 anni d’età (compiuti entro il 21 marzo
2006), non necessariamente iscritti all’Ordine dei giornalisti, nell’intento di valorizzare le intuizioni e l’impegno di Mauro Gavinelli sulla formazione professionale dei
giovani colleghi e degli aspiranti giornalisti.
art. 3 - Il vincitore del Premio riceverà la somma di euro 2.500 (duemilacinquecento).
art. 4 - Ad un concorrente selezionato dalla giuria sarà inoltre offerta la possibilità di realizzare un reportage di viaggio da una capitale europea. Il servizio sarà pubblicato
sulla rivista dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Tabloid. Le spese di viaggio
e soggiorno sono a carico della famiglia Gavinelli che finanzia il Premio.
art. 5 - L’iscrizione al concorso è gratuita.
art. 6 - Ogni concorrente può partecipare presentando un solo articolo che sia stato pubblicato tra il 1° marzo del 2005 e il 20 aprile del 2006.
art. 7 - Non sono ammessi articoli già premiati in altri concorsi giornalistici.
art. 8 - Entro il 30 aprile del 2006 ogni concorrente dovrà far pervenire alla segreteria del
Premio - recapito a mano o servendosi del servizio postale - una copia originale del
giornale sul quale è stato pubblicato l’articolo firmato o siglato (nel caso di testate
on line una stampata della home page), accompagnata da: a) una breve domanda
d’iscrizione al concorso redatta in carta semplice, corredata dai dati anagrafici, dal
curriculum vitae e dal recapito del concorrente; b) cinque fotocopie dello stesso articolo con cui si intende concorrere al Premio. Copie originali dei giornali e fotocopie inviate non saranno restituite.
art.9 - La segreteria del Premio, alla quale indirizzare domanda d’iscrizione, articoli in
concorso e relative fotocopie è fissata nelle sede legale del Gag: presso Studio avvocato Fabrizio Conti, via della Liberazione 13, 20025 Legnano (MI).
art.10 - Ogni concorrente conserva la proprietà letteraria dell’articolo in concorso.
art.11 - La Giuria del concorso, che valuterà gli articoli giunti alla segreteria stabilendo il
vincitore del premio, è composta da tre membri del Consiglio direttivo del Gag fra
cui il presidente in carica, da un membro della famiglia Gavinelli e dal presidente
dell’Ordine dei giornalisti di Milano o da un giornalista da questi indicato. Il giudizio
della Giuria è insindacabile e inappellabile.
art.12 - I presidenti del Gag e dell’Ordine nomineranno un presidente di Giuria. La vice
presidenza è ricoperta da una persona designata della famiglia Gavinelli.
art.13 - Tutti i partecipanti al concorso riceveranno l’invito alla cerimonia di premiazione
che si terrà entro fine luglio 2006.
art.14 - La partecipazione al Premio implica la piena accettazione delle norme contenute
nel presente regolamento. La non osservanza di quanto richiesto comporterà l’esclusione dal concorso, senza che sia dovuta comunicazione al concorrente.
ORDINE
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2006
I vincitori del Premio “La
montagna della Valle Camonica”
La giuria presieduta da Rino Felappi ha assegnato i premi del quarto Concorso giornalistico
internazionale “La Montagna della Valle Camonica verso l’Europa. Salvaguardia e valorizzazione dell’ambiente: lo sport agonistico e lo sport escursionistico”. Ecco i vincitori.
Vincitore Premio sezione A, inchieste, servizi, articoli giornalistici pubblicati su quotidiani nazionali, regionali e provinciali: Emanuele Turelli, con l’articolo “La mia vita a pane e sci con il
pallone nel cuore” pubblicato sul Corriere della Sera.
Vincitori Premio Sezione B: inchieste, servizi, articoli giornalistici pubblicati su settimanali e
periodici: Franco Michieli con “Senza orologio, senza rifugi” e “Il viaggio continua”, Alpi Grandi
Montagne - Monte Bianco 1 e 2. Franco Brevini con “Correre nel cielo”, Airone. Alberto Nardi
con “Neve e racchette sul Blem”, Orobie, Itinerari - Alta Val del Caffaro.
Vincitori Premio Sezione B: reportages fotografici:
Sci - Umberto Isman, con “Scialpinismo a vista”.
Particolari segnalazioni per la Sezione B: Laura Lombari, “Sulle orme di Balto”, Selezione dal
Reader’s Digest; Luigi Maculotti, “No alle motocross e alle motoslitte in Montozzo e in Tonale”,
Giornale della Valcamonica; Rivista del Trekking, Clementi Editore.
Vincitore Premio Sezione D: inchieste, servizi televisivi andati in onda. Carlo Brena, “Il sentiero delle Orobie e un sogno lungo nove ore”, Promoevanti Sport.
Vincitore Premio Sezione E dedicato al tema del doping nello sport: Riccardo Venturi, “Piccoli
dopati crescono”, L’Espresso on line.
Particolari segnalazioni Sezione E: Riccardo Oldani, “Caccia al doping”, Quark.
3
“
In sintesi, qual è la critica che fa ai giornali?
I N T E R V I S T A
Antonio Scurati,
premio Campiello
Parlano troppo poco di tutto ciò che non dice
la televisione, non ci informano bene sugli
esteri, parlano solo del cortile di casa oppure,
se per caso guardano fuori dal cortile, è solo
se è connesso col nostro cortile. Vorrei sapere
e conoscere tutto ciò che non posso sapere
vedendo la televisione e che sia anche trattato
in modo profondo e ampio. Manca sempre più
la profondità, c’è un’auto referenzialità
del sistema”.
“La violenza è sempre più immagine.
La mente ne risulta traumatizzata”
di Paola Pastacaldi
Antonio Scurati, vincitore del premio
Campiello con il romanzo Il sopravissuto
edito da Bompiani, è professore di Teoria
e tecnica del linguaggio televisivo e di
Sociologia della comunicazione all’Università di Bergamo, dove coordina il
Centro studi sui linguaggi della guerra e
della violenza. Scurati è professore, dunque, oltre che scrittore. Lo abbiamo incontrato nella sua abitazione a Milano e
gli abbiamo chiesto una riflessione sulla
televisione e sui giornali e sui contenuti
della violenza oggi dominanti nei media.
La violenza in televisione è ormai un
dato quotidiano.
La violenza è sempre più immagine ed
evento televisivo e il telespettatore è disarmato di fronte a questo assalto che ha
la forza di un’arma. La mente ne risulta
traumatizzata, perché è una violenza che
non viene elaborata e non produce conoscenza.
Secondo lei i giornali come affrontano
questa materia?
La carta stampata non è a sé stante riguardo a questo argomento. È secondaria
rispetto alla televisione, non trova un modo per rovesciare la centralità delle immagini.
Una centralità che con l’11 settembre è
diventata invasiva.
Dopo l’11 settembre i giornali hanno pubblicato e ripubblicato a colori le immagini
dell’impatto sulle torri, in modo ossessivo
e quasi liturgico, tutto è diventato un fatto
oscuro e incomprensibile, le platee di
spettatori e lettori si sono inginocchiate di
fronte a queste immagini che sono diventate un idolo. La notizia, invece, ha subito
un black out, uno strappo nel linguaggio,
siamo diventati tutti indifferenti. La televisione non ha prodotto e non produce più
significati.
La carta stampata usa le immagini come mai prima d’ora per inseguire lo
strapotere della televisione; in più ha
messo in campo anche titoli sempre
più grandi. Qual è l’effetto sul lettore?
Il linguaggio dei giornali a titoli grandi e
caratteri cubitali non è un linguaggio verbale, ma preverbale. È la visività, sono le
immagini che parlano. La costituzione dell’immaginario infantile è legata ormai alla
televisione, io stesso cono cresciuto con
Sandokan, i manga giapponesi, Goldrake.
C’è uno statunitense David Forster
Fallace, che è stato il primo degli scrittori
che possiamo dire cresciuti con la televisione e che ne ha fatto un genere, ora ce
ne sono anche molti altri. L’immaginario
collettivo è costruito con la televisione. Il
nostro tempo è questo. Credo che non dovremmo però essere succubi di questo
linguaggio. Anche se c’è chi è in affannosa ricerca del linguaggio egemone, anche
se la narrativa è sempre più sceneggiatura, sempre più cinema, immagini.
Lei ha detto che la televisione ha una
logica propria che tende a costruire un
uomo inumano, disinibito, barbarico e
violento.
La televisione è un metamezzo, cioè non
è soltanto un mezzo di conoscenza del
mondo, ma è qualcosa che determina la
nostra conoscenza degli altri mezzi, il modo in cui leggiamo, in cui conosciamo. La
televisione fa solo primi piani ed è pove-
4
ra, il cinema che si gira in Italia è sempre
più televisivo, studiato per funzionare nel
passaggio in televisione. Una delle opere
di maggior interesse di questi anni La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana era
uno sceneggiato, un tipico prodotto televisivo, fatto da un regista che ha cultura e
grazia, ma sempre televisivo.
Molti fatti di cronaca finiscono per diventare solo prodotti dei media, oltre i
contenuti. Cogne, per fare un esempio
recente.
Con Cogne siamo stati di fronte ad una
assoluta mancanza di accadimenti dal
punto di vista della rilevanza sociale, vicini direi allo zero. Se le scelte giornalistiche fossero state di tipo sostanziale,
avremmo avuto su Cogne solo due righe.
Il fatto è stato sovradimensionato dai
mass media, perché non è l’uccisione del
bambino ma l’apparizione della madre infanticida che è servita a fare spettacolo in
In sintesi, qual è la critica che fa ai
giornali?
Parlano troppo poco di tutto ciò che non
dice la televisione, non ci informano bene
sugli esteri, parlano solo del cortile di casa oppure, se per caso guardano fuori dal
cortile, è solo se è connesso col nostro
cortile. Vorrei sapere e conoscere tutto
ciò che non posso sapere vedendo la televisione e che sia anche trattato in modo
profondo e ampio. Manca sempre più la
profondità, c’è un’autoreferenzialità del
sistema.
Ci spieghi.
I giornali parlano della televisione e in televisione girano personaggi televisivi che
non sanno niente.
Tornando ai giornali e alla violenza,
che risultato ottengono secondo lei
con questa invasione di immagini?
Molte immagini sono violente, ma c’è anche una violenza fatta dalle immagini, che
INTERPRETAZIONE
CON LA MATITA
Franco Matticchio, nato
a Varese nel 1957,
pubblica nel 1979 il suo
primo lavoro sul Corriere
della Sera. Da allora i
suoi disegni sono
apparsi su Linus, King,
Moda, Salve, Linea
d'Ombra, ecc. Nel 1994
realizza disegni per la
sigla di testa del film “Il
Mostro” di Roberto
Benigni, e l'anno
successivo viene
premiato a
Trevisocomics per il
libro Sensa Senso
(Edizioni Milano Libri,
1994).
Attualmente collabora
con L'Indice,
L'Internazionale,
Vivimilano, e realizza
copertine per la casa
editrice Garzanti.
televisione. Il plastico della casetta non
serviva per la nostra informazione, non rimandava alla realtà. Si è creato un evento spettacolare attraverso il plastico che
aveva il suo fine in se stesso.
E l’informazione dov’è finita?
Non esiste più.
Lei, scusi, che giornali legge?
Repubblica e Corriere, in Internet The
Guardian, Liberation, New York Times.
Leggo anche Internazionale che ha avuto
uno straordinario successo di vendite,
perché riempie un vuoto lasciato da tutta
la stampa, perché vi trovo le informazioni
sul resto del mondo che nessuno racconta. I giornali d’opinione, come il Foglio,
per esempio, vengono letti in realtà da altri giornalisti, e provocano dunque un scadimento del giornalismo informativo. C’è
un opinionismo dilagante. Leggo con piacere, invece, The New Yorker. Sento molto in Italia la mancanza di un autentico
magazine culturale, come è stato in passato Playboy.
rendono impossibile qualunque discorso.
Noi siamo sommersi da queste immagini
e ciascuna immagine di guerra è, come
ho detto un’arma, una bomba che traumatizza la persona e che non serve a
niente, che entra in una zona di non senso.
La violenza genera violenza, lei crede
sia questo il problema?
Il principale effetto della violenza massmediatica e della guerra in particolare
non è di generare altra violenza, ma piuttosto la vittimizzazione del pubblico, che
da un lato viene traumatizzato dal profluvio di immagini che ha un effetto di assalto psichico. Dall’altro contribuisce alla
rappresentazione sociale di un mondo in
cui il rischio percepito è molto alto. Mi
sento, come cittadino, esposto sempre di
più alla violenza e alla paura, mi sento un
sopravvissuto, uno scampato al disastro”.
Come nel suo romanzo il professore, Il
Sopravvissuto appunto, è l’unico a non
morire sotto i colpi dell’allievo. Anche
“
lui dovrà andare in televisione ma lo
farà con una straordinaria consapevolezza di quanto il mezzo sia in grado di
distruggere sia la persona che la verità
dei contenuti. Nel suo romanzo la ricercatezza con cui spiega il dilemma
dell’apparizione televisiva del professore, protagonista, è molto interessante.
Le nostre credenze sulla realtà ormai sono allineate sulle immagini della televisione e non più su quelle reali. Nessuno mi
ha aggredito ma io, telespettatore o cittadino, mi sento esposto al rischio della violenza della guerra e del terrorismo, perciò
non esco, sto chiuso in casa e guardo la
televisione, vedo i terroristi che mettono le
bombe. Così sono preso sempre più dalla
paura di uscire e sono sempre meno disposto ad andare all’aperto, ad andare
fuori, ad aprirmi ad una politica di dialogo
progressista.
È solo la televisione ad educarmi. La televisione, dunque non informa, ma costruisce rappresentazioni sociali della realtà
cui devo adeguarmi. Il problema è che fatto come Cogne rinviano ad un mondo dove le mamme uccidono, dove si tirano le
bombe in metrò... Si ha di conseguenza la
sensazione di vivere perennemente con
due linee di febbre, privati da quella che
gli americani chiamano la capacità di agire. C’è da aggiungere che nell’epoca del
terrorismo mediatico la guerra è una rappresentazione rassicurante, perché di
fronte all’oscurità e all’angoscia del terrorismo, la guerra nella sua forma immaginata con gli eserciti è quasi tranquilizzante. Il terrorismo mediatico è, a mio parere,
una violenza politica realizzata come un
calcolo strategico. La diffusione della
guerra in televisione, iniziata con la guerra del Golfo sulla Cnn, è parte di un calcolo che diffondeva l’immagine degli Stati
Uniti come unica potenza militare, dopo i
danni che ha subito con il Vietnam.
E della concentrazione di vari media in
un unico gruppo?
È l’ovvio indiscutibile.
La cultura in televisione: c’è ancora
qualcosa?
Se è intesa come arte, letteratura, teatro,
direi che non c’è più. Era legata ad una
particolare tipologia del fare tivù negli anni Settanta, durata fino a metà del
Novanta.
Lei, dopo il Campiello, è stato invitato
sovente in televisione. Come è stata
questa esperienza?
Ho smesso di andarci. Se potessi, vorrei
mi fosse permessa una sfida: vorrei poter
fare un programma culturale per dimostrare che la storia del mercato è un alibi.
Naturalmente un programma che stia nel
mercato.
L’idea è che possa esistere una cultura televisiva che non sia totalizzante, che possa nonostante la sua forza imperiale essere in grado di accogliere le altre culture
e che diventi foriera di un pluralismo culturale.
Siamo d’accordo che i media, dunque,
non lavorano più per il cittadino o per
raccontare la realtà.
La dimensione sociale non esiste più, i
media hanno contribuito a creare questo.
Il discredito dei mass media è altissimo, la
gente non crede più ai giornali. La linea di
fede che c’è tra il lettore il medium si è
spezzata.
ORDINE
3
2006
“
I N T E R V I S T A
Incontro con
don Gianni Zappa
E i media ci raccontino anche
che cosa accade nei tre quarti
di mondo di cui non si parla
mai e ci facciano sapere
come finiscono le storie.
“
Il responsabile dell’Ufficio per le comunicazioni sociali
della diocesi di Milano con il cardinale Tettamanzi.
“Basta con l’informazione-spettacolo, occorre
un’etica della parola e delle immagini”
di Paola Pastacaldi
Abbiamo incontrato a Milano don Gianni
Zappa, responsabile dell’Ufficio per le comunicazioni sociali della diocesi di Milano,
e gli abbiamo posto alcuni quesiti sulla
questione dei media.
Che ne pensa, don Zappa, della stampa
italiana?
La stampa italiana ha una tradizione molto
bella e importante fatta di grandi firme che
hanno qualificato gli strumenti di comunicazione e in parte quando sono riusciti ad
entrare in contatto, hanno contribuito ad
elevare il tono culturale e di attenzione delle famiglie. Abbiamo l’esempio di grandi
scrittori che sono stati giornalisti con un
gusto dello scrivere e con una capacità di
dare qualità alle parole e insieme un senso anche esteticamente efficace.
Citiamo Buzzati, Montale, Parise, ma anche Montanelli e tanti altri.
Si capisce allora che con questa tradizione
alle spalle, da un certo punto di vista, è anche pesante per i giornalisti portare avanti
la qualità. Come prima osservazione direi
che oggi mi sembra sia fortissima la tentazione di limitare l’azione del giornalista all’esposizione frettolosa della cronaca oppure all’opinione, che però troppo facilmente rischia di cadere nella battuta. Uno
degli aspetti che impressiona di più è che
i nostri giornali sembrano quasi più una
successione di titoli che non di argomentazioni che aiutino a capire. C’è una specie
di utilizzo surf delle parole dove viene sempre meno il pudore del non esagerare. In
questo senso arriva a prevalere la forza
della battuta rispetto alla verità della sostanza. Come secondo punto, noto come
vengono relegate le argomentazioni più di
sostanza in paginoni enormi che sono difficili da leggere e con articoli lunghissimi.
Forse dovrebbero fare meno pagine e dare un po’ più il senso dell’essenzialità delle cose. Sarebbe utile avere il coraggio di
guardare dietro le immagini per cercare di
mettere in luce anche le questioni più autentiche rispetto alle emozioni. In estrema
sintesi i giornali italiani sono piuttosto emotivi.
E con della pubblicità negli articoli.
Credo che la pubblicità sia un messaggio
e, da un certo punto di vista, l’affermazione di un modello, di uno stile di vita, che
sia l’acquisizione dell’idea che un certo
prodotto rende la vita più felice. Questa è
sostanzialmente la pubblicità. Ma il fatto
che chi vende prodotti ritenga conveniente
acquistare spazi di comunicazione, non lo
esime dalla responsabilità di conoscere
l’effetto che le sue comunicazioni hanno
sulle persone. L’aver pagato dei soldi per
spazi non dà di per se stesso a questi soggetti il diritto di dire tutto quello che vogliono. Un giornale che accoglie pubblicità a
pagamento non dovrebbe essere così, diciamo, prostrato da accogliere qualsiasi
cosa, non deve dare l’impressione che i
soldi siano la cosa più importante. Coloro
che acquistano i quotidiani, acquistano anche i contenuti e dunque si aspettano qualche cosa. Insomma credo che i giornali
non devono essere solo contenitori pubblicitari.
La pubblicità mascherata ormai è invasiva e viene infilata nei pezzi a dispetto
della deontologia che prevede la sepa-
ORDINE
3
2006
ratezza e la chiarezza rispetto ai contenuti dell’informazione.
Non fa onore a chi la fa. Anzi, faccio fatica
ad immaginare chi scrive, i giornalisti, asservibili ad una prospettiva del genere.
E come considera la televisione, grande
fratello dell’informazione, oggi dominante sulla carta?
La carta stampata dipende dalla televisione, perché il linguaggio televisivo è di altissima suggestione nelle immagini e nei
suoni. È un linguaggio complesso che tocca corde differenti e che fa reagire globalmente. È difficile avere un senso critico rispetto alla tivù, molto più che rispetto alla
carta stampata. Questa è la forza della televisione. La televisione ha anche la possibilità e la facilità di parlare sempre e di rinnovarsi sempre, soprattutto. Per tanti
aspetti alla fine diventa rumore. Se cede a
questa sua forte propensione al rumore, rischia di stravolgere quello che nella comunicazione dovrebbe essere fatto di dinamica e di potente relazione con i suoi utenti.
Cosa ci si può, dunque, aspettare o che
cosa si può chiedere al mezzo televisivo?
Che mi faccia entrare in relazione con alcune realtà e persone e che abbia la forza
di portarmi dentro questo mondo, questi
aspetti della realtà. Ma l’impressione prevalente ora è che sia spettacolo e che non
mi metta in relazione con niente o poco.
Lei la guarda la televisione?
A dire la verità io mi sento personalmente
sempre respinto. Sono rammaricato, ma
devo ammettere che non riesco a finire un
programma. La televisione mette le persone in poltrona. Ti fa stare lì e ti vuole tenere lì, ma non ti provoca una reazione attiva come potrebbero essere delle battute di
risposta.
E i tiggì ?
Quello che ho appena detto vale anche
per i telegiornali. Si sono spettacolarizzati.
Non vogliamo i tiggì grigi compassati e tristi, ma si ha l’impressione che vengano
chiamate a parlare persone che non hanno competenze specifiche, vengono chiamate a dare giudizi sui grandi avvenimenti che hanno rilievo per tutti. Un’etica della
parola e delle immagini è sempre più necessaria.
Tutto è spettacolo, un grande mercato
globale.
Una delle cose che mi colpisce di più della tv è che mi sembra un grande fratello
che giudica. Io mi sento giudicato dai modelli che vengono prodotti riguardo al successo, alla bravura, in tutto. Anche il dolore. Prevale una emozione di un certo tipo.
In alcuni programmi, quelli per esempio
dove si vedono i ricongiungimenti o situazioni problematiche che la televisione si offre di risolvere, si tende ad offrire dei cliché
che non rispondono a quello che una persona normale è, quando patisce o gioisce;
questo modello tende a diventare una
espressione tipica e quindi un giudizio su
come gli altri vivono in modo differente le
emozioni, su come ridono, soffrono, gioiscono. Io non rido, non soffro non gioisco
in quella maniera e, rispetto ai criteri che
mi offrono, l’unico senso critico che ho a
disposizione è di usare il telecomando per
cambiare canale o spegnere.
Ha dunque una pessima opinione della
tivù.
Sono convinto che il criterio di lettura del-
la televisione è un criterio falsamente democratico, perché vuole tutto qui e subito.
E la guerra vista attraverso le immagini
all’ora di pranzo, senza filtri, né emozioni se non l’orrore dell’eccesso?
Mi viene da risponderle con una battuta:
abbiamo visto troppi film. Insomma, attraverso quelle immagini abbiamo esorcizzato i nostri sentimenti, per cui anche quando viene trasmessa la guerra in diretta,
non ne siamo pienamente coinvolti, ci sentiamo un po’ troppo spettatori. Quello che
riusciamo a vedere della guerra e della
sofferenza ci rimane un po’ troppo estraneo, esterno a noi. La televisione riesce a
metabolizzare in fretta anche le cose più
difficili, se uno vuole riesce a non pensare
mai. Immagini si succedono ad immagini;
anche quando si vede un programma molto drammatico, intenso, forte, viene interrotto con un messaggio sui pannolini elastici o altre banalità. Il mostro di Firenze,
Cogne, i rapimenti un tempo, tanti temi che
vengono mediatizzati e che finiscono nel
tritacarne dei media. I fatti si confondono
con le opinioni. Questi fatti come altri mi
fanno paura, quando si crea una forte tensione, una sorta di attaccamento morboso
ad un determinato fatto, tutto ciò che è
morboso fa male e non serve e può anche
essere violento. E poi non si capisce perché tutto ciò debba accadere, a chi serve.
C’è una indubbia perdita di tensione etica a scapito dei contenuti.
Far entrare in gioco la responsabilità nel
sistema della comunicazione se da un lato è necessario, dall’altro è imbarazzante,
il sistema è talmente contorto, complesso
che o le regole le rispettano tutti oppure è
molto difficile cambiare le cose.
Il cardinale Dionigi Tettamanzi ha detto
chiaramente che il mondo ormai vive
nei media e che la visione del mondo è
sempre più spesso legata ad opinioni e
sondaggi del tutto relativi. Ha anche
sottolineato la necessità di un uso critico dei media.
Credo che sarebbe bene per i lettori acculturarsi fuori dai media, penso che un
lettore dovrebbe dare più credito a se stesso, ai suoi interessi e prendere sul serio le
proprie domande. Non avere fretta di trovare le risposte, avere la curiosità di compiere percorsi di ricerca e confidare di più
nella possibilità di approfondimento che si
può costruire nell’acculturarsi. Prima di
guardare la televisione o leggere un giornale, consiglierei di fare un bel giro in città
a piedi e di lasciare che siano le persone
oltre ai fatti a parlare, le situazioni reali, i
volti. Dopo si potrà leggere e guardare la
televisione con un po’ più di senso critico.
Una domanda personale, don Zappa,
come lettore. Lei cosa e quanto legge?
Leggo otto, nove quotidiani al giorno, i giornali stranieri li prendo da Internet, sono
molto ricchi. Sono El Pais, The Times, l’israeliano Haretz, dopo di che ho l’abitudine di girare, vagare cercare anche altre
notizie altri giornali a seconda delle giornate. Dedico solitamente un’ora alla mattina e altrettanto la sera di solito tardissimo,
riprendo le stesse notizie che nel giorno si
sono sviluppate e noto come erano state
presentate rispetto all’evoluzione che hanno avuto, cosa era stato detto e che cosa
non era stato detto.
Se avesse qui alcuni direttori di giornale a cui poter rivolgere delle domande,
che cosa chiederebbe come lettore, come vorrebbe che cambiasse il loro modo di fare i giornali?
La prima cosa che chiederei è: diteci, per
favore, cosa accade nei tre quarti di mondo di cui non ci parlate mai o di cui parlate troppo poco o per schemi fissi. La Cina
non è solo un’alluvione o delle magliette
sotto costo, cosa succede davvero in
Africa, in America Latina che conosco bene… Non tagliate fuori tre quarti del pianeta dai giornali. L’altra richiesta è di sapere
come finiscono le storie: in Argentina le
donne hanno finito di andare in piazza a
battere le pentole? È stato sollevato un polverone, poi non si è saputo più nulla.
Chiedo in sostanza che mi si porti alla conclusione delle cose, abbiamo sentito i politici promettere, ma poi non abbiamo più
saputo come sono stati spesi i soldi. Terza
richiesta, cercate di offrirci qualcosa che ci
spinga ad andare oltre. Sogno, infine, che
la televisione mi dia qualche programma
(qualche volta è anche successo) che mi
stimoli a non spegnere la tivù, ma caso mai
ad andare a vedere dal vivo musei, paesi,
storie e che mi stimoli ad aprirmi alla realtà.
Si discute da tempo del problema degli
editori che accumulano proprietà di
giornali di carta e di televisioni creando
una problematica forte sulla libertà di
stampa. In alcuni vostri documenti ho
letto affermazioni critiche verso questi
gruppi che definite “oligopolistici.
Ci spieghi.
I mezzi oggi sono tali che lasciano spazio
alla voce di tutti. Lo sviluppo delle tecnologie apre questa possibilità. Tutti possono
aprirsi un sito Internet, questo da un certo
punto di vista. Da un altro, invece, permane una forte dipendenza da coloro che la
comunicazione, l’informazione la sanno fare. Chi diventa proprietario di mezzi di comunicazione e riesce a fare giornali che
vengono letti o siti che vengono visitati direi che è bravo e ha una capacità significativa, questo gli va riconosciuto come merito. Il problema di fondo però rimane quello di chiedersi perché lo fa. È disposto a
mettere i suoi talenti a disposizione della
dignità della persona oppure decide di utilizzare questi suoi talenti per altri interessi?
La risposta è davanti ai nostri occhi nei
giornali pieni di spettacolarizzazioni e
non di fatti.
Andrebbe sottolineata una cosa: la carità
sta all’inizio, nelle intenzioni primarie, non
arriva alla fine. Sarebbe importante, prima
di iniziare un lavoro giornalistico, una impresa editoriale, che la mia intenzione fosse quella di elevare la dignità dell’uomo e
non di dare le briciole della carità dopo,
quando sono diventato ricco ed è ovviamente più facile.
La dignità umana permea molto del diritto che riguarda la libera espressione
dell’uomo e della comunicazione intesa
come giornalismo, sia nel flusso di
informazioni che nell’uso dei dati (vedi
privacy) e delle immagini, sia nella
quantità che nell’essenzialità e ovviamente nelle qualità. Il rispetto dell’uomo.
Dignità umana nei media è quando si lascia parlare la persona, quando la si prende sul serio, quando non la si giudica.
Quando infine la si chiama per nome perché dietro c’è una storia, la vita stessa della persona, e la si conosce.
5
L’assemblea degli iscritti giovedì 23 marzo 2006
Enzo Bettiza
Con Indro portai al Giornale
il meglio del liberalismo
Enzo Bettiza si sottopone
volentieri all'intervista, ma
dopo pochi minuti è lui che
inizia a chiedere all’intervistatore quali sono stati i suoi
studi, quali i suoi interessi e
le sue opinioni. È un giornalista, non c’è dubbio, e anche oggi che lo si vuole celebrare per i 50 anni di iscrizione all’Albo è lui a tenere
in mano il taccuino con le
domande. Un giornalista di
rango, un giornalista quasi
per natura, un giornalista che voleva fare il pittore. Perché
quando nel 1945 il giovane Bettiza lasciò la natia Spalato
non pensava certo ai quotidiani, e alla macchina per scrivere preferiva tela e pennelli.
Invece arrivò il giornalismo e venne nel modo più naturale
possibile, affascinando il giovane Bettiza soprattutto con la
promessa di viaggiare. Nel 1952 entra a Epoca, prima come impiegato, poi come praticante. “Allora la procedura del
praticantato era diversa. Il sistema era pragmatico, migliore”, afferma senza esitazione. “Si doveva esser presentati
da due giornalisti affermati: nel mio caso, il poeta Alfonso
Gatto, caposervizio della sezione Italia Domanda, e Guido
Piovene, grande giornalista e scrittore. Dopo c’erano i 18
mesi da praticante e alla fine era il direttore a dare il giudizio”. Il direttore in questo caso rispondeva al nome di Enzo
Biagi. L’istituzione nell’Albo non era vincolata all’esito dell’esame di Stato.
Dopo mesi di didascalie e tagli di foto, arrivarono i primi pezzi. Bettiza si occupava di cultura e il primo articolo fu un’intervista a Ignazio Silone. Cominciarono gli elogi e qualche
servizio più lungo, ma come ricorda lui “non si sprecavano
a farmi scrivere”. Eppure il segretario di redazione Igino
Mariotto mandò a Carlo De Martino, presidente della sub-
commissione per la tenuta dell’Albo, questa lettera conservata negli archivi di via Antonio da Recanate: “Il Bettiza ha
una buona stoffa di scrittore e giornalista e viene da noi
usato per servizi speciali, inchieste, interviste e articoli di
ogni genere. Insomma svolge a Epoca un autentico lavoro
giornalistico”. Un’ottima ragione per cercare più spazio altrove.
Nel 1957 passò a La Stampa, dove fece il corrispondente
prima da Vienna (“C’era una grande tensione per i fatti
dell’Alto Adige”) e poi in Russia nel periodo di Krusciov e
della destalinizzazione. “È più facile fare il corrispondente
coi computer. Io scrivevo due pezzi al giorno e li dettavo al
telefono”, ricorda. E affonda la lama: “Gli esteri poi nei giornali italiani sono sacrificati rispetto all’esplosione pettegola
della politica interna, trattata come un immenso spogliatoio
sportivo”. Il lavoro a Mosca era andato bene e quelli che lui
stesso definisce “vagabondaggi da esule” si trasformarono
nel 1964 nell’assunzione al Corriere della Sera, diretto allora da Alfio Russo. Per lui, Bettiza sarà inviato speciale ed
editorialista e manterrà il ruolo sotto Giovanni Spadolini e
Piero Ottone.
“Ottone aveva creato nel giornale un clima da compromesso storico. Voleva portare la grande industria dalla parte dei
comunisti” ricorda Bettiza, aggiungendo che “era una linea
politica che non approvavamo e che suscitava nel Corriere
articoli di deriva populistica, demagogica. Era sia la gestione tecnica del giornale sia la linea politica che non convincevano. Sembrava un quotidiano fatto in uno scantinato da
carbonari impazziti”. E ancora: “Il giornale si assemblearizzò
in maniera permanente. Vi era disprezzo per le firme, cioè
per la meritocrazia. I giornali, se funzionano, devono avere
una gerarchia ben organizzata”.
Lo strappo fu inevitabile e, capitanati da Montanelli, Bettiza
e altri 40 giornalisti abbandonarono via Solferino per fondare Il Giornale Nuovo. “Un nuovo giornale si fonda con la follia. Ci volle coraggio per abbandonare posizioni sicure per
affrontare il vuoto in un mondo, anche borghese, che ci era
completamente ostile. Io e Montanelli a quell’epoca eravamo molto isolati a Milano” ricorda adesso. “Fondammo un
vero Corriere abbandonando quello falsificato. Portammo il
meglio della cultura liberale di Parigi e del dissenso russo.
Creammo un grande giornale di apertura liberale”.
Montanelli divenne direttore e Bettiza condirettore: “Indro
era un uomo capriccioso, spesso contraddittorio, grande talento e, più che giornalista, un brillantissimo scrittore per
quotidiani, più bravo come editorialista che come organizzatore”. Bettiza precisa che “una gran parte organizzativa”
ricadeva sulle sue spalle e spesso era lui che teneva i contatti con le firme de Il Giornale: “Gli storici Renzo De Felice
e Rosario Romeo, un filosofo come Abbagnano, il critico letterario Pampaloni e molti scrittori dell’Est come François
Feito, che gestiva la redazione di Parigi”. Nel 1983 però ci
fu la rottura anche con Montanelli, “per motivi politici”: “Il
giornale si stava democristianizzando, mentre io ero per un
appoggio laico a Craxi, la posizione lib-lab”. Le scelte politiche dei due uomini alla guida del giornale erano sempre
state diverse. Già dal 1976 Bettiza sedeva in Parlamento tra
i senatori del Partito liberale italiano e, da esponente del Pli
prima e da indipendente del Psi poi, sarebbe diventato europarlamentare, guidando delegazioni ufficiali in Cina, Urss
e Jugoslavia. Fu così che si arrivò alla separazione “consensuale” da Montanelli, e Bettiza lasciò, ancora una volta
senza un’alternativa sicura. L’ex condirettore de Il Giornale
fu assunto poi come direttore editoriale del Gruppo Monti
che allora comprendeva Il Resto del Carlino e La Nazione
(“Quando erano giornali veri, non distrutti come lo sono oggi”) e Il Piccolo di Trieste. “Poi ci fu un’infiltrazione della P2
che mi sorprese e detti subito le dimissioni e ancora una
volta rimasi in bianco”. Ci vollero sei mesi perché la situazione si sbloccasse e Bettiza vedesse rientrare nella propria
vita il Corriere, stavolta diretto da Piero Ostellino. Rimase
tre anni prima di accettare “un’ottima offerta” da La Stampa
e ritornare nel quotidiano dove aveva iniziato e dove collabora tuttora. Il pittore mancato di Spalato non ha rinunciato
a nulla nel corso della sua vita. All’attività di giornalista e di
parlamentare ha da tempo affiancato quella di autore di libri
sugli argomenti che più lo hanno appassionato. Come il
Vietnam durante la guerra o la Cina della rivoluzione culturale, o Praga occupata dai sovietici. E lui c’era, esempio di una
vita costellata di scelte coraggiose. Nelle piazze della grande
storia e nelle redazioni dei giornali.
Daniele Barzaghi
Francesco Catania
Una scelta sofferta
tra giornalismo e diritto
La malattia di un padre può condizionare le scelte di vita di un
giovane non ancora trentenne. Così è stato per l’avvocato
Francesco Catania, costretto ad abbandonare il giornalismo a
tempo pieno e a seguire le orme paterne divenendo civilista ed
ereditando lo studio di famiglia.
La passione per la scrittura e per i quotidiani era venuta presto, ancora sui banchi del liceo, quando, a 17-18 anni, Catania
cominciò a collaborare con i giornali della sua città, Como. Il
suo battesimo professionale avvenne a Il Corriere della provincia, un settimanale del lunedì diretto da Paolo Tocchetti, ma
fu nell’antico quotidiano cattolico L’Ordine che Catania incontrò
quelli che ancora considera i suoi maestri: il direttore don
Peppino Brusadelli, Gilardi, il capocronista “che ogni giorno voleva un capocronaca di bianca”, e soprattutto Giorgio Mottana,
futuro direttore della Gazzetta dello Sport.
Al giornale comasco Catania scrisse di arte e cultura, le sue
grandi passioni, ma non si fece mancare nulla. La lezione di
Mottana era chiara: in un giornale di provincia tutti dovevano
saper fare tutto e, come sempre, questo riguardava in primo
luogo i giovani della redazione. E Catania ne fu un esempio,
occupandosi anche di cronaca e di sport.
L’Ordine, per il quale lavorava gratuitamente, gli permise di ini-
ziare collaborazioni retribuite
coi giornali e le riviste del circuito cattolico (che allora comprendeva almeno 6 testate) e
poi con Il Tempo di Roma, Il
Popolo di Milano, La Notte e
con il pomeridiano Corriere
Lombardo, per il quale seguiva la pagina di Como e
Varese.
Nel frattempo frequentava
giurisprudenza all’Università
Cattolica di Milano e lì, nel
1958, si laureò con mons. Francesco Olgiati con una tesi in filosofia del diritto: “La libertà di stampa alla luce della filosofia
giuridica classica”. Non male come inizio per una vita eternamente divisa tra diritto e giornalismo.
Daniele Barzaghi
Guido Granata
“Io, medico dei lettori
appassionato di omeopatia”
“Un piacevole diversivo”. Questo è stato il giornalismo per il professor Guido Granata, libero docente di pediatria presso l’Università degli Studi di Milano.
Nato nel 1923, Granata si è laureato in medicina a Milano, dove ha
anche conseguito le specializzazioni in pediatria e in cardiologia.
L’attività pubblicistica del professor Granata ha inizio nel 1953 al
Messaggero: “Conoscevo il capo della redazione milanese, Sandro
Dini, che mi propose di scrivere un articolo, sapendo che il loro collaboratore medico non era particolarmente amato da quelle parti.
Così mandai il pezzo, che piacque e fu pubblicato”.
La collaborazione con Il Messaggero, all’epoca di proprietà della famiglia Perrone (titolare anche del Secolo XIX di Genova, dove furono ripubblicati alcuni degli articoli di Granata), è durata oltre vent’anni, fino al 1974, anno del turbolento cambio di proprietà in via del
Tritone. “I miei articoli avevano un grande successo - sorride Granata
- ricordo che ricevevo tante lettere”.
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Il professore ha collaborato anche con L’Europeo e il Giornale, prima
di passare a dirigere, nel 1979, i Quaderni di Agopuntura Tradizionale, trimestrale di “agopuntura cinese e di scienze mediche alternative alla medicina tradizionale occidentale”, pubblicato fino ai
primi anni Novanta dalle edizioni So-Wen in collaborazione con il
Centro studi sull’agopuntura di Milano.
“Mi sono sempre interessato all’omeopatia, fin da studente”, ricorda
Granata. “Ne ho ripreso gli studi dalla fine degli anni Sessanta, dopo
aver concluso le esperienze alla clinica pediatrica dell’università di
Milano e come cardiologo del Comune di Milano, e da allora mi dedico alle medicine alternative e all’agopuntura cinese”.
Numerose le pubblicazioni scientifiche del professor Granata, tra le
quali Difendiamo la nostra salute, Omeopatia in pediatria e
Compendio di omeopatia. Attualmente ricopre la carica di presidente dell’Aico, Associazione italiana di clinica omeopatica.
Cleto Romantini
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2006
Ventiquattro medaglie d’oro per cinquant’anni nell’Albo
Dario Baldi
TV: l’idea che accese
il suo Sorrisi e canzoni
Una vita lavorativa piena,
cinquant’anni di giornalismo fra Milano e Roma
presso le testate più prestigiose. Dario Baldi, cremonese classe 1927, ha sempre voluto diventare giornalista. Studia stenografia ed
è questa a permettergli l’assunzione nel 1956 al quotidiano romano Momento sera, dove riceve, stenografa
e rielabora le telefonate dei
cronisti dai campi di calcio.
Dopo alcuni anni, il passaggio a La Settimana Incom diretta da Lamberto Sechi, prima come segretario di redazione,
poi come redattore. Il passo successivo è il trasferimento a
Milano alla redazione del femminile Arianna, in qualità di
capo redattore. In breve tempo, a soli trent’anni, è nominato direttore della stessa rivista.
Dieci anni dopo fa ritorno a Roma, dove assume la direzione di Sorrisi e Canzoni per rilanciare la rivista e trasformarla in un giornale di massa, ad alta tiratura. Sotto la sua
guida il settimanale cambia radicalmente: aggiunge “TV” alla testata e soprattutto ottiene una notevole diffusione guadagnando il secondo posto nelle classifiche di vendita, preceduto solo da Famiglia Cristiana.
Un risultato raggiunto grazie all’attenzione che riserva alle
pagine dei programmi televisivi, dettagliate e ricche di informazioni, e ai servizi dedicati a cantanti e attori cinematografici. Tra le molte iniziative promosse dalla rivista va ricordata l’ideazione del “Telegatto”, il più famoso premio per
la televisione italiana, e il giro d’Italia a cavallo di Battisti e
Mogol.
Nel 1976 Baldi lascia Tv sorrisi e canzoni e divide la propria attività fra Roma e Milano. Nella capitale dirige l’Automobile, il mensile dell’Aci, mentre a Milano cura tutti i
supplementi allegati a Panorama.
Nel 1986 decide di trasferirsi definitivamente a Milano. Qui
accetta una nuova sfida: creare e dirigere il primo esperimento di settimanale allegato a un quotidiano, ViviMilano
per il Corriere della Sera. La collaborazione però dura poco, perché Baldi preferisce accettare la proposta di Giorgio
Mondadori: crea e dirige alcune nuove testate fra cui Argos,
dedicato agli animali domestici, e AM, per i cultori dell’automobile.
Solo nel 1992, a 65 anni, decide di andare in pensione.
Collabora per un breve periodo a Class poi stacca definitivamente, scegliendo di dedicarsi alla famiglia, alle passeggiate, ai libri di storia e alla sua amata musica classica.
Chi ha lavorato con lui lo ricorda come un direttore esigente, ma disponibile e gentile. Un po’ accentratore forse,
che metteva il naso ovunque e controllava il lavoro dei grafici: un direttore a tutto tondo, attento a ogni dettaglio perché sapeva bene che sono i dettagli a fare la differenza.
Ilaria Sesana
Domenico Alessi
Dalla palestra dell’agenzia
al battesimo del Tg regionale
Domenico Alessi parla del suo passato con disincanto, quasi con ironia. Ascoltandolo si capisce che non ha più nulla da
chiedere a un mondo che ha fatto parte della sua vita per
quarant’anni. “Se lavoro ancora per qualche giornale? No,
non si possono fare sempre le stesse cose. Certo, resto un
accanito consumatore d’informazione, ma oggi mi piace occupare diversamente il mio tempo. In estate, ad esempio,
passo tre mesi su un’isola greca e cerco di non interessarmi
troppo delle vicende italiane”.
Una scelta significativa. Anche quando era in Rai, Alessi non
ha mai amato sentirsi protagonista: “Sono sempre stato un
uomo di macchina, uno che opera dietro le quinte. Non ho
mai scritto un libro e mi sono occupato di aspetti gestionali e
organizzativi per tutta la carriera”.
La carriera, appunto: Domenico Alessi diventa giornalista subito dopo il liceo, quando si trasferisce da Trieste in Sicilia e
diventa redattore di Ultimissime, un quotidiano catanese della sera. Una scelta senza dubbio originale, che lo porta lontano dalla sua città e da papà Gioacchino, che nel ‘19 era diventato direttore del Piccolo. “Ma quella di mio padre è un’altra storia, che c’entra poco con la mia vita professionale”, dice oggi. Dopo brevi esperienze all’Isola, un altro quotidiano
catanese, Alessi risale in due tappe l’Italia, trasferendosi prima alla redazione romana dell’Ansa, e poi a Milano dove per
sette anni è redattore ordinario de Il Tempo. Nelle grandi redazioni metropolitane impara cos’è il giornalismo: “Un lavoro
faticosissimo, come a volte dico ai miei amici. L’agenzia, in
particolare, è una scuola formidabile: bisogna fare tutto, presto e bene. Io la renderei obbligatoria per tutti quelli che vogliono fare questo mestiere”. Nonostante la palestra
dell’Ansa, Alessi abbandona presto la carta stampata: ancora giovane, firma un contratto in Rai, dove lavora per 29 an-
ni. “All’inizio mi occupavo
della radio e del Gr, ero caposervizio. Poi, con la nascita dei Tg regionali, ho tenuto
a battesimo il telegiornale
lombardo con un collega:
eravamo sia curatori che
realizzatori di un prodotto
che aveva poca udienza tra i
colleghi. In ogni modo tutti si
dovettero ricredere molto
presto: gli ascolti furono
sempre molto buoni”. Era un
giornalismo da pionieri, nel quale bisognava sopperire con la
volontà alle carenze tecniche. “Negli anni Sessanta non c’erano strutture idonee e bisognava fare il telegiornale con
quello che si aveva. Nonostante questo, mi sono sempre molto divertito”. Al punto da non rimpiangere mai i suoi diciott’anni e non pentirsi per le sue scelte. “La professione per
me è sempre stata una prosecuzione della scuola: è come se
fossi stato al liceo per cinquant’anni. Perché il giornalismo nasconde un grande segreto: consente di arrivare con freschezza infantile agli anni della saggezza”.
Luca Bianchin
Romano Cantore
Terrorismo e trame nere
per il Panorama di Sechi
Sulla strada, alla ricerca di
storie vere, senza filtro e senza compromessi con il potere e i poteri. La carriera di
Romano Cantore (foto Fotogramma) è un libro aperto. E
non a caso l’ha raccontata
proprio in un libro, Subito ieri, uscito di recente per i tipi di
Marco Tropea Editore.
A noi ha dato appuntamento
nella sede del gruppo editoriale Il Saggiatore in via
Melzo, a Milano.
Nato nel 1931 a Castelnuovo Magra, in provincia di La Spezia,
Cantore ha iniziato a fare il giornalista quasi per caso, dopo
una serie di lavori di vario genere: scaricatore al mercato ortofrutticolo, venditore di torte, attacchino e impiegato al centro
culturale San Fedele.
Il primo giornale dove mette piede è 24 Ore, nel 1955, prima
di passare nel 1959 al concorrente Il Sole. “Esperienze poco
edificanti - afferma -. Il giornale dove ho cominciato a fare vero giornalismo, almeno per come lo intendo io, è stato Stasera,
gemello milanese del Paese Sera romano, diretto dal mitico
Mario Melloni alias Fortebraccio, un democristiano di sinistra
passato al Pci dopo la rottura con Fanfani. Purtroppo durò appena un anno: Melloni era un vero anticonformista e il suo giornalismo evidentemente era considerato troppo poco organico
al partito”.
Dopo la chiusura di Stasera, Cantore abbandona il giornalismo
per un impiego nel mondo della pubblicità. Ma la vacanza è
breve: il richiamo della foresta riecheggia forte, e lui, che durante gli anni passati a lavorare in pubblicità aveva continuato
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2006
a frequentare ambienti giornalistici, torna in pista come collaboratore delle pagine provinciali del Giorno.
Finita anche l’esperienza al quotidiano dell’Eni, Cantore trova
per un breve periodo un posto alla Rai di Milano, come redattore del telegiornale delle 13,30: “Avevo un contratto a termine
e per rimanere dovetti partecipare a un concorso interno. Mi
classificai primo dei non promossi con un sei meno”.
Dopo soli due mesi arriva la chiamata di Andrea Caprotti che
propone a Cantore la direzione del settimanale popolare ABC,
fondato da Gaetano Baldacci.
Per un anno, tra il 1968 e il 1969, Cantore prende in mano con
successo un giornale che si segnala tra i protagonisti della rivoluzione dei costumi di quel periodo, attraverso ad esempio la
pubblicazione di alcuni fotogrammi del film Teorema di Pasolini,
bloccato dalla censura, o la pubblicazione di un tagliando che
permetteva, tramite un accordo con una compagnia di assicurazione svizzera, di ottenere l’assistenza legale dello studio di
Giorgio Ambrosoli (“Un caro amico e un vero galantuomo”, ricorda Cantore) per le prime cause per divorzio che la legge
Fortuna-Baslini avrebbe di lì a poco consentito.
Iniziative poco gradite al Governo e alla magistratura, che disponeva immancabilmente il sequestro delle copie del giornale, sempre con l’accusa di pubblicazione oscena.
Proprio come avvenne l’8 luglio 1969, quando, oltre al sequestro del settimanale, fu addirittura disposto l’arresto di Cantore:
“Avevo pubblicato un dossier segreto della Nato che un mio inviato aveva ricevuto da un alto ufficiale cecoslovacco durante
un servizio a Praga. Il documento conteneva il progetto americano di trasformare l’Italia in una portaerei di terraferma a loro
disposizione. Dopo una settimana arrivarono al giornale due
agenti dei servizi segreti che mi chiesero nome e provenienza
di chi aveva passato il documento. Naturalmente risposi che
non ero tenuto a dirlo. La sera stessa il vicecapo della Squadra
mobile, scortato da due volanti, mi consegnò un mandato di
cattura con l’accusa di pubblicazione oscena. Fui portato a San
Vittore, dove restai per un paio di giorni”.
“Ufficialmente mi contestavano una fotografia dello spettacolo
Oh, Calcutta!, in scena da tre mesi a Londra. La foto ritraeva
donne e uomini nudi in fila sul palcoscenico, anche se avevo
fatto coprire gli attributi sessuali con una pecetta nera”.
Al termine di questa disavventura Cantore lascia la direzione
di ABC: “Caprotti e Giovanni Carle, grande industriale di macchine per il cioccolato e finanziatore di ABC, mi imposero di farla finita con le notizie di politica. Non accettai il diktat e me ne
andai. Dopo quell’esperienza non ho mai più voluto fare il direttore, nonostante avessi ricevuto diverse offerte”.
Si apre quindi l’era di Panorama e delle grandi inchieste sulla
violenza politica e sulla criminalità organizzata.
Dalla strage di piazza Fontana al terrorismo rosso, dalle trame
nere fino alle indagini sui crack delle banche di Michele
Sindona e del Banco Ambrosiano Veneto di Roberto Calvi,
Cantore scandaglia in lungo e in largo l’Italia e gli Stati Uniti sulle tracce dei grandi scandali e degli eterni misteri italiani: “Sono
grato a Panorama per avermi dato i mezzi e la libertà di muovermi e di scoprire una realtà inquietante, fatta di intrecci politico-mafiosi impressionanti. Mai come in quella occasione ho
detestato il comandamento del mio giornale: i fatti separati dalle opinioni”.
Nel 1989 il passaggio a L’Europeo: una breve parentesi poco
felice (“Nonostante la buona volontà del direttore Vittorio Feltri,
ormai era una testata finita, consumata nella stretta tra i due
colossi Panorama e L’Espresso”) prima del ritorno a Panorama
dal 1991 al 1994.
Ormai, però, anche il glorioso settimanale fondato da Lamberto
Sechi aveva perso la sua fisionomia: “L’avvento dell’era di
Berlusconi in Mondadori era il presagio dell’introduzione di un
tipo di giornalismo che non è più il mio, certo non è più quello
che mi piaceva fare”.
Il 31 dicembre 1994 Romano Cantore lascia definitivamente
Panorama e si ritira a vita privata. Per capirne davvero a fondo
la vita e la carriera forse basta leggere l’epigrafe del suo libro,
una frase dello storico Paul Avrich: “In una forma o nell’altra l’anarchismo sarà sempre con noi”.
Cleto Romantini
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L’assemblea degli iscritti giovedì 23 marzo 2006
Pietro Radius
Quando Afeltra diceva
di scrivere pane e salame
Jason aspetta sull’uscio di casa, abbaiando una, due volte.
“Non si preoccupi. Come può vedere dai suoi occhi, non farebbe male a una mosca”. Ed è così. Ci sono cani da guardia
e cani compagni di vita: Jason, un labrador, fa sicuramente parte di quest’ultima categoria. Si sposta in salotto, anticipando il
percorso del padrone. Attende che lo raggiunga e si segga sulla poltrona, prima di accucciarsi al suo fianco in posizione di
ascolto privilegiato. Resterà immobile per più di due ore, come
incantato dalle parole dell’amico.
Entrare nel soggiorno della casa di Pietro Radius - classe 1932
- vuol dire immergersi in un mondo fatto di quadri, statuette di
cani e orologi. “Ho ereditato i quadri da mio padre. La collezione di statuette è, invece, una passione di mia moglie. Per quanto riguarda gli orologi, non saprei dire perché ne ho molti, non
c’è un motivo preciso”. Radius non pare ossessionato dallo
scorrere del tempo. Non degna le innumerevoli lancette di uno
sguardo in tutta la conversazione. In pensione, infatti, lui ci sta
benissimo. “Leggo molto, soprattutto quotidiani e saggi. Poca
narrativa, non mi ha mai interessato molto. Inoltre guardo la tv,
perlopiù documentari, anche se purtroppo in questi giorni il mio
decoder non funziona”. Rinviato così, per cause di forza maggiore, l’appuntamento con History Channel e National Geographic. Dice che il giornalismo non gli manca più di tanto, ma
tradisce un velo di malinconico risentimento: “Sono già un paio
d’anni che non scrivo una riga. Non ne sento una particolare
esigenza e di certo non vado a proporre pezzi sul giornalismo
andato, come vedevo fare dai vecchi cronisti quand’ero ragaz-
zo. Però, ecco, se qualcuno
me lo chiedesse, forse…”. Di
cose da raccontare Radius
ne ha senz’altro molte.
Partendo dagli inizi, nel 1955:
“Un giorno mio padre, dopo
essersi accorto che i miei studi di giurisprudenza procedevano con difficoltà, mi presentò all’allora direttore del
Corriere
d’Informazione,
Gaetano Afeltra. Iniziai così,
come tanti altri giovani, da
abusivo. Tale condizione ai
tempi era così frequente che il cosiddetto abusivato era quasi
considerato un’istituzione”. I primi tempi servirono a Radius per
imparare le tecniche del giornalismo (“Afeltra ci diceva sempre
di scrivere ‘pane e salame’, senza fronzoli”) e abituarsi agli elevati ritmi lavorativi (“per vedere la ragazza dovevo portarla con
me mentre facevo i servizi, altrimenti non c’era mai tempo”).
Degli anni al Corriere d’Informazione Radius ricorda quando,
nel 1963, fu inviato a Belluno per raccontare il disastro del
Vajont: “Dovevo scrivere quattro articoli al giorno, due per il
Corriere d’Informazione e due per il Corriere della Sera. In effetti mi sentivo un po’ schiavizzato. Le pause erano rare: mi alzavo ogni mattina alle cinque e andavo a letto a tarda notte.
Tornai da Belluno dimagrito di 15 chili”.
Quando nel 1974 Montanelli fondò Il Giornale, in polemica con
la linea imposta da Piero Ottone, Radius decise di seguirlo. Del
grande Indro fa un ritratto inedito: “Sicuramente è stato un importantissimo giornalista e un valente direttore, che ha lasciato sempre lavorare i suoi redattori in assoluta indipendenza. La
consapevolezza di essere ritenuto un mito, però, lo aveva reso
fin troppo pieno di sé: aveva una superbia che definirei satanica. Di certo non poteva essere manovrato da nessuno, poiché
non era schiavo del denaro o dei potenti. Il suo unico punto debole, semmai, erano le donne. ‘Vorrei morire a cent’anni ucciso da un marito geloso’ era una delle frasi preferite di Indro”.
Proprio insieme a Montanelli, Radius venne querelato da Pietro
Valpreda, nel 1978, per un articolo intitolato Il Sid coprì
Valpreda. “La querela venne ritirata quasi subito. D’altronde
non era molto fondata, visto che il mio pezzo si basava su un
documento ufficiale dei servizi segreti stessi che provava la copertura di Valpreda”.
Nel 1983 Radius passa all’Avvenire, nonostante il padre Emilio
(firma storica del Corriere e direttore di Oggi) gli sconsigli di
“andare a lavorare dai preti”. Tra i motivi dell’abbandono del
Giornale anche la gelosia: “I giornalisti sono gelosi, un po’ come gli attori. Quando Mario Cervi fu inviato a San Salvador al
mio posto non la presi molto bene. Anche perché la questione
salvadoregna aveva, agli inizi degli anni Ottanta, un’importanza paragonabile all’Iraq attuale”. Sei anni dopo, l’ultimo trasferimento, a Famiglia Cristiana. “La differenza tra un settimanale
e un quotidiano sta tutta nella tensione lavorativa. Al quotidiano hai l’assillo del pezzo da presentare in giornata, mentre al
settimanale puoi lavorare con più rilassatezza”.
Un vecchio orologio a pendolo suona le cinque e mezza.
Radius si alza dalla poltrona e si dirige verso la porta, seguito
immediatamente da Jason. Quanto è mite il riposo del giornalista in pensione…
Marco Guidi
Adriano Solazzo
“Lavorare con tenace umiltà
non mollando mai la presa”
“Io veramente sono contrario
a queste premiazioni: ci danno una medaglia solo perché
siamo vivi”. Esordisce spiazzando subito l'intervistatore,
Adriano Solazzo, storico cronista giudiziario del Corriere
della Sera. “Sul giornale leggerete che siamo tutti bravi,
che abbiamo tutti alle spalle
una splendida carriera, un
po’ come si fa nei necrologi:
nell’ambiente invece ci conosciamo e sappiamo perfettamente quali sono i vizi e le virtù dei nostri percorsi professionali. Personalmente preferirei che il mio amico Franco Abruzzo
ci premiasse per i nostri meriti, sarebbe più produttivo e interessante”. È un po’ raffreddato Solazzo, ma non ha certo perso lo smalto del buon vecchio cronista: la passione per questo mestiere non va mai in pensione, come testimoniato tra
l’altro dalla sua collaborazione con il Corriere che ancora prosegue, sia pure in modo saltuario.
“Ai miei tempi credo di essere stato l’unico giornalista a entrare in questo mondo senza parenti o conoscenti che erano
già dentro”, racconta. E allora come ci è riuscito? “Un po’ per
merito e un po’ per fortuna. Nel 1954 scrissi una lettera di presentazione a tutti i giornali che avevano una redazione qui a
Milano. Una lettera semplice e ingenua, in cui dichiaravo candidamente di essere attratto dal giornalismo ma di non avere
alcuna esperienza: non sapevo nemmeno come si usava la
macchina per scrivere”. Tutti i giornali risposero garbatamente
che non avevano bisogno. Tutti tranne uno, Il Popolo. Il direttore Vittorio Chesi e il suo vice Guglielmo Zucconi, padre di
Vittorio, rimasero colpiti dalla lettera e telefonarono al giovane
Solazzo. “Rispose mia madre dalla tintoria. Pensavo che sarebbe stato il solito, cordiale rifiuto, e invece no. ‘Vengo anche
subito!’ gridai entusiasta, ma mi fecero aspettare”. Il fatto curioso fu però che la segreteria convocò in redazione, per errore, un altro aspirante giornalista. “Fortunatamente il direttore si accorse dello sbaglio, perché non riconobbe in quella
persona tutta la voglia di fare e l’ingenuità giovanile dell’autore della lettera”. I primi tempi non furono facili: “Iniziai a lavorare con una macchina per scrivere presa a noleggio e scrissi il mio primo articolo su un tassista che era stato picchiato.
Visto il pezzo, però, il direttore lo cestinò senza battere ciglio
e, con rispetto e con grande calma, mi spiegò la differenza tra
un tema scolastico e un articolo di giornale. Fu una lezione
straordinaria che mi sono portato sempre appresso”.
Dopo Il Popolo, Solazzo lavora come cronista all’Avanti!, al
Corriere Lombardo, alla Rai, alla Stampa, all’Ansa. Fino all’approdo al Corriere della Sera, in cui si occuperà di cronaca
nera con una particolare vocazione per l’inchiesta. Sotto questa veste seguirà gli sviluppi della strage di piazza Fontana,
del delitto Calabresi, degli omicidi delle Brigate Rosse e del
crack del Banco Ambrosiano, fino agli inizi di Mani Pulite.
Inchieste di cui preferisce non parlare, “altrimenti qui facciamo
notte”.
Adriano Solazzo è stato anche direttore dell’Istituto “Carlo De
Martino” per la Formazione al Giornalismo dal 1994 al 1996,
quando la scuola era ancora nella vecchia sede di via
Soderini: ricorda il suo biennio come “un’esperienza importante in cui ho cercato di insegnare agli allievi tutto quello che
ho imparato con l’esperienza”. Ai ragazzi che oggi stanno entrando nel mondo del giornalismo “raccomando di leggere tantissimo e di essere preparati su tutto. Il giornalista deve essere una personalità dinamica, sempre curiosa e in cordiale gara con i colleghi per arrivare per primi e meglio alla notizia: bisogna lavorare con tenace umiltà, non mollando mai la presa”. Il tutto tenendo però conto dell’etica e del buon senso, che
“nel cronista di nera si riassume soprattutto nel rispetto della
riservatezza dei soggetti coinvolti”.
Ma come è cambiato il ruolo del cronista rispetto ai tempi in
cui Solazzo era al Corriere? “Direi che i cambiamenti sono avvenuti soprattutto in due direzioni. In primo luogo i giornalisti
vanno sempre meno a caccia di notizie, troppo spesso si accontentano delle versioni istituzionali senza approfondire l’argomento. In secondo luogo un tempo si faceva il cronista praticamente per tutta la vita, come ho fatto io. Oggi invece - continua - i direttori tendono a farli ruotare molto frequentemente,
e questo è un errore perché ogni volta si perde tutto quel patrimonio di conoscenze e confidenze che il bravo giornalista
riesce a farsi sul campo”. Il consiglio più grande a chi vuole diventare cronista “è ovviamente quello di stare sempre ai fatti,
lezione che ho imparato soprattutto nell’Ansa di Sergio Lepri.
Questo principio, che dovrebbe essere valido per tutti i settori, trova nella cronaca nera la sua ragione più profonda: il commento spetta ad altri”.
Massimo Lanari
Salvatore La Pietra
Dalla Sicilia al Corriere.
Ecco il giornalista manager
Palermo, fine anni ’40. In una città piena di problemi, ancora ferita dalla guerra, c’è un ragazzo di quindici anni
che anziché andare a divertirsi con i suoi coetanei preferisce spiare dalla finestra la redazione e la tipografia
del Giornale di Sicilia. Salvatore La Pietra, detto Toti, ha
il pallino del giornalismo, sa perfettamente cosa vuol fare da grande.
Il suo sogno inizia ad avverarsi nel 1951, quando scrive
una lettera al settimanale Lo Sport di Milano, diretto da
Emilio De Martino, lamentando la mancanza di articoli
sugli avvenimenti sportivi in Sicilia. Per tutta risposta il
caporedattore Angelo Rovelli gli propone una collaborazione: Toti coglie l’occasione al volo e a 17 anni scrive il
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suo primo articolo sul giro ciclistico dell’isola.
Con questo biglietto da visita, Salvatore La Pietra entra
finalmente al Giornale di Sicilia. Il primo incarico, ovviamente gratuito, è la cronaca di una partita di promozione
su un polveroso campetto di periferia. Tra servizi, articoli e correzioni di bozze, La Pietra fa le ore piccole e si
guadagna la fiducia della redazione: diventa redattore,
inviato, segretario di redazione, capo servizio.
Nel 1979 La Pietra segue il suo direttore Roberto Ciuni
e si trasferisce a Napoli per fare il vicecaporedattore del
Mattino. Tre anni dopo arriva il trasferimento a Milano, al
Corriere della Sera, dove viene assunto con la qualifica
di assistente editoriale: per la prima volta la dirigenza
crea una figura di coordinamento tra editore e redazione, affidando questa mansione a un professionista abituato a parlare il linguaggio dei
giornalisti, ma esperto anche nella gestione grazie ai suoi
anni da segretario di
redazione. Negli anni
’90 ai periodici Rcs
viene introdotto il sistema informatico.
Una rivoluzione che
La Pietra prepara organizzando corsi per i giornalisti e
scrivendo dei piccoli manuali, in cui spiega alle vecchie
glorie della macchina per scrivere come accendere un
computer o il significato della parola “Internet”.
Massimo Lanari
ORDINE
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2006
Ventiquattro medaglie d’oro per cinquant’anni nell’Albo
Luciano Micconi
Segretario a vita,
“architrave” del Corriere
Un giornalista dovrebbe abitare in una zona elegante
della città dove lavora.
Magari non centralissima,
ma almeno prestigiosa.
Soprattutto se il giornalista in
questione è stato una colonna portante, anzi un’architrave, del Corriere della Sera.
Invece mi trovo davanti a un
anonimo palazzone vicino a
piazza Abbiategrasso, alla
periferia sud della città. Al citofono mi presento timidamente come “Il ragazzo della scuola di giornalismo”. “Sesto
piano”, risponde una voce metallica.
Ed eccomi a suonare alla porta. Mi aspetto un signore appesantito dagli anni, visto che la sua scheda all’Ordine indica
come data di nascita il 1922. Invece trovo un brillante ottantatreenne circondato da due gatti che gli si rotolano attorno.
Luciano Micconi vive in una casa che sa di mobilia pregiata,
di legno d’epoca. Lui, esperto di antiquariato, nello stringermi
la mano mi apostrofa: “Ti chiami Alessandro, al citofono dovevi dire il tuo nome, non essere timido. Tieni sempre la testa alta!”. Primo appunto di un incontro che varrà quanto un
ciclo di conferenze.
Ci accomodiamo nel suo studio, mentre i due gatti si accovacciano ai miei piedi. Un tavolino di legno, centinaia di libri
sugli scaffali, dal vetro della finestra intravedo piazza Agrippa.
Capisco subito che prendere appunti sarà arduo: il signor
Micconi - lo chiamerò così lungo l’intera chiacchierata - è un
fiume in piena. Dapprima fatica a ricordare il suo passato, poi
comincia con gli aneddoti senza tralasciare le regole per un
buon giornalismo.
“Sono di Parma, ma vivo a Milano da settant’anni ormai. Già
alle medie alla Cardinal Ferrari scrivevo sul giornalino della
scuola”, ricorda. Comincia ben presto a collaborare con riviste e quotidiani. Ad aiutarlo contribuì la passione per l’antiquariato, tanto che nel 1960 il settimanale Amica gli commissionò un giro d’Italia alla ricerca delle botteghe più prestigiose. E sempre sull’antiquariato Micconi scriverà vari libri
che riceveranno premi in Italia e all’estero.
Nel 1963, la svolta. Ecco l’assunzione da praticante al
Corriere, dove rimarrà fino al 1987. Redattore, caposervizio
degli interni, capo redattore centrale: infine, per nove anni,
segretario di redazione, “la macchina del giornale, colui che
ha in mano tutto”. Un ruolo ricoperto in maniera talmente speciale che, al momento dell’addio, gli sono stati tributati onori
esclusivi. Di solito un segretario accoglieva il nuovo direttore
alla maniera di un maggiordomo; giro nelle redazioni per la
presentazione ai colleghi, incontri con le autorità cittadine nei
giorni successivi all’insediamento. Quando Micconi ha lasciato il Corriere, i ruoli si sono invertiti: il direttore Ugo Stille lo ha
accompagnato di persona all’uscita. Mai accaduto prima di
allora. Ancora, dieci anni dopo, Ferruccio de Bortoli ha voluto che tornasse per un giorno in via Solferino 28 a salutare i
vecchi compagni di viaggio e all’evento ha dedicato addirittura l’apertura di una finta prima pagina, distribuita in redazione. Infine, lo ha nominato “segretario di redazione a vita”.
Luciano Micconi non parla quasi mai di “giornalisti”, riferendosi all’ambiente dove ha lavorato per oltre vent’anni; preferisce chiamarli “corrieristi”. Troppo diverso, troppo amato il
Corriere rispetto al resto. Non a caso ha contribuito alla stesura di Come si scrive il Corriere, una sorta di summa sugli
stili delle componenti del più celebre quotidiano italiano. Non
a caso ha rifiutato incarichi di prestigio in altri giornali per poter rimanere “a casa sua”.
“Ero un bel rompiscatole - ammette - ma anche oggi chi mi
voleva male mi apprezza”.
Cosa non sopporta, a parte i computer? L’arroganza di chi arriva nelle redazioni con la pretesa di saper fare già tutto, la
smania di firmare il pezzo, l’accontentarsi di scrivere un articolo solo basandosi sulle agenzie di stampa.
Due eventi, nel bene e nel male, hanno segnato la carriera
giornalistica di Micconi. Il primo, a pochi giorni dal Natale del
1965, quando gli è stato possibile incontrare papa Montini dopo una serie infinita di peripezie e contrattempi divertenti.
Risultato: quella che doveva essere un’ampia cronaca dell’evento si è trasformata in un breve pezzo di colore pubblicato
nel gennaio 1966.
Ben più triste il secondo, l’assassinio di Walter Tobagi. Una
mattina strana, iniziata con un flash di cronaca: “Hanno ammazzato un uomo in via Solari”. Vai tu a pensare che sia una
brutta notizia. Poi, la stilettata al cuore: “Hanno ucciso Tobagi”.
La sede del giornale che si svuota, gli inquirenti che arrivano
in via Solferino e affollano i corridoi, la camera ardente affollata, le lacrime del direttore del Corriere, Franco di Bella, al
funerale.
E ogni volta che nomina “Walter”, Luciano Micconi si illumina. “Guai a pensare male di lui, che ha dato la vita per la verità!”, sembra che voglia gridare. Lui stesso, nel 2000, ha voluto allestire, con i ragazzi dell’Ifg, una mostra in ricordo di
Tobagi presso il Circolo della Stampa. Regolarmente, poi, si
reca al cimitero di Cerro Maggiore per deporre, a nome del
Corriere, un mazzo di fiori sulla tomba del giornalista nato
a Spoleto. Della stampa odierna salva poco: ritmi troppo
frenetici, titoli sparati a nove colonne quando meriterebbero meno spazio, eccessivo numero di pagine, e di conseguenza, pochi controlli da parte dei caporedattori. La fiducia non manca. L’importante è non montarsi la testa, essere imparziali, non guardare in faccia nessuno: le riflessioni
vanno lasciate ai lettori.
Alessandro Ruta
Luigi Cossu
Una vita vissuta di notte
tra menabò, pagine e piombo
Una “mission impossible” per un giovane correttore di bozze:
scrivere le didascalie di un servizio fotografico su un intervento endocranico: così nel 1953, ha inizio l’avventura giornalistica di Luigi Cossu, allora pubblicista al giornale Le Ore.
Un’assunzione giunta come una benedizione per un venticinquenne che per cinque anni aveva vissuto in ristrettezze
economiche, vendendo libri e intimo per signora porta a porta. “Restai a Le Ore sino alla notte del 31 dicembre 1956” ricorda “quando passai al Giorno, perché lì c’era la possibilità
di essere assunto come redattore grafico”.
Il 1° febbraio 1956 venne iscritto all’Albo dei professionisti:
iniziò così una carriera di grafico lunga 35 anni, vissuta quasi sempre di notte, trascorsa fra i menabò, le pagine e il
piombo.
Nel novembre 1968 un nuovo cambio, e Cossu venne assunto come caposervizio per creare Avvenire, il quotidiano
della Cei. L’obiettivo era quello di realizzare un organo di
stampa che permettesse di
abbattere gli steccati, gettando i primi ponti fra la sinistra
democristiana e i moderati
del Partito comunista: un
compromesso storico ante
litteram.
La forza innovatrice di Avvenire non si risolveva solo
nei contenuti, ma anche nel
progetto grafico: l’articolo di
fondo, generalmente di carattere religioso, era stato
spostato dalla posizione originale e collocato in apertura di
pagina. “Sono stato il primo al mondo a fare questo”, dice con
una punta di orgoglio mentre mostra una copia su rame del
primo numero di Avvenire appesa al muro del suo studio.
“Non ho meriti specifici - aggiunge -. Ho avuto una gran fortuna dal punto di vista professionale. Penso di essere stato
uno zero, che cambia di valore in base alla posizione che
prende. E poi ho avuto la fortuna di avere dei colleghi grandissimi. Ho lavorato in cinque testate, con dieci direttori diversi. Ho conosciuto un sacco di giornalisti veramente bravi e
questo me lo porto dentro”.
I nomi sono tanti, tantissimi. Ciascuno è ricordato con grande precisione e affetto, e su tutti uno giganteggia: Indro
Montanelli. “Credevo che non sarei mai riuscito a lavorare al
Giornale con lui, perché eravamo troppo diversi - spiega -. Ma
da quando sono stato assunto nel 1988, sono iniziati 10 anni di amicizia vera. Io lavoravo con Montanelli e non solo per
lui, curando l’impaginazione. Scrivevo solo pochi titoli di economia e di turismo; di politica parlavamo solo in privato”.
Quando sfoglia i giornali di oggi Cossu ha qualche rammarico: gli errori, troppo comuni da quando non ci sono più i correttori di bozze, e la superficialità di una professione che
ha perso il gusto per l’inchiesta. Ma è convinto che il futuro della carta stampata sia in buone mani: “Probabilmente
un giovane che inizia oggi ha più di quanto non abbia avuto io. I nuovi giornalisti sono più dotati di quelli dei miei tempi, che uscivano dalla guerra con addosso una gran fame.
Una fame vera”.
Ilaria Sesana
Giovanni Marin
A 300 all’ora sul lago salato
per scrivere di automobili
Una vita tra rombi di motore e ticchettii di macchine
per scrivere. Parte da
Vittorio Veneto la storia di
Giovanni Marin, decano
del giornalismo motoristico
italiano. “L’amore per questo mestiere - racconta iniziò da giovanissimo,
quando mi chiesero di scrivere un articolo sulla corsa
Vittorio Veneto-Cansiglio
per Auto Italiana”. La collaborazione con la prestigiosa rivista porterà Marin a
Milano, dove diventerà redattore capo.
La vera svolta nella carriera arriva però nel 1972, quando al telefono c’è Edilio Rusconi: “Senta Marin, facciamo
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2006
una rivista di auto?”. Nasce così Gente Motori, periodico
che rispetto al concorrente Quattroruote affronta il mondo delle auto in modo più popolare e accessibile, sul modello di Gente. “I primi tempi non furono facili - ricorda il
giornalista - ma improvvisamente, nell’agosto del 1975,
la rivista decollò quando in copertina mettemmo una
Dune Buggy, un fuoristrada e un’Alfa Romeo Spider”. Il
motivo dell’improvviso decollo? “Francamente non lo so.
Da un mese all’altro siamo passati da poche migliaia a
300mila copie vedute”.
Tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80 Marin trova un
modo tutto suo per promuovere la rivista da lui diretta: inventa i raid, spericolati viaggi in giro per il mondo con auto di serie. E attraversa il Sudafrica con un’Alfa 33, la
Cina con un’Opel Corsa, l’Amazzonia con una Fiat Tipo,
l’Alaska con una Lancia Delta. A Salt Lake City, il giornalista-pilota porta la sua Alfa 155 alla velocità record di
313 chilometri orari, mentre nelle più quiete stanze della
redazione di Gente Motori inventa una fortunata serie di
interviste ai presidenti delle case automobilistiche.
Nel 1992 Marin lascia il gruppo Rusconi e dirige prima
Auto Capital e poi Auto Più, mensile che guida ancora
oggi insieme a 16 Voglia di 4x4.
Nel corso della sua carriera ne ha viste tante: soprattutto ha visto come è cambiato in cinquant’anni il mondo dei
motori, e di riflesso il modo di fare il giornalista in questo
settore. Una passione d’elite che si è trasformata prima
in fenomeno di massa e poi in un qualcosa sempre più
dominato dalla tecnologia, in cui la creatività dell’uomo
ha un peso sempre minore. “Un tempo - spiega - dietro
ogni auto c’era un tecnico che con le sue idee ti tirava
fuori prodotti come la Lancia Delta integrale, insuperabile esempio di tecnologia subordinata alla creatività dell’uomo. Oggi invece le auto nascono interamente al computer, mentre le case automobilistiche si limitano ad assemblare i pezzi scegliendoli con un criterio esclusivamente economico”. Le macchine insomma non hanno più
un’anima, sono tutte uguali: dov’è finita la fantasia, la
passione? “Rimane solo dietro grandi marchi come
Ferrari, Lamborghini, Porsche o Maserati. Lì puoi ancora
toccare con mano un’auto vera, capace di darti emozioni forti”.
Massimo Lanari
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L’assemblea degli iscritti giovedì 23 marzo 2006
Romain Rainero
Il professore e l’Africa.
Storia di amore e di studio
Presidente del Comitato italo-francese di studi storici, ufficiale della legion d’onore,
grand’ufficiale della Repubblica italiana, dottore honoris
causa all’università di Nizza,
accademico dell’Accademie
française d’histoire d’outremer, accademico dell’Accademie royale d’histoire d’outremer di Bruxelles. Questa è
solo una parte dell’impressionante serie di onorificenze ricevute da Romain
Rainero, professore in congedo della cattedra di Storia contemporanea alla facoltà di Scienze politiche della Statale di
Milano.
Titoli che impressionerebbero chiunque, particolarmente un
giovane intervistatore, e il resoconto della conversazione tra i
due si trasformerebbe facilmente nell’elenco dettagliato dei
momenti di imbarazzo tra interlocutori troppo distanti tra loro.
Sarebbe successo questo se aprendo la porta del suo ufficio
in dipartimento il giovane non si fosse trovato davanti un uomo sorridente, ospitale e felice di lasciarsi andare a battute e
a citazioni in francese.
Il professor Rainero che fin dal nome proprio denota un’origine non completamente italiana, col suo accento e i suoi modi fa pensare subito ad atmosfere transalpine. Suo padre era
un profugo politico rifugiatosi a Parigi durante gli anni del regime fascista e a Cannes, alla fine di giugno del ‘29, nacque
il professore. Tantissimo in lui richiama la Francia: il rigore, la
classe, lo spirito profondamente laico che non stride col suo
essere praticante cattolico e, soprattutto, un eterno dualismo
tra amor patrio e tensione verso problematiche internazionali.
Il suo ritorno in Italia avvenne negli anni dell’università, quando Rainero scelse l’ateneo di Torino, si laureò in Scienze politiche con Norberto Bobbio e cominciò la sua carriera vincendo un concorso indetto dal ministero degli Esteri. In palio
c’era un posto presso l’ufficio studi dell’Istituto di studi politici
internazionali (Ispi), ove vi resterà per 14 anni, dopo aver raggiunto la carica di responsabile della sezione Medio Oriente Africa. La posizione conseguita, anche grazie a una licenza in
“lingua araba e istituzioni coraniche” conferitagli dal prefetto
della Biblioteca ambrosiana monsignor Galbiati, gli permise di
intraprendere una carriera giornalistica parallela. L’Ispi pubblicava già allora una rivista di scienze politiche, Relazioni internazionali, e Rainero iniziò a frequentare la redazione. Agli inizi era suo l’oneroso compito di andare in tipografia a chiudere la pubblicazione. “È il ciclo delle cose. Questi compiti toccano sempre ai più giovani e io vi passavo Ferragosto,
Pasqua, Natale e Capodanno, a ultimare i numeri speciali che
sarebbero usciti subito dopo”. Il ricordo comunque è tutt’altro
che negativo, tanto che tuttora afferma: “Fu l’attività giornalistica all’origine della mia affermazione”.
L’esperienza non fu isolata e se tra le riviste culturali a cui ha
collaborato Rainero annovera anche Il Mulino e Il Mercurio
(dell’Eni) ugualmente notevole fu il rapporto intrapreso con la
France Press. Forte della sua perfetta conoscenza del francese, il professore era diventato corrispondente notturno dell’agenzia di stampa parigina e quotidianamente mandava
“pezzi sugli incidenti e su cose non nobili ma molto giornalistiche… la bianca, la rosa, la nera”. Di tutto, perché come lui
stesso afferma: “Avevo bisogno di un po’ di grano… il problema all’inizio è sempre quello”. Situazione comune a molti, per
carità, ma il fatto che sia toccata anche all’eminente cattedratico lo rende all’improvviso incredibilmente più vicino all’intervistatore. Rainero ebbe contatti anche con Il Popolo, il giornale della Democrazia Cristiana, e per qualche tempo fu tentato dalla professione giornalistica a tempo pieno. Il vaticanista
Pio Bondioli lo voleva assolutamente in redazione, ma gli interessi di Rainero lo portarono a guardare altrove. Erano gli
anni delle grandi speranze legate all’Eni di Mattei, dei rapporti sempre più stretti tra le sponde del Mediterraneo, e il professore, con la sua specializzazione, sapeva di poterne fare
parte. Tenne lezioni nelle più importanti università dell’Africa
mediterranea, organizzò col presidente Pertini missioni in
Algeria e fondò perfino un Istituto di storia nazionale libica intessendo rapporti con Gheddafi, che lo aveva voluto come
consigliere, e col ministro degli Esteri Andreotti, che autorizzò
il trasferimento di documentazioni di proprietà italiana.
Tuttora Raniero non sembra conoscere sosta nella sua attività
di studioso e oggi, che è stimato tra i cattedratici stranieri così come tra i colleghi e discepoli del dipartimento, appare in
tutto il suo essere un maestro, più propenso ad aiutare i giovani che a difendere il proprio ruolo. “Quando uno ha un’autorità i casi sono due - afferma il professore - o mantiene col sorriso una gestione dei rapporti serena, cercando di aiutare tutti, o sceglie una gestione mussoliniana, elencando i propri meriti”. Poi serafico continua: “Ma le cose cambiano. Cambiano
sempre. E se non hai pensato agli altri ti dicono ‘Hai finito?
Allora fuori dalle palle!’. Io sono andato in pensione l’anno
scorso e tutti mi hanno voluto tenere, e non per i volumi - quattromila, ndr - che ho donato al dipartimento”. “Non sono importante” continua. “Sono in servizio e il servizio va svolto fino
alla fine, fino a quando c’è testa, gambe e cuore. E io per servizio ho regalato i miei volumi al dipartimento. I ragazzi hanno
bisogno di libri e i libri buoni non sono facili da trovare”. Un po’
come i buoni maestri che, come Rainero, ogni tanto si incontrano.
Daniele Barzaghi
Cassio Morosetti
L’artigiano della vignetta
giornalista a sua insaputa
Dove cercare il segreto di
una vita? In vecchi album di
ritagli impilati con ordine, in
una poesia esibita discretamente sulla penombra di una
parete, in un sorriso opaco.
Lo studio di Cassio Morosetti
è un appartamento che profuma di antico.
“Quando dirigevo l’Agenzia
disegnatori riuniti qui era tutto un turbine” e il suo sguardo corre per le stanze, sulle
scrivanie ampie e spoglie, sulle matite macchiate di china.
È un vecchio signore dall’aspetto curato e dalla riservatezza un
po’ scontrosa. Non parla molto; soprattutto non parla di cose
che non conosce e già da questo capisci che non è un giornalista. Infatti Cassio Morosetti non è un giornalista professionista. L’hanno iscritto nell’Albo pubblicisti nel ‘56, a sua insaputa, e da allora si considera un intruso.
Lui si definisce un disegnatore, un disegnatore di seconda serie, perché “altri hanno fatto di meglio e sarebbe disonesto non
ammetterlo”. Ma anche in questa professione è entrato per caso. Nel ‘47, dopo la guerra, viene a Milano dalla sua Jesi per
trovare un lavoro. Prova una quindicina di concorsi e, alla fine,
entra al servizio meteo di Linate.
Un giorno, durante una lezione di climatologia, abbozza una vignetta che circola tra i colleghi e gli fa perdere il posto. Strano
effetto, pensa: che abbia del talento? È un caso, ma un caso
fortunato. Cassio Morosetti comincia subito a collaborare per la
Settimana Enigmistica e il Corriere dei Piccoli, poi approda al
Candido di Giovanni Guareschi.
“Ho conosciuto Guareschi da un punto di vista professionale,
ma lo stimavo moltissimo. Avevo un contratto di esclusiva per
dodici vignette alla settimana. Quando il Candido chiuse,
Giovannino mi mandò una lettera di ringraziamento che terminava così: ‘Se risorgerò dalle ceneri, per primo chiamerò Lei’ ”.
La collaborazione con Guareschi segna la carriera di Morosetti,
precludendogli molti ambienti di sinistra. Ma Guglielmo
Zucconi, che selezionava le vignette per il Corriere
dell’Informazione, lo chiama al suo giornale e gli affida anche
il settore enigmistico. In quell’occasione Morosetti comincia a
reclutare giovani talenti e organizza una squadra che diventerà
poi l’Agenzia disegnatori riuniti. Un testimone dunque, oltre che
un grande artigiano. Testimone di quell’evoluzione della vignetta che la vedrà fiorire negli anni ‘50 e ‘60 e poi lentamente decadere con l’avvento della televisione. “Era una parabola inevitabile, già avvenuta nella stampa estera: la tv ha assunto quel
tono scanzonato e distensivo che prima apparteneva alla vignetta. Oggi sui giornali c’è posto solo per la satira politica, ma
quello è un genere diverso di cui non mi sono mai occupato”.
Ora che l’Agenzia ha chiuso e che la vignetta è tramontata,
Morosetti vive sereno. Si gode il meritato riposo nel suo appartamento che profuma di antico.
Luca Gualtieri
Pietro Ambrosetti
Per il ciclismo sulla “rosea”
disse no anche a Gianni Brera
I fogli sono appoggiati su una mensola dello studio: appunti, ritagli di giornale, fotocopie, bozze. “Tutto materiale indispensabile per scrivere un’enciclopedia dello sport varesino, un progetto che sto curando per l’Università dell’Insubria, che ha sede
proprio a Varese”. Pietro Ambrosetti, per tutti “Nuccio”, a quasi
ottant’anni hon ha affatto l’aria del pensionato. Lavoratore instancabile, Ambrosetti non ha mai smesso di raccontare lo
sport, una malattia trasmessagli geneticamente. “Zio Antonio” è
stato l’uomo che ha portato in Italia, nella sua Varese, i Mondiali
di ciclismo del 1951. Quel giorno vinse lo svizzero Kubler battendo una squadra italiana fortissima, guidata da un commissario tecnico d’eccezione, Alfredo Binda, primo campione del
mondo della storia del ciclismo nonché cugino di Nuccio. Anche
per questo non stupisce che lui abbia cominciato la sua attività
giornalistica proprio con il ciclismo. Anno 1946: l’Italia sceglie tra
monarchia e repubblica, a Norimberga si processano i gerarchi
nazisti e a Varese un Nuccio Ambrosetti non ancora ventenne
si presenta alla redazione della Prealpina. Il ragazzo conosce il
ciclismo e con la penna ci sa fare: in breve si guadagna uno
spazio fisso sul quotidiano varesino, con cui collaborerà per
quattro anni. Nel 1950, la grande occasione: il Guerin Sportivo
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di Gianni Brera e la Gazzetta
dello Sport cercano un corrispondente da Varese. Nuccio
Ambrosetti è l’uomo che fa
per loro. “Da quel giorno la
Gazzetta è diventata la mia
seconda famiglia”, dice oggi.
“Non ho mai voluto lasciarla,
nemmeno quando Brera, il
più grande di sempre, mi
chiese di seguirlo a Il Giorno.
Non me ne sono mai pentito”.
Con la “rosea” Ambrosetti si
scopre giornalista poliedrico: scrive di basket e ciclismo, di calcio e pugilato, diventando amico di campioni come Rivera, Loi
e Mazzola. “A vent’anni ero un ciclista troppo brocco per poter
arrivare a correre con i campioni, ma grazie alla Gazzetta ho
avuto la possibilità di stare vicino ai grandi. E poi il giornalismo
non mi ha mai chiesto di rinunciare ai progetti della mia vita”.
Progetti che nel corso degli anni si sono chiamati Velo Club
Varese, fondato da Ambrosetti a metà Novecento, Olimpia, so-
cietà calcistica varesina di cui è stato dirigente, e soprattutto
Milanogomme. “Un giorno decisi di creare una squadra di calcio e la chiamai con il nome dell’officina di famiglia che ancora
gestisco. Anche Urbano Cairo, oggi editore e presidente del
Torino, indossò la maglia del Milanogomme, granata come quella del Toro. Per lui deve essere stato un segno del destino”. Tra
mille attività Ambrosetti trova anche il tempo di contribuire all’evoluzione del giornalismo sportivo, creando le “schede statistiche” di cui oggi si abusa soprattutto in televisione. “Mi serviva
un’idea da proporre in Gazzetta e pensai di prendere spunto dal
basket, sport in cui le statistiche abbondano. Iniziai con una
scheda su Suarez. Tiri in porta, tiri fuori, palle perse, cose così.
Ai tempi queste cose non le faceva nessuno e per mia fortuna
la proposta prese piede”.
Il resto è storia degli ultimi anni: “Nel 2002 sono rientrato nel giro giornalistico curando una serie di iniziative per il centenario
dalla nascita di Binda. Poi, l’anno scorso, l’Università
dell’Insubria mi ha chiesto di curare la sezione sportiva di una
Storia di Varese che verrà pubblicata nel 2006. È un lavoro sterminato, ma non potevo tirarmi indietro: ho deciso che a ottant’anni era arrivato il momento di fare qualcosa per la mia
città”. Ambrosetti cerca tra i fogli sulla mensola e trova un indice provvisorio dell’enciclopedia, cinquecento pagine di aneddoti e biografie. Tra gli autori ci sono tutti i grandi nomi del giornalismo sportivo varesino, più una mezza dozzina di firme di fama
nazionale. L’unico a non comparire è il curatore dell’opera, che
ha preteso di lavorare senza ricevere denaro.
Luca Bianchin
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2006
Ventiquattro medaglie d’oro per cinquant’anni nell’Albo
Gloria Lunel
Cinema e fotografia
“un’avventura stupenda”
Interno. Un appartamento al
terzo piano di un palazzo nel
centro di Milano. Mensole
affollate di libri, videocassette
e dischi, stampe e quadri alle pareti, un gatto grigio accovacciato sui tasti del pianoforte: il tempo passato e il
tempo vissuto si vedono dalle case strapiene.
A casa di Gloria Lunel si respira il profumo speziato dei
ricordi, misto a quello acre
del tabacco. Nata a Bologna
il 17 maggio 1927 da padre livornese e madre romana, ha studiato a Torino e successivamente a Roma presso l'Accademia
di arti drammatiche grazie a una borsa di studio.
Nella capitale lavora inizialmente nel mondo del cinema. Sono
gli anni del neo-realismo e poi della Dolce vita, quando le pellicole italiane erano al centro dell’attenzione e le più grandi personalità del cinema mondiale passavano per Roma.
“Ho collaborato con i più grandi registi - spiega la signora
Lunel -. Visconti, Fellini, Antonioni, Lizzani. È stata un’avventura stupenda. Inizialmente ho fatto la segretaria di dizione, successivamente l’aiuto regista e l’assistente alla regia”.
Potrebbe aspirare a diventare regista, ma cambia idea, per un
caso bizzarro. Trova, abbandonata su una panchina romana,
una macchina fotografica: all’interno ci sono una serie di scatti su Esther Williams. Non la restituisce, ma inizia a utilizzarla:
a soli 23 anni inizia a fotografare e solo da poco si è fermata.
Ha smesso quando le macchine digitali hanno sostituito quelle analogiche.
Sul finire degli anni ‘60 lascia Roma, che pure adora, per stabilirsi a Milano dove inizia una carriera nel mondo della pubblicità. Anche con il capoluogo lombardo è scattato un feeling immediato, quasi un matrimonio con la città vista dall’alto di una
mansarda molto romantica e bohemien, a Palazzo Borromeo,
dove ha abitato per 46 anni.
“Sono stata soprattutto una fotografa free-lance” dice “perché
preferisco essere libera. Ho sempre scelto io dove andare e
proponevo i miei servizi ai giornali. Ho girato quasi tutto il mondo: l’Africa, l’Europa, l’Asia”.
I ricordi si rincorrono, emergono i mille aneddoti di una vita avventurosa: un camper che si ribalta nel deserto afghano, le notti trascorse sotto le tende dei pastori in Mauritania, la tensione
della guerra d’Algeria.
Troppi ostacoli per una donna che sceglie questo mestiere?
Assolutamente no. “Non ci sono difficoltà particolari per una
donna - spiega - basta avere un po’ di grinta. Serve per superare i tanti ostacoli che ci si trova di fronte”.
“E in questo Gloria aveva una grinta pazzesca”, aggiunge
Olivia Mattiuzzi, amica e compagna di tante avventure. “Ti ri-
cordi di quella volta in Germania…”.
In ogni luogo un clic, in ogni paese uno scatto. Ma non è il soggetto a rendere una fotografia bella, e neppure il luogo.
Un’immagine è perfetta quando viene supportata da un’idea
vincente, da una storia. Uno scatto deve poter parlare, restituire la voce, le risate, i suoni dell’ambiente. Un reportage deve
raccontare una vicenda senza bisogno del testo scritto, in caso contrario non ha senso.
“Ogni volta che mi veniva in mente un’idea iniziavo a fotografare. E a un certo punto ho iniziato a fotografare i mestieri che
sparivano e le tradizioni lombarde”. Sono nati così i libri Lunario
Lombardo e L’altra Lombardia. Opere che hanno richiesto un
certosino lavoro di ricerca, di verifica alla scoperta delle tradizioni lombarde più antiche e quasi dimenticate come il carnevale di Schignano, oppure il paesino dove le donne si sposavano in abito nero, o ancora l’uccisione del maiale a Gaggiano.
Poi il viaggio e la realizzazione del servizio in condizioni spesso rese difficili dalla pioggia, dal freddo e dalla poca luce.
Sacrifici coronati spesso da buoni risultati, perché la macchina
fotografica non falsa la realtà, al contrario la rende ancora più
viva.
Un “profondo nord” sconosciuto ai più è stato intrappolato e reso eterno negli scatti in bianco e nero di queste opere. “Ogni
immagine ha la sua storia - spiega - Riesco ancora a sentire
la risata di questa donna, ricordo perfettamente questo liutaio”
e indica ora questa, ora quell’immagine.
Cala la luce e l’ultima sigaretta ormai è spenta, mentre gli
sguardi si fermano, quasi saturi, sulle ultime foto. Sulla soglia,
come se stesse dando un consiglio, la signora Lunel ricorda:
“Con la macchina fotografica si racconta sempre. L’importante
è saper guardare la realtà che ci circonda, le persone, le cose.
Tutto può essere raccontato”.
Ilaria Sesana
Enrico Pavesi
L’impegno nel sindacato e l’intuizione
(con Luigi Marinatto) dell’Ifg
Ci aspetta nel posto concordato. Una stretta di mano, vigorosa. Un sorriso aperto. Poi
entriamo in un bar-bugigattolo dove ci identificano subito
come giornalisti. “Qui ne vediamo tanti”, butta lì il cameriere incerto tra l'ironia e l’adulazione. Pavesi risponde
con una smorfia: lui al fascino
della professione non ci crede, forse ne ha viste troppe...
Ordina un caffè, si abbandona sulla sedia e inizia a raccontare. La sua voce arrochita arriva appena nel chiasso del locale. Le mani corrono vivaci lungo il perimetro del tavolo, indugiando ora sulla tazzina, ora sul
registratore - speriamo non lo spenga! - ora su una copia di
giornale. Il busto sporto in avanti con innocua prepotenza crea
subito un’intimità. E il racconto corre via come una confidenza di cui è lecito sorridere.
La storia di Enrico Pavesi inizia proprio davanti al bar in cui
sediamo, nella redazione dell’Italia. “Era il giornale della curia
milanese, l’unico che, con i suoi stipendi da fame, assumesse
praticanti”. All’epoca Pavesi era un giovanotto che aveva studiato in un collegio religioso e poi si era iscritto all’Università
di Urbino pur senza frequentare molto; dopo il servizio militare mollò tutto per darsi al giornalismo contro il volere della fa-
miglia. All’Italia Pavesi rimase quasi quattro anni fino allo scadere del contratto, poi lo licenziarono. Seguirono 11 anni al
Corriere Lombardo - dove si occupò di cronaca nera e bianca - 9 anni in Rizzoli, 6 mesi al Mondo e 15 anni al Corriere
della Sera. Nel 1990 fu prepensionato, un “atto di mobbing
provocato da divergenze politiche”, come ironicamente lo definisce. Tra una collaborazione e l’altra, Pavesi arrotondava
con altre esperienze: ha scritto per il giornale della Fiera di
Milano, ha lavorato all’ufficio stampa della Montedison, e ha
collaborato per altri uffici stampa e ha avuto dei contatti con il
mondo del fumetto. “Mi sono sempre considerato uno spirito
libero - dice - “Quando mi stufavo di un lavoro lo mollavo e ne
cercavo un altro”.
L’unica cosa di cui Pavesi è orgoglioso, il coronamento della
sua vita professionale, è stato l’impegno nel sindacato tra il ‘68
e il ‘76. “Furono gli anni in cui cambiammo la Fnsi, facendone
un organo forte e radicato nelle redazioni. Prima di allora il sindacato praticamente non esisteva”. Nel comitato di redazione
del Corriere della Sera Pavesi collabora con i celebri Raffaele
Fiengo e Massimo Riva e fa la storia di quel giornale. “Ma non
posso dire di aver dedicato la vita al sindacato: c’è chi si è impegnato più di me!”.
Anche il lavoro all’Ordine dei giornalisti della Lombardia lo ha
gratificato profondamente. “Una figura molto importante è stato Luigi Marinatto, il segretario dell’Ordine che, insieme a me
e De Martino, ebbe l’idea di istituire la scuola di giornalismo.
L’Ifg è stata l’opera più importante della mia vita”. Pavesi sen-
tiva l’esigenza di un accesso democratico alla professione che
limitasse l’influenza degli editori. “Ai miei tempi entravi in un
giornale per gentile concessione dell’editore e, all’inizio, non
venivi neanche pagato”. La Scuola di giornalismo fu creata per
imporre una scrematura autenticamente meritocratica e fare
del cronista una figura ad alto profilo professionale. Oltretutto
in quegli anni nascevano nuovi giornalismi, quello televisivo e
quello radiofonico, che si differenziavano profondamente dalla carta stampata; poi sono emersi gli uffici stampa aziendali,
una nuova e preziosa fonte di occupazione: la preparazione
tecnica e la conoscenza dei diversi ambiti divenne una priorità a cui le scuole avrebbero dovuto fornire una risposta.
“Oggi come oggi la scuola è imprescindibile per ogni giornalista”.
Pavesi fu tra coloro che garantirono per l’affitto dei locali degli
Ifg e sostennero attivamente la didattica. Ma le scuole hanno
cambiato il giornalismo italiano? Lui, allora, diventa scettico.
“Da quando ho lasciato il Corriere non mi occupo più di giornalismo” e sorride per sviare il discorso. Forse l’indipendenza
che credeva di aver assicurato al cronista si è rivelata un’illusione.
Gli editori continuano a essere “impuri” e il dibattito tanto acceso trent’anni fa è ormai spento. Forse gli unici “puri” furono
i Crespi per il Corriere della Sera perché non misero mai il
giornale al servizio di un’azienda e garantirono una ragionevole indipendenza alla testata. “Rizzoli junior era una bella promessa, ma si inguaiò con la P2 e ne venne fuori una gran porcheria”. Dagli anni ‘80 in poi la commistione editoria e affari divenne sempre più ambigua e nessuno si pose più il problema
dell’indipendenza.
Conclusa l’intervista ci alziamo, usciamo dal bar e ci incamminiamo in complice silenzio. “Non so cosa scriverai: forse con
me non farai bella figura!”. E ride roco nel chiasso della città.
Luca Gualtieri
Mirella Casei
Una signora cronista,
alla corte di De Martino
Mirella Casei è una signora, una vera signora che ha trovato nel giornalismo la sua espressione migliore, dal ’55 come pubblicista e dal ’70 come
professionista.
Nata a Todi decise di trasferirsi a Milano per frequentare l’Università
Bocconi e laurearsi in inglese con una tesi su William Shakespeare.
All’agenzia Italia i suoi primi contatti col giornalismo: correggeva i testi e li
mandava ai giornali.
Poi intervenne il destino. Il direttore non poteva occuparsi personalmente
di un pezzo su Amundsen e glielo affidò, chiedendole di consegnarlo al
Corriere Lombardo. “Arrivai e vidi la redazione della cronaca. Erano tutti
uomini, indaffaratissimi, ma non così tanto da non notare una ragazza”
racconta Casei anticipando l’incontro con colui che ancora è per lei un
esempio di correttezza: “Carlo De Martino arrivò come un lampo, lesse il
mio pezzo e disse ‘Non male, signora’”. Cominciò così una collaborazione
ORDINE
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2006
di diversi anni e sulle pagine della cronaca apparve la firma di M. Casei:
“M” e non “Mirella” perché non si capisse che a scrivere fosse una donna.
Una donna che girava Milano col fotografo, in sella a una Lambretta.
Dalla cronaca passò alla terza pagina e iniziò a occuparsi di libri e lì, per
colpa della sigla con cui firmava, le capitò anche di subire le attenzioni di
una donna di spicco dell’editoria.
Poi venne il periodico Settimana TV, per il quale Casei realizzò interviste
agli emergenti della scena musicale italiana e, dopo otto anni, iniziò a collaborare col Corriere d’Informazione. Il richiamo verso la cronaca era forte,
ma alcune circostanze la portarono altrove: in stato interessante come era
dovette lasciare una pericolosa inchiesta sul racket di sigarette e non riuscì a trovare il cinismo per intervistare i genitori di una ragazza gettatasi
nel Naviglio: “Mentre salivo le scale li sentivo piangere dietro al porta” ricorda. Tornò agli spettacoli, a Visto, intervistò Celentano e ne divenne l’insegnante d’inglese. Poi fu la volta di Famiglia Cristiana e di Bolero e in entrambi scrisse di tematiche femminili, iniziando a specializzarsi sempre più
in problematiche legate a bellezza e cosmesi.
Non le mancò neppure un’esperienza televisiva, con la trasmissione
Shaker della Globo Tv, a coronare quella che è stata ed è ancora una solida carriera nelle riviste femminili (oggi scrive per Bookmoda) così come
nelle pagine di cronaca di storici quotidiani.
Daniele Barzaghi
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L’assemblea degli iscritti giovedì 23 marzo 2006
Ibio Paolucci
Dalle colonne dell’Unità
le passioni degli anni ’70
“È triste che un popolo non sappia più leggere la propria storia”. Un velo di malinconia s’impossessa di Ibio Paolucci.
Siamo seduti, uno di fronte all’altro, in un ufficio milanese. È
la sede dell’Unità, il giornale cui Paolucci ha dedicato la vita.
È un mattino terso e dalle vetrate lo sguardo si tuffa sulla città
spruzzata di neve. La Stazione Centrale a poche centinaia di
metri, e il Pirellone poco più in là: una distrazione a cui è difficile sfuggire. Ma torniamo a Paolucci, alla sua malinconia e
alla causa che l’ha suscitata.
Recentemente ha pubblicato un testo su Giovanni Pesce, il
comandante partigiano; si intitola Giovanni Pesce Visone, un
comunista che ha fatto l’Italia ed è stato scritto a quattro mani con Franco Giannantoni. “Oltre a essere un mio amico,
Pesce è un monumento della nostra storia - dice, accalorandosi per un attimo -. Appena diciottenne andò volontario in
Spagna con le Brigate Internazionali; volontario come
Hemingway, Bernanos, Orwell. Poi fu confinato a Ventotene
e, durante la Resistenza, prese parte alla lotta contro il nazifascismo. Nel dopoguerra gli è stata conferita la medaglia d’oro al valor militare. Eppure è triste che, a destra come a sinistra, il valore di eroi come Pesce sia misconosciuto”. Il riferimento è al disegno di legge sulla parificazione tra partigiani
e repubblichini e ai libri di Giampaolo Pansa. “È sconfortante
il modo in cui la storia viene raccontata azzerando ogni valore”.
Ibio Paolucci è nato a Castiglione della Pescaia, vicino a
Grosseto, nel 1926. Nel dopoguerra, a Genova, mentre era
funzionario del Partito comunista, si è occupato di critica teatrale. E dopo aver seguito la prosa per diversi anni, Paolucci
è entrato nell’organico dell’Unità come cronista.
A quei tempi le edizioni del quotidiano erano quattro - Torino,
Genova, Milano e Roma - e ogni edizione aveva una sua spe-
cificità che la rendeva riconoscibile; in seguito le edizioni di Milano e Genova furono accorpate, e Paolucci
venne a lavorare nel capoluogo lombardo.
“Il nostro punto di riferimento
non era la Pravda, ma il
Corriere della Sera; è sbagliato credere che l’Unità
fosse al di fuori del sistema
giornalistico italiano: la diaspora dei nostri cronisti negli
altri quotidiani ne è la prova”.
Se qualcuno gli chiede cosa
abbia imparato durante gli anni della gavetta, Paolucci non ha
dubbi: tutto. Al di là dei valori politici di cui l’Unità si faceva portatrice, la lezione più importante è stata quella tecnica. Il giornale insegnava a stare sulla notizia, vagliando attentamente
le fonti, e trasmetteva un’etica della professione.
Tra il 1958 e il 1961 fu mandato a Varsavia come inviato e in
quel periodo fece conoscere il Diario di David Rubinowicz. Si
trattava delle memorie di un ragazzino ebreo trovate in un
cassonetto della spazzatura. “Essermi imbattuto in quel testo
e averne incoraggiato la pubblicazione è un gesto di cui ancora oggi vado molto orgoglioso”.
E la situazione attuale dell’Unità? Paolucci sospira: “È inutile
rimpiangere i tempi eroici, la situazione non è certo quella di
una volta! Oggi il giornale è rinato, diffonde 60mila copie al
giorno e sta decorosamente sulla piazza. Contentiamoci”.
Un altro rapporto importante fu quello con l’Ordine dei giornalisti della Lombardia di cui è stato consigliere per molti an-
ni. Una figura fondamentale fu proprio il presidente
dell’Ordine Carlo De Martino: “Con lui mi sono sempre trovato benissimo. Fu un presidente notevole, forse il migliore che
la Lombardia abbia mai avuto”.
In proposito ricorda un episodio. Nel 1974 Ibio Paolucci, al
tempo cronista di giudiziaria, riportò sull’Unità alcune dichiarazioni di Dario Fo. Secondo il futuro premio Nobel, il giudice
Sossi aveva aperto delle indagini a sfondo politico sul suo
conto. In tribunale Fo venne assolto mentre Paolucci e il direttore Galimberti furono condannati al pagamento di un ammenda. In quell’occasione Carlo De Martino difese a spada
tratta i due giornalisti.
Sul giornalismo di oggi si mostra esitante. “Non vorrei sembrare passatista come tutti i vecchi, ma la situazione mi sembra abbastanza precaria. Credo che la tecnologia abbia impoverito i cronisti nuocendo alla loro professionalità. Manca
spesso l’approccio diretto con i fatti e il controllo delle fonti è
approssimativo”.
In cinquant’anni Ibio Paolucci ha visto nascere e crescere la
democrazia italiana e ne ha vissuto con trepidazione le fasi
più oscure. Una di queste sono stati gli anni ‘70, un periodo
di grandi disastri ma anche di grandi passioni. “C’era una fortissima tensione ideale che percorreva tutto il mondo del giornalismo, e non solo”.
In quegli anni, da cronista di giudiziaria, conobbe una persona particolare della quale sarebbe diventato amico: il pubblico ministero Emilio Alessandrini, ucciso il 29 gennaio 1979
dai terroristi di Prima Linea. “Mantengo tuttora buoni rapporti
con la famiglia; ci telefoniamo spesso e qualche mese fa sono andato al matrimonio del figlio Marco”.
Tempi difficili quelli. Tempi di bombe e omicidi. Ma Paolucci li
rimpiange: “Oggi c’è troppo disincanto. Credo che il venir meno delle grandi passioni abbia anche impoverito il giornalismo. Senza passione questo mestiere diventa superfluo e intollerabile.”
Alla fine dell’intervista si mette bonariamente in posa per un
paio di foto. Poi una stretta di mano e un arrivederci. E lo lasciamo lì, al lavoro, nel suo ufficio affacciato su Milano.
Luca Gualtieri
Silvano Tauceri
“Dopo Biagi e Montanelli
lavoro solo per il tennis”
Von Taucher non ci sta. “Il
giornalismo negli ultimi dieci
anni ha fatto dei passi indietro
e a me non piace più” dice
convinto. “Anche quando
guardo lo sport in televisione
abbasso il volume fino a zero
e mi risparmio un’infinità di
luoghi comuni”. Parola di
Silvano Tauceri, per molti colleghi Von Taucher da quando
Gianni Clerici, ieri firma del
tennis de Il Giorno e oggi per
Repubblica, lo ribattezzò così
in onore di alcuni avi austroungarici. Triestino di nascita e formazione, Tauceri ha scritto di sport per il Corriere e La
Gazzetta, per Il Giornale e Epoca, senza rinunciare allo stile
asciutto, preciso che lo ha reso tra i giornalisti più apprezzati
anche da Montanelli. “Capitava che Indro portasse ad esempio
qualche mio articolo. ‘Nei pezzi di Tauceri’, diceva, ‘le cinque W
ci sono sempre’. Oggi nessuno rispetta queste regole, ma il
giornalismo è tutto lì”.
Un incontro, quello tra Tauceri e Montanelli, decisamente particolare: “Un giorno trovai per caso Bettiza in un bar. Lui e
Montanelli stavano progettando Il Giornale. ‘Ecco l’uomo che
cerchiamo’ disse Bettiza quando mi vide. Per unirmi al loro progetto lasciai il Corriere della Sera, per cui lavoravo da anni: una
scelta istintiva, come tutte quelle della mia vita”. Altrettanto
spontanea fu la decisione di diventare giornalista. “Cominciai a
14 anni con Il semaforo, un settimanale triestino” dice oggi
Tauceri. “Poi lavorai sia per Il Piccolo che per Radio Trieste, gestita dagli angloamericani che amministravano la città”. Quindi
il trasferimento in Lombardia, meditato per anni ma realizzato
in modo un po’ casuale: “Un lunedì mattina avevo un colloquio
a Milano con Biagi: io scrivevo già un paio di pezzi al mese per
Epoca e cambiare residenza era da sempre un mio pallino.
Due giorni prima, però, Biagi venne licenziato per aver scritto
un articolo critico su Tambroni, che al tempo era presidente del
Consiglio. Anche quella volta decisi d’istinto: dovevo restare a
Milano, allora o mai più. Fu in quel momento che iniziai a lavorare con il Corriere dell’informazione”.
Proprio in quegli anni, Tauceri ebbe la grande intuizione della
sua vita giornalistica: tenere le statistiche del tennis. Se oggi si
conosce il numero di errori, punti vincenti e discese a rete di
ogni tennista, il merito è suo. Un’idea che lui difende dalle contaminazioni degli ultimi anni. “Oggi si confondono statistiche e
rilevazioni. La differenza sta nell’elaborazione: non basta prendere dei dati e renderli pubblici, bisogna trovare una chiave interpretativa, contestualizzarli. E oggi, purtroppo, questo lavoro
lo fanno in pochi”.
A Il Giornale Tauceri trasferì questa precisione mettendola al
servizio del genio giornalistico di Montanelli, il direttore per eccellenza: “Indro dimostrò di essere un motivatore eccezionale,
oltre che una penna fantastica. Quando scriveva per il Corriere
veniva in redazione molto raramente e viveva soprattutto tra
Cortina, Roma e Venezia. Da direttore cambiò tutte le sue abitudini: a 70 anni cominciò a stare dodici ore al giorno in redazione, dimostrando una cordialità insospettabile”. Una sola volta il grande Indro fu insistente. “Nel 1982 decisi di andare in
pensione, anche se avevo solo 55 anni. Era il primo luglio:
l’Italia giocava in Spagna un Mondiale che sarebbe passato alla storia e Montanelli non si aspettava certo che io lasciassi
proprio in quel momento. Mi chiamò per tre giorni di fila per
convincermi a restare, ma ormai avevo deciso”. Anche quella
volta, senza pensarci troppo.
Da quel giorno, Tauceri si è dedicato al tennis, la sua vera passione. Frequenta il Bar Galleria, elegantissima casa di molti appassionati della racchetta a due passi dal Duomo, e presiede
l’Associazione internazionale dei tennisti giornalisti. “Un piacevole impegno, che mi ha consentito di girare l’Europa ed essere ricevuto da molte personalità, su tutti Gerard Schroeder”.
Anche all’ex cancelliere tedesco Tauceri deve aver raccontato
del giorno in cui Luca Cordero di Montezemolo lo chiamò per
sfruttare la sua enciclopedica conoscenza statistica. “Mi telefonò e mi disse ‘Ci serve qualcuno che curi la banca dati dei
Mondiali di Italia ‘90. Deve venire domattina: alle 10 troverà all’aeroporto un prepagato per raggiungermi’”.
Tauceri, inutile dirlo, non ci pensò troppo. Alle dieci prese l’aereo e per un mese registrò risultati, punteggi e marcatori. Gli
stessi che oggi ripete a chi gli chiede, tra un set e l’altro, di raccontare i giorni in cui Schillaci illuse una nazione intera.
Luca Bianchin
Maurilio Degiorgis
Quarant’anni in Rai
sognando Toscanini
Tranquillo, placido in poltrona così come placida è la vita nel
condominio dove risiede, con la moglie Edda, a Trezzano sul
Naviglio. Maurilio Degiorgis, per tutti Ilio, da giovane sognava
una carriera da direttore d’orchestra.
Nato ad Alessandria, il destino aveva già messo le mani avanti. Suo padre era, infatti, il direttore del teatro locale. Una carriera nella cultura, insomma, nella lirica in particolare; come inizio, la rivista di famiglia, il Corriere del Teatro, che conta 57 anni ed è attivissima ancora oggi nel settore della lirica.
Decisiva, però, la carriera in Rai: più di 40 anni trascorsi nel
servizio pubblico con la possibilità di approfondire numerosi ar-
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gomenti. Degiorgis ricorda quando, per un servizio sulla condizione dei camionisti, dovette percorrere la tratta MilanoGenova in compagnia di due uomini politicamente schierati alle due estremità opposte. Sette giorni di battibecchi e vita vissuta da cui, trent’anni fa, venne tratto un documentario intitolato Vado e torno.
Anche con Enzo Biagi il rapporto è stato ottimo, corroborato
dalla collaborazione, per un reportage, stavolta sulla vita notturna milanese. E poi altri lavori, ad esempio sulla Scala o sui
vini, quasi sempre per il settimanale Tv7.
Dulcis in fundo, tra i vari premi, anche il “Madonnina d’Oro” per
un documentario sul Teatro alla
Scala e Arturo Toscanini.
Grazie all’esperienza in Rai, Ilio ha
avuto modo di conoscere alcune
tra le personalità dell’epoca: il cancelliere Adenauer, papa Roncalli,
Mattei, i più grandi direttori d’orchestra e celeberrimi cantanti lirici.
“Una volta sono stato a mangiare
con Totò - racconta - e me lo immaginavo vispo, scherzoso, come
nei film. Invece mi sono trovato davanti un uomo triste, taciturno; come la maggior parte dei veri comici”. Assai più divertente un aneddoto riguardante Gianni Morandi. “L’ho intervistato
quando faceva il militare a Pavia, e quando era di sentinella c’era un passaggio continuo di ragazze. Credo di essere uno dei
pochi a possedere ancora il disco Ciao Pavia, la canzone che
ha inciso in quel periodo”.
Alessandro Ruta
ORDINE
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2006
Ventiquattro medaglie d’oro per cinquant’anni nell’Albo
Paolo Arzano
Mezzo secolo in redazione
con Bergamo nel cuore
“Meglio essere il numero
uno a Bergamo che uno dei
tanti a Milano”. Parola di
Paolo Arzano, giornalista
che proprio alla città orobica
ha legato a doppio filo il suo
nome e la sua professione.
Arzano è nato ad Alba, in
provincia di Cuneo: “Mio padre era un ufficiale dell’esercito, pertanto la mia famiglia
ha girato l’Italia in lungo e in
largo, prima di stabilirsi definitivamente a Bergamo, che è diventata la mia città”.
Giornalista sportivo, Arzano ha mosso i primi passi come
collaboratore dell’Eco di Bergamo e corrispondente di
Stadio prima di essere assunto dal Giornale del Popolo,
dove ha svolto il praticantato.
Professionista dal 1956, oltre al lavoro nei quotidiani (dal
1964 passa a L’Eco di Bergamo dove resta per 15 anni, 12
dei quali da caposervizio dello sport) Arzano ha diretto diverse testate locali, come il quindicinale Boxe Match
(1954), il mensile Bergamo Motori (1957) e il quindicinale
Lombardia Nove (1968). Tra le creature di Arzano anche
un’agenzia di stampa - l’Alin (Agenzia lombardia informazioni) - pubblicata settimanalmente “a mezzo ciclostile proprio”: “Un’idea mutuata dalle agenzie nazionali di Roma.
Mandavamo il foglio ciclostilato con le notizie più significative della settimana a tutti i cittadini bergamaschi. È durata
tre anni”.
Altra esperienza ricordata da Arzano, una collaborazione
con la Regione Lombardia presieduta da Piero Bassetti
(1970-’74): “Creammo Nuova Lombardia, una sorta di antesignano dei vari ViviMilano e TuttoMilano”.
Arzano dirige Nuova Lombardia fino al 1975, quindi approda a Bergamo Radio (la prima emittente bergamasca), di
cui è direttore fino al 1978.
Nel 1984 è nominato condirettore di Bergamo Oggi e dal
1997 al 1999 è direttore editoriale del Nuovo Giornale di
Bergamo.
Dal 2002 al 2004 è stato infine addetto stampa del Comune
di Bergamo.
Tre sono i maestri ricordati da Paolo Arzano: “Ugo Cuesta,
ex direttore del Tempo di Milano e della Gazzetta di Parma
e mio direttore al Giornale del Popolo; Alessandro Minardi,
che subentrò al grande Giovannino Guareschi alla direzione di Candido e che sostituì Cuesta al Giornale del Popolo,
e monsignor Andrea Spada, storico direttore dell’Eco di
Bergamo”.
Grande appassionato di jazz (è direttore artistico di
Bergamo Jazz), Arzano ha scritto anche diversi libri, tra i
quali Una storia dell’Atalanta (con Elio Corbani), Bergamo
da scoprire (con Paolo Sparaco), Jazz live in Bergamo e
Papa Giovanni, missione nei Balcani (con Maurizio Minardi).
Cleto Romantini
Sergio Nunziata
Olimpiadi e Tour de France.
Poi fu febbre da cavallo
Iniziò tutto con una partita di calcio dilettantistico in Campania. Sedeva ancora tra i banchi del liceo classico Genovesi
di Napoli, Sergio Nunziata, quando venne mandato per la prima volta dalla redazione partenopea del Corriere dello Sport
in un campetto di provincia. “Cominciai quasi per gioco. Un
mio compagno di liceo mi disse che Il Corriere dello Sport
cercava giovani volenterosi per le cronache di avvenimenti
sportivi locali. Decisi di provarci”. Trasferitosi con la famiglia a
Milano, nel 1956 Nunziata approdò al Corriere Lombardo diretto da Benso Fini. “Un maestro, oltre che un galantuomo.
Quando nel 1961 fu costretto a lasciare il giornale, a causa
degli screzi con l'editore Pesenti, riunì la redazione e disse:
'Tenete bene in mente una cosa. i giornali non sono solo carta scritta, ma hanno anche un'anima. Ricordatevelo sempre”.
Proprio dalla massima di Fini si innesca una riflessione sul
giornalismo odierno: “I quotidiani di oggi sono fatti di macchine. L'uomo è diventato una componente marginale, perché si
è persa la voglia di andare a cercarsi le notizie per strada, sui
marciapiedi. Ora i giornalisti stanno tutti incollati al desk, mentre il mio, ecco, era un giornalismo da marciapiede”. Al
Corriere Lombardo Nunziata vive gli anni più intensi della sua
carriera: le Olimpiadi di Roma, il Tour de France del '61 seguito in sella a una moto Guzzi, sino al passaggio dallo sport
alla cronaca nel 1962. “I due anni e mezzo alla cronaca sono stati quelli di maggior impegno, ma anche i più formativi
nella mia vita professionale. Era eccitante sentire intorno la
città che pulsava, mutava, e tu eri chiamato a raccontarne
uno spicchio, un aspetto”. La cronaca, si sa, non concede
pause o momenti liberi.
“Capii che, da sposato, non
potevo insistere con quella
vita da mezzo zingaro.
Memore del mio vecchio
amore per purosangue e
trottatori, traslocai nella redazione
del
Trotto
Sportsman”. Lì Nunziata rimase trent'anni, diventando
prima vicedirettore e poi, per
un anno, direttore. Due i ricordi più vivi: il resoconto in
prima pagina sull'alluvione di Firenze del 1966 e la colonna
e mezzo sul St Leger inglese del 1967, dettata a braccio dall'ippodromo di Doncaster a un giornalista improvvisatosi stenografo. In ultimo, una citazione di Joseph Pulitzer per chi
vuole intraprendere il mestiere: “Se vuoi vendere molte copie
del tuo giornale domani, sii sensazionale. Se vuoi vendere
molte copie del tuo giornale sempre, sii onesto”.
Marco Guidi
Romolo Mombelli
“Grazie allo sport
ho girato il mondo”
Uno dei lati positivi del mestiere di cronista sportivo è quello di dover raggiungere per lavoro ogni angolo del mondo.
“Sono stato più volte in Giappone, in Australia, negli Stati
Uniti, in Canada, a Cuba, in Venezuela… una volta anche
in Nicaragua, per i campionati del mondo di baseball. Avere
la possibilità di conoscere tutti questi posti, lavorando, è bellissimo”. Romolo Mombelli ha girato i cinque continenti nella sua duplice veste di giornalista sportivo e di matchmaker
(in particolare del campione di pugilato Sandro Mazzinghi).
Il tutto in perfetta sintonia con la ricerca continua di emozioni che sin dall'adolescenza lo ha contraddistinto. “A 17
anni sono stato volontario della Repubblica di Salò. Più che
dagli ideali, fu una scelta dettata dal mio spirito d'avventura”. Nel dopoguerra Mombelli coltiva due passioni: il ballo e
MEMORIA
la scrittura. “Nel 1948 divenni campione nazionale di danze latine. Nel
frattempo scrivevo in
continuazione, soprattutto novelle e sketch radiofonici per il comico
Fausto Tommei”.
Abbandonate le piste da
ballo, la prima collaborazione alla Notte. Era il
1952: Mombelli non poteva nemmeno immaginare che avrebbe scritto
sul quotidiano del pomeriggio per 42 anni. “Nino Nutrizio
creò La Notte appositamente per le elezioni politiche di
quell'anno. Doveva durare 6 mesi, finì per essere uno dei
giornali più importanti dell'Italia repubblicana. All'inizio scri-
Luciana Falda
Segretaria di redazione
con grinta e correttezza
Se ne è andata in silenzio, a pochi mesi dal cinquantesimo anniversario di “matrimonio” con l’Ordine dei giornalisti lombardi. Ha perso la battaglia contro il male che l’aveva colpita un anno fa e si è spenta, lontana dai clamori. Un addio dietro le quinte: così era stato il suo lavoro.
Luciana Falda era entrata nel giornale economico-finanziario 24 ore nel momento della sua fondazione, avvenuta nel mese di settembre del 1946, e aveva raggiunto la
posizione di segretaria di redazione. Mansione che portava a stare dietro le quinte, pur dando un contributo prezioso.
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2006
vevo per pochi quattrini. La domenica ero pagato 1500 lire,
una miseria. Davvero non avrei pensato di fare lì la mia carriera giornalistica”. Divenuto professionista nel 1957,
Mombelli si dedicò allo sport a 360 gradi, sia all'interno del
giornale, dove raggiunse la carica di caposervizio, sia come
capoufficio stampa dell'Ignis e della Sis.
Poche, ma fondamentali, le regole cui attenersi per un giornalista sportivo. Una in particolare: “Separare l'amicizia dalla professione. Quando scrivevo per il giornale non risparmiavo nessuno. Dai calciatori Skoglund e Nesti, con cui giocavo a poker durante le trasferte dell'Inter, al mio grande
amico Duilio Loi, forse il miglior pugile italiano del dopoguerra”. E alla nobile arte della boxe Mombelli ha dedicato
un'enciclopedia scritta nel 1968, Il Pugno d'oro.
“Mi manca molto il giornalismo”, dice adesso. “Dal fascino perduto delle vecchie tipografie a quella sensazione di essere
sempre di corsa. Non scrivo più, ormai mi limito a leggere”.
Marco Guidi
Nata a Milano il primo luglio 1921, Falda è sempre stata
legata alla sua città. La passione per il giornalismo è germogliata di pari passo con l’amore per la musica e la lirica. Proprio l’ascolto di arie e gorgheggi ha forse alleviato
l’ultimo, doloroso anno di malattia. La grinta non le è mai
mancata fin da quando aveva mosso i primi passi all’interno della redazione di 24 ore e, in seguito, del Sole-24
Ore.
Eccola, quindi, al seguito delle più importanti personalità
politiche, economiche e finanziarie. Il tutto con un obiettivo ben preciso: contribuire alla rinascita sociale e civile del
Paese in un periodo così
difficile come quello della
ricostruzione. Dieci anni di
gavetta fino al 1956 quando giunge l’iscrizione
all’Albo dei giornalisti professionisti. Sempre segretaria di redazione, un ruolo
di solito ricoperto da uomini, ma che Falda riusciva a svolgere con la massima disponibilità e correttezza. Le chiavi della macchina del giornale non sono mai state in mani più sicure, tra rimborsi
spese, contatti con i corrispondenti e incontri con i colleghi. Ci sarà un grande vuoto al Circolo della Stampa al
momento della cerimonia. Chiunque dovrà custodirne la
memoria perché si sappia che è scomparsa una grande
giornalista. Soprattutto una grande donna.
Alessandro Ruta
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T E S I
D I
L A U R E A
Pubblichiamo la sintesi della tesi di Enrico Simone Benincasa (discussa nell'aprile 2005)
“Il Sole-24 Ore da quotidiano a fabbrica di notizie”. Benincasa si è laureato nell'aprile
2005 all'Università degli Studi di Milano Bicocca, facoltà di Sociologia, laurea in
Sociologia a indirizzo comunicazione. Relatore professor Francesco Abruzzo, correlatore professor Giorgio Grossi.
“Il Sole-24 Ore” da quotidiano a fabbrica
di Enrico Simone Benincasa
La nascita de Il Sole: l’idea originale
di Gaetano Semenza e Francesco Vallardi
Il panorama giornalistico a Milano, negli anni immediatamente successivi all’unificazione italiana, si presenta molto diversificato. A farla da padrone è Il Pungolo, a cui si affiancano La
Perseveranza e La Gazzetta di Milano. La città è già da tutti
considerata uno dei più importanti centri economici della penisola ed ospita sul suo territorio la sede di una delle più grandi borse italiane (insieme a quella di Genova): è facile, quindi,
immaginare come all’ interno della società lombarda si sia sviluppato un ceto borghese-imprenditoriale particolarmente attivo nei mercati e negli affari in generale.
Ed è proprio a questa “emergente” formazione sociale che
guarda Gaetano Semenza, imprenditore tessile lodigiano trasferitosi a Londra qualche anno prima. Egli è convinto della
necessità di un giornale che sia espressione di quel liberalismo progressista lombardo che tanto ha contribuito alla crescita non solo economica della regione e del suo capoluogo.
Semenza, nonostante i buoni intenti, non può esporsi economicamente in maniera tale da coprire gli interi costi di realizzazione e gestione del giornale e si accorge ben presto della
necessità di coinvolgere in questa avventura persone disposte ad investire capitali nel progetto. Fortunatamente tra le sue
conoscenze c’è anche l’editore milanese Francesco Vallardi
che si dimostra fin da subito sensibile all’ iniziativa. Oltre ad
occuparsi della stampa, Vallardi si dichiara disponibile a sottoscrivere una quota della futura società facente capo al foglio.
Il progetto di Semenza, comunque, necessita ancora di ulteriori capitali. L’ imprenditore lodigiano riceve aiuto anche dai
suoi familiari come i fratelli Pennocchio (uno di essi era suo
La direzione Bragiola Bellini
Il 1° aprile 1867 è un giorno importante per Il
Sole: da questa data, infatti, parte l’era
Bragiola Bellini. Il giornalista vicentino, collaboratore del foglio fin dalla sua fondazione,
vede approvato il suo progetto di rifondazione
della testata da parte di Semenza e Cantoni.
Oltre a contemplare un ridimensionamento
del formato, tale progetto viene incontro alle
esigenze della proprietà in quanto prevede la
riduzione della parte politica del giornale in favore di quella economica. Cambia anche la
dicitura del foglio, che diventa “economico, finanziario, commerciale”. Da questo momento, inoltre, Pietro Bragiola Bellini è il nuovo direttore del quotidiano Il Sole (succede a
Cesare Parenzo, “reggente” del quotidiano insieme a Billia in seguito alla dipartita di
Mussi).
La fiducia di cui il nuovo direttore de Il Sole
gode nell’area mazziniana e in quella democratica lo aiuta nel convincere illustri personaggi a collaborare con la sua testata. Tra di
loro c’ è anche Dario Papa che, a partire dal
1870, ancor prima di affrontare la sua famosa esperienza americana, scrive diversi articoli per Il Sole. Vanno inoltre ricordate altre
prestigiose firme di questo periodo del giornale come Vittorio Ellena, Pietro Rota,
Alessandro Romanelli e Gaetano Cantoni,
Gabriele Rosa e Felice Cameroni.
Altra caratteristica che contraddistingue
Bragiola Bellini è senz’altro la sua grande capacità di mediazione. Questa sua dote lo aiuta a far convivere all’interno de Il Sole personalità di orientamenti diversi come l’economista Luigi Luzzatti e l’imprenditore Alessandro
Rossi. Nonostante qualche scontro (come il
forte contrasto tra i due sull’abolizione del corso forzoso), la contemporanea presenza trentennale di questi due portatori di punti di vista
differenti dà notevole lustro al foglio, consacrandolo come una delle arene di discussione più libere nell’ intero panorama giornalistico italiano.
Il Sole di Bragiola Bellini si configura come un
giornale laico, economico, europeo e pacifista. Il quotidiano si impegna in diverse battaglie, tra le quali spicca quella legata al completamento del disegno unitario, e per alcune
conquiste sociali, come il suffragio universale
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cognato), anch’essi imprenditori nel campo della seta.
Successivamente intervengono nuove forze a sostenere questa iniziativa editoriale: sono gli industriali Eugenio Cantoni,
Ercole Lualdi, Pietro Brambilla, Filippo Weil Schott e Vittorio
Ferri, tutti soci della neonata “Il Sole - F.lli Pennocchio e
Comp.”, costituita il 20 dicembre 1865.
Il quotidiano esce per la prima volta il 1° agosto 1865 con la
dicitura “giornale commerciale e politico”. Reca anche un sottotitolo: per tutti splende. Questa particolarità, come spiega il
corrispondente da Parigi don Marzio il 27 agosto dello stesso
anno, riprende un detto transalpino. Come egli stesso scrive,
Il Sole è un giornale che deve illuminare e scaldare la libertà.
Gli è per questo che si vede in testa il vecchio proverbio francese “le soleil luit pour tout le monde”, per indicare che nella
moderna società vi sono vantaggi, ai quali tutti hanno il diritto di partecipare.
La prima pagina del primo numero del quotidiano risulta suddivisa in sei colonne tutte dedicate all’economia. Sono presenti notizie dalla borsa di Genova, i prezziari della seta e del
cotone sul mercato di Milano, i dispacci dell’agenzia Stefani,
le quotazioni dei cambi e i commenti sull’andamento delle
borse. Il modello grafico a cui si fa riferimento è quello del più
importante giornale britannico, il Times di Londra.
Il primi due anni di vita del giornale sono abbastanza tormentati, sia per via della scarsa stabilità economica della società editrice, sia per la difficoltà nel trovare una linea editoriale dopo il prematuro abbandono del primo direttore
Guerzoni ed in seguito i dissensi con la proprietà avuti dal suo
successore Mussi.
per i non analfabeti e il divieto di introduzione
della pena di morte. Seppur dichiaratamente
equidistante in politica, il foglio ha maggiori
simpatie per la sinistra moderata, simpatie
che verranno meno in seguito ai primi cenni
di trasformismo da parte di Depretis.
Anche con Crispi Bragiola Bellini non si dimostra tenero. Tra i tanti argomenti di scontro
tra Il Sole e il nuovo premier spicca la politica
coloniale di quest’ultimo, basata su presupposti imperialistici e sul desiderio di porre la
penisola italiana come punto di riferimento nel
Mediterraneo. L’aspetto commerciale del colonialismo, argomento molto caro al quotidiano
milanese (nel 1878 promotore insieme a
Carlo Erba di una spedizione esplorativa proprio in Africa), non sembra essere preso in
considerazione dal governo Crispi.
Anche il governo guidato da De Rudinì (successore di Crispi, dimessosi in seguito alla disfatta di Adua del 1896). È inizialmente accolto con simpatia dal quotidiano, simpatia
che però non trova seguito per via della tremenda repressione ordinata dal governo in
seguito ai tumulti di piazza scoppiati per l’aumento del prezzo del pane del 1898. Analoga
sorte tocca a Pelloux: i suoi tentativi di limitare la libertà di stampa e la funzione di controllo del Parlamento sul governo sono vivamente osteggiati da Bragiola Bellini e dai suoi
collaboratori.
L’arrivo di Achille Bersellini
Nel 1905, con la costituzione della nuova società editrice del giornale “Società Anonima
La Stampa Commerciale”, termina anche la
direzione di Pietro Bragiola Bellini che “abdica” in favore del genero Achille Bersellini, socio di maggioranza della neonata società.
Bersellini prosegue l’opera di Bragiola Bellini
apportando poche ma significative migliorie al
quotidiano, tra cui una maggiore attenzione al
mondo accademico e a quello bancario. La
sua amicizia con Bonaldo Strigher porta alla
pubblicazione della relazione annuale del direttore generale della banca d’ Italia, appuntamento destinato a ripetersi nel corso degli anni. L’ arrivo di commentatori degli scenari economico-politici provenienti dal mondo universitario è capeggiato da Federico Flora e Gino
Borgatta, mentre la scomparsa di Alessandro
Rossi, illustre esponente degli imprenditori
sulle pagine de Il Sole, porta all’ arrivo di altre
importanti firme come Camillo Olivetti,
Giovanni Agnelli, Alberto Pirelli, Pio Perrone e
Giorgio Falck. L’ arrivo di Bersellini alla direzione de Il Sole coincide con la formazione
del governo Giolitti, divenuto primo Ministro in
seguito alla scomparsa di Zanardelli. Giolitti
inizia il suo mandato all’ insegna delle riforme
tra cui c’ è anche quella tributaria, aspettata
da tempo anche da Il Sole. A tali promesse
non seguono i fatti e le riforme, compresa
quella fiscale, rimangono accantonate. Il quotidiano milanese, quindi, non esita a schierarsi apertamente contro questo esecutivo anche per via dell’immobilismo dimostrato di
fronte al problema degli scioperi che agitano
la società italiana. La posizione del giornale di
Bersellini è perfettamente in linea con il giudizio del mondo imprenditoriale, impensierito
per le aperture di Giolitti nei confronti dell’ ala
socialista del Parlamento. Desta preoccupazione, inoltre, il tentativo del premier piemontese di allargare la sua base attraverso l’inserimento delle masse cattoliche nella vita politica italiana tramite il famoso Patto Gentiloni
del 1913. Solo la politica coloniale di quest’ ultimo avvicinerà Il Sole al governo.
La poca considerazione dimostrata nei confronti degli imprenditori porta Il Sole di
Bersellini a sposare la causa dell’ associazionismo industriale, dando risalto alla formazione della Lega di Torino (1906) e alla pubblicazione dello Statuto della Confederazione
dell’ industria (1910).
Il Sole e la prima guerra mondiale
Alla vigilia della prima guerra mondiale la
stampa italiana si divide sull’opportunità o
meno di partecipare all’ imminente conflitto.
Il Sole è inizialmente fautore della neutralità
che, secondo il giornale, è la migliore soluzione per l’industria italiana. Con l’avvicinarsi del 1915, però, il giornale assume decisamente posizioni interventiste come la quasi
totalità della stampa italiana (unica eccezione di rilievo è l’Avanti!).
In seguito all’entrata in guerra dell’Italia al
fianco di Francia e Inghilterra il quotidiano di
Bersellini si concentra prevalentemente sugli
aspetti economici del conflitto, rivendicando
una maggiore attenzione per le problematiche dell’industria. Ampio spazio, ad esempio, viene dato alla polemica riguardante la
tassazione dei sovrapprofitti delle imprese
causati dal grande aumento della domanda
interna e alle tematiche riguardanti la riconversione industriale. In questo momento, gli
orientamenti de Il Sole e quelli della classe
imprenditoriale italiana sono vicini come mai
in precedenza. Di contro, questa comune visione tra il foglio milanese e il mondo industriale fa perdere al quotidiano quella pluralità di voci che lo aveva contraddistinto sin
dalla sua nascita.
Il Sole, anche dopo la fine della guerra, continua a fare propri i problemi e le paure dell’
imprenditoria italiana. La crescita sproporzionata delle industrie italiane, dovuta in gran
parte all’ aumento della domanda dello Stato
per le commesse di guerra, rischia di bloccarsi improvvisamente per via dell’inevitabile
riconversione: il mercato interno non è in grado di assorbire l’eccesso di offerta derivante
dall’espansione delle industrie perché colpito dall’inflazione e rincari. Per questo il giornale chiede al governo guidato da Nitti di
maggiori tutele per il settore industriale: quest’ultimo, però, sembra essere più sensibile
alle rivendicazioni dei movimenti operai.
La crescita della sinistra socialista in
Parlamento e l’aumentare degli scioperi
spinge Il Sole verso posizioni più conservatrici. Questo spostamento a destra del quotidiano si manifesta con l’interesse verso i
nuovi movimenti nazionalisti e verso iniziative come la “conquista” dannunziana di
Fiume.
ORDINE
3
2006
Report
Ordine dei giornalisti
della Lombardia
Supplemento al numero 3
di Ordine Tabloid - Marzo 2006
Ifg, via Fabio Filzi 17 - 20124 Milano,
tel. 02 67 49 871- fax 02 67 07 55 51
Reg. Tribunale di Milano
n° 213 del 26 maggio 1970
direttore responsabile
Franco Abruzzo
Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo
Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo
SMENTITE DALLA GENETICA LE TESI MASCHILISTE DEL RETTORE DI HARVARD
MISTER X
M
La ricerca Usa
più avanzata
lancia la sfida:
ueste pagine rappresentano
il lavoro degli studenti di uno
di questi corsi di specializzazione:
il Corso in comunicazione scientifica
organizzato dalla facoltà di Farmacia
dell’Università di Milano in
collaborazione con l’associazione
“W. Tobagi” e la Regione Lombardia,
giunto alla sua decima edizione.
Sono dieci anni che il Centro studi
comunicazione farmaco cerca
di coniugare scienza e informazione
attraverso la formazione di giovani
(e meno giovani) laureati in materie
prevalentemente scientifiche.
Gli studenti del corso sperano quindi
di essere riusciti a stimolare la curiosità
dei “colleghi maggiori” verso l’intricato
ma affascinante mondo scientifico.
Luca Arzuffi
Q
il sesso “debole”
è più intelligente
del sesso “forte”
La lunga e complessa avventura evolutiva dei cromosomi del sesso
TABLOID
3
2006
Analizzando il numero di
mutazioni avvenute nella
forma X e nella forma Y del
medesimo gene è stato
possibile datare l’inizio del
loro differenziamento: il
primo passo sarebbe avvenuto quando, grazie a una
mutazione, uno dei cromosomi ha acquisito il gene
chiamato SRY o Sex determining Region Y.
Nel corso del tempo i cromosomi X e Y hanno cessato di ricombinarsi, di effettuare cioè quello scambio di DNA che avrebbe
Nelle pagine interne
Scienze e media:
divulgazione
o spettacolo
D
E
olte iniziative negli ultimi anni
hanno cercato di avvicinare
questi due mondi: corsi
di aggiornamento per giornalisti
(alcuni organizzati proprio dall’Ordine
dei giornalisti della Lombardia),
e master universitari, che cercano
di formare una coscienza scientifica
nei giornalisti o tentano di fornire alle
figure professionali che ruotano attorno
alla ricerca gli strumenti minimi per
muoversi nel mondo dell’informazione.
Lo scorso gennaio Larry Summers è salito alle luci della ribalta. Non per il suo ruolo istituzionale di rettore di Harvard,
ma per una sua polemica affermazione: l’uomo sarebbe più
capace, più portato della donna a fare scienza. La genetica
smentisce: una ricerca pubblicata su “Nature” nel marzo
2005 identifica nel cromosoma X, il cromosoma “femminile”,
la sede di numerosi geni deputati ad alte funzioni cognitive.
E le donne hanno due
cromosomi X in ciascuna cellula, al contrario degli uomini, nei
quali il gemello è una
“versione ridotta”, il
cromosoma Y.
Le donne usano solo
uno dei due cromosomi X per ogni cellula,
mentre l’altro non è attivo. Quindi, se uno dei
due cromosomi ha un
difetto, solo le cellule
in cui questo è attivo
ne soffriranno. Nel maschio, invece, ogni disordine genetico
dell’unico cromosoma X, magari a livello cerebrale, emergerà
inevitabilmente. Le donne, però, aspettino a esultare: la persona non è solo il suo patrimonio genetico, ma l’interazione
di questo con l’ambiente. Non tutte le caratteristiche del “genio”, inoltre, risiedono nel cromosoma X.
La lotta tra i sessi per la pole position della scienza può quindi concludersi, con buona pace di Larry Summers, in un onesto pareggio.
Luca Giacomelli
Come
due gemelli,
separati
dal tempo
ue mondi a volte lontani, legati da
un rapporto colorato di contrasti:
interesse e superiorità, gelosia
e curiosità, superficialità e conoscenza.
ppure i giornali e la TV sono
sempre più pieni di scienza, ci
raccontano delle nuove tecnologie
e della nostra salute, da un lato
esponendo i limiti degli uomini
di scienza nel comunicare e dall’altro
mettendo spesso in luce la scarsa
preparazione dei giornalisti verso
il linguaggio e i tempi della ricerca
e della scienza in generale.
IL CROMOSOMA
DELLE DONNE
Trecento milioni di anni fa,
l’epoca in cui i mammiferi
hanno iniziato a differenziarsi dai rettili, X e Y erano
cromosomi assolutamente
normali, non diversi dagli
altri. Ma l’evoluzione aveva
riservato loro un compito
preciso: determinare il sesso dell’individuo.
Per raggiungere lo scopo
era necessario trasformare
i due cromosomi in qualcosa di diverso. A scoprire
quando e come questo è
avvenuto sono stati Bruce
Lahn e David Page, genetisti dell’Università di Chicago: i due ricercatori, in
un articolo pubblicato su
“Science” lo scorso ottobre, hanno distinto le tappe evolutive che hanno
condotto all’attuale modalità di determinazione del
sesso nei mammiferi.
Molti geni del cromosoma
X hanno i loro omologhi in
quello Y. Queste coppie di
geni omologhi sono per
Lahn e Page i veri testimonial della storia evolutiva
dei cromosomi sessuali.
Scienza
e informazione,
due mondi
più vicini
consentito loro di mantenere l’identità genetica.
I due studiosi sono convinti che all’origine di tutto vi
siano quattro diverse mutazioni che sarebbero avvenute in momenti successivi. Più specificamente si
sarebbe trattato di inversioni, particolari mutazioni in
cui una porzione di DNA si
riposiziona al contrario sul
cromosoma.
Ogni inversione avrebbe
portato i futuri cromosomi
del sesso a differire sempre
di più tra loro. A causa della mancata ricombinazione,
le mutazioni sfavorevoli si
sarebbero sommate molto
più velocemente sul cromosoma Y, determinandone la degenerazione e l’accorciamento. Al contrario,
il cromosoma X avrebbe
mantenuto la sua integrità
genetica e le sue dimensioni essendo comunque in
grado di continuare a ricombinarsi nelle femmine
con il suo omologo, l’altro
cromosoma X.
Paolo Sparaciari
Quando le mutazioni possono diventare causa di gravi patologie
Determina il sesso, regola
molte abilità intellettive, ma a
volte diventa un pericolo.
Anomalie importanti a carico
di questo cromosoma, infatti, sono incompatibili con la
vita ed eventuali mutazioni
possono portare allo sviluppo di tumori e di malattie genetiche.
Alterazioni nel numero dei
cromosomi sessuali sono
correlate a gravi patologie:
la presenza di una X supplementare causa nei maschi
l’insorgenza della sindrome
di Klinefelter. Si tratta di una
patologia piuttosto frequente, colpisce uno su 500 nati, ma la manifestazione dei
sintomi caratteristici è abbastanza rara. Molti uomini
affetti vivono senza mai sospettare di avere un cromosoma supplementare. I sintomi sono alta statura, obesità, ingrossamento del seno, mancanza di barba, ipogonadismo, sterilità e un
aumentato rischio di disordini autoimmuni. I maschi
XXY non presentano ritardi
mentali, ma possono anda-
Basta
un x in più
per creare
il caos
re incontro a difficoltà verbali che si manifestano fin
dalla prima infanzia. Da un
punto di vista ormonale, si
ha una riduzione dei livelli di
testosterone accompagnata
da un aumento di estradiolo, che conferisce caratteri
sessuali secondari femminili al malato. Una cura a base di testosterone dall’inizio
della pubertà aumenta la resistenza ed il volume dei
muscoli e favorisce l’incremento della produzione pilifera.
La sindrome di Turner, invece, si manifesta solo nelle
donne, con una frequenza di
una su 2000, ed è dovuta alla presenza di un solo cromosoma X accanto ai 44
cromosomi somatici.
Questo comporta una serie
di anomalie di differente gravità. Alla nascita si può notare un gonfiore del dorso delle mani e dei piedi, un’aumentata distanza fra i capezzoli e la presenza di gomiti
valghi. Nella donna adulta, i
segni caratteristici sono bassa statura, ritardi nel processo di ossificazione dello
scheletro, gabbia toracica di
forma anomala, malformazioni renali e cardiache, e insufficienza ovarica con amenorrea e infertilità, che comporta una ridotta produzione
di estrogeni. Il corretto sviluppo sessuale è così compromesso. La somministrazione di ormone della crescita ed eventualmente di androgeni può stimolare lo sviluppo corporeo, permettendo la cura sintomatica della
patologia.
Prendersi cura del proprio X
per evitare la trasmissione di
malattie genetiche di generazione in generazione: una
meta ancora lontana, ma alla
quale volge speranzoso l’occhio vigile della ricerca.
Chiara Chiodini
1(15)
Scienza e media: divulg
a scienza in tv è nata insieme alla televisione stessa. La sua prima apparizione è del 1954 con “Piccola enciclopedia scientifica”: un conduttore in
studio presentava “pillole” di scienza al
pubblico della prima serata.
Per vedere un cambiamento sostanziale
bisogna arrivare alla fine degli anni ’60,
quando la TV comincia a essere oggetto
di studio. È allora che si comprende come il grande successo del mezzo televisivo si debba proprio al suo peculiare
codice comunicativo, che è quello delle
immagini. Filmati, interviste, animazioni,
grafica vanno ad arricchire i programmi
di informazione e di divulgazione. In altre parole, si fa leva sullo spettacolo per
attrarre lo spettatore. Il primo e insuperato esempio di questo genere di programmi è “Quark”, di Piero Angela.
Il processo di spettacolarizzazione ha il
suo apice negli anni ‘90, quando nella
scienza televisiva fa il suo ingresso addirittura la “fiction”: attori impersonano
Leonardo, Galileo, Lavoisier e mostrando anche l’ambiente in cui lavoravano e
gli strumenti che utilizzavano. La fiction
scientifica è però soprattutto di provenienza anglosassone e i programmi italiani (come “La macchina del tempo” o
“Sfera”) utilizzano materiale tradotto.
«In effetti, lo spettacolo è la modalità con
cui la gente guarda la televisione» - dice
Sonia Borella, esperta di scienze della
comunicazione - «Di per sé, quindi, è
qualcosa di positivo perché ha una grande capacità attrattiva. L’importante è che
L
li spazi radio che riguardano scienza e medicina sono in aumento,
ma mai un radiogiornale quotidiano era stato interamente dedicato alla
salute: la novità è arrivata lo scorso aprile con “Salute e Benessere”, trasmesso
dal lunedì al sabato su una rete di emittenti locali.
“Ho colto la sfida con entusiasmo perché sono convinta che la salute sia un
argomento che interessi tutto il pubblico”, spiega Michela Vuga, curatrice del
radiogiornale. “La salute non è più trattata come materia da rubrica settimanale ma acquista dignità di notizia quotidiana. Il radiogiornale informa sulle novità, iniziative e scoperte in ambito medico-scientifico”. Michela Vuga, già divulgatrice di scienza in radio con programmi quali “Essere e benessere” di
Radio 24, spiega che non è semplice
rendere divulgabile la ricerca scientifica:
bisogna essere semplici per essere alla
portata di tutti senza sminuire il contenuto della ricerca e allo stesso tempo accattivanti per non perdere l’attenzione
G
a scienza e le tematiche legate alla
salute sono tra gli argomenti che
più interessano i lettori di quotidiani. Secondo il primo rapporto annuale
sulla comunicazione in Italia curato dal
Censis, scienza e salute si collocano al
secondo posto dei temi preferiti dopo
l’attualità. La fonte di informazione scientifica preferita è la televisione, seguita in
ordine dalla stampa, dalla radio, dalla
scuola, da internet e infine dalle pubblicazioni specialistiche.
Il Centro studi comunicazione farmaco
dell’Università di Milano cura un Osservatorio sui quotidiani per le tematiche legate alla salute, analizzando gli articoli
dei quattro principali quotidiani italiani:
“Corriere della Sera”, “la Repubblica”,
“La Stampa” e “il Giornale”. Tra il marzo
e il maggio 2004 la testata con il maggiore numero di articoli sulla salute è risultata essere “il Giornale”, seguita dal
“Corriere della Sera”, “la Repubblica” e
infine da “La Stampa”. La media degli
articoli pubblicati in una settimana è an-
L
2(16)
TV
Il ricatto
dell’audience
resti un mezzo per comunicare delle
idee, non il fine».
Il mezzo e non il fine: ma è proprio così? Guardando gli esempi di divulgazione scientifica in televisione ci si rende
conto che lo spettacolo prevale sulle
idee. Anche quando trattano temi molto
distanti tra loro, la salute o la difesa dell’ambiente, e quando utilizzano stili comunicativi diversi, le domande del pubblico al grande medico o il documentario naturalistico, i programmi televisivi
scientifici hanno le stesse caratteristiche.
C’è un conduttore garante della serietà
dei contenuti, un esperto per ognuno dei
temi affrontati e, soprattutto, c’è spettacolo sotto diverse forme: filmati di forte
impatto, interviste a vip della scienza, testimonianze dirette. Che cosa manca allora, perché lo spettacolo non sia solo il
fine?
«Attraverso le immagini noi possiamo
veicolare un prodotto ma non un processo. Ciò che lo spettacolo della scienza televisiva non riesce a spiegare compiutamente è il processo di costruzione
del sapere scientifico, la pluralità dei contributi dai quali nascono quelle teorie che
poi vengono date in pasto al telespettatore come dati di fatto».
RADIO
E la medicina
viaggia in FM
degli ascoltatori. Il radiogiornale fornisce
un aggiornamento di circa cinque notizie,
di cui due brevi interviste ad esperti, e va
in onda in diretta su circa 40 emittenti locali. Conclude la giornalista: “Se tutte
queste piccole emittenti rappresentassero un’unica radio, questa sarebbe seconda solo a Radio1”. La scienza in radio riscuote sempre più ascolti perché ciò che
fino a poco tempo fa costituiva il sapere
di pochi esperti finalmente è diventato alla portata di tutti, grazie a redattori e a
conduttori che propongono al pubblico
gli argomenti in maniera chiara e comprensibile. Uno sguardo generale mostra
come i format si differenzino da radio a
radio per proporre prodotti nuovi al pubblico. Da anni Radio 24 manda in onda
GIORNALI
La salute,
che passione
data da un minimo di 5,38 fino ad un
massimo di 8,54. Nell’80% dei casi, le
pagine ospitanti sono state quelle di cronaca, il resto è stato inserito in quelle di
scienza e medicina, presenti solo nel
“Corriere della Sera” e nel “Giornale”, e
in quelle che si occupano di altri argomenti non direttamente correlati alla salute. Nel trimestre considerato, i temi
maggiormente trattati sono stati la psichiatria e la psicologia, la cardiologia e le
patologie cardiovascolari, l’infettivologia,
la ginecologia e la fecondazione assistita, l’oncologia. Se si analizzano per argomenti, si nota che il “Corriere della
Sera” ha dedicato più spazio alla farmacologia, “la Repubblica” alle biotecnolo-
La scienza non fornisce verità assolute,
ma solo interpretazioni della realtà. A
guardare la scienza in televisione si direbbe invece che siamo rimasti fermi alle idee del positivismo: la scienza fornisce risposte certe e univoche e risolve i
problemi dell’uomo.
Nella televisione che vive degli introiti
pubblicitari è spesso la scienza-spettacolo a prevalere. Qualcosa di diverso, e
di maggior qualità, si può vedere sui canali tematici a pagamento, come
Discovery Channel.
«Nella televisione generalista mancano
figure professionali che diano maggiore
visibilità alla scienza, mantenendo vivo
l’interesse di un pubblico vasto – continua Sonia Borella –. Si tratta di sperimentare nuove modalità, penso a qualcosa di simile a una tavola rotonda, che
possa mettere a confronto diversi scienziati e ricercatori su un tema e far emergere le finalità di una ricerca, le sue basi
fondanti e le sue prospettive future».
Si tratta di coprire una lacuna informativa della televisione attuale: l’esempio
dell’ultimo referendum sulla fecondazione assistita ha dimostrato come tutti noi,
in qualità di cittadini, siamo chiamati a
compiere scelte che presuppongono conoscenze che vanno oltre il sapere scientifico di base. Forse, quando scienziati e
ricercatori si decideranno a scendere
nell’arena mediatica, riusciranno a fornire un’informazione scientifica degna di
tale nome.
Letizia Bertini
“Essere e benessere”, un programma
sulla salute. Il palinsesto tende a dare
un’informazione completa sulla patologia trattata di volta in volta: cos’è la malattia, quali sono le cause, l’incidenza, la
diagnosi e le terapie. Di conseguenza, il
pubblico interessato anche in prima persona ne ricava un’informazione semplice
ed esauriente, cosa non sempre facile da
ottenere dal medico di famiglia o in
ospedale. Un altro tipo di programma è
stato ideato da Radio 3, che propone,
con la nuova trasmissione “Radio 3
Scienza”, un microfono aperto agli interventi degli ascoltatori. Il programma supera il tradizionale modello didattico-divulgativo e offre un’opportunità d’incontro e di dibattito tra comunità scientifica
e grande pubblico. Il fine è di mettere la
scienza è in primo piano grazie al contributo degli ascoltatori, invitati a partecipare in diretta al programma o via email, attraverso un dialogo paritario che
analizzi anche le complesse questioni
sociali ed etiche poste dai progressi
scientifici.
Luisa Franco
gie, “La Stampa” alla genetica, “il Giornale” all’odontoiatria.
Tutti e quattro i quotidiani hanno dato
particolare rilievo alla salute, avendo
pubblicato più della metà degli articoli su
tre o più colonne. Le immagini sembrano essere considerate uno strumento di
divulgazione efficace, considerando che
circa i due terzi degli articoli presi in considerazione sono arricchiti da una foto e
circa un terzo da un approfondimento
grafico.
Negli ultimi tempi i quotidiani hanno sviluppato sempre più l’infografica posta a
corredo degli articoli scientifici con lo
scopo di chiarire meglio i concetti
espressi: “la Repubblica” è la testata che
ne fa più uso, seguita dal “Corriere della
Sera”, “La Stampa” e “il Giornale”.
L’aspetto maggiormente considerato negli articoli risulta essere quello generale,
che abbraccia vari settori, seguito dalla
terapia, dalla prevenzione, dalla ricerca e
dalla diagnosi.
Katherine Salessi-Nia
Una parete concava inondata di flutti virtuali e una vera baleniera al centro della stanza; manovrando il timone la linea dell’orizzonte si inclina, la barca beccheggia sulle onde e in fondo, avvolto dalla bruma e
sfumato dalla pioggia, si intravede il promontorio di
Capo Horn, meta della navigazione.
Una rivoluzione nei musei
dalla teca al multimediale
È la Sala della Tempesta di Galata Museo del Mare di
Genova. Un sistema interattivo multimediale 3D ricrea
suoni e immagini che simulano in tempo reale il mare, il
moto ondoso, gli eventi atmosferici e visualizza il modello in tre dimensioni di Capo Horn.
La rivoluzione nel concetto di educazione scientifica e di
museografia è approdata da San Francisco a Parigi nel
1986 e si è incarnata nella Cité des Sciences et de
l’Industrie nel Parc de la Villette. L’analogo italiano è la
ormai nota Città della Scienza di Napoli. Non meno attivi, però, sono i centri più piccoli come l’Explora di Roma,
il Museo interattivo delle scienze di Foggia e la Città dei
Bambini di Genova.
Proprio Genova è da due anni lo scenario del Festival
della Scienza. Piazze, teatri e musei della città per tredici giorni danno voce al sapere scientifico usando media
e linguaggi diversi: danza, arte, documentari televisivi,
teatro, cinema, dibattiti e incontri con scienziati, filosofi
e intellettuali. La manifestazione privilegia l’approccio interattivo e multimediale, ormai indispensabile per attrarre le giovani generazioni, la trasversalità degli eventi e
degli argomenti e un linguaggio capace di veicolare la
scienza a tutti: grande pubblico, bambini e ragazzi, specialisti ed appassionati. Le “Frontiere della conoscenza”
sono state il tema del 2005, quelle del nostro pianeta e
dell’universo, della fisica e di numerose altre discipline,
fino a quelle della scienza stessa.
Viene da chiedersi, tuttavia, se la scienza spettacolarizzata non rischi di occultare la propria storia di lenti e
complessi processi esplorativi e di diminuire la propria
credibilità, se l’aspetto educativo non sia offuscato dall’intrattenimento fine a se stesso, se i musei non si riducano a dei luna park e le grandi scoperte scientifiche a
dei videogiochi. Indubbiamente sono rischi possibili, ma
meno preoccupanti della disaffezione ai temi scientifici e
della desolazione dei vecchi musei pieni di polvere e teche trasparenti, dove la scienza risultava incomprensibile e noiosa. Sempre più spesso invece è parte della quotidianità, spesso ne usiamo i principi senza conoscerli, è
in continua e rapida evoluzione e così dovrebbe essere
anche il suo linguaggio.
Claudia Ortugno
TABLOID
3
2006
gazione o spettacolo?
In Spagna è nato un immenso contenitore per un sapere da vivere
A Valencia è quasi
completata la costruzione
di una città nella città.
La Comunidad Valenciana
è stata capace di creare
uno sfarzoso polo
culturale e del
divertimento di respiro
internazionale.
Il progetto per la Città
delle Arti e delle Scienze
di Santiago Calatrava è
situato lungo il letto
ormai secco del fiume
Turia. Una striscia di terra
di otto chilometri di
lunghezza per 200 metri
di larghezza.
Eccone i “pezzi”:
- Planetario del 1998
- Museo della Scienza
e della Tecnica
del 2001
- Umbraculo del 2001
- Il Palazzo delle Arti,
inaugurato
l'8 ottobre 2005.
Paesaggi incantati e animali insoliti: queste sono le prime immagini che vengono in mente pensando alla fotografia nella scienza. Questi modelli riportano al ruolo attribuito fin
dalle origini al mezzo fotografico, ovvero quello documentaristico.
Che si tratti di paesi esotici, di foto segnaletiche o di microorganismi, la fotografia ha la
caratteristica, almeno presunta, di fissare la realtà sulla carta per documentarla e conservarla per successive osservazioni.
“Quelli che si limitano saggiamente a considerare solo ciò che è possibile non avanzano mai di un passo”: così afferma il professor Renato Cacciappoli, raccontato da
Mario Martone in “Morte di un matematico napoletano”. Nel suo primo lungometraggio del 1992, il regista narra gli ultimi giorni di vita dello scienziato partenopeo,
morto suicida. Sullo sfondo di una Napoli anni ’50 emerge la figura di un uomo insofferente, schivo e stanco della vita.
Con la fotografia la ricerca acquista
il fascino della grande opera d’arte
Superman o genio incompreso
così il cinema vede lo scienziato
Estensione e potenziamento dell’occhio umano, la macchina fotografica fissa ciò che l’occhio osserva e, congelandolo, restituisce particolari talvolta inaspettati. Ma dietro la macchina fotografica esiste una persona che sceglie quale realtà raccontare e, così facendo,
racconta la verità che il suo occhio vede.
Se la fotografia scientifica fosse soltanto un
mezzo per documentare la realtà, verrebbe
quindi persa la caratteristica che fa di questo
mezzo un’arte, oltre che uno strumento.
D’altra parte, come esprimere la bellezza della
scienza che per sua natura dovrebbe essere rigorosa, imparziale e riproducibile?
Agli occhi degli scienziati il connubio tra scienza e bellezza non è una novità: un esperimento può essere definito bello e una teoria elegante, la difficoltà semmai nasce dal trasmettere questi concetti al pubblico. Come far cogliere a un occhio inesperto il fascino intrinseco di un esperimento scientifico?
Molti scienziati fotografi si sono recentemente cimentati in questa sfida riuscendo a rappresentare la bellezza del lavoro scientifico in
una forma artisticamente lodevole. È il caso,
per esempio, di Felice Frankel, ricercatrice del
Massachusetts Institute of Technology, le cui
immagini sono apparse più volte sulle copertine di riviste scientifiche come “Nature”. Le
mostre della Frankel sono infatti un richiamo
anche per il grande pubblico. L’ultima raccolta di immagini, intitolata “L’incanto della scienza” e pubblicata in un libro dallo stesso titolo,
è stata esposta anche in Italia nell’utima edizione del Festival della Scienza di Genova. Nel
suo lavoro la ricercatrice, con l’utilizzo di una
macchina fotografica talvolta collegata a un
microscopio, ha fotografato alcuni esperimenti scientifici e, collaborando con gli autori degli esperimenti, ha riportato un’immagine affascinante di esperimenti reali.
Il cinema ha spesso dipinto figure problematiche di scienziati, privilegiando l’aspetto psicologico dei personaggi all’attività
scientifica. Che si tratti di eroi atti a salvare il mondo, di geni incompresi ed emarginati, di scienziati pazzi o inventori fantascientifici, le storie solleticano le nostre
emozioni, i nostri sentimenti, specie quelli
più neri. Se l’intreccio è poi tratto da una
storia reale, fatta di scienziati e uomini esistiti veramente, sia il cinema italiano che
quello hollywoodiano tendono a lasciare
sensazioni aspre e pungenti, a turbare
emotivamente.
Di John Nash, brillante matematico americano vincitore nel 1994 del premio Nobel
per l’economia, ”A beautiful mind” preferisce narrare la malattia più che il suo essere uomo di scienza. In questa produzione
cinematografica del 2001, Ron Howard
prende spunto dal libro di Sylvia Nasar per
raccontare la vita di colui che contribuì alla teoria dei giochi con la scoperta degli
“equilibri non cooperativi”, tuttora capisaldi dell’economia. Fin da ragazzo Nash è
scostante, solitario, eccentrico. Ha scarse
capacità relazionali sia nella vita privata
che sul lavoro, dove rifiuta la collaborazione dei colleghi. È ossessionato dalla ricerca di un’idea originale che lo renda importante con le sole sue forze. Questi disturbi
comportamentali sono segnali della schizofrenia che lo terrà a lungo lontano dalla
scienza.
Per Ettore Majorana invece il distacco dalle ricerche sulla fisica nucleare è meditato.
È ciò che Gianni Amelio racconta nel film
del 1988 “I ragazzi di Via Panisperna”, il
famoso gruppo di fisici, capeggiato da
Enrico Fermi, capaci di creare elementi radioattivi artificiali e di realizzare la fissione
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2006
Ferrofluid, una delle immagini
di Felice Frankel, scienziata del MIT
Le immagini sono spettacolari, ma il rischio è
che la pura bellezza, la perfezione delle simmetrie finiscano per sopravanzare il racconto
di un duro lavoro. Esiste anche un altro rischio: le immagini, per essere rese così spettacolari, sono necessariamente elaborate. I
colori talvolta non sono quelli naturali e anche
il taglio e la visuale vengono modificati in modo tale che l’oggetto dello studio mostri il lato
migliore di sé. Per quanto non privo di difetti,
il lavoro dell’autrice ha comunque il merito di
avvicinare il grande pubblico alla scienza attraverso l’uso dei nostri occhi, in un modo accessibile a tutti e di facile comprensione.
Questo modo di comunicare la scienza sta diventando così importante da spingere il MIT a
organizzare una manifestazione in proposito.
L’ “Image and Meaning”, che si è tenuto a giugno, è solo alla sua seconda edizione ma ha
già raccolto numerosi consensi, riuscendo a
radunare in un’unica manifestazione scienziati, scrittori, fotografi e architetti per mostrare
come sia possibile comunicare la scienza attraverso le immagini.
Valeria Maida
nucleare.
Il film è incentrato sul rapporto fra lo sperimentale Fermi e il teorico Majorana, suo
allievo. La figura di Fermi è marginale,
mentre risalta l’oscura e difficile immagine
di Majorana: un uomo ombroso e riservato, tormentato e inquieto, forse a disagio
nel ruolo di genio.
Si renderà consapevole prima di tutti della
pericolosità delle sue ricerche e si allontanerà dal gruppo, per poi scomparire misteriosamente. “Ha voluto lasciarci e non
lasciare la certezza della sua morte. È stato un genio anche in questo”, dirà Fermi.
Come biasimare quindi Amelio, se l’intrigante vicenda e l’enigmatico carattere del
protagonista lo hanno catturato più del suo
precoce talento nel determinare le forze
che regolano la stabilità del nucleo?
Francesca Belinghieri
“I ragazzi di via Panisperna”
in una celebre foto del 1934
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STATISTICHE
L’ITALIA MAGLIA NERA IN EUROPA
BEVONO PER SOLITUDINE E PAURA DEL DOMANI, PER VINCERE LA TIMIDEZZA, PERCHÉ NON SI STIMANO.
BEVONO PER SENTIRSI MEGLIO. I RAGAZZI ITALIANI BEVONO TROPPO E INIZIANO TROPPO PRESTO.
Secondo l’Osservatorio Fumo, Alcol e Droga (Ossfad)
dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia il primo bicchiere
si consuma a 11-12 anni: l’età più bassa d’Europa, dove la
media è invece di 14 anni e mezzo.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inoltre individuato nell’alcolismo la principale causa di morte nella fascia d’età tra i 12 e i 29 anni. In Italia, per la verità, i dati evidenziano come il consumo di alcol sia più basso che
in tutti gli altri Paesi europei, sebbene sia in aumento del
25% tra i giovani.
Nel nostro paese, il 51.6% dei ragazzi e il 41.6% delle ragazze fra i 14 e i 16 anni consuma bevande alcoliche: a
quattro maschi e due femmine ogni centomila abitanti sotto i quattordici anni sono diagnosticate malattie dovute all’abuso di alcol.
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L
O
ALC
A 11 anni
il primo
bicchiere
ossiamo dire addio ai bevitori di una volta, nascosti da
P
qualche parte con una bottiglia di vino o di whisky. Di
recente si è infatti verificato un significativo mutamento nella rappresentazione sociale del bere, caratterizzato dal passaggio dal consumo di vino a quello della birra e dei superalcolici, e al delinearsi di una nuova figura di bevitore, il co-
ANNA:
quando
all’aranciata
e alla Coca Cola
si sostituiscono
le birre
e la sangria
siddetto “social drinker”, che spazia tra i vari tipi di alcolici
e lo fa in gruppo.
Inoltre, il bicchiere quotidiano sta scomparendo per lasciare posto alla sbronza del fine settimana: i giovani vogliono
perseguire quello stato di euforia e benessere o quella disinibizione che risulta funzionale all’interno di un gruppo di
adolescenti. Lo scopo della serata diventa il “binge
drinking”, ovvero l’“abbuffata d’alcol”. Sono le “alcopops” a
dare il via alle danze: si tratta di bevande alcoliche premiscelate con bibite a base di zucchero e anidride carbonica,
studiate per conquistare il mercato giovanile, dove l’alcol è
presente ma è mascherato da frutta e aromi.
Emanuele Scafato, direttore del Centro per la ricerca sull’alcol dell’ OMS, è molto chiaro al riguardo: “Se è vero che in
Italia il limite alcolemico per chi guida è stato ridotto da 0,8
a 0,5 grammi/litro, è altrettanto vero che un ragazzino può
acquistare indisturbato bevande alcoliche”. Chiara Finotti
Per amore
ho smesso di bere
“
“
Anna sorride e i suoi occhi si riempiono di una luce particolare. Di quella luce che
si trova solo in chi si lascia dietro qualcosa di brutto e decide di ricominciare.
“Avevo iniziato per caso, senza accorgermene, durante le festicciole che si
fanno da ragazzini quando all’aranciata e alla Coca Cola si sostituiscono le birre e la sangria. Quando bevevo mi sentivo leggera, la mia timidezza spariva e
lasciava spazio a una spavalderia mai provata. Durante la settimana non vedevo l’ora che arrivasse il sabato per poter bere, o a qualche festa o fuori con
gli amici. Non perché la cosa mi piacesse in sé, ma perché mi faceva stare
bene. Dopo un po’ di tempo, avrò avuto circa 18 anni, mi sono detta che non
era necessario aspettare il sabato e che potevo bere tutti i giorni”.
Anna si stringe nelle spalle, sospira e prosegue:
“Avevo ormai anche cambiato gusti, la birra non bastava più, per darmi la carica prima di andare a scuola bevevo un sorso di whisky che tenevo nascosto in una scatola dentro l’armadio e per non farmi scoprire masticavo una
gomma per mascherare l’alito. I miei genitori non si accorgevano di nulla, anche perché mi sapevo regolare nel bere e non stavo mai malissimo, penso
che il mio organismo si fosse in un certo senso abituato”.
LA RAGAZZA
È LA STESSA
MESSAGGIO
TERRIFICANTE
Una volta diplomata, Anna ha trovato un lavoro ed è andata a vivere da sola.
“Quando tornavo a casa alla sera, iniziavo a bere ad oltranza, visto che ormai
nessuno mi poteva controllare; al mattino avevo sempre nausea e mal di testa: un’aspirina e via, pronta per una nuova giornata. Oggi non bevo, mi dicevo andando al lavoro, e invece poi ogni occasione era buona per farlo: la
pausa pranzo, l’aperitivo all’uscita dall’ufficio, la sera davanti al televisore, il
fine settimana con gli amici”.
Una china molto pericolosa, quella intrapresa da Anna. Fino all’arrivo di un “lui”:
“Iniziammo ad uscire insieme quasi per gioco e dopo circa un paio di mesi
mi chiese se ero capace di stare un giorno senza toccare l’alcol. ‘Certo’, gli risposi, ma dentro di me sapevo che non era vero. Pensavo che la cosa fosse
finita lì e, invece, dopo una settimana, mi fece conoscere una sua amica che
mi disse di essere psicologa presso un centro per alcolisti”.
Ricorda:
“Cominciò così la mia lunga disintossicazione dall’alcol all’inizio era veramente
dura, pensavo che non ce l’avrei mai fatta, ma ora sono a posto e non bevo più”.
Adesso Anna è libera, serena e si è sposata con il ragazzo che l’ha salvata.
Katherine Salessi-Nia
Quando l’amaro serviva anche per curare il colera
La pubblicità di alcolici in Italia ha la sua data d’inizio nel 1848, quando la ditta Marengo
pubblica sulla “Gazzetta Piemontese” un’inserzione per propagandare la sua "birra di marzo”
La seconda metà dell’Ottocento, dunque, segna l’inizio
della diffusione di manifesti e
inserzioni pubblicitarie sui
giornali: all’inizio solo delle
piccole xilografie in bianco e
nero sui quotidiani e poi litografie a colori sui periodici destinati alla borghesia. I prodotti maggiormente pubblicizzati
sono gli amari, dei quali vengono esaltate le presunte capacità curative.
Nel 1866, un noto prodotto
ancora oggi in commercio viene descritto come anticolerico: “Serve a prevenire quanto
a guarire questo micidiale
morbo”, si legge nelle indicazioni. Lo stesso amaro,
trent’anni dopo, diventa invece utile per prevenire le indigestioni ed è raccomandato
“per chi soffre di febbre intermittente e germi; la sua azione
principale è quella di correggere l’inerzia e la debolezza del
ventricolo; è sommamente antinervoso e si raccomanda a
quelle persone soggette a quel
malessere prodotto dallo
spleen nonché a mal di stomaco e capogiri”.
Poiché l’amaro è un liquore
aromatico a base di estratti vegetali spesso utilizzati anche in
medicina, la tendenza era
quella di sottolineare l’effetto
benefico che si poteva trarre
dal loro consumo. L’avvento
dell’era televisiva cambia la
pubblicità, privilegiando l’immediatezza dell’immagine e
del messaggio. L’amaro diventa “digerire è vivere”: ormai il
“bicchierino” si beve alla fine
di un lauto pasto e non più per
guarire dal colera. E se nel
1929 i manifesti pubblicitari di
un noto marchio sostenevano
che “Chi beve birra campa
Prima si pubblicizzavano le facoltà curative,
poi si è puntato sull’abbinamento col sex-appeal
NON BERE
E GUIDARE
cent’anni”, negli anni Ottanta
lo slogan “Sono bionda, spumeggiante, fresca, invitante…
chiamami… sarò la tua birra”
dice definitivamente addio alle
presunte proprietà curative
degli alcolici stuzzicando invece, con il riferimento ad un’immagine femminile bella e provocante, l’antico binomio sesso e alcol.
Il messaggio che viene trasmesso, soprattutto ai più giovani, è che bere alcolici equivale ad avere successo, classe,
sex-appeal. L’ultima moda in
fatto di alcolici indirizzati ai giovani è poi costituita dai cosiddetti “alcopop”, bevande a bassa gradazione alcolica, fruttate
e colorate vivacemente, vendute come se fossero dei succhi di frutta. Del resto, il messaggio è che sono “easy to
drink”, facili da bere. Ciò che
non viene sottolineato, però, è
che chi inizia a consumare bevande alcoliche prima dei
quindici anni è quattro volte più
a rischio di alcolismo di chi inizia sei anni dopo. Le pubblicità
create per combattere l’abuso
di alcol non sembrano molto
convincenti e l’unico tema che
hanno sviluppato è quello legato agli incidenti stradali. La
più efficace è quella di una birra olandese, nella quale un cane lecca la birra caduta dal tavolino di un bar. Alla fine, quando si allontana a fianco del suo
padrone con un incedere traballante, lo spettatore scopre
che è un cane guida per non
vedenti.
K.S.N
A cura dell’Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo - Direttore: Massimo Dini - Corso in Comunicazione scientifica - Coordinatore didattico e scientifico: Flavia Bruno
4(18)
ORDINE
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2006
di notizie
Il Sole del primo novembre del 1929.
24Ore del 12 settembre1946.
Il Sole-24Ore del 9 novembre 1965.
Il Sole e il fascismo:
da quotidiano economico
a bollettino
La costituzione del Partito fascista, avvenuta
nel Novembre del 1921, scuote internamente
il panorama politico italiano. Negli ambienti
conservatori questa forza politica viene considerata l’unica in grado di frenare l’ avanzata
delle sinistra socialista. La paura che episodi
come la rivoluzione bolscevica possano verificarsi anche in Italia è molta ed il fascismo
sembra essere, almeno sulla carta, in grado
di riportare l’ordine in una società profondamente scossa dalle agitazioni operaie di fine
dopoguerra.
Anche il quotidiano economico milanese guidato da Bersellini, come del resto buona parte della stampa italiana, guarda con interesse
all’operato di Mussolini e del suo partito. È evidente, dalla cronaca di questo periodo, come
Il Sole giustifichi le intimidazioni della nuova
destra considerandole necessarie per “debellare lo spirito bolscevico dalle masse” e comunque transitorie. Tutti al giornale milanese
sono convinti che, una volta conquistato il potere, il fascismo tornerà ad operare nell’ ambito della legalità e del diritto. Questo appello alla moderazione viene lanciato anche alla vigilia della marcia su Roma del 1922, che segna
l’inizio della stagione politica di Mussolini.
La tanto auspicata svolta democratica del partito fascista purtroppo non avviene. Salito al
governo su invito del re in seguito alla marcia
su Roma del 28 ottobre 1922, Mussolini forma un esecutivo che comprende anche esponenti di altre formazioni politiche come i liberali. A ciò non segue però lo scioglimento degli squadroni fascisti; anzi, i militanti continuano ad essere usati come strumento di intimidazione nei confronti degli oppositori e anche
dei giornali non allineati (si calcola che solo
nel 1921 ben ventinove testate siano state
oggetto di minacce e devastazioni da parte
dello squadrismo fascista). Fin da subito si nota un impoverimento del livello giornalistico: le
pagine di politica interna dei quotidiani sono,
già nelle prime settimane del governo
Mussolini, poco brillanti e carenti di notizie, ad
eccezione dei fogli di pieno sostegno al nascente regime.
Anche Il Sole, in linea con gli altri giornali, è
povero di informazioni di politica interna. La
scarsa attenzione data a queste tematiche
sarà una costante del quotidiano milanese
per tutta la durata del governo Mussolini.
L’interesse del foglio è, in questo momento,
spostato sui provvedimenti di carattere economico presi dal nuovo ministro delle Finanze
De Stefani, come la soppressione dell’imposta patrimoniale e della tassa di successione,
la diminuzione dell’imposta sui consumi, l’eliminazione della nominatività obbligatoria dei
titoli di Borsa, l’abolizione delle sovvenzioni alle cooperative, la revoca del monopolio di
Stato sulle assicurazioni sulla vita (vecchio
“pallino” del quotidiano) e l’apertura ai privati
del mercato telefonico.
Più che l’appoggio ai provvedimenti di De
Stefani, stupisce l’ apparente abbandono della fiducia nei principi classici del mercato da
parte del foglio di Bersellini. L’ ottica liberista,
tanto osannata in precedenza, viene messa
da parte davanti ai buoni risultati economici di
un governo che non si limita a compiti di coordinamento e controllo del mercato e della produzione.
L’adesione alla politica economica del fascismo si interrompe, però, in occasione della
decisione del Ministro De Stefani di imporre
l’obbligo di un deposito anticipato pari al 25%
per gli acquirenti di titoli a breve termine. La
scelta viene contestata da alcuni giornalisti de
Il Sole, come Carlo Vimercati ed Egisto
Ginella, e dalla Confindustria.
In altre situazioni, però, il comportamento del
giornale torna ad essere ambiguo, come nel
caso della politica monetaria. Dopo qualche
tentennamento, il giudizio del quotidiano sulla
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2006
rivalutazione della lira torna ad essere in linea
con quello del governo. Bersellini, spaventato
dal trattamento riservato alle testate non allineate, è disposto a perdere un po’ di credibilità e coerenza pur di continuare a pubblicare
il suo giornale.
In questa situazione di incertezza, nel 1926
avviene un importante cambiamento al vertice della testata: Achille Bersellini cede la poltrona di direttore a suo figlio Mario, già vicedirettore dal 1924, che continua l’opera del padre senza portare grossi cambiamenti nella
struttura del giornale. Nel frattempo, la tiratura del giornale è salita a circa 30.000 copie.
Due anni dopo, nel 1928, arriva l’ufficializzazione dell’inquadramento del giornale nell’
universo fascista: in seguito ad un accordo
con la Confederazione dei Commercianti, il
quotidiano assume la nuova denominazione
di “Giornale del Commercio, dell’Industria,
della Finanza e dell’Agricoltura - Bollettino
quotidiano della Confederazione Nazionale
Fascista dei Commercianti”.
La nuova natura di “bollettino” comporta per Il
Sole un ulteriore abbassamento del livello
giornalistico, soprattutto nelle cronache e nei
commenti ai fatti di politica interna che ripropongono fedelmente i comunicati della Stefani
e, successivamente, del Minculpop. Anche altre sezioni del giornale, come la politica estera, si limitano a riportare i comunicati ufficiali.
Di conseguenza, il giornale supporta in pieno
la spedizione italiana in Etiopia e i successivi
accordi politici con la Germania di Hitler.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale
non cambia la linea de “Il Sole”, che segue le
vicende del conflitto solo attraverso i comunicati ufficiali diffusi dal Minculpop. Tale appiattimento rimane inalterato fino alla caduta di
Mussolini del 25 luglio 1943. Nell’incertezza
che domina la fase transitoria del Ministero
Badoglio il quotidiano lancia appelli alla calma
e alla moderazione; ciò, però, non impedisce
qualche presa di posizione da parte dei giornalisti, come quella di Ernesto Ginella che il 4
agosto dello stesso anno scrive: confessiamo
di non aver più da pesare le parole, di non dover più reprimere penosamente il sapere, di
non essere oltre costretti alla fatica della perifrasi e delle metafore… l’ oppressione degli
spiriti è finalmente tramontata.
Durante i quarantacinque giorni del governo
Badoglio il giornale esce in edizione ridotta
per via della scarsità di risorse finanziarie ed
è costretto a interrompere le pubblicazioni per
tre giorni, dal 16 al 19 settembre. Quando
rientra in edicola Il Sole è firmato da Enrico
Papa, uno dei suoi più anziani redattori.
Papa è virtualmente il direttore della testata
milanese per tutto il periodo della Repubblica
di Salò. Dopo la liberazione, il giornale torna
in edicola con la firma di Achille Bersellini e
con un’ altra denominazione rispetto ai giorni
del fascismo: scompare la dicitura “bollettino”,
ora Il Sole è semplicemente il “giornale dell’ industria, del commercio, della finanza e dell’
agricoltura”.
Il giornale, nell’immediato dopoguerra, non è
soggetto ad alcuna forma di epurazione e
continua ad uscire con lo stesso nome.
Il secondo dopoguerra
e la vendita alla Confindustria
Il periodo immediatamente successivo alla fine del secondo conflitto mondiale registra un
cambiamento nella linea editoriale de Il Sole.
Mario Bersellini, ritornato a dirigere la testata,
riporta il giornale su posizioni decisamente
più liberali.
L’obiettivo è quello di tornare a fare un giornale di informazione economica specializzata
vicino agli ambienti degli industriali e dei professionisti, e che sia in grado di ospitare le loro prese di posizione mantenendo sempre la
propria indipendenza.
In questo periodo l’attenzione del quotidiano
di via Ciovasso è rivolta ai modi con cui affrontare la ricostruzione in uno Stato ancora
dominato dall’ apparato burocratico fascista.
È necessario, secondo Il Sole, tornare alle urne il prima possibile per avere un governo figlio della volontà popolare e non di quella dei
partiti.
Sul referendum repubblica-monarchia Bersellini non prende una posizione netta, giudicando la questione secondaria rispetto al problema della ricostruzione. In campo economico, invece, il giornale si dichiara estremamente contrario all’introduzione della nominatività
dei titoli di Borsa e all’ingresso di rappresentanti del mondo operaio nei consigli di gestione delle fabbriche. In questo periodo, inoltre,
partono gli aiuti relativi al Piano Marshall: Il
Sole, inizialmente timido nei confronti del
provvedimento, dedicherà in seguito ampio
spazio al programma illustrando le prospettive di attuazione nell’industria e nei servizi.
Il decennio si chiude con un’ importante novità: la società editrice del giornale, dopo anni di egemonia delle famiglie Bragiola Bellini e
Bersellini, passa di proprietà: ad acquistarlo è
l’Istituto nazionale fiduciario, una società del
gruppo Ina. Nonostante il cambio di proprietà
Mario Bersellini, coadiuvato dal figlio Guido,
continua a mantenerne la direzione.
Tre anni più tardi, nel 1952, il giornale cambia
ancora proprietario: l’Ina cede la sua quota di
maggioranza della società editrice alla
Confindustria. Mario Bersellini e suo figlio
Guido, che avrebbero preferito cercare un accordo con Enrico Mattei, rimangono comunque alla guida del giornale. A presiedere il
Cda della società editrice per conto della
Confindustria viene chiamato Mario Dosi, futuro deputato Dc.
Questi passaggi di proprietà determinano un
leggero cambiamento di linea del quotidiano
rendendolo più filo-governativo rispetto al
passato. La minore autonomia di cui gode la
direzione si fa sentire anche sulla qualità del
foglio, da molti giudicato poco moderno rispetto ai suoi nuovi concorrenti, il 24 Ore di
Piero Colombi e Il Globo di Luigi Barzini jr.
Gli anni cinquanta:
la fine dell’era Bersellini
Il passaggio di proprietà, almeno inizialmente,
non è estremamente traumatico, sia per la continuità data dalla direzione Bersellini, sia per la
presenza di Angelo Costa alla guida di
Confindustria. Lo scenario cambia con l’avvicendamento tra Costa e Alighiero De Micheli,
che esercita un controllo sul quotidiano decisamente maggiore rispetto al suo predecessore. La mancanza di intesa tra i Bersellini e il
nuovo numero uno di Confindustria è palese.
La situazione si risolve a favore di quest’ultimo
in breve tempo, con la sostituzione di Mario
Bersellini con Italo Minunni (18 febbraio 1955).
Minunni si dimostra direttore molto più vicino
all’ottica di De Micheli, il quale si serve spesso
delle pagine de Il Sole per intervenire nel dibattito economico e politico e per pubblicizzare le sue iniziative come la nascita di
Confintesa. La velata indipendenza dalla proprietà che i Bersellini avevano cercato di mantenere non c’ è più: tutti, oramai, considerano il
giornale come l’organo ufficiale della Confindustria.
Oggetto del dibattito economico, a metà degli
anni cinquanta, è il problema energetico, con i
tentativi di sfruttamento civile dell’energia nucleare e con la nascita dell’Eni in Italia. In ambito politico, invece, il decennio è segnato dalla firma del trattato di Roma del 25 marzo
1957, che sancisce la nascita del primo “embrione” della futura Comunità Europea.
L’accoglienza de Il Sole alla costituzione del
mercato comune è fredda: il giornale, che ha
un forte passato europeista, interpreta in pieno
le paure degli industriali e mette in evidenza la
possibilità di eccessive pressioni concorrenziali per le industrie italiane.
19 (23)
T E S I
D I
L A U R E A
Gli anni sessanta
e la fusione con il 24 Ore
Con l’inizio degli anni sessanta si attenua
un po’ la simpatia del giornale per il governo, soprattutto in seguito agli episodi
di Genova avvenuti con Tambroni presidente del Consiglio. In ambito economico,
invece, Il Sole scende in campo con tutte
le sue forze per contrastare la realizzazione del monopolio nel settore dell’energia elettrica.
Il nuovo decennio vede cambiamenti anche in Confindustria, con l’arrivo di
Cicogna al posto di De Micheli. Con
Cicogna presidente si allenta il rapporto
di dipendenza de Il Sole nei confronti della sua proprietà: se da un lato il giornale
continua a riflettere in pieno l’indirizzo politico dell’associazione degli industriali,
dall’ altro esso viene esentato dall’obbligo
di riportare tutti i comunicati e le dichiarazioni ufficiali dei suoi esponenti. Il ritorno
ad una formula più vicina a quella della
direzione di Mario Bersellini del secondo
dopoguerra si completa il 30 aprile del
1962 con l’avvicendamento alla guida del
foglio tra Italo Minunni e Gennaro
Pistolese.
Minunni, nonostante l’adesione totale alla
linea De Micheli, ha il merito di aver introdotto, durante gli ultimi anni della sua direzione, importanti novità che hanno contribuito a “svecchiare” un po’ il giornale:
tra queste è da segnalare l’introduzione
del grafico degli indici di Borsa con il relativo commento, che compare in prima
pagina dal 15 novembre 1960. La gamma
dei servizi è poi ampliata rispetto al passato, con maggiore attenzione alla nuove
tecnologie, ai trasporti, all’energia; viene
anche curata maggiormente la parte grafica, con un crescente uso di fotografie e
di titolazioni e caratteri più vistosi e incisivi. Inoltre gli anni della direzione Minunni
vedono l’assunzione di nuovi collaboratori che in seguito si riveleranno estremamente preziosi per Il Sole 24 Ore, tra cui
lo stesso Pistolese, Alberto Mucci e Vieri
Poggiali.
Il Sole compie 100 anni il 1° agosto del
1965. Le celebrazioni per il suo centenario vengono però rimandate alla fine di ottobre dello stesso anno, in coincidenza
con l’uscita di un volume giubilare che ripercorre la storia del giornale economico
milanese. Pochi giorni dopo le celebrazioni del centenario, esattamente l’8 novembre 1965, la Confindustria annuncia la fusione de Il Sole con l’altra testata di sua
proprietà, il 24 Ore. I motivi che hanno
spinto l’associazione degli industriali a
compiere questa scelta sono perlopiù finanziari: entrambi i quotidiani sono in forte passivo, dovuto principalmente ad una
lievitazione dei costi di gestione e di quelli sostenuti per migliorare il prodotto giornalistico.
Dalla fusione tra le due testate nasce un
nuovo quotidiano, Il Sole 24 Ore, che esce
per la prima volta il 9 novembre del 1965;
la guida di questo nuovo progetto editoriale viene affidata a Mauro Masone, ultimo direttore dell’ ex giornale di Piero
Colombi.
Una cartolina de “Il Sole” del 1947.
20 (24)
24 Ore (1946-1955)
Il 12 settembre 1946, giorno dell’inaugurazione della Fiera di
Milano, il panorama giornalistico italiano si arricchisce di un
nuovo quotidiano economico: proprio in questa data, infatti,
esce il primo numero del 24 Ore, giornale milanese tenacemente voluto da un piccolo gruppo di antifascisti liberali lombardi: Libero Lenti, Roberto Tremelloni e Ferdinando Di Fenizio,
Federico Maria Pacces e Piero Colombi.
Pubblicato solo dopo la liberazione, 24 Ore è un progetto editoriale che risente fortemente di un’esperienza giornalistica di
dieci anni prima, Borsa, che però ebbe vita breve cessando le
sue pubblicazioni dopo solo 27 numeri. Con la scomparsa del
fascismo Lenti, Tremelloni e Di Fenizio, insieme a Pacces e
Colombi, riprovano l’avventura editoriale e danno vita alla
“Nuova Società Editrice”, primo editore di 24 Ore (dal 1947 in
poi sostituita dalla SPEM di proprietà di Colombi, Pacces e
Parri). Il primo numero del quotidiano economico, messo in
vendita al prezzo di 5 lire, è di sole due pagine per via dei problemi dovuti al razionamento della carta nell’immediato dopoguerra. Nonostante ciò, 24 Ore desta sin da subito l’attenzione di molti lettori per il suo colore rosa-salmone, cosa che lo
distingue da tutti gli altri quotidiani in commercio.
Sin dal primo numero gli editori manifestano il loro intento: parlare di economia, “… che non è materia di ideologie né di fedi
politiche, è materia di fatti. I fatti non sono mai identici in tempi
e paesi diversi. Così le soluzioni concrete non possono essere
identiche.”
Anche se la guida del giornale viene inizialmente affidata ad
Adolfo Borzoni, Piero Colombi è il direttore in pectore del 24
Ore sin dal suo primo numero; assumerà ufficialmente la carica due anni più tardi, il 1° febbraio 1948, mantenendola fino alla sua scomparsa (21 agosto 1960).
Il giornale, sin dai suoi primi mesi di pubblicazione, appare decisamente diverso dal suo concorrente diretto Il Sole. La caratteristica che più lo differenzia dal foglio di via Ciovasso è il
rapporto con i suoi lettori. 24 Ore si presenta, come del resto
il suo più anziano avversario, con la duplice natura di quotidiano di informazione economica e non e di strumento di lavoro per operatori finanziari e professionisti; rispetto alla concorrenza, però, in via Montebello si cerca di coinvolgere il lettore-utente con inchieste, sondaggi e rubriche (tra cui spicca
“la posta del risparmiatore”) destinate a fornire un servizio di
consulenza e assistenza. Il tentativo di costruire un rapporto di
reciproca influenza con i lettori risulta vincente già nel breve
periodo: 24 Ore, dopo 13 mesi dall’uscita del suo primo numero, vende circa 6.000 copie al giorno in edicola e può già
contare su 4.100 abbonati.
Il discreto successo iniziale di vendite, unito alla stabilità data
dalla direzione Colombi, permettono a 24 Ore di superare senza eccessive difficoltà i primi mesi di vita che, come spesso accade, sono decisivi per quel che riguarda le sorti di un progetto editoriale. La stabilità necessaria a guardare al futuro senza
troppa paura arriva qualche anno dopo, esattamente nel febbraio del 1952, con la nuova ripartizione delle quote della società editrice: ora il 49% è in mano a Piero Agostoni (responsabile di un gruppo finanziario che in seguito si scoprirà essere sotto il controllo della Confindustria), Libero Lenti ha il 2%
mentre Colombi detiene il restante 49%. Colombi, all’atto di
questo rimpasto delle quote, ottiene comunque delle agevolazioni che gli permettono di dirigere il giornale come meglio crede senza il pericolo di ingerenze esterne.
Un nuovo giornale
Il 9 novembre 1965 si apre un nuovo capitolo
nella storia della stampa economica italiana:
in questa giorno, infatti, esce il primo numero
de Il Sole 24 Ore, il nuovo quotidiano economico della Confindustria.
Perché Il Sole 24 Ore è da considerarsi un
quotidiano nuovo? Mario Masone, primo direttore del neonato giornale (oltre che ultimo
direttore di 24 Ore), prova a rispondere a questa domanda nell’ editoriale del primo numero del quotidiano intitolato “Strumento di lavoro (unendo due tradizioni)”: … i lettori… si accorgeranno che si tratta, in fondo, di un nuovo
giornale, perché i nostri sforzi sono diretti a far
convergere i pregi (eliminando le incompletezze, ove ve n’erano) delle due precedenti testate. Riteniamo insomma di poter offrire ai nostri
lettori, che rappresentano poi il nerbo dell’economia italiana, un valido strumento di lavoro.
Il primo numero de Il Sole 24 Ore (venduto a
50 lire) è di 12 pagine, tutte di 9 colonne, su
carta color rosa-salmone, la stessa di 24 Ore.
La testata (ottenuta dalla somma delle due
precedenti senza nessuna novità nel carattere) reca la nuova dicitura “quotidiano economico finanziario”. Rimangono evidenti i contatti con le due precedenti esperienze giornalistiche, tanto che ritroviamo sulle pagine di
questo nuovo giornale rubriche come “Lettere
al giornale” e “La posta del risparmiatore” (già
presenti nel 24 Ore di Colombi) ed inserti come “Settegiorni” (speciale settimanale de Il
Sole). L’influenza di 24 Ore, comunque, sem-
Sin dalla sua fondazione “24 Ore” si dimostra vicino al Partito
liberale e a uomini politici come Malagodi e Parri; in campo
economico, invece, Colombi sposa in pieno la concezione einaudiana del liberismo, mentre l’ altro fondatore Di Fenizio è
sensibile al pensiero keynesiano. In seguito, però, il quotidiano
avverserà fortemente le politiche eccessivamente interventiste
dello Stato nell’ economia. L’ avversione per lo Stato-imprenditore contraddistingue gran parte dell’ esperienza di Colombi alla guida di “24 Ore”. Forte della sua ottica liberista, il direttore
contrasta con vigore le misure interventiste, trovando almeno
inizialmente convergenza con il mondo industriale. Questa posizione porterà il giornale a schierarsi apertamente contro i
monopoli, a cominciare da quello dell’ energia elettrica, e a
promuovere l’ ingresso dell’ Italia nelle organizzazioni internazionali. Non è un caso che proprio “24 Ore” sia tra le testate
che accoglie più favorevolmente la firma del Trattato di Roma
del 1957. Altro “pallino” per il quotidiano di via Montebello è la
questione legata all’ eccessiva burocratizzazione dell’ apparato statale italiano, ancora fortemente condizionato dal modello
imposto dalla dittatura fascista. L’ Italia, che dopo due decenni
di autarchia torna al libero mercato, necessita di una struttura
più snella di quella attuale che crea solo profondi squilibri. Gli
esecutivi che si succedono in questi anni, però, non sembrano capire l’ importanza del problema: “24 Ore”, tramite la penna di Luigi Sturzo e Luigi Parri, può solo commentare l’ ennesima creazione di un ente statale inutile e costoso.
Seppur molto attento alla vita politica, Colombi eviterà sempre
di schierarsi apertamente con qualche formazione politica. È
chiaro, però, come il suo interesse principale sia quello di mettere in evidenza le anomalie del sistema politico italiano che
dà eccessivo vantaggio ai partiti di massa a discapito dei cosiddetti partiti d’ opinione. Questa considerazione porterà “24
Ore” ad appoggiare la famosa “legge truffa” relativa alle elezioni politiche del 1952, in quanto considerata uno strumento
per aumentare il peso politico dei partiti che compongono la
maggioranza con la Democrazia Cristiana.
La schiettezza con cui “24 Ore” si pone nel panorama giornalistico italiano lo porta spesso a scontrarsi con altre testate, come “Il Giorno” e “Il Mondo”. La polemica con il settimanale di
Pannunzio è frequente, soprattutto per la diversa opinione in
merito allo “Stato imprenditore”. I diverbi con “Il Giorno”, invece, nascono per via della politica monopolistica di Enrico Mattei
nel settore petrolifero e degli idrocarburi.
“24 Ore” rimane un giornale indipendente nella sostanza fino
alla prematura scomparsa di Piero Colombi, avvenuta nel
1960. I suoi eredi, infatti, cedono le loro quote alla Confindustria
poco dopo la sua morte. A succedere a Colombi è Mauro
Masone, già caporedattore del quotidiano.
Masone alleggerisce i toni rispetto a Colombi, dimostrandosi
meno rigido su uno dei temi fondamentali di quegli anni ovvero l’ interventismo statale in economia. Non tutti sono contenti
di questa scelta benevola nei confronti della proprietà: tra questi, il più risentito sembra essere Bruno Leoni, collaboratore del
giornale sin dai suoi esordi.
“24 Ore” continua a svolgere ottimamente la sua funzione di
informazione economico-finanziaria, ma perde gran parte delle caratteristiche che lo hanno positivamente distinto rispetto
alla concorrenza. Ed in questo clima di accettazione dell’ asse
DC-Confindustria si arriva alla fusione con il rivale “Il Sole”, avvenuta l’ 8 novembre 1965.
bra essere più marcata rispetto a quella de Il
Sole.
Nei suoi primi quattro anni Il quotidiano mantiene la struttura datagli dal direttore Masone,
continuando ad uscire su 12 pagine (talvolta
a 14 e a 16) da martedì a domenica. Unica
novità di rilevo è la pubblicazione di “Guida
Normativa”, un inserto staccabile pubblicato
tre volte al mese che occupa le 4 pagine centrali (divise a loro volta in 4 facciate) sulle novità in materia di norme e tributi. L inserto, che
esce per la prima volta con Il Sole 24 Ore venerdì 14 gennaio 1966, è curato da Silvio
Moroni, noto commercialista milanese. Il Sole
24 Ore, in questi anni, segue da vicino le vicende di politica interna ed estera, dimostrando di non aver perso di vista le sue origini profondamente europeiste. L’economia è,
ovviamente, la principale protagonista ed il
giornale segue con attenzione le vicende italiane (come la fusione Montecatini-Edison) e
non (come la nascita del Mec).
Alla vigilia degli anno settanta, Il Sole 24 Ore
subisce importanti cambiamenti: il 1° gennaio
1969 Alberto Mucci, dopo aver curato per circa un anno il giornale come vicedirettore responsabile, ne assume ufficialmente la direzione (Masone aveva lasciato l’anno precedente). Inoltre, la sede del giornale viene trasferita da via Ciovasso a via Monviso, sempre
a Milano. Anche la grafica della testata cambia: la scritta 24 Ore assume maggiore spazio e rilevanza rispetto alla scritta Il Sole, ora
relegata in alto a destra. Il quotidiano esce più
spesso a 14 pagine, con molta più pubblicità
rispetto ai primi tempi (si cominciano a vedere paginoni centrali e ultime pagine comprate
interamente dagli inserzionisti). Il prezzo è ora
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di 70 lire. Con Mucci si allarga anche la schiera di collaboratori del quotidiano: oltre a
Goehring, Malaspina e Crea si aggiungono
Gavino Manca, Ivan Araldi e Felice Pick,
spesso autori dell’articolo di apertura in terza
pagina.
L’inizio del decennio vede importanti riforme
come l’introduzione delle regioni e la nascita
dello Statuto dei lavoratori. Entrambi i provvedimenti vengono accolti con freddezza dal
quotidiano milanese, che giudica il nuovo ordinamento regionale come una … scelta politica di compromesso e non una necessità di
decentramento amministrativo, e considera la
legge 300/70 come una sorta di “regalo” fatto
dal Psi ai sindacati. La crescita dell’attenzione sui fatti politici, sempre più spesso sono
correlati a quelli economici, porta Mucci a rivedere parzialmente la natura del giornale:
dal 25 febbraio 1971 Il Sole 24 Ore diventa
“quotidiano politico economico finanziario”, dicitura che mantiene fino ai nostri giorni. Nello
stesso periodo, inoltre, vengono modificate le
titolazioni in chiave più moderna.
Mucci opera cambiamenti anche nelle sezioni economiche introducendo altre pagine dedicate alla finanza italiana, internazionale e
alle quotazioni dei mercati esteri. L’attenzione
per gli scenari internazionali si concretizza
con gli accordi che il quotidiano stipula con gli
altri giornali economici europei (il tedesco
Handelsblatt, il belga Le Metropole, l’olandese
Elseviers Weekblad e La vie Francaise), accordi che prevedono lo scambio tra le testate
di contributi relativi ad inchieste di interesse
comunitario.
L’esplosione del terrorismo e la crisi economica dominano le prime pagine dei quotidiani per tutto il decennio. L’indignazione per gli
atti criminali che hanno sconvolto la società
italiana è un sentimento che accomuna l’intero panorama giornalistico italiano. L’arduo
compito di commentare su Il Sole 24 Ore queste manifestazioni di violenza è spesso lasciato al vicedirettore Vincenzo Ferrari.
La difficile situazione economica del decennio
è seguita con attenzione in via Ciovasso.
Il materiale su cui scrivere di certo non manca: inflazione, svalutazione della moneta,
chiusura dei mercati e crisi petrolifera sono
oggetto di trattazione da parte del quotidiano
tutti i giorni.
Da Cavazza Rossi a Deaglio
Il 5 maggio 1978 Il Sole 24 Ore si presenta in
edicola con una novità: il primo speciale della serie di approfondimenti denominata
“Rapporti”. Con questi speciali, il quotidiano si
propone di articolare meglio la trattazione dei
temi che ogni giorno vengono affrontati sulle
sue pagine, temi che si fanno di giorno in giorno più complessi e che richiedono analisi
sempre più particolareggiate e rigorose. Il primo “rapporto”, incentrato tutto sulla situazione dell’energia nucleare in Italia, ottiene talmente tanto successo che, a pochi giorni dalla sua pubblicazione, viene organizzato un incontro-dibattito a Roma sull’argomento.
Questo esempio è la conferma di come il quotidiano sia cresciuto grazie al contributo oramai decennale di Alberto Mucci e dei suoi
collaboratori (tra cui ricordiamo Gavino
Manca, Athos Macchi, Giuseppe Are, Vieri
Poggiali, Tancredi Bianchi, Dino Del Bo,
Egidio Sterpa, Romano Prodi e Libero Lenti,
quest’ultimo tornato ad intervenire sul foglio
milanese dopo molti anni). Ma la crescita de l
Sole 24 Ore è visibile soprattutto dai dati di
vendita: in dieci anni il giornale ha più che duplicato il numero di copie vendute superando
abbondantemente quota 100.000.
Il 6 giugno 1978, però, Alberto Mucci decide
di lasciare la guida della testata per andare
ad occuparsi delle pagine economiche del
Corriere della Sera. Al suo posto viene nominato Fabio Cavazza Rossi, in precedenza
membro del Cda della società editrice. Già
nel suo articolo di presentazione ai lettori
Cavazza Rossi si propone di continuare sulla
strada tracciata dal suo predecessore, accentuando la profonde interrelazioni che esistono tra economia, istituzioni ed una società
in costante mutamento.
Terrorismo, crisi politica e stagnazione economica continuano ad occupare le pagine de
Il Sole 24 Ore e di tutti gli altri quotidiani italiani. Al di fuori dei confini nazionali viene seguito con particolare attenzione il conflitto in
Afghanistan soprattutto nella rubrica “Panorama”.
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Nonostante il momento difficile della società,
Il Sole 24 Ore continua a migliorare la sua offerta giornalistica: il 3 dicembre 1979 parte la
serie di speciali intitolata “temi”, che vanno ad
aggiungersi ai “rapporti” inaugurati qualche
anno prima. Assieme a “Guida normativa”, all’indice mensile e alla “settimana finanziaria”
(che ha sostituito “7 giorni”), questi speciali si
configurano sempre più spesso come appuntamenti fissi per i lettori del giornale economico milanese. Anche tra i giornalisti c’è qualche novità: le firme di Guido Gentili, Mario
Deaglio, Ugo Piccione, Riccardo Franco Levi
e Fabio Basagli sono sempre più presenti nelle pagine del giornale.
Nell’autunno del 1980 Cavazza Rossi, dopo
soli 2 anni, lascia la direzione del quotidiano
per tornare ad essere parte integrante del
Cda della Società editrice. Il posto vacante
viene preso dal binomio Mario Deaglio-Gianni
Locatelli, mentre la carica di vicedirettore, dopo la morte di Ferrari, viene affidata a Claudio
Duva. Il Sole 24 Ore, ad inizio anni ottanta, ha
ancora aumentato le sue vendite, giunte ora
a quota 130.000 giornaliere.
Fin dal suo primo giorno da direttore, Deaglio
dichiara apertamente il suo obiettivo, ovvero
quello di non essere il semplice megafono di
posizioni altrui, in modo tale da … svolgere
funzioni importanti di analisi critica e di controllo di coerenza dei protagonisti dell’economia, adempiendo così ad un servizio nei confronti della società civile.
A differenza di Cavazza Rossi, che non aveva attuato cambiamenti significativi al quotidiano, Deaglio introduce l’uso massiccio di
grafici, didascalie e riquadri con riassunti. Da
rilevare, poi, l’utilizzo costante di fotografie e
caricature, in precedenza comparse sulle pagine del Il Sole 24 Ore solo in rarissime occasioni o per pubblicità.
L’utilizzo degli strumenti del giornalismo grafico è ben visibile sin dai primi approfondimenti del quotidiano dedicati alla guerra Iran-Iraq
e al terremoto dell’Irpinia.
Altri cambiamenti, poi, si hanno nella struttura del numero domenicale. La rubrica “Lettere
al risparmiatore”, divenuta già da qualche anno appuntamento fisso della prima pagina
dell’edizione del giorno festivo, viene affidata
ad Emilio Moar. Inoltre, accanto ad essa, viene inserita “L’intervista della domenica”, che
in genere vede protagonisti personaggi del
mondo dell’economia e della finanza.
Anche sotto la direzione Deaglio continua
inarrestabile la crescita de Il Sole, che nel
1983 tocca le 200.000 copie di tiratura.
Proprio in occasione del raggiungimento di
questo grande traguardo, Mario Deaglio lascia la guida del quotidiano: a sostituirlo è il
condirettore Gianni Locatelli, destinato a diventare, dopo Alberto Mucci, il direttore più
longevo dopo la fusione del 1965.
La direzione Locatelli
Già condirettore de Il Sole 24 Ore, Gianni
Locatelli assume la guida del giornale della
Confindustria il 17 maggio 1983. La sua nomina si colloca in una più ampia ristrutturazione di tutta la società editrice Il Sole 24 Ore
che porta Ferdinando Borletti ad assumere la
presidenza di quest’ultima.
Locatelli, nel presentarsi ai lettori nella sua
nuova veste di direttore, chiarisce fin da subito quello che sarà il suo intento: fare de Il Sole
24 Ore il giornale dell’economia italiana (…
non sarà il giornale di una lobby né, tanto meno, di un partito: non sarà il giornale del Nord
contro il Sud, del privato contro il pubblico, della grande industria contro tutti). Essere il giornale dell’economia italiana non comporta, secondo Locatelli, un “buonismo” generalizzato
nei confronti di tutto e di tutti: lo spirito critico
che ha contraddistinto il quotidiano in questi
anni continuerà ad essere garanzia di trasparenza.
Il neodirettore, all’atto del suo insediamento, è
ben conscio del ruolo fondamentale del pubblico nella crescita de Il Sole 24 Ore, ed auspica che esso continui a partecipare attivamente alla vita del giornale.
Locatelli assume la direzione del quotidiano
in un momento di crescita per il giornalismo
economico italiano: oltre al successo de Il
Sole 24 Ore, sono nate altre iniziative editoriali come il mensile Capital di Paolo Panerai
(1980).
Decisamente meno fortunata appare, invece,
la nuova uscita de Il Globo (1982) a cura di
Michele Tito, operazione destinata presto a
fallire. Anche la Confindustria, per fronteggia-
re i nuovi entrati nel settore, fa il suo ingresso
nei periodici assorbendo il settimanale Mondo
Economico del quale, dal novembre 1983, lo
stesso Locatelli assume la direzione.
La nuova direzione si trova subito a confronto con importanti fatti che segnano lo scenario politico italiano, come, il primo governo a
guida socialista presieduto da Bettino Craxi e
la morte del segretario del Pci Enrico
Berlinguer. All’estero, invece, si segue con attenzione l’evolversi delle vicende comunitarie
che porteranno nel 1986 all’ingresso in
Europa di Spagna e Portogallo.
Sempre nel 1986, a pochi giorni del disastro
nucleare di Chernobyl, Il Sole 24 Ore si presenta in edicola con una nuova versione della rubrica “Lesperto risponde”, notevolmente
ampliata rispetto al passato (6 pagine nel numero del sabato interamente dedicate ai quesiti dei lettori). Anche l’edizione domenicale è
stata rivista: ora si presenta come un numero
doppio (domenica-lunedì) di 24 pagine in cui
viene dato ampio spazio a temi in precedenza poco trattati dal giornale come cultura, musica, arte e comunicazione. I lettori gradiscono fin da subito l’iniziativa, tanto la tiratura del
numero del 20-21 aprile è oltre le 300.000 copie. La diffusione del quotidiano, a metà anni
ottanta, è aumentata in maniera quasi esponenziale: + 79,3% nel periodo 1976-1983, incremento secondo solo a quello de La
Repubblica. Anche il numero di abbonati è in
costante aumento, seppur in misura leggermente minore rispetto alle vendite (dai 45.192
abbonamenti del 1976 si è passati a 75.319
del 1984, con un incremento del 66,6%).
Il Sole 24 Ore si conferma il giornale con la
percentuale di abbonamenti sul diffuso più alta: 43,08%.
1985-1989: Il Sole 24 Ore
si rinnova ancora
La crescita di consensi ottenuta dal quotidiano economico milanese consente al direttore
Locatelli di proporre nuove idee per migliorare il prodotto editoriale. In particolare, nella
seconda metà degli anni ottanta vedono la
luce il nuovo numero del lunedì, il volume
Come si legge Il Sole 24 Ore, il codice di autodisciplina dei giornalisti e Finanza e mercati.
L’arrivo di nuove realtà nel segmento della
stampa economica non lascia indifferente Il
Sole 24 Ore. Sebbene questi nuovi progetti
non sembrano poter impensierire il primato
del giornale diretto da Locatelli, la comparsa
di nuovi concorrenti porta la società editrice a
varare una novità assoluta per un quotidiano
economico: il numero del lunedì.
Il Sole 24 Ore del lunedì esce per la prima volta il 20 ottobre 1986. Il direttore è sempre
Gianni Locatelli, affiancato da Elia Zamboni e
Pilade Del Buono come vicedirettori; ad occuparsi della realizzazione grafica è, invece,
Raimondo Della Spina. L’ obiettivo del nuovo
numero del lunedì è quello di trattare l’economia applicata alla realtà quotidiana attraverso
un linguaggio chiaro, semplice e, per quanto
possibile, alla portata di tutti. Alla portata,
quindi, anche di quei potenziali lettori che ancora stentano ad avvicinarsi al quotidiano, come i giovani sotto i 25 anni e le donne. Un
giornale, come lo stesso Locatelli ama definirlo, per lettori allenati e da allenare.
Il giugno 1985 la casa editrice de Il Sole 24
Ore pubblica un nuovo volume dal titolo Come
si legge Il Sole 24 Ore. L’opera, ideata da Elia
Zamboni e curata da Fabrizio Galimberti,
Adamo Gentile e Gianluigi Simone, si propone di aiutare i lettori nell’approccio al giornale, cercando di fornire anche un’introduzione
chiara all’economia nei suoi concetti generali
e nel funzionamento concreto. Il libro ha un
successo inaspettato, tanto che figura per diverse settimane nella graduatoria dei libri più
venduti. Nel corso degli anni usciranno diverse edizioni di questo best-seller che dal 1985
al 2000 ha venduto 350.000 copie.
Nella primavera del 1987 Il Sole 24 Ore pubblica, nella sezione “commenti e dibattiti”, il
suo codice di autodisciplina. Il quotidiano economico milanese è il primo in Italia a dotarsi
di un proprio codice di condotta sottoscritto
dal direttore e dal comitato di redazione. Il codice affronta temi legati al rapporto tra i giornalisti e il mercato borsistico, alle collaborazioni esterne dei giornalisti e al rapporto con
i privati e con le aziende.
Il gesto della redazione de Il Sole 24 Ore viene da molti interpretato come una prima risposta alle voci su una diffusione massiccia
21 (25)
T E S I
D I
L A U R E A
dell’ insider trading nel mondo giornalistico
economico italiano.
La nascita di Finanza e mercati avviene l’11
luglio 1989. Da questa data in poi, le quotazioni delle borse e dei mercati e le notizie relative alla finanza italiana e internazionale
vengono concentrate in questa nuova macrosezione del giornale.
Questa decisione viene presa per soddisfare
il pubblico, che ha chiesto di ritornare ad avere una ultima pagina di quotazioni (come tradizionalmente avveniva anni addietro) e non
di pubblicità.
Col passare degli anni, Finanza e mercati acquisterà sempre più spazio ed autonomia redazionale fino a diventare un vero e proprio
dorso de Il Sole 24 Ore.
Gli anni novanta
Gli importanti avvenimenti politici che caratterizzano la fine degli anni ottanta vengono seguiti con estrema attenzione da Il Sole 24
Ore: la strage di piazza Tien An Men, la caduta del muro di Berlino, la fine del regime di
Ceasescu e degli altri regimi comunisti occupano giornalmente le pagine del quotidiano
economico milanese.
La finanza torna prepotentemente in prima
pagina con la famosa “guerra di Segrate” per
il controllo della Mondadori. La vicenda viene
seguita sul campo dal giornale, che riesce
anche a strappare un’importante intervista a
Carlo De Benedetti dopo un lungo periodo di
silenzio.
Con l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq
di Saddam Hussein il quotidiano milanese
sposta nuovamente la sua attenzione su ciò
che succede al di fuori dei confini nazionali. Il
modo in cui Il Sole 24 Ore segue l’evolversi
della situazione nel golfo Persico è esemplificativo del suo stile giornalistico, fatto di cronaca sul campo e commenti che analizzano
la situazione sia in chiave politica che economica.
Il momento poco felice che attraversa la società italiana ad inizio anni novanta per via
della crisi della classe politica italiana per via
di tangentopoli si riflette profondamente anche nell’economia. Anche il settore dell’editoria rimane colpito dalla recessione: nonostante l’ aumento del prezzo (1.300 lire), i bilanci
dei maggiori quotidiani (compresi quelli sportivi) e dei più importanti periodici peggiorano,
soprattutto per un calo delle vendite. La crisi,
però, non sembra fermare l’avanzata del giornale di Locatelli che, proprio in questo momento, inizia ad espandere il suo campo di interesse verso altri settori come la televisione
(co-produce un programma Rai dedicato all’
economia) e l’informatica (entra nella rete
mondiale di banche dati Data Star).
La direzione Carrubba
Il 24 luglio 1993 Gianni Locatelli viene nominato direttore generale della Rai, terminando
la sua esperienza più che decennale in via
Ciovasso. Locatelli lascia un giornale diverso
da quello che aveva preso in mano ad inizio
anni ottanta: la crescita esponenziale di consensi ha fatto diventare Il Sole 24 Ore il quotidiano economico più diffuso in Europa.
L’oramai ex direttore lascia il segno anche nel
suo commiato ai lettori, augurandosi una futura quotazione in Borsa de Il Sole 24 Ore.
A garantire continuità alla direzione Locatelli
viene chiamato Salvatore Carrubba, già vicedirettore, che inizialmente non porta nessun
rilevante cambiamento alla struttura e all’organigramma interno. Le maggiori novità di
questi anni riguardano la società editrice, che
nel dicembre 1994 raggiunge un accordo con
De Benedetti per la cessione della Radiocor,
la più importante agenzia di stampa di settore.
Tale acquisto suscita riserve nel modo del
giornalismo italiano: da più parti si rimprovera
alla Confindustria di voler monopolizzare il
settore della stampa economica. La risposta
a queste accuse viene lasciata al vicedirettore Gianfranco Fabi: a suo parere, se si considera lo spazio che l’informazione economica
ha oramai conquistato su quotidiani e periodici, l’ambito coperto da Il Sole 24 Ore non supera il 50%.
A minare la credibilità del settore della stampa economica italiana sono gli strascichi del
caso Lombardfin. L’indagine della magistratu-
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ra ha riguardato diversi giornalisti che si occupano di economia, tra cui alcuni de Il Sole
24 Ore. La conclusione della vicenda non porta nessuna conseguenza penale per i giornalisti coinvolti, ma solo provvedimenti di natura
deontologica, che vengono dichiarati prescritti dalla Cassazione civile. L’intera vicenda è
un duro colpo per l’intero settore della stampa economica, che vede ora minata la sua
credibilità e trasparenza.
L’opera di diversificazione dell’offerta editoriale de Il Sole 24 Ore, nel frattempo, continua:
dal 1994 al 1996 nascono nuovi dorsi e nuove sezioni come “Lavoro & Carriere”, “Enti
Locali”, “Risparmio & Mercati”, e vengono rinnovati i già esistenti “Informatica” e “L’ Esperto
Risponde”.
La direzione Auci
La ristrutturazione in seno alla società editrice di fine 1996 (che porta Marco Tronchetti
Provera ad assumere la carica di presidente
al posto di Giorgio Fossa) produce importanti cambiamenti all’ interno del giornale, tra cui
la nomina dello stesso Carrubba alla direzione editoriale del gruppo. A sostituire il direttore uscente viene chiamato Ernesto Auci, già
vicedirettore del quotidiano nel 1978, attualmente responsabile delle relazioni esterne
della Fiat. Carrubba lascia la direzione de Il
Sole 24 Ore il 31 dicembre 1996, consegnando ad Auci un quotidiano in ascesa di consensi (in poco più di tre anni le copie vendute mediamente ogni giorno sono aumentate
di 25.000 unità) e che sta ottenendo risultati
senza ricorrere ad operazioni di marketing
che esulano dal giornalismo (basti pensare al
diffondersi dei gadget). Il giornale, attestatosi
sulle 350.000 copie, insidia da vicino il terzo
posto de La Stampa nelle classifiche di vendite.
Auci si presenta ai suoi lettori con l’intento
preciso di fare del suo giornale “il guardiano
del libero mercato”. Ad affiancarlo in questo
obiettivo ci sono vecchie e nuove firme come
il vicedirettore Carboni, Fabrizio Galimberti,
Antonio Calabrò, Alberto Quadrio Curzio,
Adriana Cerretelli e Mario Platero. La direzione di Auci inizia all’insegna delle novità, come
l’ingresso del giornale (tra i primi in Italia) in
Internet con il sito web www.ilsole24ore.it e il
lancio di nuovi dorsi come “Mondo e Mercati”
e “Manager e Impresa”.
Due anni dopo, il 30 novembre 1999, debutta
la nuova grafica e la nuova disposizione delle sezioni del quotidiano. La sequenza degli
argomenti è profondamente diversa rispetto
al passato. Le prime pagine sono occupate
dalle notizie provenienti dall’Europa e dal
Mondo, a cui seguono quelle dedicate alla
politica interna e alla cronaca italiana. Viene
abolita in terza pagina la sezione “in primo
piano” perché, secondo il direttore, … si tratta di un modo di presentare le notizie che ormai rischia, nei quotidiani, di spingere verso
una dilatazione degli spazi a scapito di una più
ordinata sistemazione. Le sempre maggiori interdipendenze tra i mercati mondiali e l’importanza assunta nella vita di tutti i giorni dalle decisioni prese a livello comunitario sono
alla base della decisione dell’ inversione di
tendenza voluta da Auci. È il segnale preciso
che i punti di riferimento essenziali, sia per i
cittadini che per le imprese, stanno rapidamente mutando e, per continuare ad svolgere il suo ruolo di servizio, anche Il Sole 24 Ore
deve evolversi nella stessa direzione.
La fine del 1999 segna anche l’ ingresso dell’editrice Il Sole 24 Ore nel settore radiofonico.
Il 4 ottobre, infatti, nasce Radio 24, frutto della collaborazione con la Sper di Gianni
Miscioscia. La nuova emittente si propone di
affermare un modello inedito per il panorama
radiofonico nazionale: la radio news & talk. A
dirigere l’emittente è Elia Zamboni, già protagonista di altre iniziative come il numero del
lunedì, Come si legge Il Sole 24 Ore e delle
“costole” normative del quotidiano “Guida
Normativa” e “Guida al Diritto”.
Sei mesi dopo, l’editrice Il Sole 24 Ore vara un’altra novità, questa volta in joint venture con la Mondadori: il mensile
Ventiquattro. Il magazine, venduto in abbinamento al quotidiano al costo di 2.500 lire, esce il sabato. Direttore di Ventiquattro
è Marco Moussanet.
L’opera di diversificazione dell’offerta editoriale de Il Sole 24 Ore si completa nell’aprile del 2001 con la nascita della televisione tematica 24Ore TV. A dirigere l’emittente è Massimo Donelli.
La direzione Gentili
Il sensibile rinnovamento ed ampliamento di
orizzonti dell’offerta editoriale de Il Sole 24
Ore Spa” avvenuto a cavallo tra la fine e l’inizio del nuovo millennio è dovuto al binomio
Tronchetti Provera-Ernesto Auci.
In seguito all’elezione di D’Amato a presidente della Confindustria questi due protagonisti
della recente storia del quotidiano escono di
scena: Guidalberto Guidi, nuovo presidente
della società editrice al posto di Tronchetti
Provera, promuove Ernesto Auci nel direttivo
del gruppo editoriale. Al suo posto arriva
Guido Gentili, che ritorna a Il Sole 24 Ore dopo 16 anni trascorsi alla Rcs.
Diversamente dai precedenti “cambi della
guardia”, l’ avvicendamento tra Auci e Gentili
non è privo di polemiche. Da più parti si sostiene che la scelta di Gentili si stata direttamente imposta dal presidente della Confindustria D’Amato. Con le nomine di Gentili e
di Guidi, poi, salta definitivamente il progetto
di Auci e Tronchetti Provera di portare il gruppo editoriale in Borsa.
Gentili entra in carica il 10 luglio 2001 e fin da
subito si ritrova a doversi confrontare con importanti avvenimenti politici, come il G8 di
Genova, e finanziari, come l’acquisizione di
Telecom da parte della cordata capeggiata
dallo stesso Tronchetti Provera. Pochi giorni
mesi dopo il suo mandato, però, i terribili attentati di New York e Washington spostano
prepotentemente l’attenzione della stampa
verso la cronaca estera. All’indomani del tragico evento Il Sole 24 Ore, solitamente sobrio
nelle titolazioni, esce a nove colonne come
mai capitato prima nella sua storia.
Il nuovo direttore non tarda a dare un’impronta più personale al quotidiano. Basandosi su
una visione più “classica” rispetto al suo predecessore, Gentili riporta nelle prime pagine
la sezione “in primo piano” (retrocedendo le
sezioni “Europa” e “Mondo” introdotte da Auci
qualche anno prima), inserisce un nuovo
sommario orizzontale sotto la testata e dà vita al nuovo dorso “New Economy”.
Tra gli argomenti dell’ autunno del 2001 viene
dato ampio spazio all’imminente rivoluzione
monetaria dell’ euro, evento che fa nascere
nuove rubriche come “Pensiamo in Euro” ed
addirittura un concorso a premi, una rarità in
via Lomazzo. L’ attenzione del giornale, inoltre
è anche indirizzata all’evolversi della situazione in Afghanistan e all’imminente invio di soldati italiani in quel territorio.
Nei primi mesi del 2002 il bouquet di dorsi si
amplia con “@lfa”, “costola” del quotidiano dedicata all’ informatica e all’ hi-tech (che debutta in edicola il 14 gennaio con un’intervista al
ministro dell’ Innovazione Lucio Stanca) e con
“Plus”, il nuovo dorso del sabato (in formato
tabloid) che si occupa di finanza e risparmio.
A caratterizzare la discussione politica italiana, in questo periodo, è la possibile modifica
all’ articolo 18 della legge 300/70, lo statuto
dei lavoratori, a cui il governo Berlusconi sta
pensando. Il dibattito sull’articolo 18 è bruscamente interrotto dall’ assassinio di Marco
Biagi, uno dei consulenti del Ministro del welfare Maroni. Biagi, docente di diritto del lavoro all’ Università di Modena ed editorialista de
Il Sole 24 Ore, viene ucciso da un commando delle Brigate Rosse il 20 marzo 2002.
All’indomani dell’ accaduto, Gentili parla di
fortissimo colpo inferto alla democrazia italiana
e alla convivenza civile e successivamente
pubblica uno speciale dal di 10 pagine dal titolo “Per le riforme - contro il terrorismo” che
ripercorre la storia professionale del collaboratore ucciso attraverso la ripubblicazione dei
più recenti editoriali, tutti dedicati al tema delle riforme per il mercato del lavoro.
L’allarme attentati, anche a distanza di mesi
dall’ omicidio Biagi, è sempre alto. L’8 gennaio
2003, il direttore Gentili è protagonista di un
sospetto inseguimento per le vie di Milano da
parte di una moto con a bordo due persone.
La gravità dell’episodio fa tornare alla ribalta il
problema delle scorte alle personalità a rischio attentati, soprattutto alla luce dei continui ritrovamenti di pacchi esplosivi e volantini
di minacce alle istituzioni. Solo in seguito all’arresto di Nadia Lioce del 3 marzo 2003, che
ha permesso il successivo smantellamento
delle nuove Brigate Rosse, responsabili degli
omicidi D’Antona e Biagi, il pericolo attentati
si è ridotto progressivamente.
La situazione in Iraq dopo l’inizio della “guerra preventiva” anglo-americana, il crack finanziario di Cirio e Parmalat e la “bocciatura” della prima stesura della legge Gasparri sul riasORDINE
3
2006
Per saperne di più:
· Piero Bairati - Salvatore Carrubba, La Trasparenza
difficile, Sellerio Editore, Palermo, 1990.
· Paolo Murialdi, Storia del giornalismo italiano,
Il Mulino Editore, Bologna, 1996
· Paolo Murialdi, La Stampa italiana - dalla liberazione
alla crisi di fine secolo, Laterza Editore, Bari, 1995
· Franco Abruzzo, Codice dell’ Informazione, Centro
Documentazione Giornalistica Editore, Roma, 2003
setto del sistema radiotelevisivo caratterizzano la cronaca e i commenti del quotidiano durante il 2003. L’evoluzione del progetto editoriale, nel frattempo, continua con la nascita
delle edizioni locali de Il Sole 24 Ore.
Il 2004 e l’arrivo di de Bortoli
Il 2004 inizia con una grande novità per Il
Sole 24 Ore. In primavera, infatti, il giornale si trasferisce, dopo quasi vent’anni in via
Lomazzo, in via Monterosa 91. La nuova
sede, più ampia rispetto alla precedente,
sorge a metà strada tra San Siro e la Fiera
di Milano ed ospita tutti i 1200 dipendenti
del gruppo editoriale. A realizzare il progetto dell’opera è Renzo Piano.
L11 marzo, proprio nel giorno nel quale Al
Qaeda torna a colpire l’occidente con la
strage di Atocha (quasi 200 morti, oltre
1.400 feriti), Luca Cordero di Montezemolo
viene eletto nuovo presidente della Confindustria con un consenso quasi plebiscitario: 126 voti a favore su 155. Il passaggio
ufficiale di consegne con D’Amato avviene
ufficialmente due mesi dopo, il 26 maggio,
in occasione della seduta pubblica dell’assemblea della Confindustria.
La progressiva apertura della Repubblica
Popolare Cinese al libero mercato porta Il
Sole 24 Ore a rivedere la sua presenza in
Estremo Oriente: il 29 aprile 2004, infatti, il
quotidiano economico milanese è il primo
quotidiano italiano ad aprire un ufficio di
corrispondenza nella nazione più popolata
al mondo. All’inaugurazione della nuova sede di Pechino, il vicedirettore Fabi spiega
così i motivi che hanno portato a questa
decisione: La Cina in questi ultimi anni è
profondamente cambiata… per il nostro
giornale è diventato indispensabile seguire
questo fenomeno che sta avendo un forte
impatto sulle aziende italiane… Inoltre potremo fornire tutta una serie di informazioni utili alle nostre imprese che stanno vivendo questa fase di boom dell’economia
cinese con un misto di timori e curiosità.
L’ingresso di Montezemolo produce presto
cambiamenti nella società editrice. I nuovi
vertici di Confindustria, infatti, ridisegnano
quasi interamente il consiglio di amministrazione, ora presieduto da Innocenzo
Cipolletta. A garantire la continuità con la
passata gestione rimangono solo il vice
presidente Cerutti (nelle fasi iniziali) e l’amministratore delegato Cerbone. Inoltre, si
fanno sempre più insistenti le voci su un
presunto allontanamento di Gentili dalla direzione del quotidiano per fare spazio a
Ferruccio de Bortoli, ex direttore del
Corriere della Sera. I nuovi vertici della casa editrice devono affrontare una situazione nuova per il quotidiano: dopo un’ascesa
costante fin dalla sua nascita, che lo ha
portato a raggiungere il traguardo delle
400.000 copie vendute, Il Sole 24 Ore ha
subito una flessione in edicola che lo ha riportato sotto questo tetto di vendite. Anche
gli abbonamenti, che rappresentano il “nocciolo duro” dei lettori, sono diminuiti per
un’operazione di bonifica che ha cancellato
inutili duplicazioni: ora sono scesi a
165.000. C’è chi, come il quotidiano Libero,
parla apertamente di crisi del Il Sole 24
Ore: secondo Nino Sunseri, sommando gli
abbonamenti e le vendite in edicola, il quotidiano di via Monterosa non supera le
300.000 copie, traguardo che aveva stabilmente raggiunto sin dalla metà degli anni
ottanta. I dati diffusi dall’editore, però, sono
sensibilmente diversi, anche se confermano una flessione rispetto a qualche anno fa:
poco più di 384.000 copie vendute nel periodo settembre 2003 - agosto 2004.
Quali sono i motivi di questo calo? Il binomio Gentili-Guidi ha indicato come causa
principale la crisi dei mercati finanziari
mondiali post 11 settembre, crisi che sta
causando difficoltà anche ad altre realtà vicine a Il Sole 24 Ore come il gruppo Class
o il Financial Times. Da più parti, però, si è
riscontrata una accentuazione dei temi della politica (con un taglio fin troppo filo-governativo) a scapito delle tematiche economico-finanziarie che, stando ai risultati delle vendite, non ha pagato. Ne è la prova
che, quando il quotidiano si è presentato in
edicola con allegati “di servizio” dedicati alla riforma fiscale o al condono, ci sono stati picchi di vendita di circa 60.000 copie. La
natura di “foglio di servizio”, quindi, contiORDINE
3
2006
· Vieri Poggiali, Il giornalismo economico, Centro
Documentazione Giornalistica Editore, Roma, 2001.
· Gerolamo Fiori, L’ informazione economica,
in V. Castronovo-N.Tranfaglia (a cura di), La stampa
italiana nell’ età della TV, Laterza Editore, Bari, 1994.
· Fabrizio Galimberti, Riccardo Sabbatini, Gian Luigi
Simone (a cura di), Come si legge Il Sole 24 Ore, sesta edizione, Il Sole 24 Ore libri, Milano, 2001
nua ad essere la linfa vitale de Il Sole 24
Ore anche nel ventunesimo secolo.
Il già paventato avvicendamento Gentili de Bortoli avviene ad inizio il 10 gennaio
2005, quasi contemporaneamente a quello
della chiusura della redazione di “24 Ore
TV”.
De Bortoli, nel presentarsi ai suoi nuovi lettori, è estremamente chiaro nell’indicare
quelle che saranno le linee guida della sua
direzione: Europa, libera concorrenza, difesa della legalità e dell’interesse comune, difesa dell’istituzione mercato inteso come
insieme di regole e trasparenza e non come luogo di scorrettezze e avidità. Il suo
editoriale non dà adito ad interpretazioni: il
neodirettore parla apertamente di libertà
economica appannata in Italia, realtà che il
più grande quotidiano economico del
Paese, da sempre orientato verso il futuro
e non verso la logica del declino, non può
accettare.
La situazione, per quanto difficile, non è irrisolvibile: de Bortoli ripone la sua fiducia
soprattutto in quella parte dell’Italia che si
batte ogni giorni nei mercati globali coniugando coraggio, fantasia, rischio e passione. Il Sole 24 Ore deve, quindi, operare per
non lasciare soli coloro che sorreggono con
la loro impresa e con il loro lavoro l’intero
sistema nazionale. Secondo il neodirettore,
per riuscire in questo obiettivo, Il Sole 24
Ore non deve essere solo un quotidiano,
ma una vera e propria istituzione che custodisce un bene pubblico fondamentale
per la democrazia: la qualità dell’ informazione.
Tra i tanti richiami di de Bortoli, colpisce,
inoltre, il rilancio della proposta di quotare
in Borsa l’azienda editoriale (… e mi auguro che Il Sole possa percorrere, in futuro, la
via della quotazione e di un’azionariato più
diffuso). Forse potrebbe essere proprio
questa la via per rilanciare un quotidiano
che vive con difficoltà il suo rapporto con la
proprietà. Nonostante tutti coloro che si sono avvicendati alla sua guida hanno sempre sottolineato l’assenza di pressioni da
parte dell’ editore, è evidente il fatto che negli ultimi anni una delle prime preoccupazioni dei neo eletti presidenti della Confederazione degli industriali sia stata quella di
indicare personalmente il direttore de Il
Sole 24 Ore. La quotazione in Borsa, oltre
che a consentire un maggiore afflusso di risorse finanziarie, permetterebbe di approssimarsi ancora di più a quel concetto di trasparenza da sempre presente nella storia
del giornale, garantendogli così una maggiore credibilità agli occhi del suo pubblico
e a quelli dei potenziali lettori che, per diversi motivi, stentano ancora ad avvicinarsi
al quotidiano di via Monterosa.
Lidea della quotazione non è certo nuova:
Locatelli prima ed Auci poi, in virtù del ruolo de Il Sole 24 Ore nel panorama giornalistico italiano, avevano mandato espliciti segnali all’editore in questo senso; per un motivo o per l’altro, però, non se ne è fatto
niente. L’evoluzione del mercato dei media
in Italia avutasi in questi anni e la trasformazione de Il Sole 24 Ore Spa in una fabbrica di notizie multimediale e multicanale,
però, potrebbero spingere i vertici della casa editrice a compiere questo passo. I suoi
più grandi concorrenti italiani sono tutti quotati in Piazza Affari. Le nuove sfide che attendono l’editore confindustriale richiederanno in futuro maggiori sforzi finanziari,
sforzi non sempre facili da sostenere.
La quotazione in Borsa, quindi, potrebbe
essere la vera novità del futuro per Il Sole
24 Ore. Il sostegno del direttore ed una amministrazione più disponibile su questo tema rispetto al passato consentirebbero il
raggiungimento di una trasparenza meno
“difficile” rispetto ad oggi.
· Gianfranco Fabi, Appunti per la conversazione
sul giornalismo economico e “Il Sole 24 Ore”, Bolzano
17 marzo 1995.
· Piero Meucci - Luca Paolazzi (a cura di), Economia e
Giornalismo, Il Sole 24 Ore libri Editore, Milano, 2004.
· Riccardo Staglianò, Giornalismo 2.0 Fare informazione al tempo di Internet, Carocci
Editore, Roma, 2002.
Internet in tempestività e interattività.
Già nel 1998, agli albori di questa rivoluzione (almeno in Italia), il professor Francesco Giavazzi, con un articolo sul Corriere della Sera ha sollevato il problema
del futuro della stampa. Giavazzi ritiene
quantomeno arduo pensare che i giornali
scompariranno, ma è convinto che riusciranno a sopravvivere solo quelli che, …
utilizzando un’unica fabbrica di informazioni, saranno in grado di distribuirle attraverso canali diversi: un quotidiano nazionale,
una rete di giornali locali, anche Internet e
le televisioni.
Dalle parole di Giavazzi risulta chiaro come il futuro sia nella multimedialità e nella
multicanalità dell’informazione. Il Sole 24
Ore ha sposato questa ottica. La crescente ascesa di consensi del quotidiano ed i
buoni risultati ottenuti dalle edizioni di settore hanno reso il giornale abbastanza solido economicamente per poter affrontare
questa trasformazione. In meno di 10 anni
la società editrice ha creato un portale
web, una radio, un news magazine e una
televisione satellitare che, insieme alla
agenzia di stampa Radiocor, costituiscono
il nucleo centrale della “fabbrica di notizie”
de Il Sole 24 Ore.
Il percorso de Il Sole 24 Ore è, almeno per
quanto riguarda l’Italia, abbastanza singolare. Il settore della comunicazione conta
nelle sue file altri importanti gruppi come
Mediaset, Rai, Rcs, Telecom Italia e
L’Espresso, tutti operanti in diversi segmenti del mercato. A differenza di queste
realtà, ingranditesi negli anni grazie ad assorbimenti di società già esistenti, Il Sole
24 Ore è entrato negli altri segmenti creando nuove strutture per distribuire nuovi prodotti.
La sfida dell’informazione, quindi, si svolge
oggi su più fronti e porta realtà a prima vista diverse a confrontarsi apertamente per
catturare l’attenzione del pubblico. Ed è
una sfida doppiamente difficile ed altrettanto stimolante per Il Sole 24 Ore, data la
crescente importanza delle informazioni
economiche (che ha portato tutti i grandi
gruppi a potenziare la loro offerta in questa
nicchia del mercato) e la differente politica
societaria (sono tutte società quotate in
Borsa).
Enrico Simone Benincasa
Ordine/Tabloid
periodico ufficiale del Consiglio dell’Ordine
dei giornalisti della Lombardia
Poste Italiane SpA Sped.abb.post. Dl n. 353/2003
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Anno XXXVI - Numero 3, Marzo 2006
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Il progetto Il Sole 24 Ore
come fabbrica di notizie
La crescente globalizzazione dei mercati e
la nascita di nuovi media come Internet a
cui abbiamo assistito negli ultimi anni hanno prodotto effetti in tutti i settori dell’economia, compreso quello dell’editoria.
Come già era accaduto negli anni cinquanta con la nascita del mezzo televisivo,
in molti si sono posti interrogativi sul futuro dei giornali e dei quotidiani, impossibilitati a competere con un mezzo come
Stampa Stem Editoriale S.p.A.Via Brescia, 22
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La tiratura di questo numero è di 24.600 copie
Chiuso in redazione il 28 febbraio 2006
23 (27)
di Marianna Vazzana
TESI DI LAUREA
Corrado Alvaro è conosciuto più come scrittore che come giornalista, per molti è solo l’autore di Gente in
Aspromonte e di altri racconti. Eppure, la sua è stata
una vita dedicata al giornalismo prima che alla letteratura; il professor Giuseppe Rando, docente di letteratura italiana dell’Università di Messina, l’ha definito “primo grande ‘inviato’ del giornalismo italiano” e ha saputo mostrare che molte sue opere narrative siano nate
in realtà da articoli scritti per la stampa.
Scrittore e giornalista: Corrado Alvaro è stato entrambe le cose.
Basta un piccolo spunto, un evento per iniziare a scrivere; mentre lo scrittore, però, è più libero, ha il privilegio di seguire i propri percorsi mentali, la propria fantasia, e di fissare anche e soprattutto emozioni, il giornalista deve concentrarsi su quanto realmente accade, su
ciò che gli viene assegnato, e non può esprimere sensazioni; mentre l’uno scrive “in piedi”, l’altro lavora “seduto”.
Non è detto, però, che entrambi non possano vivere al-
l’interno della stessa persona: alla base c’è la scrittura.
Nato il 15 aprile 1895 a San Luca, un piccolo paese sul
versante jonico dell’Aspromonte in provincia di Reggio
Calabria, Corrado Alvaro si è accostato presto ad essa: i primi racconti e poesie pubblicati risalgono ai tempi della scuola superiore, il prestigioso collegio di
Mondragone a Frascati, dal quale il sanluchese è stato espulso dopo i primi cinque anni di ginnasio perché
sorpreso a leggere testi considerati, allora, proibiti
(l’Intermezzo di rime di D’Annunzio).
Sono trentacinque gli anni, dal 1921 al 1956, che
Corrado Alvaro ha trascorso scrivendo in modo continuativo per i giornali, accostandosi però al mondo del
giornalismo fin dal 1914.
Si è cercato, con questa tesi, di evidenziare la sua vasta produzione giornalistica, offrendo prima una panoramica di tutte le testate per cui ha lavorato, quasi un
centinaio, e concentrandosi poi in modo più approfondito sulle collaborazioni in tre principali quotidiani italiani: Il Mondo, il Corriere della Sera e La Stampa.
Corrado Alvaro giornalista
Pubblichiamo la sintesi di una tesi di laurea su Corrado Alvaro recentemente discussa da
Marianna Vazzana all’Università Cattolica di Milano (facoltà di Lettere e filosofia, corso di
Laurea in Linguaggi dei media, relatore il prof. Giovanni Santambrogio)
I primi giornali per cui Alvaro ha scritto, nel
1914, sono il Nuovo birichino calabrese e la
Rivista d’Oggi; nel 1916 è iniziato il rapporto
del sanluchese con il Resto del Carlino, conclusosi nel 1923; altre testate con le quali ha
collaborato nel corso della vita sono il Tempo,
il Popolo di Roma, la Riviera Ligure, Cinema,
Omnibus, l’Unità, ma anche riviste straniere
come Confluence, prestigioso periodico
dell’Università statunitense di Harvard, sul quale Alvaro ha pubblicato nel 1954 il saggio Rich
Literature and poor life, dedicato ai problemi
dell’Italia meridionale.
Il sanluchese ha esordito sul Mondo politico
quotidiano nel 1922, anno della fondazione del
giornale stesso, avvenuta per opera di
Giovanni Amendola, cogerente con Cianca.
Amendola, che apparteneva alla schiera degli
intellettuali meridionali, voleva che il suo giornale avesse un orientamento liberale in senso
democratico e antifascista. Per Il Mondo,
Alvaro ha scritto in totale centocinquantadue
articoli: pezzi di critica letteraria, teatrale e d’arte, ma anche di attualità e di politica. Ha poi
collaborato stabilmente con la Stampa dal
1926 al 1952, dopo una breve esperienza nel
1921, e con una lunga interruzione tra il 1943
e il 1947. È per questa testata che il sanluchese ha realizzato il maggior numero di articoli:
cinquecentosessantanove. Per conto della
Stampa ha intrapreso, dal 1930, una serie di
viaggi come inviato: in Germania, in Francia, in
Danimarca ma anche in Italia. Il sanluchese ha
stabilito poi con il Corriere della Sera rapporti
continuativi a partire dal 1943, dopo una breve
collaborazione tra il 1919 e il 1920 e nel 1942,
pubblicando complessivamente sulla prestigiosa testata milanese centotrentacinque pezzi,
di cui quarantuno possono essere considerati
racconti e gli altri novantaquattro appartengono alla categoria dei saggi.
Elzeviri, reportage, scritti di cronaca e di genere saggistico - oltre che racconti e novelle, pubblicati a puntate e successivamente raccolti in
volume - realizzati dal sanluchese, hanno arricchito le pagine culturali di quotidiani e periodici.
Soffermarsi sui fatti,
sugli oggetti e sulle persone
Importanza in questo lavoro è stata data anche alla personalità di Alvaro giornalista, accostandola a un minerale che esiste in natura,
chiamato “Pietra di Bologna”; si tratta di una
pietra particolare: se rimane esposta al sole
per diverse ore, una volta al buio può sprigionare la luce; i raggi la colpiscono e poi continuano a illuminare prendendo la sua forma. Il
sanluchese può essere paragonato alla pietra,
considerando il suo osservare sempre con attenzione quanto lo circondava, il suo soffermarsi sui fatti, sugli oggetti, sulle persone, restituendo poi al lettore l’immagine, vista attraverso i suoi occhi. Come il minerale, immagazzinava la luce e poi la usava per illuminare
intorno a sé. Ancora oggi il bagliore è trasmesso con le sue parole, le riempie e ne assume la forma. Arriva al lettore passando dentro di lui. Walter Pedullà ha scritto, nella prefazione agli Scritti dispersi a cura di Mario Strati:
“I suoi lettori sapevano sempre e subito cosa
succedeva di nuovo e di importante nel mondo. Alvaro era andato a vedere di persona
eventi e ambienti che interpretava con una sagacia che non finisce di stupire. […] Aveva let-
24 (28)
to quanto c’era in circolazione per conoscere
la storia e la cultura dei popoli che visitava, ma
si fidò innanzitutto del proprio occhio. Prime le
cose viste, poi quelle pensate [e infine scritte
per i lettori]”.
Un grande poeta ha
sempre delle idee fisse
Per inquadrare la sua personalità, il suo modo
di riflettere sugli eventi, bisogna considerare
sempre il particolare momento storico all’interno del quale ciascun articolo si colloca: le idee
sul cinema sono vicine al pensiero della
Scuola di Francoforte; alcune interpretazioni
che oggi possono sembrare scontate non lo
sono affatto se si pone attenzione al periodo
della loro formulazione. Nel corso del tempo il
calabrese si è trovato a cambiare idee, sia in
politica che in arte e, d’altro canto però, come
afferma Walter Pedullà, “molte sue idee conservano oggi la capacità d’urto che avevano
ieri […], un grande poeta ha sempre delle idee
fisse. Alvaro ne ha parecchie per le quali si può
dimenticare il giorno in cui le ha scritte”.
Adesso molti suoi pensieri sembrano scontati,
ma c’è da sottolineare che quando li ha esposti si respirava tutta un’altra atmosfera; a sostegno di questa affermazione, basti citare il
suo giudizio positivo su Pirandello, oggi unanime ma contrastato ai suoi tempi; oppure anche
una sua frase del 1929 riferita ai tedeschi, che
suona come un presentimento: “Ballavano come se marciassero”. La sua acuta sensibilità lo
ha trasportato dunque in avanti: è sorprendente la somiglianza che si nota leggendo un suo
pensiero, scritto in un testo del Nostro tempo
e la speranza, pubblicato nel 1952, Pratica di
letteratura, e alcune frasi del giornalista Gianni
Riotta in un articolo apparso sul Corriere della Sera il 27 aprile 2005: Riotta sostiene che,
se le vendite dei giornali diminuiscono, la colpa non è tutta della gente che non legge, ma
anche di chi confeziona e gestisce tali prodotti: “troppo spesso editori e direttori trattano i lettori da stupidi”; e Alvaro già aveva individuato
il problema: “i lettori si fanno da sé, maturano,
e non bisogna premerli né sbigottirli. Bisogna
non dare ad essi un sospetto d’inferiorità”.
Evidente è poi l’attaccamento di Alvaro ai valori di un tempo: la civiltà delle arti meccaniche
(tra le quali il sanluchese ha collocato il cinema, la fotografia, la radio) concepita come negativa e la denuncia dei costumi sociali sempre più volgari sono temi ricorrenti nei suoi
scritti giornalistici.
Ironia e sagge riflessioni spesso convivono
nello stesso testo; Alvaro era anche in grado di
passare da avvenimenti mondani a critiche
teatrali e letterarie, da descrizioni del suo paese a evocazioni di miti: tutti segni della sua
grande cultura, che gli ha sempre consentito di
valutare in modo approfondito ogni situazione
e gli ha garantito un posto tra gli intellettuali
meridionali.
Il passo successivo del lavoro è stata l’analisi
di alcuni articoli scritti da Corrado Alvaro per Il
Mondo, La Stampa e il Corriere della Sera: è
questa parte il cuore della tesi. Per selezionare gli scritti ed esaminarli in modo approfondito, ci si è serviti dei cinque valori individuati da
Italo Calvino nelle Lezioni americane (risalgono al 1985), valori che chi scrive, sia egli uno
scrittore o un giornalista, dovrebbe sempre
avere in mente: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Si è voluto dimostra-
re come, leggendo gli articoli del sanluchese
attraverso le cinque categorie, emergano molti aspetti di Corrado Alvaro giornalista. Ci si
rende conto del fatto che ci siano dei temi ricorrenti, degli oggetti di indagine, dei modi di
pensare e di scrivere che ritornano spesso nel
corso del tempo e nei diversi quotidiani; ciascuno di questi può essere associato ad ognuno dei cinque concetti individuati da Calvino e
non solo: alla luce delle cinque parole chiave si
può comprendere il linguaggio e lo stile del
giornalista calabrese.
Per la “leggerezza” sono stati scelti dei testi in
cui Alvaro si è soffermato sulla condizione femminile, dato che per il sanluchese la donna incarna tale valore, riesce a mantenere la leggerezza che la caratterizza anche quando è
schiacciata dal peso della fatica; nel Nostro
tempo e la speranza ha descritto le donne meridionali che portano sulla testa un carico di
cinquanta o cento chili, un sacco di farina, una
balla di carbone, un fascio di legna, col viso
grondante di sudore che le mani occupate a
equilibrare il carico non possono asciugare,
commentando: “La donna, quella che porta fino a un quintale di peso sulla testa, ha ancora
la mano lieve a tessere, cucire, custodire un
bambino” […]. La leggerezza si sposa anche
con lo stile del giornalista, volto a indagare le
situazioni con sguardo ironico, discutendo così con “leggerezza” anche di argomenti seri,
come la crisi dei valori.
La “rapidità” fa pensare ai molti viaggi intrapresi da Alvaro nel ruolo di inviato: diventava per i
lettori un testimone di realtà lontane e diverse,
riflettendo però di volta in volta in modo soggettivo sulle particolari esperienze compiute; il
modo di scrivere è quindi incentrato su questo
doppio aspetto. In ogni Paese visitato, Corrado
Alvaro partecipava della vita che si svolgeva
intorno a lui e, poi, diveniva tramite tra quella
cultura e gli italiani che leggevano i suoi articoli; nello stesso tempo, si soffermava su alcuni aspetti di ciò che poteva osservare, innescando il meccanismo della riflessione da tradurre nella scrittura.
Sfruttare le sfumature
e la varietà della lingua
A proposito di “esattezza”, Calvino parla di peste del linguaggio, riferendosi al fatto che oggi
si tende ad esprimersi con pochi, usuali termini: c’è una parola adatta per ogni circostanza,
“esatta”, e bisogna saper sfruttare la varietà e
le sfumature della propria lingua; Alvaro ha
mostrato di esserci riuscito, sapendo passare
da un registro all’altro, citando eventi mondani
e passi di famose opere letterarie, termini gergali e colti al momento giusto. Come antidoto
alla malattia, Calvino propone la letteratura e il
sanluchese ne ha parlato inserendola spesso
come argomento nei quotidiani (senza contare
che è stato un grande scrittore, ma in questa
tesi è stato preso in considerazione Corrado
Alvaro giornalista).
Per quanto riguarda la “visibilità”, si è fatto riferimento a dei pezzi giornalistici sul cinema e
sul teatro; importante è saper utilizzare una
scrittura icastica: spesso si ha l’impressione,
leggendo i testi di Alvaro come quelli di qualunque altro bravo scrittore, di “vedere” nella
propria mente ciò che si legge sulla pagina. La
descrizione del sanluchese di una donna incontrata in Turchia, in un reportage dal titolo
Alberghi d’Oriente, apparso sulla Stampa nell’aprile 1933, rende bene l’idea: “C’era nell’alORDINE
3
2006
L’Aspromonte
in alcune immagini
del primo Novecento.
Qui sotto, lo scrittore
calabrese in una foto
del dopoguerra
e una sua gustosa
caricatura.
Una rilettura alla luce delle
“lezioni americane” di Italo Calvino
bergo una timida donna che veniva da fuori e
faceva i servizi di pulizia.Vestita di nero, con un
fazzoletto bianco sulla testa di cui stringeva le
cocche fra i denti in modo che le coprisse la
bocca e la metà inferiore del viso, si muoveva
come in sogno, non parlava una parola che io
capissi, e tuttavia qualche volta, ad occhi bassi voltata dall’altra parte, mi faceva qualche domanda”. Nella mente di ciascuno si è formata
un’immagine, in base alle parole appena lette;
tuttavia la signora vestita di scuro non avrà per
tutti lo stesso aspetto, anzi, è molto probabile
che ciascuno si sia fatto un’idea diversa. È
questa la forza della scrittura, capace di risvegliare la fantasia in ogni uomo. Sono parole di
Corrado Alvaro: “Pagine famose e articoli di
giornale hanno suscitato grandi reazioni, movimenti di solidarietà, slanci collettivi. È che esse si affidano alla fantasia, lasciando al lettore
il margine perché esso crei l’avvenimento col
suo colore, la sua drammaticità, il suo significato”.
Una scrittura che segue
i percorsi mentali
La molteplicità fa pensare a una grande rete,
come Internet, in cui tanti nodi si collegano gli
uni agli altri. Alvaro è autore di parecchi articoli in cui la scrittura segue i percorsi mentali,
passando da un argomento all’altro, spaziando
tra idee che apparentemente non hanno nulla
in comune ma che, esaminate in profondità,
mostrano sempre un contatto, una parola, che
le lega al concetto precedente. All’interno di
ogni articolo, numerosi sono i collegamenti, come se il sanluchese volesse arrivare a toccare
ogni punto dell’universo; a questo proposito, si
potrebbe raccontare un simpatico aneddoto:
“Debenedetti, recensendo sull’Unità un’opera
del narratore calabrese disse suppergiù che
Alvaro tentava di abbracciare con la sua opera tutto il mondo, ma era come se avesse le
braccia troppo corte. Il bello è che il ‘difetto’ c’era realmente, ‘fisicamente’, cioè le braccia di
Alvaro non erano abbastanza lunghe, ma
Debenedetti, che non conosceva di persona lo
scrittore, per indicare un limite si era servito di
una metafora […]”.
È riportata di seguito l’analisi di un articolo (all’interno della tesi sono dieci quelli presi in esame, due per ogni categoria calviniana), scritto
da Corrado Alvaro per il Corriere della Sera a
Natale del 1953: “Perfino le pastorelle del
presepio oggi imitano le ‘pin-up girls’”
(Corriere della Sera, 25 dicembre 1953)
È l’elzeviro del giorno di Natale del 1953.
Corrado Alvaro parte da un avvenimento che
risale all’anno passato: la donazione di un presepe all’italiana per la chiesa della comunità
cattolica alla città di Upsala, in Svezia. Il primo
messaggio che il giornalista lancia è il distacco culturale tra l’Italia e il resto dell’Europa; la
divergenza è rappresentata simbolicamente
dal fatto che, per poter montare il presepe italiano, in Svezia hanno bisogno che gli siano inviate le istruzioni, non conoscono il modo di
“mettere insieme un così esotico popolo di figure”, non sanno “quello che significavano, e
che cosa fosse quello che portavano, e perché
lo portavano”. Nel Paese straniero giunge la
tradizione italiana; una volta seguite le indicazioni, il presepe di Upsala diventerà mèta di
viaggi di curiosi delle città vicine. Così in Svezia
non sono inviate solo statuette, ma anche l’aORDINE
3
2006
ria del nostro Paese: “È un villaggio italiano
fuori del tempo”.
Emerge poi, nei paragrafi successivi, un altro
ricorrente tema alvariano: la polemica contro la
nuova società, quella delle macchine, che
spazza via la tradizione e anche i valori di un
tempo.
Agli antichi pastorelli, aggraziati, ideali, in uno
stato di sognante riposo, a cui, se si dovesse
prestare un linguaggio, si darebbe quello di
Virgilio e di Poliziano, si sono sovrapposti fino
a farli scomparire del tutto, i “pupazzi” moderni. “Dietro ad essi è la poesia delle selve, dei
ruscelli nei luoghi romiti, il sonno e il risveglio
di Erminia tra i pastori”: è un’immagine di incantevole leggerezza. Alvaro descrive i personaggi popolari antichi, soffermandosi sugli anziani ma soprattutto sulle donne: “Mettendo insieme un gruppo di donne avevano l’aria di discorrere piacevolmente e con garbo […]. Sono
le pastorelle giovani che portano la fiasca del
latte, le ricottine, le uova; e sono le povere vecchie che trascinano il fascio di legna”.
La nuova estetica si diffonde
anche nei piccoli villaggi
L’autore si chiede come sia potuto accadere
che, nei piccoli villaggi dove gli artigiani producono i personaggi, si sia diffusa rapidamente
una nuova estetica, quella che ha portato a far
“comparire, un certo anno, pupazzi espressionisti”, ma in cuor suo conosce già la risposta:
l’informazione arriva ovunque; l’artigiano potrebbe aver solo osservato una pagina illustrata e, anche se non avesse mai visto un esemplare dell’arte del tempo, sarebbero bastati “i
manifesti sui muri, la pubblicità dei giornali, il
cinema, la stessa estetica della fotografia” a
fargli conoscere le novità. A sostegno di questa sua ipotesi, Alvaro porta come esempio il
cambiamento, dovuto al gusto moderno, del
concetto di bellezza femminile: tipi di fisionomie diversi da quelli del passato sono stati ammessi nella categoria della bellezza; e il mutamento si rispecchia nelle stesse statuine natalizie: “Non vorrei avere l’arte di esagerare, ma
venne anche nei pupazzi del presepe l’ondata
del realismo”.
I nuovi personaggi sono di plastica, più leggeri di quelli antichi fatti di creta. Allora dov’è la
leggerezza delle statuine che rappresentano la
tradizione, se sono più pesanti di quelle moderne? Italo Calvino mette in guardia dal tipo
di leggerezza dei nuovi pupazzi: esistono due
tipi di leggerezza, una è della pensosità e, l’altra, è della frivolezza. Le figurine moderne sono leggere perché sono come svuotate: “Si industrializzavano, e diventavano simboli senza
verosimiglianza, senza pena e senza gioia,
con la lustra età delle vernici nuove”; e le statuette tradizionali racchiudono i valori del passato: possiedono la “leggerezza della pensosità”. Le nuove pastorelle sembrano uscite “dalle pagine dei giornali illustrati, dai film del realismo erotico-sociale, dalle fotografie balneari
delle pin-up girls. Pastorelle di cui il vento muove alquanto la veste, e ne scopre le gambe delineandole fino alle coscine”. Le pastorelle tradizionali incarnano invece la leggerezza autentica della donna, che ha in sé il peso della
fatica e del lavoro; è questa pastorella, è questa donna che è capace di sollevarsi “sulla pesantezza del mondo - sono parole di Calvino-,
dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che mol-
ti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva (nel nuovo presepe c’è “perfino
lo zampognaro con un’aria di violenza”), scalpitante e rombante, appartiene al regno della
morte, come un cimitero d’automobili arrugginite”.
È rimasto solo un figurinaio calabrese a realizzare veri pupazzi di creta, ma sono pochi quelli che apprezzano ancora “la gentilezza delle
donne modellate con amore e rispetto, i vestiti di cotonina a fiori, i visi gentili assorti in contemplazione”, talmente pochi che il baracchino
che li vende è diventato mèta di raffinati critici
d’arte. A livello sintattico i periodi sono brevi, ad
esempio: “I più belli sono in uno stato di sognante riposo”; “non si trovano nella folla contadinesca dei pupazzi nelle baracche”; “quei
pupazzi popolari di una certa gentilezza comparvero soltanto per un paio di anni”; “dunque,
vidi comparire, un certo anno, pupazzi espressionisti”; “e il baracchino è divenuto mèta di
qualche raffinato critico d’arte”. Il lessico è chiaro, anche se talvolta si fanno riferimenti a personaggi e a movimenti dando per scontato che
il lettore sappia di cosa si parla: “dramma religioso di Feo Belcari”; “in seguito all’esotismo,
negrismo, impressionismo, primitivismo nelle
arti e nella letteratura”; “e in alcuni mi pareva di
notare perfino parentele con Domenico
Theotocopuli detto El Greco”. Le parole straniere presenti nell’articolo sono scritte in corsivo e sono pin-up girls e grooms; non compaiono parole o frasi scritte in qualche dialetto.
“Bisogna ribellarsi
alla perdita di memoria”
L’articolo è costruito come una grande metafora: si parla di figure del presepe antiche e moderne per associare il passaggio dall’una all’altra categoria al cambiamento dei costumi e
dei valori nella società. Si stende per il testo
anche un climax discendente: Alvaro, dopo essere partito dal fatto (la donazione del presepe
alla città di Upsala), descrive le statuette tradizionali inquadrandole in modo positivo; trascura “le figurine ufficiali, accademiche, di grandi
dimensioni, e che sono uguali sempre”, per
approdare infine al disprezzo verso i pupazzi
moderni.
Di un senso dispregiativo nei confronti della
modernità è emblema anche il titolo: “Perfino le
pastorelle del presepio oggi imitano le ‘pin-up
girls’”; questa titolazione punta a catturare l’attenzione del lettore che, incuriosito dall’accostamento delle due immagini, è spinto maggiormente a leggere il testo sottostante.
Lo stile è personale anche se, piuttosto che su
espressioni spiritose, Alvaro si concentra su
giudizi e commenti: “Sono i soggetti su cui si
esercita meglio il realismo dei figurinai, nonché
una certa simbologia della vita”; “Siamo dominati inconsciamente dai fenomeni estetici e
delle arti”; “pare che anche i pastorelli facciano
parte di quel grande movimento attuale di fuga dalla condizione popolare, verso le aspirazioni della classe media e borghese”; “che pare il senso di tutti i conati rivoluzionari e delle
rivoluzioni moderne”.
Corrado Alvaro è stato un grande giornalista, e
questa tesi ne ha voluto valorizzare l’opera.
Per fare in modo che sia sempre ricordato, come ha affermato Franco Abruzzo, “bisogna ribellarsi a una collettiva perdita della memoria;
se si perde il filo della propria storia, si perde
anche la propria identità”.
25 (29)
LIBRERIA DI TABLOID
Carla Porta Musa
La ribelle incatenata
di Filippo Senatore
Il metodo creativo è favorito
da una prodigiosa memoria
interna, nozione portata alla
luce dal grande critico Gianfranco Contini.
Per il sommo poeta la sintesi
è: “... I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel
modo ch’e’ ditta dentro vo significando”...
Carla Porta Musa nel suo ultimo libro, La ribelle incatenata, sviluppa un respiro che
si percepisce dalla voce dell’io narrante maschile.
Questo afflato è la personificazione della memoria interna. La conduzione del racconto diventa magistrale nel
collegare generazioni, fatti e
sviluppi umani con un’armonia e una semplicità esemplari. La scrittrice con la sua
sintesi incalzante ricorda La
leggenda del santo bevitore
di Joseph Roth.
Il titolo rimanda all’eterna
condizione umana che oscilla tra inquietudine e rassegnazione.
È un dramma borghese che
si astrae dalla realtà pur alludendo agli sviluppi storici degli ultimi anni.
Gli eventi si svolgono in un
tempo imprecisato che per
deduzione potrebbe collocarsi negli ultimi cinquant’anni, tra Bellagio, Como e
Milano.
In questo microcosmo d’affetti e di luoghi i viaggi assumono una dimensione di devozione domestica, dove la
partenza e l’arrivo assumono momenti essenziali. La distanza del protagonista dall’io narrante rinvia ad altri
momenti la narrazione dei
fatti. Eventi essenziali si snodano nel tempo, scanditi da
silenzi e omissioni che alludono al banale scorrere del
tempo. L’azione dei protagonisti è lo svolgimento essenziale verso soluzioni nette, a
volte felici, a volte dolorose,
ma permeata da una linea
razionale coerente.
La parola risanatrice e lenitrice è forse il momento più alto e lirico della storia di
Carol. Con questo racconto
Carla Porta Musa riesce trasmettere un tracciato dell’etica del vivere sino all’epilogo
struggente, un viatico in cui il
lettore riscopre la propria
umanità.
Carla Porta Musa,
La ribelle incatenata,
Book editore,
pagine 83, euro 10,50
Mario Consani
Foto di gruppo
da piazza Fontana
di Marco Volpati
Di piazza Fontana non si sa
ancora tutto, ma molto è ormai chiaro, nonostante il nulla di fatto delle sentenze.
L’opinione prevalente (opinione autorevole poiché è comune ad un magistrato di
grande esperienza come
Gerardo D’Ambrosio e ad un
“padre” della Repubblica come lo scomparso Paolo
Emilio Taviani, politico addentro a molte segrete cose)
è che la strage non fosse
messa nel conto da chi guidò
la mano degli attentatori.
Quel pomeriggio del 12 dicembre le bombe furono cinque: tre a Roma, tra l’Altare
della Patria e la Banca
Nazionale del Lavoro, e due
a Milano, alla Banca
Nazionale dell’Agricoltura e
alla Banca Commerciale in
piazza della Scala.
Le tre bombe romane scoppiarono senza fare vittime. A
Milano, quella collocata alla
Commerciale non esplose;
l’altra, alla Banca dell’Agricoltura, uccise 17 persone e
ne ferì 84.
Alle 16,37, l’ora dello scoppio
micidiale, gli sportelli bancari
erano chiusi. La Banca dell’Agricoltura no: dopo l’orario
26 (30)
di apertura al pubblico, si trasformava in una specie di
borsa dei lavori e dei prodotti
agricoli, tutti i venerdì. Non è
certo, ma è possibile che gli
attentatori non lo sapessero.
Se questa è la verità, per indagare davvero su quei fatti
si deve studiare un disegno
diverso da quello della strage: un attacco contemporaneo, allarmante ma non tragico, che prende di mira un
luogo simbolo dell’Unità
d’Italia e un gruppo di istituto
di credito, immagine del capitale finanziario.
Su piazza Fontana si è scritto molto, e a lungo. Perché
allora un nuovo lavoro come
Foto di gruppo da piazza
Fontana del giornalista Mario
Consani? Perché non è facile tenere insieme la cronaca
e la storia, e anche lo scenario politico e sociale in cui si
muovevano gruppi eversivi di
destra estrema e servizi segreti deviati, o “paralleli”.
Questo volume ci riesce.
Consani, specializzato in
cronache giudiziarie, trae
dalle carte processuali l’essenziale per ricostruire in
modo agile - il libro è di 170
pagine - un quadro completo
dei fatti e delle indagini (e soprattutto dei depistaggi).
Preziose le tabelle che rias-
Mauro Forno
La stampa del Ventennio
Lo scorso anno ho avuto l’opportunità di leggere, e commentare per Tabloid, un interessante saggio di Mauro
Forno sul tema Fascismo ed
informazione. Prendendo come filo conduttore la biografia
di Ermanno Amicucci, Forno
tracciò le traversie, le evoluzioni, l’inquadramento del
mondo delle informazioni per
farlo adeguare ai voleri del
regima dittatoriale.
Ora l’Autore ritorna sull’argomento con questa nuova proposta, ancora più approfondita ed organica, dal cui contenuto si può meglio comprendere, ed in parte giustificare,
il progressivo allineamento ai
voleri del duce, degli organi di
stampa e dei loro estensori;
non avevano altre alternative
di sopravvivenza.
Con questo saggio Forno si
propone, sono sue parole, di
“compiere il passo successivo ed in certo senso decisivo
per ricavare (…) elementi sul
reale o presunta efficienza
del sistema dal punto di vista
delle esigenze e delle aspirazioni del regime”.
Ritorna a campeggiare in
questo racconto la figura di
Amicucci, giornalista di grande ingegno ma senza freni di
natura economica. La sua
Gazzetta del Popolo, quotidiano straordinariamente innovativo per quei tempi, veniva venduta a 15 cent., esattamente la metà del costo di
produzione; con buona pace
dell’Editore, la Sip, che rischiò il tracollo finanziario.
L’unico margine di competizione fra le testate giornalistiche del ventennio, con tutti i
paletti messi dal regime per
ottenere il loro totale controllo, tra veline, censure, limitazione di foliazione e degli
spazi-colonna da destinare
alla cronaca nera, restava
quello dedicato al raggiungimento di una migliore diffusione.
Il Corriere della Sera, ad
esempio, chiudeva l’ultima
edizione quotidiana alle due
di notte, per permettere di
ospitare la critica degli spettacoli teatrali della serata e
coprire così le esigenze della
città e del suo hinterland. Ma
la prima ribattuta usciva alle
dieci di sera per consentire al
giornale di raggiungere, con
un convoglio speciale composto da un locomotore e da
un vagone merci, il nodo ferroviario di Bologna, in tempo
per agganciarsi ai treni della
notte destinati alle principali
città della penisola.
Naturalmente le rotative, le
leggendarie Hoe, con la loro
potenzialità produttiva, consentivano la più ampia libertà
di manovra per presentarsi
puntuali a tutti questi appuntamenti.
Ancora, le edizioni straordinarie dei quotidiani dovevano
essere autorizzate dal Minculpop. Mi permetta l’Autore
di ricordare un episodio in cui
questa disposizione fu disattesa senza conseguenze disciplinari.
Accadde nel 1936, dopo la
proclamazione dell’impero,
quando Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri, tenne un
discorso nel cortile del
Castello Sforzesco di Milano
in collegamento con le antenne radio dell’allora Eiar.
Al Corriere della Sera il discorso fu così stenografato,
le linotype prepararono contemporaneamente il piombo,
la redazione stese un conciso commento in modo che
dopo alcuni istanti dalla conclusione dell’intervento di
Ciano le rotative potessero
stampare le copie di una edizione straordinaria.
L’autorizzazione fu elusa attraverso un fattorino del giornale, mandato nella contigua
via Lovanio, parallela di via
Solferino e sede del Popolo
d’Italia a “spiare” il momento
in cui le rotative del concorrente avessero cominciato
ad avviarsi. Appena ciò avvenne un automezzo del
Corriere portò le copie appe-
na stampate in piazza Castello per consegnarne una,
con la stesura completa del
discorso, allo stupefatto ministro. Un exploit miracoloso di
settant’anni fa!
L’analisi di Forno affronta per
la prima volta un importante
settore della stampa del ventennio, quello della buona
stampa, mettendo in risalto il
ruolo esercitato principalmente dai cinque quotidiani
cattolici allora sul mercato,
non tutti totalmente allineati
ai dettami del modello fascista. È un esame sereno cui
l’Autore dedica ben un quarto della sua ricerca.
Non comprendo invece le ragioni che hanno indotto
Forno a trascurare il ruolo importante esercitato dalla
stampa periodica del ventennio: intendo riferirmi ai settimanali Domenica del Corriere, Tribuna Illustrata, Illustrazione del Popolo, Famiglia Cristiana. Mi sarebbe piaciuto leggere il suo qualificato
punto di vista sulle ragioni del
successo, ad esempio, della
Domenica del Corriere, che,
durante il ventennio raggiunse la stratosferica tiratura di 2
milioni di copie, vendute in
tutto il mondo, con le didascalie delle celebri, bellissime tavole di Achille
Beltrame, in inglese, francese, tedesco e credo, spagnolo.
Mauro Forno,
La stampa del Ventennio.
Strutture trasformazioni
nello stato totalitario,
Rubettino Editore,
pagine 304, euro 18,00
sumono l’approdo dei processi (quasi tutti giunti ad
esiti definitivi, e deludenti), e
ricordano i nomi dei protagonisti di una vicenda che va
avanti da più di 30 anni e non
si è ancora chiusa; i loro spostamenti e i loro destini.
Tra i tanti dubbi che hanno
portato - legittimamente, e
chissà se giustamente - a
concludere gli iter processuali quasi senza colpevoli, il
lungo lavoro di ricerca dei
magistrati (e anche quello
dei giornalisti) ha fruttato anche certezze. La prima è che
quella bomba, come altre,
era opera di gruppi dell’eversione nera, collegati e coperti, prima e ancor più dopo
i fatti, da settori dei servizi
segreti. Primo fra tutti quell’anticipazione del ramo civile dell’intelligence nostrana
che portava il nome di
Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, ed era
governato dal prefetto Federico Umberto d’Amato (per il
quale è stato coniato il soprannome di Hoover italiano).
Il volume di Consani fornisce una mappa coordinata
di azioni di terrorismo che si
sanno collegate, ma i cui
nessi spesso sfuggono anche agli specialisti: le bombe
alla Fiera di Milano dell’aprile ‘69, quelle sui treni nell’agosto del medesimo anno, e
la strage di piazza Fontana;
e ancora l’attacco alla questura di Milano del 17 maggio ‘73 da parte del “presunto anarchico” Bertoli, e la
strage di piazza della Loggia
a Brescia, un anno più tardi.
I processi non hanno portato
ai colpevoli, quasi mai. Ma
hanno documentato il coinvolgimento di persone che
legano un fatto all’altro.
Consani aiuta anche a stabilire, attraverso il suo racconto, che il depistaggio ha ottenuto il proprio scopo. E che i
pentiti, come nei casi di mafia, sono un’arma a doppio
taglio: possono avvicinare
alla verità, ma anche renderla impossibile da raggiungere, confondendo le carte.
Martino Siciliano e Carlo
Digilio, comparsi sulla scena
processuale nell’ ultima fase
di indagini (quella di Milano,
pazientemente sviluppata
per anni dal giudice Guido
Salvini) sono sicuramente
implicati in piazza Fontana.
Però, con la tecnica del dichiarare e poi ritrattare, o del
confessare falsità ed esagerazioni mischiate alle cose
vere, sono serviti, soprattutto a Delfo Zorzi, rifugiato in
Giappone, per uscire indenne dalle sentenze.
Si diceva del depistaggio: gli
unici condannati definitivi di
tutta questa lunga storia sono il generale Gian Adelio
Maletti e il capitano Antonio
Labruna, i due uomini del
Sid. È definitivo che abbiano
intralciato il corso della giustizia. È accaduto qualcosa
di simile anche per Ustica: il
depistaggio ha raggiunto il
suo fine; una verità processuale completa non si è potuta conseguire; resta perseguibile soltanto l’opera di distruzione o inquinamento
delle prove.
Consani ci ricorda anche il
peso che ebbe piazza Fontana nel far maturare tra i
giornalisti una consapevolezza critica nuova. Fu con
quella vicenda che la stampa fece il proprio‘68.
Cronisti e commentatori dei
giornali indipendenti, che nei
primi momenti avevano accettato la versione ufficiale
del “mostro Valpreda”, si trovarono di fronte all’evidenza
che gli inquirenti potevano
mentire e negare la verità..
Certo, era già accaduto, anni prima, con Salvatore Giuliano. Ma Milano degli anni
‘60 era, o sembrava, lontana
nello spazio e nel tempo dalla Sicilia del banditismo.
La testimonianza gestita in
modo strano del tassista
Cornelio Rolandi, la morte
mai del tutto chiarita dell’anarchico Pinelli; la seconda
bomba di Milano fatta brillare in tutta fretta; le notizie arrivate tardi sulle borse acquistate a Padova; la misteriosa
comparsa, dentro la borsa
superstite, quella della
Banca Commerciale, di
frammenti di vetro che sembravano condurre ad una attività artigianale di Pietro
Valpreda.
Insomma, l’elenco di cose
difficili da credere fece cambiare mentalità al giornalismo; in particolare a quello
milanese.
Camilla Cederna, regina dei
reportage e commenti di costume, si converte alle inchieste sui misteri d’Italia. Al
Giorno, quotidiano dell’Eni quindi di area governativa
sia pur, diremmo oggi, riformista - si forma un gruppo
intero di specialisti delle “piste nere”. Proprio al Giorno,
lo ricorda Consani, il caso
Pinelli lascia una traccia permanente nelle coscienze:
ogni anno, da allora, il 15 di-
cembre i giornalisti ricordano l’anarchico morto in questura.
Il volume di Consani imbocca anche la strada dell’interpretazione del corso della
politica italiana dopo piazza
Fontana. Negli anni ‘70 lo
scenario muta rapidamente:
va avanti, con le bombe, il
terrorismo nero; ma irrompe
quello rosso. In politica, tuttavia, l’allarme non produce
nessun golpe e nessuna
svolta autoritaria.
Anzi: crescono i consensi al
Pci di Berlinguer, che arriva
a far parte della maggioranza di governo.
La “strategia della tensione”,
se è stata studiata come un
piano per rinsaldare il potere
e impedire svolte in politica,
ha fallito.
“Se applichiamo il criterio
del cui prodest?, osservava
a Milano un democristiano
di destra, si deve concludere
che le bombe hanno giovato
ai comunisti”. La spiegazione, provvisoria, che Consani
fornisce è questa: i morti di
piazza Fontana, probabilmente non voluti, provocarono un’indignazione e una
mobilitazione tale da sconsigliare, anzi rendere improponibile, qualsiasi “avventura”. Si puntava a provocare
un allarme crescente; la
strage sollevò le coscienze
in difesa della democrazia e
delle istituzioni. Producendo
un effetto opposto a quello
cercato dagli “strateghi”.
Mario Consani,
Foto di gruppo da
piazza Fontana,
Editore Melampo,
pagine 174, euro 14,00
di Vito Soavi
ORDINE
3
2006
LIBRERIA DI TABLOID
Gabriele Moroni
“Le Bestie di Satana”,
voci dall’incubo
di Nicola D'Amico
La Corte d’Assisi di Busto
Arsizio ha condannato il 2
febbraio scorso tutti gli imputati non ancora giudicati appartenenti alla banda giovanile omicida delle cosiddette
Bestie di Satana, gli assassini
di Chiara Marino e Fabio
Tollis, i due fidanzati milanesi,
e di un’altra ragazza, Mariangela Pezzotta. Ergastolo per
Nicola Sapone, 26 anni di
carcere per Paolo Leoni,
Marco Zampollo e Elisabetta
Ballarin, 24 per Eros Monterosso. Nel febbraio del 2005
erano stati condannati altri
due membri della setta, a 16
anni di carcere Pietro Guerrieri (il badilante che seppelliva le vittime) e 30 ad Andrea
Volpe, capo del gruppo e unico reo confesso. Nell’aprile
dl 2005 il tribunale dei minori
di Milano aveva condannato
a 19 anni di carcere Mario
Maccione, minorenne all’epoca dei fatti contestati, dedito allo spiritismo dagli 11 anni, autore diciassettenne di
un diario di una vita bruciata
fra droga, allucinogeni, musica heavy metal, satanismo,
esperienze estreme con il
quale forse pensava di farsi
passare per pazzo “congenito”. Un lombrosianesimo di
comodo, avranno pensato i
giudici. Infarcito di quella lingua inglese - paradosso didattico - che la scuola si illude di insegnare per aiutare a
trovare un lavoro.
Con la sentenza della Corte
d’Assise di Busto Arsizio si è
chiusa la prima fase di un
processo a una serie di allucinanti crimini, iniziati nella
notte d’infermo del 18 gennaio 1998, quando iniziarono
quei massacri che faranno
perdere la testa, per la loro
spietata sequenza, ai criminologi più adusi all’anatomia
della violenza. Massacri che
a Gabriele Moroni, che è stato spettatore del processo e
scrupoloso cronista anche
nel libro che ha appena scritto per Mursia (Le Bestie di
Satana, appunto) farà chiedere se la violenza di gruppo,
programmata e delibata in
punti sempre più numerosi
della terra e, purtroppo, del
nostro Paese (in pochi anni a
Chiavenna, Castelluccio dei
Sauri, Castelsangiovanni di
Potenza, Dozzano in Lunigiana, fino a Golasecca nel
Varesotto, tutti con una stessa firma, il satanismo) non
sia un fenomeno di “normale
anormalità”.
Dal che si dedurrebbe che i
“mostri” non sarebbero monstra, fenomeni appartenenti
alla fantasia della natura, ma
testimonianza ordinaria del
demoniaco fisico (e non metafisico) che è in noi, che ci
vive dentro o accanto e di
tanto in tanto esplode, per
confermarci la debolezza e
l’ambiguità delle natura umana. Una conclusione terribile,
se questa fosse la conclusione, che però nei fatti ci porta
a una matrice più arretrata,
più tangibile, più vincibile: la
droga, che fa perdere l’umanità insieme alla ragione.
Qualcosa che nasce fuori di
noi, e che quindi è occasionale, vincibile.
Corpi di amici straziati, dopo
Filippo Maria Ricci
Scusate il ritardo.
Racconti di calcio africano
Fabio e Luca Masotto
Giochi con i fiocchi.
Il libro delle Olimpiadi invernali
di Massimiliano Ancona
Giochi con i fiocchi è la storia dei Giochi olimpici invernali. Una storia cominciata a
Chamonix nell'ormai lontano
1924 e che a Torino vivrà
l’ennesimo capitolo di una
storia forse mai scritta.
Almeno non in modo così
documentato e dettagliato. A
colmare la lacuna ci hanno
pensato Fabio (padre, 65
anni) e Luca (figlio, 40)
Masotto, giornalisti di professione. Il primo, già per 30 anni caporedattore all’agenzia
Ansa, ha seguito da inviato
dieci edizioni dei Giochi, sette estive e tre invernali. Il secondo, redattore dell’agenzia Aga, ne ha ereditato la
passione. Ecco perché Giochi con i fiocchi è una bibbia
bianca tutta da leggere ed è
rivolta agli appassionati, ai
curiosi, agli statistici. Ma soprattutto agli sportivi. Veri.
Ricordi, documenti, sensazioni, dati ufficiali, esperienze personali scandiscono un
libro da assaporare pagina
dopo pagina. Mentre i numeri - immancabili e precisi fanno da contorno (un contorno irrrinunciabile) agli
aneddoti, alle storie, ai personaggi di un racconto avvincente.
Cominciato più di 80 anni fa.
Dopo una breve panoramica
sui Giochi di Torino (senza
dimenticare le Paralimpiadi
di marzo dal 10 al 19) il lavoORDINE
3
2006
ro storiografico dei Masotto
comincia dal giuramento letto dalla fondista francese
Camille Mandrillon, madrina
della prima edizione, quella
di Chamonix, svoltasi dal 25
gennaio (il 21, in Unione
Sovietica, era morto Lenin)
al 5 febbraio 1924. Mentre
l’onore e l’onere di portabandiera della sparuta rappresentanza azzurra (solo
23 atleti, tutti uomini) è toccato a Leonardo Bonzi,
giunto poi sesto nel bob a
quattro con Bocchi, Spasciani e Tornielli. Poca gloria
anche per gli altri italiani che
tornano in patria a mani
vuote, pur essendo iscritti a
tutte le discipline tranne pattinaggio veloce e hockey. A
seguire l’evento solo 88 giornalisti, saranno già 330
quattro anni dopo a Saint
Moritz. Diecimila a Torino.
Il lavoro di Fabio e Luca Masotto è snello e agile. Contempla gli ultimi tedofori di
ogni edizione e i lettori del
giuramento olimpico. Senza
dimenticare, appunto, i portabandiera azzurri e le notizie sfiziose come la nascita
della moviola (Squaw Valley,
1960), o le prime riprese televisive a colori (Grenoble,
1968), dove vengono effettuati i primi controlli antidoping nella storia dei Giochi
invernali. Di qualità assoluta
è l’almanacco del ghiaccio
che narra le vicende di tutti
protagonisti olimpici, più o
meno conosciuti. Si comin-
essere stati coinvolti in giochi
di iperbolica perversità, in
contatto con il “Signore delle
tenebre, Dio del male”.
Uccisa Chiara? Doveva essere uccisa. Perché? “Perché
incarnava la Madonna?”. Un
catechismo infernale.
Vittorino Andreoli, uno dei più
grandi psichiatri dell’adolescenza, li chiama i ragazzi
rotti: sono quei ragazzi che
hanno compiuto azioni estreme. Rotti, come giocattoli impazziti, dai quali a un certo
momento scatta e fuoriesce
una molla micidiale, che semina ferite intorno. Ferite a se
stessi, ai genitori, ai fratelli,
alla società. Quando non semina morte.
Il collega Gabriele Moroni, inviato speciale de Il Giorno ha
avuto la forza di portare davanti all’analisi della sua
esperienza di “vecchio” (nel
senso di sperimentato) cronista, forgiato da tutte le emozioni del nostro duro campionario di lavoro. Il suo libro è
un’antologia dell’orrore, di
“voci dall’incubo” (sottotitolo
del libro), che emergono da
testimonianze dirette, lettere,
diari, confessioni di atti giudiziari, conversazioni intercettate dagli scriventi.
Personalmente io stesso non
ho la forza di rilanciare le testuali, bestiali, come chiamarle?, dissacralità, che costituiscono il lessico e il costrutto fraseologico di queste
macchine di carne, senza
spirito, nelle quali anche il
perdono, ammesso che lo si
possa da qualcuno cristianamente elargire, fa fatica a trovare il luogo sul quale giungere e collocarsi.
Moroni rilegge nel suo libro
anche un altro diario (questa
diaristica è una costante narcisistica che a Vittorino Andreoli potrebbe dare - e sicuramente ha dato - una forse
parziale, ma certo illuminante, chiave di lettura), il diario
di Mariangela Pezzotta. Che
è il secondo, ma non sarà
l’ultimo. Nel libro di Moroni
comparirà anche un terzo
diario, quello di un padre.
Figli massacrati, padri disperati. Moroni raccoglie la disperata testimonianza del
padre di una delle vittime, di
Michele Tollis, che aveva fatto
la scelta tardosessantottina
del padre compagno (mi abbigliavo come uno di loro,
giubbino senza maniche, vestiti neri), una scelta pericolosa che troppo spesso non
porta da nessuna parte e
della quale Tollis si rende
conto nel corso dell’intervista
cedendo alla commozione, in
cia con lo svedese Gillis
Emanuel Grafstroem, inventore delle piroette nel pattinaggio su ghiaccio a
Chamonix (1924). E poi la
vittoria del finlandese Veli
Saarinen nella 50 chilometri
del 1932, in gran parte disputata su terra per lo scioglimento della neve dovuto
al caldo di Lake Placid. E ancora, Celina Seghi, “il topolino delle nevi”, conterranea
di Zeno Colò, leggenda dello
sci italiano, fino a Francois
Bonlieu, francese olimpionico a 26 anni (Squaw Valley
1960), assassinato a Marsiglia a 37 anni, al povero
messicano Alvaro Martinez,
che si “perde“ durante i 50
chilometri di fondo a Calgary
(1988). Senza dimenticare
l’incredibile rimonta di Alberto Tomba ad Albertville
’92, l’olimpiade dei record
per gli azzurri che conquistano quattro ori, sei argenti
e quattro bronzi. Due anni
dopo, a Lillehammer in
Norvegia, le cose vanno ancora meglio: sette ori, cinque
argenti e otto bronzi, venti
podi e il quarto posto nel
medagliere.
Come a Grenoble ‘68, “ma il
mondo allora era assai più
piccolo“.
Fabio e Luca Masotto,
Giochi con i fiocchi.
Il libro delle Olimpiadi
invernali,
Lo Sprint S.r.l. editore,
pagine 302, euro 20,00
di Massimiliano Ancona
C'è il premio partita per il
successo (poi rivelatosi inutile per la qualificazione al
prossimo Mondiale) sulla
Costa d'Avorio pagato dall'attaccante Samuel Eto’o di
tasca propria a tutti i compagni e allo staff tecnico del
Camerun. E c’è anche l’ex
milanista George Weah che,
nel dare un nome alle figurine della Liberia, non riconosce i suoi compagni di nazionale. Ancora, c’è il racconto di quando sempre la
Liberia essendo a corto di
giocatori, ne ha presi alcuni
in un campo profughi nelle
vicinanze della sede dell’incontro per giocare con la
Guinea. E il campionato primavera del Ghana e della
nazionale, le Stelle Nere,
che vince i Mondiali giovanili
finché può cambiare le date
di nascita di alcuni suoi giocatori. Tutto questo (e molto
altro) è Scusate il ritardo di
Filippo Maria Ricci (Limina
editore), collaboratore da
Londra del Corriere della
Sera e della Gazzetta dello
Sport: ovvero aneddoti, curiosità, racconti, imprevisti
legati al calcio dell’Africa
(del Nord, occidentale,
orientale e australe). Perché
l’Africa “è un continente
troppo grande per poterlo
descrivere”. Soprattutto poi
quando a essere descritti
sono gli usi e i costumi di un
continente (o di quattro?) in
continua evoluzione. Eppure
Ricci ne ha vissute e ne racconta tante su un movimento che nel 1992 l’allora ct azzurro Arrigo Sacchi aveva
definito “il calcio del 2000”. E
che nel 2002 è riuscito a
raggiungere, grazie al
Senegal, i quarti di finale di
un Mondiale: un’impresa.
Un’impresa, però, già riuscita ai “Leoni indomabili“ del
Camerun nel Mondiale italiano di dodici anni prima.
Il titolo di questo pregevole
lavoro (Scusate il ritardo)
concerne i tempi necessari
per assegnare l’organizzazione della massima rassegna iridata di calcio al continente africano (Sud Africa
2010), ma anche il rapporto
fra pallone e Continente nero in modo preciso e dettagliato.
Ora che il Ghana è stato sorteggiato nello stesso girone
mondiale dell’Italia è d’obbligo saperne di più. E Ricci ha
costruito la sua immensa
cultura in materia da quando
nel 1993, come racconta lui
stesso, gli è “scattata la scintilla”. Così ha cominciato a
girovagare per le ambasciate a Roma di tutti i Paesi africani, alla ricerca di notizie,
giornali, tutto quanto potesse appagare la sua passione e la sua sete di conoscenza.
cui si mescolano il rimpianto
e forse un rimorso sottile.
Tirando le somme, la lettura
del libro di Satana, a meno
che l’approccio non sia quello della curiosità morbosa, è
salutare per chi, genitore, o
ragazzo che cerchi un ancoraggio, o insegnante. Infatti,
deposizioni, interviste, diari,
sono un’antologia non solo di
orrori, ma prima ancora di errori: famiglie distratte, adolescenti lasciati fuori casa fino
a notte inoltrata, denari facili,
macchine di grossa e piccola
cilindrata, tragiche curiosità
infantili, piccole e grandi bugie, lezioni bigiate, permissività progressive. Il demonio,
o per lo meno il suo embrione, spesso si può toccare
con mano.
E può abitare... Non vogliamo dirlo. Ammonisce Moroni:
ricordatevi che Golasecca è
in provincia Italia: Secondo
Telefono Antiplagio, il 33%
dei minori è attirato da stregoneria e occultismo o è vittima
di abusi o legge pubblicazioni
e frequenta Internet del settore. A buon intenditor... Che
nessuno possa trovarsi nelle
condizioni di un padre come
Michele Tollis, con i suoi incolpevoli errori, le sue ingenuità, i suoi rimpianti, i suoi rimorsi. Il suo dolore senza ritorno.
Gabriele Moroni,
“Le Bestie di Satana”,
voci dall’incubo,
Edizioni Mursia, euro 13,00
Il mal d’Africa preso al quartiere Parioli - dove sono situate nella capitale la maggior parte delle ambasciate
dei Paesi africani - lo ha portato dalla Tunisia, per la
Coppa continentale del ’94,
al Sudafrica, per la rassegna
del ’96. Passando per Camerun, avversario dell’Italia
al Mondiale ’98, Ghana
(Coppa d’Africa 2000), Mali
(Coppa d’Africa 2002),
Nigeria (Mondiale giovanile
del ’99), e Burkina Faso
(Coppa d’Africa 1998). Tutti
luoghi che Ricci conosce bene, perché vi ha seguito partite, tecnici, giocatori, dirigenti in un cammino affascinante, ingenuo, imprevedibile, ricco di superstizioni e
magie.
Il tutto è raccontato con
umorismo, da chi ha “inventato” anche le collezioni delle “mitiche” figurine Panini
del calcio africano, trovando
perfino l’immagine (in bianco e nero, e fatta diventare a
colori al computer) di quel
Matias Bebé del Mozambico
senza il quale un album sulla Coppa d’Africa non sarebbe stato possibile.
Il tutto grazie alla passione
dell’autore, che si è perfino
inventato editore lui stesso
creando l’almanacco del calcio africano, ha organizzato
un ritiro mondiale del Camerun (“Un Paese dove il
football è un affare di stato”)
giocandoci contro con la
maglia del Norcia (e marcando Patrick Mboma, ex attaccante di Cagliari e Parma, che ha firmato la prefazione).
Filippo Maria Ricci,
Scusate il ritardo.
Racconti di calcio
africano,
Limina edizioni,
pagine 148, euro 13,50
27 (31)
LIBRERIA DI TABLOID
Carlo Azeglio Ciampi
(a cura di Dino Pesole)
Dizionario della Democrazia
di Antonio Duva
Il destino dei discorsi ufficiali,
pronunciati nel corso di cerimonie pubbliche, non è fra i
più invidiabili: ascoltati, in una
cornice rituale, da platee relativamente poco numerose,
spesso finiscono stampati in
corpose raccolte, consultate
da una platea di lettori per lo
più fatalmente esigua: in genere studiosi che, diligentemente, le sfogliano anni e anni dopo gli avvenimenti che
quei discorsi avevano ispirato. Ma ogni regola ha le sue
eccezioni: capita, talvolta,
che l'autentica passione civile
delle personalità che li hanno
concepiti imprima un calore e
un vigore diverso a quei testi
che, in questo caso, è utile
che circolino al meglio.
In tali circostanze, infatti, diventa un interesse generale
rendere il più possibile diffusi,
specie tra le giovani generazioni, discorsi che contengono un patrimonio di idee e di
insegnamenti che non sarebbe giusto lasciare confinati
nel chiuso delle biblioteche.
Deve essere una considerazione del genere che ha spinto l’Amministrazione provinciale di Roma e l’Anpi a prendere una iniziativa meritoria
che sta riscuotendo un grande successo: quella di sinte-
tizzare in un agile volume il
pensiero di Carlo Azeglio
Ciampi ricostruendolo attraverso una scelta ragionata di
citazioni tratte dagli interventi
ufficiali che il Presidente della
Repubblica ha svolto durante
il suo mandato, giunto quasi,
ormai, alla sua conclusione.
Durante sette anni di attività
intensissima, nella quale
spicca, accanto alle numerose missioni all’estero, il lungo
“giro” d’Italia che lo ha portato a visitare, almeno una volta, tutte le province del
Paese, Ciampi ha non solo
consolidato il suo prestigio di
statista di levatura internazionale, ma ha anche conquistato una straordinaria popolarità fra tutti i cittadini unita a
un affetto che gli viene dai più
diversi strati sociali.
È un sentimento cresciuto
nel costante confronto che,
durante lo svolgimento del
suo alto incarico, il Capo dello Stato ha tenacemente sviluppato non solo con le classi
dirigenti ma con il Paese nella sua interezza basandosi
su due punti di riferimento
molto precisi: il valore della
democrazia e la difesa della
Costituzione, un documento
che - come Ciampi ha ricordato anche nel suo recente
messaggio televisivo di
Capodanno - può certo essere modificato, per tener conto
Emilio Sarzi Amadè
Polenta e sassi
di Giacomo de Antonellis
Quanti libri sono stati scritti
sulla Resistenza, filone storico che sembra inesauribile!
Ma il memoriale di Sarzi
Amadè (i colleghi più anziani
non possono dimenticare l'anomalo inviato della vecchia
Unità) si distingue per la buona scrittura che lo distingue in
modo tale da elevare a fatto
letterario la limitata avventura
di un distaccamento partigiano. La lotta di questo nucleo
si ispirava nel nome a “Livio
De Biasi”, un giovane ribelle
catturato e fucilato dai tedeschi, ed è tutta intessuta di
piccole vicende, talvolta belle, talvolta sporche, essenzialmente tipiche di una tragedia che coinvolge fratelli. Il
tutto con il fondale del
Bellunese, tra Prealpi e Dolomiti, terra di gente solida e
pulita. Gente che sopporta e
che spara, che sale in montagna e che prepara la riscossa, che sa affrontare
ogni sofferenza - polenta di
granoturco come unico pasto, e sassi duri per giaciglio senza mai pensare al giorno
della vendetta. La montagna
quale sfida ai nemici e segno
di superiorità rispetto agli
stessi compagni che “lavoravano” a casa.
Tra le pagine si evidenzia la
figura dell'autore che si im-
28 (32)
provvisa narratore e commentatore. Ed ecco il racconto della vita clandestina,
nel collettivo della banda di
montagna, ove ogni militante
perde la propria identità per
assumere una nuova condizione a cominciare dal cambio di anagrafe. Nome di battaglia, Franco, e così via, dimenticando la gioventù passata nel Mantovano e guardando verso un avvenire
ignoto ma denso di speranze. Persino la stesura del
manoscritto, sviluppata nei
giorni successivi alla liberazione, si inquadra nel clima
di quei giorni, emozionanti
ma privi di esaltazioni retoriche (così frequenti negli anni
successivi). Pagine vissute
in prima persona ove l'intimità di ogni sensazione tende a prevalere su eventuali
tentativi di propaganda. Del
resto, nemmeno il diarista
osava immaginare un uso
pubblico dei suoi appunti che
lasciava dormire per anni e
anni nel cassetto di un amico
partigiano: soltanto nel 1977,
dopo oltre trent'anni, il dattiloscritto veniva scoperto e
pubblicato nei “coralli” di
Einaudi facendo ricorso - come avvertiva nella prefazione - ad “un atto di presunzione che forse pochi perdoneranno”. Il successo del volume, al contrario, sconfessava l'eccessiva ritrosia dell'au-
tavia, il suo nucleo centrale
nella riflessione sulla democrazia.
Si può perciò affermare che
proprio questo sia il concetto
attorno al quale si è sviluppata la sua lezione morale e civile, prima ancora che istituzionale. In effetti, fra le pagine
più vibranti del volume si trovano proprio quelle che
Ciampi dedica alla democrazia come rispetto delle regole, come strumento di piena
e reciproca legittimazione fra
chi governa e chi si oppone e
come espressione massima
del libero confronto delle
idee. Da queste premesse si
può trarre una prima, importante conclusione: solo se la
democrazia è percepita come qualcosa di vivo da tutti i
cittadini, la società potrà svilupparsi nella libertà e nel
progresso economico.
Questo tratto distintivo della
visione di Ciampi si lega
strettamente al suo sentimento europeista.
Il Capo dello Stato, che ama
definirsi “cittadino italiano in
terra d’Europa”, ha ricordato
più volte: “Per chi come me
ha vissuto gli orrori della
guerra, l’Europa unita equivale alla realizzazione di un
sogno”.
E proprio a rendere concreto
questo “sogno” egli ha profuso uno straordinario impe-
dell’evoluzione dei tempi, ma
non può certo essere stravolto nei suoi principi e valori
fondamentali.
La Carta Costituzionale, infatti, come il Presidente non
si stanca di rilevare, si è dimostrata in oltre mezzo secolo, “un telaio valido”: sulle
sue “solide fondamenta”, ricorda Ciampi, “l’Italia ha fatto
grandi progressi, così da entrare a far parte del gruppo
dei sette maggiori Paesi industriali del mondo”.
Questa indicazione emerge
nitida anche dalle pagine del
volume che ha, tra gli altri, il
merito di essere costruito
con un taglio molto scorrevole e in base a un criterio non
cronologico ma, opportunamente, legato ai contenuti.
La sua lettura diventa, in questo modo, agevole, al tempo
stesso, stimolante. Curato
con grande attenzione da un
giornalista esperto come
Dino Pesole, il libro ha finito
così per acquisire vita propria: non mera silloge di discorsi ma quasi un’opera a
sé stante che mette bene in
luce la coerenza del messaggio di Ciampi.
Pesole ripercorrendo gli interventi svolti dal Presidente
della Repubblica li ha riordinati, voce per voce, e ha riproposto in forma organica le
riflessioni di Ciampi su tutti i
temi cruciali della nostra società; sui suoi molti problemi
irrisolti, sulle sue attese e sulle sue speranze.
Il saggio ha per titolo: Dizionario della Democrazia. Non
si tratta di una scelta casuale;
qui democrazia è intesa in
senso ampio e non formale:
volutamente, precisa Pesole,
il Dizionario estende il suo
orizzonte a questioni come la
casa, il lavoro, la salute e la
sicurezza che, a prima vista,
non sembrerebbero avere attinenza diretta con il tema
portante del saggio.
Ma così non è: se, infatti, si
vede nella democrazia, come Ciampi, “l’arte di contenere e regolare i conflitti” e se si
è convinti, come il Presidente, che la democrazia
“mette continuamente alla
prova le coscienze, stimola
l’assunzione di responsabilità
da parte di tutti i cittadini, e
permette di costruire istituzioni e organizzazioni sociali solide, capaci di evolvere nel
tempo”, allora si comprende
bene questa impostazione
più ampia, che coinvolge
aspetti del vivere sociale in
base ai quali è ben possibile
misurare la concreta dimensione democratica di un
Paese. Questo approccio,
inoltre, arricchisce e completa l’espressione del pensiero
del Presidente, che trova, tut-
tore. Adesso egli non si trova
più tra i vivi (essendo morto
per infarto nella notte tra il 14
e il 15 marzo 1989) ma il suo
libro viene riproposto dalle
Cierre Edizioni di Sommacampagna in una sobria versione curata dal figlio Luca
con nota iniziale di Ferruccio
Vendramini.
Ricostruendo la biografia del
padre Emilio spiccano alcuni
tratti peculiari di questo giornalista che faceva della professione e della militanza politica una bandiera e una fede: corrispondente da Pechino quando nessuna testata si curava della Cina,
maoista quando il partito comunista privilegiava le direttive di Mosca, revisionista sulle vicende indocinesi quando
emergeva la dittatura di Pol
Pot (che i compagni italiani
fingevano di ignorare), a 58
anni dimissionario dal quotidiano comunista per dissensi sulla linea politica. Oggi,
con chiaro affetto filiale, Luca
sintetizza così la figura di
suo padre: “Egli non tradì
mai i valori sostenuti con sacrificio, in virtù dei quali, nei
suoi anni migliori, aveva rifiutato avanzamenti di carriera
per continuare a svolgere la
propria missione sul posto e
contribuire con la sua testimonianza diretta alla comprensione tra i popoli”.
Franco Martinelli (a cura di)
Città e scienze umane
Emilio Sarzi Amadè,
Polenta e sassi,
Cierre Edizioni,
SommacampagnaVerona 2005,
pagine 174, euro 11,50
di Olimpia Gargano
Città da leggere, decifrare,
scomporre in fattori. Città invisibili, come quelle inventate da Italo Calvino nei suoi
prodigi narrativi, ma che
esistono davvero, nascoste
sotto chilometri cubi di cemento, eppure vive e attive,
“parlanti”, a patto di conoscere i segnali necessari ad
ascoltarne il battito vitale. Si
potrebbe usare così, come
una cassetta degli attrezzi
per capire meglio realtà urbane in cui siamo quotidianamente immersi ma che
spesso trascuriamo di osservare, questo libro che
riunisce tre anni di lezioni
del Corso di Perfezionamento in “Teorie e problemi
di città ambiente e territorio”
tenutosi all'Università La
Sapienza.
Ciò vale ovviamente per i
non addetti ai lavori, che nei
venti contributi che costituiscono la raccolta, di buona
leggibilità anche per i non
“tecnici”, troveranno spunti
di interesse in tematiche di
stretta attualità (politiche
ambientali, sviluppo turistico, legalità e marginalità),
nelle ricostruzioni storiogra-
fiche e analisi antropologiche.
Ma la prospettiva interdisciplinare dei contributi coordinati da Franco Martinelli è
quella di cui auspicabilmente dovrebbero tenere conto
tutti coloro che, a vario titolo, mettono, quand'anche
con le migliori intenzioni di
questo mondo, “le mani sulla città”.
Chi di noi non ha conoscenza diretta di interventi urbanistici dissennati, cattedrali
di cemento abbandonate
dopo breve uso (si legga l'esempio del Velodromo costruito per le Olimpiadi di
Roma 1960), fossili di calcestruzzo che costellano
periferie degradate?
Se questo avviene, non è
sempre e solo questione di
malaffare, di colpevole gestione della cosa pubblica,
ma anche dell'assenza di
una più ampia visione d'insieme degli interventi da attuare. Uno sviluppo urbanistico “sostenibile”, è una
delle tesi di fondo del volume, non può prescindere
da un approccio multidisciplinare fra le diverse scienze umane connesse agli
studi sul territorio, quali la
geografia politica ed econo-
gno del quale si trova ampia
traccia anche nelle pagine
del Dizionario.
Europa e democrazia, dunque, come grandi obiettivi
ma anche come valori da difendere.
Perché, ed è questo uno degli aspetti di maggiore interesse del volume, tanto è alto il valore che Ciampi assegna agli ideali di Europa e
democrazia, quanto acuta
ed esplicita traspare dai suoi
discorsi la percezione che il
Presidente ha dei rischi ai
quali sono oggi esposti sia la
costruzione dell’unità europea sia la piena maturazione
del sistema democratico in
Italia.
Per scongiurare tali rischi
Ciampi si è tenacemente impegnato nell’elaborare e proporre al Paese e alla sua
classe dirigente un insieme
di “regole del buongoverno”
che rappresentano quasi un
filo rosso che percorre tutte
le voci del Dizionario.
A queste regole sarà indispensabile attenersi anche
in futuro se si vuole assicurare all’Italia un progresso saldo e ordinato.
Carlo Azeglio Ciampi,
Dizionario della
Democrazia,
a cura di Dino Pesole,
San Paolo edizioni 2005,
pagine 303, euro 14,00
mica, urbanistica, antropologia, semiotica, informatica. La città è costruzione
simbolica per eccellenza: la
cattedrale, il palazzo pubblico, il monumento, i boulevard di Parigi, le strade di
Firenze rimandano a specifici momenti di vita collettiva
declinata nelle sue diverse
manifestazioni, rappresentano lo “spirito” di un luogo,
la sua essenza. Nelle sue
lezioni a ingegneri destinati
a operare nel campo dei
trasporti, Federico Gorio,
uno dei più grandi urbanisti
italiani del Novecento, diceva che bisogna imparare a
comprendere le “ragioni”
della città e del territorio, invece di limitarsi a studiare
le “regole” con cui operare.
Conoscere le ragioni del
territorio significava, nella
lezione di Gorio, valutarne
le relazioni antropologiche,
le reti sociali ed economiche che ne rappresentano il
tessuto connettivo, per agire in esso senza sconvolgerne irrimediabilmente gli
equilibri preesistenti.
Franco Martinelli
(a cura di),
Città e scienze umane,
Liguori,
pagine 322, euro 20,00
ORDINE
3
2006
LIBRERIA DI TABLOID
Giovanni Colombo
Baciare il rospo.
L’impresa possibile
di amare Milano
di Marisa Milani
Il rospo da baciare è
Milano. Una metropoli contraddittoria che, vincendo
la cupio dissolvi dilagante
e le ragioni oggettive di
cautela, secondo l’autore
merita amore, dedizione,
impegno. Del resto l’autore
ne sa qualcosa: Giovanni
Colombo, brianzolo innestato per amore (della moglie milanese e della città)
nella metropoli lombarda,
è avvocato ma soprattutto
consigliere comunale di
Milano e, dal suo osservatorio privilegiato, da oltre
dieci anni vede, soffre,
s’impegna, propone. Con
garbo, ironia, passione:
caratteristiche che si ritrovano anche in questo brioso libro che non lascia
spazio alla rassegnazione
indulgente verso quel che
non va per il verso giusto
ma nemmeno si fa rosicchiare dal pessimismo e
dall’individualismo dei tanti automi che affollano
strade e uffici.
Colombo sgrana gli occhioni azzurri sul futuro e
cosa vede?
Se stesso, sindaco ottantenne, nel 2041. E già prepara il discorso di investitura: “Baciamo Milano,
amiamo Milano, sposiamo
Milano! Perché mai dovremmo finire soffocati da
estremo centralismo o morire assiderati per estremo
individualismo?
Gustiamo una vita migliore: la fraternità senza terrore, piena di incontri e di
emozioni belle. Si sente
nell’aria una soave fragranza foriera di nuova
speranza”.
Un’anima bella? Mica tanto, a leggere le disincantate analisi distillate in 27
capitoletti che si aprono
sulla voglia di scappare di
tanti milanesi (in un’improbabile campagna dispensatrice di altri stress o al
mare-monti del fine settimana). Il sindaco del 2041
si rivolge direttamente alla
città, esortandola ad alcune scelte di coraggio o
semplicemente di buonsenso, una volta che sarà
passata l’ubriacatura dei
“mckinsey”, i boys “della
società di consulenza per
l’alta dirigenza che tirano
le fila di gran parte dell’economia milanese e italiana”.
Per esempio Colombo
esorta Milano, città dalla
falda opulenta “a fare la
chiara e dolce scelta di
mantenere nella sfera
pubblica la proprietà e la
Corrado Staiano
I cavalli di Caligola
gestione
dell’acqua”:
Aqua res publica, fons vitae. E, constatato che “il
tuo abbraccio mi toglie il
respiro”, invoca scelte drastiche. “Proprio tu - scrivecittà-di-mezzo, collocata al
centro della vasca della
padania dove non spira un
refolo di vento, devi osare,
deciderti ad affrontare la
causa principale, il traffico,
e prendere per le corna la
moderna e intoccabile
‘vacca sacra’, l’automobile”.
E che dire del verde? “Gli
alberi sono importanti perché ci insegnano a vivere.
Accolgono ogni istante come una buona ventura”.
Tant’è che a Londra già
nel 1943 il piano regolatore incluse una “Green
Belt”, una cintura verde
per la quale “tu ti sei attivata con imperdonabile ritardo...”. Quanto al corpo
della città, il futuro sindaco
del 2041 lo immagina destinatario di “carezze sensuali, carezze a gogò, carezze giorno e notte” da
parte degli “urbisti”.
L’autore suggerisce cioè
che il “fervore edilizio”
espresso nel tris d’interventi: Polo Urbano della
Fiera, Garibaldi-Repubblica e Montecity Rogoredo, integri le “fiabe in
Stefania Maurizi
Una bomba, dieci storie.
Gli scienziati e l’atomica
di Giuseppe Prunai
Fresca di iscrizione all’Ordine, freschissina di ammissione all’Ugis (Unione dei
giornalisti italiani scientifici:
per farne parte c’è una sorte
di esame per titoli), Stefania
Maurizi ha licenziato alle
stampe questa storia della
bomba atomica tramite dieci
interviste ad altrettanti protagonisti o coprotagonisti o di
persone che hanno avuto
con quelli ormai scomparsi
un rapporto familiare, di amicizia, di studio. Il libro è il risultato di un paio di anni di duro
lavoro, di viaggi, di contatti telefonici, di ricerche condotte
con lo spirito del cronista di
vaglia, ovviamente, di interviste.
È diviso in due parti. La prima
offre una storia, abbastanza
circostanziata, di quella che
agli inizi, Marie Curie chiamò
semplicemente radioattività;
la seconda le dieci interviste,
una bibliografia essenziale
nella quale figura un solo autore italiano (G. Maltese) e
l’indice dei nomi, sempre più
raro nei libri scientifici e di storia.
La storia parte da quando, alla fine dell’Ottocento, Henri
ORDINE
3
2006
Bequerel e Marie e Pierre
Curie scoprirono che alcuni
minerali, come l’uranio e il torio, emettono una radiazione
più penetrante dei raggi x. Da
lì comincia la storia del nucleare che ebbe il periodo di
maggiore attività fra le due
guerre. Dopo gli esperimenti
di Enrico Fermi, si capì quale
grande potenziale distruttivo
avrebbe potuto rappresentare un ordigno nucleare. Alle
notizie che trapelavano sulle
ricerche sul nucleare da parte della Germania di Hitler
(che tuttavia non andarono
troppo lontano anche per i
sabotaggi da parte della
Resistenza norvegese), negli
Stati Uniti fu messo insieme
un vasto gruppo di fisici, per
lo più transfughi da un’Europa ormai egemonizzata dai
nazifascisti (molti erano ebrei
riparati negli Usa in seguito
alla leggi razziali) sotto la direzione del fisico Robert
Oppenheimer. La conclusione del lavoro del gruppo
Oppenheimer fu la costruzione delle due bombe che ridussero in polvere (in Italia,
allora, si usava il neologismo
“coventrizzare”) due città
giapponesi provocando la
morte di 210mila persone:
140mila a Hiroshima e 70mi-
la a Nagasaki. Una strage
inutile, visto che il Giappone
aveva chiesto alla Russia
una mediazione per porre fine alla guerra. Iniziativa della
quale l’intelligence statunitense era perfettamente al
corrente e della quale aveva
informato Eisenhower. Il presidente americano si è sempre giustificato affermando
che il sacrificio di quelle
210mila persone (ma a questa cifra va aggiunta quella di
coloro che morirono negli anni successivi per effetto delle
radiazioni) aveva evitato un
vero e proprio olocausto di vite umane, americane e giapponesi.
Ma, al riguardo, non sono
mai state fornite stime e previsioni alla luce di dati certi
sulla reale consistenza del
potenziale nipponico ormai al
collasso, ben conosciuta da
Washington.
La storia si ripete. Allora fu
agitato il fantasma di una pericolosa potenza militare (che
ormai era battuta), come un
anno fa quello delle armi di
distruzione di massa irakene.
La seconda parte del libro,
scritto con stile sobrio ed
estremamente scorrevole,
contiene le dieci interviste a
protagonisti (in alcuni casi a
verticale” dei grattacieli
progettati con un’inedita
morbidezza urbanistica,
che porti “comfort globale
dappertutto, in centro e all’esterno, nei nuovi siti e
nei vecchi quartieri”, periferie anonime comprese.
Ma non è tutto. Il sogno di
una città metropolitana
che spezzi i confini tradizionali, i bimbi, i giovani,
gli anziani sono altrettante
sfide per il nostro autore,
sindaco del 2041. Che
chiede alla “sua” Milano:
sei ancora la città del lavoro? Bella domanda, nella
stabilizzazione del precariato che fa garzoni fino a
38 anni e troppo vecchi
dopo i 38 per aspirare a
qualcosa di diverso dall’atipico: insomma clientes a
vita, non persone. Eppure
si diceva (nemmeno diecimila anni fa): “Chi volta il
cù a Milan, el volta il cù al
pan”. Dunque il sindaco
del 2041, con ottimismo e
voglia di fare, tira fuori dal
cassetto la sua ricetta per
il lavoro... Ma perché anticiparvela, rovinandovi la
sorpresa?
Giovanni Colombo
Baciare il rospo.
L’impresa possibile di
amare Milano,
Città Aperta Edizioni
pagine 140, euro 12,00
parenti o a sodali di protagonisti ormai scomparsi). A Carl
Friedrich von Weizsäcker, ultimo testimone della ricerca
nucleare della Germania nazista. E poi a Hans Berthe,
Sir Robert Rotblat, Philip
Morrison, Sam Cohen, allo
scienziato giapponese Shoji
Sawada, al sovietico Roald
Sagdeev, a Richard Garwin.
A Ellen Weaver, una delle
tante donne che lavoravano
a Los Alamos dove il 30 per
cento del personale era femminile, con mansioni diverse,
da fisiche teoriche a segretarie. Ma di loro non è rimasta
traccia: la storia dell’atomica
è tutta al maschile.
Infine la mancata intervista a
Joan Hall, vedova di Ted Hall,
il più giovane scienziato di
Los Alamos che aiutò
l’Unione Sovietica a realizzare la sua prima bomba atomica. Sembra fosse una pratica
comune ad altri scienziati,
quella di passare informazioni all’Est allo scopo di bilanciare i potenziali nucleari delle due superpotenze.
Gli unici che ne fecero le spese, Ethel e Jiulius Rosenberg, oltretutto completamente estranei a questo tipo
di attività, colpevoli soltanto di
essere comunisti, un reato
estramente grave agli occhi
dell’America, ieri come oggi,
maccartista, puritana, codina
e forcaiola.
Stefania Maurizi,
Una bomba, dieci storie.
Gli scienziati e l’atomica,
Bruno Mondadori,
pagine 256, euro 14,00
di Emilio Pozzi
Amarezze e indignazioni,
molte. Non credo che negli
ultimi mesi, da quando ha
pubblicato I cavalli di Caligola il tasso di depressione e
stanchezza sia diminuito in
Corrado Staiano. Il berlusconismo, (una patologia in lui
cronica) tenuto sotto tiro per
anni, gli ha fatto vivere periodi non sereni. E nei primi mesi del 2006, nulla è cambiato
rispetto al clima che pervade
le sue Storie italiane, specchio di due anni di osservazione della cronaca e della
storia di un Paese amato, nonostante tutto.
Più che un diario. Molte pagine, affidate al quotidiano
l’Unità nell’impeto della cronaca, hanno acquistato il peso di una incalzante testimonianza storica, nel nitore di
una scrittura già decantata.
E ancor più si decodifica l’ironico accostamento del titolo
all’imperatore romano che
fece senatore il suo cavallo,
nel disprezzo di cortigiani
che hanno alternato obbedienza “cieca ed assoluta” a
sommessi e occasionali sussulti critici. Se fu, quello di
Caligola ennesimo atto di follia, i soprassalti berlusconiani, più stupiti che stizziti, denotano, almeno negli episodi
riproposti,una lucidità che
mancò a dittatori di tempi
passati.
Corrado Staiano è un narratore autentico che si rivelò a
30 anni con La terra rossa,
un romanzo che racconta la
storia di un adolescente che
si fa uomo, nella cornice di
una città della provincia lombarda, Cremona, nei postumi di una guerra malamente
sofferta, nei germogli di una
affascinante democrazia. La
narrazione è agile e tenera,
rare gli indugi di osservazioni
esistenziali. In una pagina
però, che qui trascrivo, si ritrovano le radici di un pensiero che ha accompagnato
Staiano poi, in tutti questi anni, motivando il suo impegno
civile, polemico e inquieto e
che si ritrova ad esempio in Il
sovversivo dedicato alla vita
e alla morte di Franco Serantini, l’anarchico ucciso dalla
polizia nel 1972 a Pisa e in
Africo “povera e crudele”,
simbolo di una Calabria immobile nella sua dinamica,
nonostante tutto, anche oggi.
Annotava, nel 1961, il giovane Staiano, nel suo primo romanzo, pubblicato da Ceschina: La lotta del ’45 era
stata un po’ simile a un grande amore per una donna che
improvvisamente si svela
quella che è. Uno se n’è
riempita la testa, sperava
con lei di mutar tutto, poi, da
quando ha aperto gli occhi
non sa proprio più da che
parte girarsi e va avanti, giorno per giorno, svuotato e
stanco. Mi veniva rabbia e
malinconia a discutere di
quelle cose. Noi non avevamo fatto in tempo a vivere
quegli anni, ma per molti era
passata in una vertigine l’ultima primavera di guerra, a
mangiare polvere sull’orlo
dei camion,giovani e un po’
folle, sicuri di cambiare il
mondo. L’errore era stato
nella speranza.Faceva peso
sul cuore l’ingiustizia ancora
sovrana: che valore poteva
avere un termine cieco come democrazia se non di
cornice nuova per un vecchio mondo? Era la cosa più
bella la libertà,ma con che
diritto se ne poteva parlarne
a chi viveva nella miseria?.
Sergio, il protagonista voce
del Staiano-pensiero aveva
le idee confuse. Ora le ha
molto chiare e ferme. E la
sua scrittura si è fatta più
pregnante, sempre appassionata, anche nei ritratti di
personaggi. Ce ne sono in
questi Cavalli di Caligola due
coinvolgenti, di cavalli di razza, però. Citiamone due: l’avvocato Giorgio Ambrosoli,
una spina dolorosa nella coscienza di molti, ucciso in
nome dell’onestà, e Cesare
Garboli, un italiano anomalo,
un uomo libero con una intelligenza profetica e una
grande passione politica. Di
Garboli, in alcune righe una
efficacissima sintesi. A spezzare i suoi pudori, veri o da
grande attore, resta la lucente bellezza del suo stile, restano le invenzioni inimitabili,
il saper creare caratteri da
minuscoli segni, gesti, immagini. Resta l’intelligenza
di un uomo senza modelli,
senza possibili discepoli,
maestro naturale senza eredi, eretico perenne. Resta la
sue generosità, la sua commovente pietà per i compagni morti. Restano le sue furie, i suoi strali… Resta il debito che la cultura e la società italiana ed europea dovrebbero avere il dovere di
sentire nei suoi confronti.
Amleto e Don Giovanni in
una testa sola.
Frasi senza retorica, ma incisive. Con un identikit che
l’autore certamente ritiene, e
giustamente, un precetto
esemplare. Era soltanto un
cittadino rispettoso della
Legge e della Costituzione.
Indipendente. Libero. Di rigorosa moralità. Teso, nel suo
appassionato interesse per
l’uomo, alla ricerca della verità che non segue tracciati
diversi nella letteratura e nella vita di una nazione.
Convinto che la questione
morale è parte integrante
della politica e che la politica
non è quella praticata, allora
e oggi.
Un identikit da usare come
cartina al tornasole. Da tutti.
Anche da Patrizia Valduga
che in un’intervista del Corriere della Sera fattale da
Paolo Di Stefano (8 dicembre 2005), di Garboli e di altri
(tra cui Montale) dà giudizi
critici impietosi, provocando
l’immediata, sdegnata reazione, ad esempio, di Raffaele La Capria, evidentemente in linea con le idee di
Corrado Staiano.
Corrado Staiano,
I cavalli di Caligola. L’Italia
riveduta e corretta,
Garzanti,
pagine 260, euro 14,00
29 (33)
LIBRERIA DI TABLOID
Leonardo Borgese
L’Italia rovinata dagli italiani
di Giacomo de Antonellis
Non dimostra un carattere facile, il Borgese figlio, cosa
che si spiega per diversi motivi: in primo luogo il fatto di
sentirsi “soverchiato” dalla
maestosità del padre Giuseppe Antonio; poi la solitaria
formazione nel clima culturale littorio (che egli detesta ma
con il quale deve pure fare i
conti); infine il disagio di abitare in un grande paese che
ricambia con scarsi attestati il
suo intenso amore. Egli vive
quasi da eremita, con moglie
e tre figli, ai margini del mondo intellettuale negli anni
Trenta e Quaranta. Per fortuna i mezzi finanziari non gli
mancano. Archeologo e pittore senza eccessiva fortuna,
dopo la guerra, Leonardo si
impone come critico d’arte al
Corriere della Sera (facendosi conoscere anche per un
romanzo premiato al Bagutta
1952, Primo amore) ma soprattutto in quanto sostenitore dell’associazione Italia
Nostra che l’indimenticabile
Umberto Zanotti Bianco ave-
va fondato nel 1955. Nato a
Napoli nel 1910, Leonardo
Borgese scompare a Milano
nel 1986.
La battaglia per la conservazione della patria artistica e
monumentale caratterizza
l’intero suo percorso culturale. Scrive in proposito: “L’Italia
è una bella casa, ma tutta
sempre da aggiustare, da restaurare e da ripristinare”. Lo
tormenta costantemente l’assillo per il modo in cui la società procede in quest’opera
miscelando incultura di fondo
con rozzo modernismo e disprezzo della bellezza che
spesso occultano intenti speculativi. Sentenzia a più riprese: “Comincia dalla bruttezza
la decadenza delle città”.
Spesso ha ragione, talvolta si
concede all’idealismo. Tipico
il caso del ponte coperto di
Pavia, distrutto durante la
guerra, che egli vorrebbe rifatto esattamente come prima senza tenere presente le
esigenze di una urbanistica
imposta dal vertiginoso incre-
Livio Del Pino
Ragusa di Dalmazia. Quinta
repubblica marinara italiana
di Gian Luigi Falabrino
Le repubbliche marinare non
sono quattro. Un tizio qualunque passa per Comacchio e
scopre che, per un breve periodo, questa piccola città è
stata indipendente (anche se
nominalmente era suddita di
Bisanzio, come del resto la
stessa Venezia, poi destinata
ad un grande avvenire). Nel
tempo della sua autonomia,
prima del Mille, Comacchio
aveva conteso a Venezia i
commerci dell’Adriatico settentrionale; ma la Serenissima la conquistò e distrusse
nell’854 e poi, definitivamente, nel 946. Quindi, nonostante certe tesi campaniliste, Comacchio non può
contestare ad Amalfi il titolo
di quarta repubblica: la città
meridionale, infatti, è stata indipendente dal secolo VIII al
XII e dal Mille fu una delle più
importanti città del Mediterraneo. Forse potrebbe essere considerata la repubblica
“quinta”?
Poi lo stesso tizio va a Noli e
scopre una bellissima città
medievale (però circondata
da una parte moderna purtroppo orrenda), che si autocelebra come la quinta repubblica marinara, dopo essere stata sotto i successivi
domini dei bizantini, dei longobardi e dei franchi: Noli infatti è stata indipendente da
prima del Mille agli inizi del
Duecento, quando Genova nelle sue guerre contro Sa-
30 (34)
vona - l’ha inglobata nel suo
territorio. Per la verità, gli storici locali sostengono che la
repubblica di San Giorgio
l’ha sempre trattata da alleata, rispettandola per odio
contro il comune nemico savonese, e accettandola come repubblica federata. Ma a
Genova gli storici storcono il
naso, riconoscendo che la
repubblica di San Giorgio
aveva concesso a Noli molta
autonomia amministrativa
ma non la totale libertà.
Quindi Noli è stata indipendente fino al principio del
Duecento e autonoma sotto
con Genova sino alla costituzione della Repubblica
Ligure, francofila e rivoluzionaria, nel 1797.
E perché non prendere in
considerazione la vicina Savona? I genovesi la sottomisero soltanto nel 1251 e la
rioccuparono nel 1372-94,
1413-21, 1435-58 fino alla
conquista definitiva del 1528.
E vi costruirono la fortezza
del Priamar per intimorire e
dominare i sudditi riottosi e
nemici. Ma nell’altro mare,
l’Adriatico meridionale, paradossalmente fuori del territorio italiano, c’è la più importante delle nostre repubbliche marinare, oltre le quattro
universalmente riconosciute.
È Ragusa, oggi Dubrovnik,
nella parte meridionale della
Dalmazia (Croazia).
Dopo la fine dell’Impero romano, rimase dominio di
Bisanzio dal quale si affrancò nell’XI secolo. Intorno
mento dei mezzi e dei traffici.
Ed anche quello del caffè
Pedrocchi a Padova, risorto
in maniera brillante dall’incuria del passato. Per non parlare della chiara prevenzione
per il completamento di via
della Conciliazione a Roma.
L’antologia dei suoi articoli,
tuttavia, offre spunti di ogni
genere. Elogi per la nuova
Brera, per la casa del cavalier Poldi Pezzoli, per l’apertura della napoletana Capodimonte, per la mobilitazione
fiorentina che vuole salvare
gli affreschi di Santa Maria
Novella. Pesanti interventi, in
ossequio alla selezione degli
scritti, per la moda dei grattacieli nelle metropoli italiane,
per la scarsa attenzione ai
monumenti religiosi, per il taglio indiscriminato degli alberi, per i cartelloni pubblicitari
che offuscano il paesaggio,
per il degrado di Venezia. Da
sottoscrivere ancora oggi,
dopo quasi mezzo secolo, il
suo grido di allarme: “Il minimo che uno si piglia difendendo il Paese è impersuasivo oppure reazionario oppure antimoderno. Arduo per-
al Mille, i centri dalmati, Zara,
Sebenico, Traù, Spalato, Ragusa, Cattaro e le isole di
Arbe, Veglia, Lissa, Lagosta,
Curzola, si costituiscono in
comuni liberi, ma fra il
Trecento e il 1421 tutti i comuni meno uno cadono sotto il dominio di Venezia.
Quell’unico comune fu
Ragusa che, nelle guerre fra
il regno d’Ungheria e la
Serenissima per il possesso
della Dalmazia, fu conquistata dagli ungheresi nel 1358
ma riuscì a liberarsi nel
1410, quando si proclamò
repubblica
indipendente.
Tale rimase fino al 1808,
quando Napoleone la inglobò nelle Province Illiriche
(Trieste, Istria, Carniola cioè Slovenia - e Dalmazia,
che i romani avevano chiamato Illiria). Alla fine dell’impero napoleonico, il Congresso di Vienna l’assegnò,
con tutte le Province, all’Austria; nel 1866, quando
l’Impero di Francesco Giuseppe dovette dividersi nella
“Duplice Monarchia”, Impero
d’Austria e Regno d’Ungheria, passò a quest’ultimo con
tutta la Croazia; e nel 1919
con il nome croato di Dubrovnik entrò nel Regno dei
Serbi, Croati e Sloveni, poi
chiamato Jugoslavia.
Queste vicende sono narrate nel libro fotografico Ragusa di Dalmazia. Quinta repubblica marinara italiana,
con testi di Livio Del Pino.
L’autore mette in rilievo la
lunga storia indipendente
della Repubblica di Ragusa
che, oltre la città, comprendeva una parte della costa
dalmata verso Cattaro a sud
e a nord fin davanti l’isola di
Lèsina, più le isole di Santo
Stefano, Lagosta e Sabbioncello; e descrive la sua
potenza marittima ed econo-
suadere, infatti, che prima di
sperperare miliardi in autostrade conviene aggiustare e
migliorare le strade che ci sono già. Arduo far capire che
non è reazione desiderare
scuole prima che metropolitane, grattacieli ed esposizioni enormi dove non si sa che
esporre. Ardua la dimostrazione che prima di sfondare
le città per il comodo delle
automobili conviene risanarne i vecchi quartieri e ridarli
al popolo”. E qui basta osservare che proprio il cosiddetto
“popolo”, conquistato in pieno dal mito dell’auto, ha reso
azzardate le sue speranze.
Ecco perché Leonardo Borgese esprime nello stesso tema un misto di buon senso
(tipico dell’uomo saggio) e di
utopia (tipico del teorico “progressista”). Il tutto, da leggere
con l’occhio di ieri.
Questa valida testimonianza
- con introduzione di Vittorio
Emiliani, che traccia una sintetica biografia del personaggio - presenta due piccoli misteri da non tacere in chiusura: il titolo, all’insegna del
pessimismo, sembra forzare
oltre misura lo stesso contenuto; la copertina, graficamente poco invitante, scoraggia il contatto facendo in
fondo torto all’autore.
Leonardo Borgese,
L’Italia rovinata
dagli italiani,
Rizzoli,
pagine 342, euro 19,00
mica. Basti dire che nel 1797
i ragusei possedevano ben
700 navi mercantili e che la
Repubblica aveva un centinaio di sedi diplomatiche in
Italia, Francia, Spagna, nell’Impero d’Austria e in quello
turco. Interessante è la tesi di
del Pino sull’origine del nome Dubrovnik. Sembra che
una tribù slava (i “dubroni”,
abitanti del bosco) prima del
1100 avessero chiesto asilo
alla città, che li accolse in un
quartiere periferico, chiamato appunto Dubrovnik. Ma
nei documenti ragusei, francesi e austriaci questo nome
non fu mai usato per indicare
la città, e venne introdotto
soltanto dal governo jugoslavo nel 1919. Gli ultimi italiani
di Ragusa e di alcuni paesi
vicini emigrarono nel nostro
Paese dopo il trattato di
Versailles (1919), che costituì il Regno jugoslavo.
Soltanto Zara in quell’occasione fu assegnata all’Italia;
e altri pochi connazionali rimasero nelle isole dalmate e
a Spalato fino al 1944-45,
quando anche gli zaratini
fuggirono dopo i terribili
bombardamenti alleati sulla
città, che ne fecero una piccola Dresda. Soltanto in questi ultimi anni due piccole comunità della minoranza italiana si sono formate a Zara
e a Spalato, seguendo gli
esempi molto anteriori delle
città e dei paesi dell’Istria.
Livio Del Pino,
immagini di Nedo
Fiorentin,
Ragusa di Dalmazia.
Quinta repubblica
marinara italiana,
presentazione
di Ottavio Missoni,
Edizioni Centro di cultura
giuliano-dalmata, 2004
Massimo Pavanello
Dove il postino non suona mai.
Reportage a Nairobi
di Massimiliano Lanzafame
Un viaggio in Kenia, nel
cuore dell’Africa subsahariana, per conoscere
il continente nero al di là
degli stereotipi con i quali
è presentato di solito dai
media. Il diario di don
Massimo ci mostra una
realtà complessa, problematica, ma ricca di speranza.
Nairobi è la città in cui vivono più di sessantamila
bambini di strada, dove si
sono 100 baraccopoli e oltre 2 milioni di abitanti. Un
terreno fertile per ogni tipo
di violenza, dove prostituzione, Aids e delinquenza
sono all’ordine del giorno.
Sono quei luoghi dove il
postino non arriva mai. È
la
faccia
sofferente
dell’Africa, ma che non
deve trarre in inganno. Nel
resoconto si trovano motivi di fiducia e di riscatto
per la gente del posto. Si
narra la storia di Boniface,
studente universitario, e di
John, campione di pugila-
to, due ragazzi provenienti
dalla strada che “ce l’hanno fatta”. Casi felici non da
attribuirsi alla fortuna, ma
all’impegno quotidiano di
tanti operatori umanitari.
L’autore ci descrive, poi,
come si svolgono le giornate a Kivuli e ad Anita
House, che sono due centri di accoglienza per ex
bambini di strada, e le attività dell’It Centre, scuola
di informatica, che vede
tra le sue file sempre più
ragazze.
Ed infine, la nascita e lo
sviluppo di radio Waumini,
media che dedica molta
attenzione agli slums e
che ha permesso a
Magdalen, giovane cronista proveniente da un
quartiere disagiato, di vincere il premio nazionale di
giornalismo.
Massimo Pavanello,
Dove il postino
non suona mai.
Reportage a Nairobi,
Centro Ambrosiano,
Milano 2005,
pagine 108, euro 7,50
Giulio Martini (a cura di)
I luoghi del cinema
di Paolo A. Paganini
Qualche tempo fa, a riscontro
dell’incredibile disinteresse o
colpevole approssimazione
dell’insegnamento della storia, dalle medie ai licei, facemmo qualche ragionata considerazione sulle tante possibilità di ridare dignità di questa
maltrattata materia, non più
maestra di vita, ma dimessa e
sbrindellosa cenerentola in un
mondo di abbaglianti tecnologie. La spinosa questione, a
onor del vero, è stata affrontata - con successo - da qualche
illuminato insegnante, ma rimane relegata nell’ambito di
iniziative private, forse clandestine. L’idea che ci affascinava,
non nuova, ma con un suo
suggestivo apporto di stimoli
didattici, stava nella possibilità
di utilizzare un particolare,
amatissimo sussidio, il cinema, capace, forse, di fare
amare l’ostica materia ai nostri indolenti allievi (e non solo
a loro), interessandoli, appassionandoli, come solo la magia dell’immagine - si sa - riesce a suscitare. In un magma
illimitato di argomenti, scegliendo da La presa di Roma
di Alberini e Santoni (1905) a
Cabiria di Giovanni Pastrone
(1913), da 1860 di Blasetti
(1934) a Scipione l’Africano di
Carmine Gallone (1937), da
Luciano Serra pilota (ebbene
sì) di Alessandrini (1938) a
Roma città aperta di
Rossellini (1945) e, su su, fino
al Generale Della Rovere di
Rossellini (1959), fino alla
Grande Guerra di Monicelli
(1959), fino ai film-cronaca di
Francesco Rosi, fino alle denunce sociali di Petri, di
Damiani, di Montaldo, di
Vancini, fino ai film sul terrorismo e sulla mafia di Ferrara, e
così via elencando, esiste un
parco cinematografico di ricche e composite prese di coscienza. Lacuna non da poco,
visto che la “guida” in questione non è, e non può essere,
soltanto di natura “turistica”.
I tanti ineludibili problemi storici
di casa nostra, contro la dispersiva universalizzazione
dei programmi scolastici, più
sensibili alla rivoluzione americana che non al nostro
Risorgimento e, soprattutto,
che si destreggiassero più
agevolmente nel dedalo di
tante pavide pastoie burocratiche. Di celluloide”, predica correttamente il risvolto di copertina, elencando oltre 1500 pellicole in 700 località, distribuite
in 88 itinerari regionali, con 18
carte tematiche.
Insomma, dalle risaie del
Vercellese di Riso amaro alla
Sicilia del Gattopardo, dalla
Milano neorealistica di Miracolo a Milano alle fantasie romagnole una regione per tutte. Sono annotati circa duecento set a cielo aperto, passando dal cuore pulsante della
capitale ai tanti luoghi disseminati fuori dal capoluogo, soprattutto sui laghi, con nomi di
registi (indigeni, oriundi o di
passaggio) Rimbalziamo la
critica a una eventuale, prossima edizione.
Giulio Martini (a cura di),
I luoghi del cinema
introduzione di Tullio Kezich,
Touring Club Italiano
pagine 310, euro 18.00
ORDINE
3
2006
Contro le discriminazioni
sul posto di lavoro
una norma a difesa
dei più deboli, introdotta
da una direttiva
europea, tutela gli
orientamenti sessuali
di Luisella Nicosia
avvocato in Milano
Finalmente qualcosa si muove sul fronte
avanzato della difesa dei diritti civili. Il dibattito sulla tutela della dignità del lavoro si fa, in
qualche modo, più serrato. Ad offrire un importante contributo e ad aprire nuovi orizzonti alla disciplina antidiscriminatoria, ha
senza dubbio provveduto l’attuazione, da
parte del decreto legislativo del 9 luglio 2003,
n 216, della direttiva comunitaria sulla parità
di trattamento in materia di occupazione e di
condizione di lavoro. E a rendere produttivo il
confronto, nell’ambito della discussione e
della elaborazione giuridica, interviene, in ordine di tempo, un libro, il primo testo italiano
che esamina il tema della discriminazione
fondata sull’orientamento sessuale (un
aspetto primario e, a un tempo negletto, della tematica complessiva) nel diritto del lavoro. Il libro, pubblicato dalla editrice Ediesse,
con la prefazione di Guglielmo Epifani, curato da Stefano Fabeni e Maria Gigliola
Toniollo, sviluppa un’importante e ampia analisi - articolata attraverso numerosi saggi di
eminenti studiosi italiani e stranieri, giuristi,
sociologi - che partendo dalla citata direttiva
quadro europea, esplora i vari aspetti di diritto sostanziale e procedurale della nuova disciplina introdotta dal decreto legislativo 9 luglio 2003 e le sue implicazioni rispetto al diritto sindacale, alla normativa italiana e straniera, alla giurisprudenza italiana e degli altri
paesi dell’Unione europea, alle correlazioni
di carattere sociologico. Ma tant’è, l’occasione appare propizia per fare il punto sulla
realtà di una condizione che interessa la quotidianità di molti lavoratori.
Si è parlato - e si continua giustamente a
parlare - in questi ultimi tempi, di un fenomeno che ha assunto le caratteristiche di una
vera e propria calamità sociale: è quello del
“mobbing”, ovvero dell’insidioso e subdolo attacco subito dall’individuo sul posto di lavoro
che si manifesta con pesanti tentativi di annientamento della dignità personale, con ingiustificate discriminazioni, con l’emarginazione, con il disconoscimento delle valenze
professionali e lo svilimento delle mansioni
Mobbing ed emarginazione
fino a che punto sanzionati?
proprie e specifiche del lavoratore. È un fenomeno che, purtroppo, investe ogni settore
di attività, che talvolta coinvolge massicciamente anche ambienti di peculiare prestazione intellettuale. Non sono indenni neppure le redazioni giornalistiche. Le motivazioni
di chi promuove l’aggressione - sia esso un
pari grado (in quel caso si tratta di mobbing
orizzontale), sia un superiore in linea gerarchica (e si tratta di mobbing verticale) - sono
quasi sempre finalizzate ad indebolire la condizione operativa del soggetto prescelto, a
squalificarlo fino ad ottenerne, talora, le forzate dimissioni. Le conseguenze sono gravi,
sul piano psicologico, invasive come sono
della sfera morale, e sul piano fisico per le
inevitabili ripercussioni nell’ambito somatico
tere, per scarsa caratura di “potere”, per
estrazione sociale, per pesante afflizione di
pregiudizio) uomini, donne, giovani e meno
giovani: non c’è più differenza. E, neanche a
dirlo, nel mirino sono finiti i “diversi”, in primo
luogo gli omosessuali.
Ma quali sono le possibilità di difesa?
Nell’assenza di una normativa specifica è
stato il giudice, fino a qualche anno fa, a sanzionare l’offesa inferta ad ogni singolo lavoratore, alla stregua della legislazione più generale che prevede la tutela della dignità morale e della integrità fisica della persona
umana. Sono state pronunciate sentenze
esemplari. E tuttavia incerto e difficile è sempre apparso l’iter di un procedimento giudiziario per mobbing, troppo esposto (in ca-
Giuristi e sociologi, in un libro denuncia,
criticano il decreto legislativo 216/2003
sulla parità di trattamento in materia
di occupazione e di condizioni di lavoro
che portano a scaricare su un organo o altro
componente organico uno stato di disagio
psichico, soprattutto di tipo nevrotico, col
conseguente insorgere di una patologia a
danno della parte coinvolta. E la casistica è
ai giorni nostri così diffusa al punto da far assumere al fenomeno, come s’è detto, la portata di un’autentica malattia sociale. Il ventaglio delle modalità di aggressione si è talmente allargato che forse occorrerà anche riflettere sulla nozione di molestie e la relazione tra mobbing classico e discriminazione.
Se nel recente passato le vittime predestinate sembravano essere soprattutto le donne,
oggetto di molestie sessuali, di sconvenienti
avances e, quindi, di vili ritorsioni a fronte di
reazioni assolutamente negative, oggi, in
epoca di frenetica e inarrestabile competizione sociale, a dover fare i conti col mobber
(con il “mostro”, come lo definisce una efficace allegoria) sono più in generale tutti i
soggetti deboli (deboli per mitezza di carat-
renza di legge ad hoc e di consolidata giurisprudenza) alla discrezionalità, alla valutazione soggettiva e all’influenza del bagaglio
culturale e alla sensibilità personale di ogni
singolo magistrato. A colmare, almeno in parte e in linea di principio, il vuoto legislativo su
una materia tanto importante è intervenuto il
decreto 9 luglio 2003, n. 216 che ha dato attuazione nell’ordinamento italiano alla direttiva europea 2000/78 sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizione di lavoro. Una direttiva che per la prima volta introduce, in aggiunta ad ogni altro
comportamento discriminatorio, il divieto di
discriminazione (ed è un fatto di rilevante significato civile) fondato sull’orientamento
sessuale. Ci sarebbe da riflettere parecchio
sulla circostanza - osserva Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil - che soltanto l’adempimento a un obbligo comunitario abbia indotto il legislatore italiano a introdurre una protezione che già da parecchio
tempo faceva parte del corpus giuridico di diversi paesi europei e occidentali. Ed è questa, nella sostanza, la premessa a una lettura critica del provvedimento governativo (il
decreto legislativo 216/2003) che rappresenta un recepimento minimalista della direttiva
e che, a tratti, arriva ad ignorare se non a distorcerne l’impianto complessivo. È quanto il
libro, ovvero gli autori dei diversi saggi in esso contenuti, si propongono di porre in evidenza, segnalando al di là della manifesta
volontà del governo di sfruttare in chiave restrittiva tutte le zone di indeterminatezza possibili della direttiva europea, quegli elementi
tecnici di novità e quegli spazi che pure sono
presenti nel decreto, e che possono consentire una interpretazione conforme alla norma
europea a vantaggio di lavoratori e lavoratrici. “È pertanto urgente aprire un dibattito - affermano i curatori dell’opera, Fabeni e
Toniollo - sugli strumenti da introdurre non
solo per ridefinire e completare l’attuazione
della direttiva 2000/78, ma per andare oltre la
direttiva stessa allo scopo di dare piena efficacia alla disciplina sulla parità di trattamento. L’esperienza della normativa in materia di
parità uomo-donna potrebbe costituire un importante elemento di spunto”.
Il libro, dunque, persegue vari scopi. E si propone importanti obiettivi. In primo luogo,come s’è detto, promuovere un dibattito giuridico che, coinvolgendo eminenti giuristi, porti
all’attenzione della dottrina e più in generale
degli operatori del diritto, la questione della
discriminazione fondata sull’orientamento
sessuale; in seconda istanza di intraprendere un viaggio - come precisano i curatori - ma
anche un dialogo a distanza tra gli autori dei
singoli saggi - un confronto tra giuslavoristi e
giuristi esperti in sexual orientation and the
law - intorno alla questione dell’applicazione
della nuova disciplina antidiscriminatoria, allo
scopo di offrire spunti di riflessione, di interpretazione delle norme vigenti, di ulteriori iniziative, anche di carattere legislativo o accademico.
Ma non è tutto. Il volume vuole essere, infine,
un commentario alla nuova disciplina antidiscriminatoria introdotta dal decreto legislativo
216/2003, utile a chiunque debba muoversi
in quel delicato ambito.
Sì del Tar Lazio ai minispot pubblicitari
durante i tempi morti delle partite
di Gabriele Mastellarini
Sì ai minispot pubblicitari durante i tempi morti delle partite di calcio e non solo nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo.
L’assenso, forse definitivo, arriva dal Tar Lazio (II sezione,
sentenza n. 14965 del 21 dicembre) che ha respinto un
ricorso dell’Editoriale L’Espresso e della Manzoni pubblicità contro Rti e Publitalia (gruppo Fininvest), finalizzato
ad annullare due delibere del Garante per le Comunicazioni.
Al Tribunale amministrativo veniva chiesta una valutazione sulla compatibilità tra la direttiva europea n. 89 del 3
ottobre 1989, secondo la quale “pubblicità e televendite
possono essere inserite solo tra le parti autonome e negli intervalli dei programmi sportivi”, e i regolamenti
dell’Authority italiana che consentono di “diffondere i messaggi commerciali (anche) negli arresti di gioco”.
I giudici hanno ribadito l’orientamento dell’Autorità, spiegando meglio e suggerendo alcuni casi concreti: «L’inserimento del minispot - sostiene il Tar - è possibile nelle
pause in cui il telespettatore non è privato in alcun modo
della visione dell’azione sportiva e, quindi, non viene pregiudicata la fruizione dell’evento.
ORDINE
3
2006
Nel gioco del calcio, ad esempio, si tratta di un arresto del
gioco in occasione dell’infortunio di un giocatore».
Prendendo i panni di un “autentico” arbitro, il collegio presieduto da Domenico La Medica (estensore Roberto
Capuzzi, primo referendario Raffaello Sestini), ha addirittura “spulciato” il Regolamento ufficiale del gioco del calcio,
proprio nella parte relativa a sostituzioni, trasporto di calciatori infortunati fuori dal terreno di gioco, comportamenti
ostruzionistici.
Tutti momenti integranti delle partite, ma nei quali il pallone non è in gioco. «In tali circostanze non si svolge l’azione sportiva» e può esserci il lancio dello spot. «Le pause si legge nella decisione - costituiscono non solo l’occasione ma anche il limite temporale oggettivo dell’inserimento
pubblicitario. Finita la pausa, cioè al riavvio del gioco, la trasmissione dell’evento deve obbligatoriamente essere ripresa».Secondo Rti e Publitalia, l’Editoriale L’Espresso e la
concessionaria Manzoni non erano legittimati ad impugnare gli atti del Garante, non essendo direttamente impegnati nel settore televisivo.
L’eccezione preliminare è stata rigettata dal Tar, che ha
equiparato i diversi media: «Sia il mercato della televisione,
sia quello della pubblicità sulla carta stampata, pur profondamente differenti, sono tra loro intimamente collegati e tali che ogni fenomeno distorsivo del primo si riverbera sul
secondo».
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