MATTEO CADARIO NERONE E IL “POTERE DELLE IMMAGINI”
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MATTEO CADARIO NERONE E IL “POTERE DELLE IMMAGINI”
M AT T E O C A D A R I O N E RO N E E I L “ P OT E R E D E L L E I M M AG I N I ” 176 Alla fine del maggio del 66 Roma visse una giornata indimenticabile, in cui Nerone diede prova del suo indubbio talento scenografico allestendo uno spettacolo di rara efficacia: l’incoronazione del re d’Armenia Tiridate, il fratello del re partico Vologese (Dione Cassio, Storia romana, 63, 2-6; Svetonio, Nerone, 13; Plinio, Storia naturale, 33, 54; Tacito, Annali, 16, 23-24). Essa avvenne in una cornice eccezionale ed era stata preceduta da costose cerimonie lungo tutto il percorso che aveva portato il principe arsacide dalla Siria all’Urbe. Tiridate aveva viaggiato a cavallo insieme alla moglie e al suo seguito per nove mesi via terra e aveva incontrato Nerone a Napoli, da dove i due si erano recati a Roma. All’alba il popolo romano li attendeva già schierato lungo le strade e nel Foro, dove aspettavano anche i soldati resi scintillanti dalle armi e dalle corazze da parata. Il primo ad arrivare fu Nerone, che, vestito in abito trionfale e attorniato dai pretoriani, prese posto sui rostri, sedendosi sul seggio curule; poco dopo Tiridate lo raggiunse, si prostrò in segno di sottomissione e si disse suo servo e pronto persino ad adorarlo. Nerone gli rispose proclamandolo prima a voce re d’Armenia e poi ponendogli sul capo il diadema tra le acclamazioni della folla. La cerimonia si spostò nel Campo Marzio e si ripeté nel magnifico teatro di Pompeo, tutto rivestito d’oro per l’occasione e dotato anche di un nuovo tendone, in cui campeggiava l’immagine dello stesso Nerone alla guida della quadriga solare nel cielo stellato. Di sera la festa proseguì in forma privata, ossia con un banchetto in cui Nerone si esibì come citaredo e auriga, vestendo entrambi i costumi e rinunciando alla toga da trionfatore indossata di giorno. In seguito egli si assegnò anche una acclamazione imperatoria, corone d’alloro e il titolo perpetuo di imperator. In questo show lungo un giorno l’imperatore aveva riunito i temi chiave della sua propaganda: la presentazione al popolo della vittoria sui Parti, il grande nemico orientale dell’impero (in realtà il conflitto si era concluso con un compromesso); l’accostamento al Sole, da tempo una priorità per Nerone, che scandì i tempi stessi della cerimonia per sottolinearlo, facendo coincidere con le prime ore della giornata il “rito” forense in cui Tiridate lo equiparò a Mitra (una divinità solare), sfruttando molteplici effetti di luce (le armi e le corazze risplendenti dei soldati, il teatro dorato nel pieno della luce del giorno) e facendosi ritrarre alla guida del carro solare sul telo che proteggeva il pubblico dai raggi del sole; last but not least la passione per i ludi, esibita dall’imperatore sia scegliendo il teatro come seconda location dello spettacolo sia presentandosi come auriga per ribadire il suo rapporto con Sole/Helios, il dio auriga per eccellenza. Come accade di rado, una testimonianza concreta della traduzione in un “monumento” di questa spettacolare cerimonia è giunta fino a noi grazie a una statua loricata dello stesso Nerone che fu aggiunta tra il 66 e il 68 a un gruppo dinastico eretto nel teatro di Caere (Cerveteri) (fig. 1). La testa dell’imperatore fu probabilmente rimossa dopo la sua morte, ma la corazza è decorata con un 177 1. Dettaglio della corazza della statua loricata di Nerone da Caere. Città del Vaticano, Musei Vaticani significativo, sebbene ridotto, programma decorativo dedicato proprio all’illustrazione della sottomissione dei Parti. Nella parte superiore della lorica lo stesso Nerone (il cui ritratto riprende il tipo creato nel 64) è alla guida del carro del Sole, ossia nella stessa iconografia del velario del teatro di Pompeo; nella parte inferiore due Arimaspi in costume orientale venerano una coppia di Grifoni offrendo una patera e inginocchiandosi, replicando così la proskynesis con cui Tiridate aveva accettato il diadema da Nerone. Nel mito gli Arimaspi erano uomini monocoli che abitavano ai confini del mondo conosciuto, dove contendevano il possesso dell’oro ai Grifoni, gli animali a loro volta fantastici e sacri ad Apollo che custodivano le miniere aurifere per conto del dio; nella statua di Caere, traducendo la complessa allegoria tipica del linguaggio della propaganda giulio-claudia, gli Arimaspi simboleggiavano quindi i Parti che si sottomettevano al potere apollineo di Roma, identificato dai Grifoni, sotto lo sguardo stesso di Nerone/Sol Invictus che sembrava spuntare insieme alla sua quadriga nella parte superiore della lorica. La submissio dei Parti/Arimaspi avrebbe poi goduto (come Tiridate) della clemenza imperiale (cfr. Seneca, Sulla clemenza, 1, 2). Di per sé l’iconografia non era una novità assoluta, ma l’inserimento del volto dell’imperatore serviva a riprodurre le circostanze eccezionali dell’investitura di Tiridate replicando l’immagine di Nerone realizzata ad hoc per il teatro di Pompeo. La statua aveva così lo scopo di ribadire che quello spettacolo non era stato solo un’indimenticabile performance (il dies aureus) offerta al popolo romano da un istrionico imperatore, ma il frutto di una strategia propagandistica coerente che voleva presentare l’incoronazione del re vassallo come un atto di clemenza in risposta alla sua sottomissione e quindi come un successo politico e militare favorito proprio dalla protezione di Apollo/Helios. La rappresentazione della scena in un loricato ribadiva inoltre il ruolo perenne di imperator vittorioso impersonato ormai da Nerone. L’investitura di Tiridate rappresentò forse il momento più felice della comunicazione pubblica di Nerone almeno a Roma, visto che subito dopo egli partì per la Grecia e fu poi travolto dalla crisi del suo governo appena rientrato nella capitale. 178 179 2a. Ritratto di Nerone bambino (1° tipo). Parigi, Louvre 2b. Ritratto di Nerone da Olbia (2° tipo). Cagliari, Museo Archeologico Nazionale 2c. Ritratto di Nerone dal Palatino (3° tipo). Roma, Museo Palatino 2d. Ritratto di Nerone (4° tipo). Monaco di Baviera, Glyptothek Da Domizio Enobarbo a Giulio-Claudio Nato nel 37, Nerone entrò nella famiglia imperiale solo nel 50, quando Claudio, dopo averne sposato la madre Agrippina Minore (nel 49), lo adottò. La fretta di comunicare la novità dell’adozione è dimostrata dall’elaborazione immediata del primo tipo ritrattistico ufficiale del giovane principe (il tipo “Parma”) (fig. 2a) che, nell’intento di legittimare la sua posizione, lo rese somigliante al padre adottivo nella pettinatura, spartendo la frangia intorno a un analogo motivo a forcella (altri dettagli di acconciatura e fisionomia, come le basette e le sopracciglia marcate, erano invece tratti personali del giovane principe). Seguì l’immediato inserimento di Nerone nei cicli statuari che presentavano la famiglia imperiale nei principali edifici pubblici delle città romane. Le élites locali onoravano infatti abitualmente i membri della domus Augusta, aggiornando progressivamente i cicli a seconda degli sviluppi della politica dinastica e il frequente inserimento di giovani principi e principesse era anche un modo per rassicurare sulla continuità della famiglia imperiale, un’esigenza che si fece più forte in età claudia, quando i ritratti infantili in toga conobbero un vero e proprio boom (cfr. Veio, Rusellae, Luni, Fano e Milano). L’identificazione di Nerone bambino è sicura per due statue togate conservate a Parma e al Louvre e provenienti rispettivamente da Velleia (fig. 3) e da Gabii (o Anzio). In entrambe egli indossa la toga praetexta e la bulla, ossia il tipico costume infantile romano che era sostituito dalla toga virile al momento dell’ingresso nella vita adulta. Come si conveniva all’erede al trono Nerone anticipò i tempi ed ebbe il privilegio di portare la nuova toga già nel 51, ossia a soli 13 anni, il che consente di datare le due statue tra il 50 e il 51; esse costituirono dunque un’eco immediata dell’adozione di Nerone e una prova della rapidità con cui le élites municipali italiche si adeguavano ai cambiamenti in corso nella famiglia imperiale. La designazione di Nerone quale erede effettivo dell’impero divenne palese tra il 51 e il 52 con il conferimento degli onori connessi al ruolo di “Cesare” e con la sua frequente raffigurazione nella monetazione imperiale, da cui invece Britannico, il figlio naturale di Claudio più giovane però di Nerone, era escluso. Nel frattempo fu aggiornato anche il ritratto ufficiale del futuro imperatore, come testimoniano una bella testa con indosso la corona civica (?) proveniente forse da Vienne (oggi è a Genf ) e altri ritratti in cui il giovane principe mostra tratti meno infantili (Mantova). Il cambiamento non riguardò tanto l’acconciatura, quindi non si trattò di un vero e proprio nuovo tipo ritrattistico, quanto l’età, in modo da conferire al giovane principe un aspetto più adulto e adatto all’erede al trono. Questo intento si nota anche in una statua togata di Detroit, di provenienza asiatica, che potrebbe raffigurare il giovanissimo Nerone con indosso proprio la toga virile al posto di quella infantile. L’attenzione con cui la propaganda illustrava i delicati equilibri connessi alla successione dinastica è confermata dal Sebasteion di Afrodisia, il grande santuario dedicato al culto imperiale, la cui costruzione doveva mostrare il legame della città caria con la famiglia giulio-claudia: in un pannello si trovò quindi il modo di illustrare il primato di Nerone su Britannico raffigurando i due principi insieme e in nudità eroica, ma il solo Nerone stringeva il globo terrestre e l’aplustre, segno evidente della sua supremazia. Figlio dell’optima mater Agrippina Minore Nella cura con cui il ruolo di Nerone fu rafforzato e comunicato si riconosce l’intervento della madre Agrippina, la cui onnipresenza al fianco del figlio, già evidente prima dell’ascesa al trono, segnò anche il momento delicato della successione, il 13 ottobre del 54, circostanza che la donna seppe gestire con grande abilità, guadagnandosi uno spazio pubblico inusitato per il mondo romano. Il suo ruolo di garante dell’autorità del figlio, che si avvicinava all’esercizio effettivo del potere, è dimostrato dal gran numero di ritratti esistenti, dall’acclamazione quale optima mater (Svetonio, Nerone, 9), dal titolo di Augusta, da oggetti preziosi come il cammeo di Colonia, in cui Agrippina/Fortuna incoronava Nerone assimilato a Giove, e dalla monetazione urbana, dove l’imperatrice era eccezionalmente ritratta insieme al figlio (cfr. gli aurei con le teste affrontate di madre e figlio e quelli con i capita iugata), proprio così come lo accompagnava nelle occasioni pubbliche, suscitando preoccupazione tra i consiglieri imperiali. Agrippina voleva infatti partecipare agli affari di stato e cercò di intervenire direttamente nella gestione della crisi armena che segnò l’inizio del duro conflitto con i Parti che proseguì dal 54 al 63. Nell’occasione ella tentò di ricevere insieme a Nerone gli ambasciatori armeni, ma fu ostacolata da Seneca e da Afranio Burro (Dione Cassio, Storia romana, 61, 3). Un pannello del Sebasteion di Afrodisia descrive molto bene il ruolo dell’imperatrice in quel difficile frangente. Anch’esso raffigura (ma in un edificio pubblico) l’incoronazione di Nerone da parte della madre (fig. 4): Agrippina è sempre assimilata a Fortuna dalla cornucopia, mentre il figlio indossa la corazza per sottolineare i successi iniziali nella guerra contro i Parti. La scena era la stessa illustrata dalle statue di culto del tempio di Roma e di Augusto a Pergamo, in cui Augusto loricato era incoronato a sua volta da una figura femminile, ma il delicato compito di porgergli la corona, che implicava anche una preminenza di rango, era toccato in quel caso alla dea Roma, mentre ad Afrodisia, l’élite, bene informata su quanto accadeva a corte, si affrettò a “fotografare” la situazione affidando proprio all’Augusta il compito di incoronare il figlio, per sottolineare così il suo anomalo ruolo pubblico. L’annuncio della vittoria era poi completato da un secondo pannello in cui lo stesso Nerone era ritratto come l’amorevole soccorritore di uno stato cliente, ossia mentre, come un giovane eroe, risollevava l’Armenia caduta a terra; la scena era volutamente ambigua, perché, alludendo al modello eroico del duello tra Achille (Nerone) e l’amazzone Pentesilea (la personificazione dell’Armenia), mostrava l’imperatore sia come un guerriero vincitore sia come il “salvatore” di un’Armenia prostrata. In entrambi i pannelli il volto dell’imperatore appare cambiato: chi saliva al trono si affrettava infatti a dotarsi di un nuovo ritratto e così fece anche Nerone almeno dall’inizio del 55, quando il cosiddetto tipo “Cagliari” comparve per la prima volta sulle monete (fig. 2b). Questo nuovo ritratto riformulava in senso più realistico (cfr. gli occhi infossati, il labbro superiore prominente e gli orecchi a sventola) l’iconografia del giovane principe giulio-claudio, del quale conservava però ancora la caratteristica frangia compatta e bipartita dal motivo a forcella. I rilievi di Afrodisia si datano quindi nel corso del 55 e segnano nello stesso tempo l’apice del potere di Agrippina e l’inizio del suo declino, nel quale fu decisivo proprio il tentativo di vedere riconosciuto apertamente l’esercizio di una sorta di reggenza/tutela sul figlio. Dopo il 55 ella scomparve infatti dalla monetazione e, sebbene conservasse una certa influenza, perse ogni ruolo ufficiale finché non cadde vittima dell’ira imperiale nel 59. 180 3. Nerone togato con bulla da Velleia. Parma, Museo Archeologico Nazionale Il modello augusteo e la vittoria partica Quando nell’autunno del 54 Nerone era salito sul trono, nel suo primo discorso (scritto da Seneca), in cui aveva proclamato l’apoteosi di Claudio, aveva dichiarato la sua volontà di governare secondo il modello augusteo (Svetonio, Nerone, 10, 1). A suo modo egli restò fedele a questo intento per tutto il principato, sfruttando la guerra con i Parti per sviluppare il nesso che Augusto aveva stabilito per primo tra la vittoria partica, il ritorno dell’età dell’oro (l’aurea aetas) e la protezione di Apollo e di Sol/Helios. Proprio l’uso di questi temi fin dall’inizio del regno neroniano fa dubitare che sia possibile scandire l’evoluzione dell’immagine dell’imperatore, individuando date specifiche per l’inizio della sua assimilazione ad Apollo (59) e al Sole (64). Nonostante quei due anni abbiano segnato delle svolte, la propaganda neroniana non operò con tanta coerenza, anzi intrecciò spesso tra loro i vari temi, come si è visto nell’incoronazione di Tiridate nel 66, restando per giunta a lungo nel solco del modello augusteo, per distaccarsene solo negli ultimi anni. Nel 55 la strada dell’imitatio Augusti nella celebrazione della vittoria partica fu scelta dall’entourage di Nerone accettando che una statua (effigies) del giovane sovrano fosse collocata nel tempio di Marte Ultore (Tacito, Annali, 13, 8, 1), dove erano conservate le insegne legionarie che i Parti avevano riconsegnato proprio ad Augusto nel 20 a.C. Il nesso con il dio della guerra fu accompagnato dall’adozione immediata dell’immagine loricata, testimoniata nel rilievo di Afrodisia e in una statua di Tralleis (fig. 12c), oggi acefala ma identificata con Nerone dall’iscrizione e datata ai primi anni di regno. In entrambe le corazze la decorazione è formata da simboli solari, evidenziando così l’accostamento a Sol/Helios già nel momento delle prime vittorie in Armenia, un legame confermato da un altro pannello del Sebasteion di Afrodisia del quale si conserva solo l’iscrizione da cui si deduce però che Nerone e il dio vi fossero rappresentati insieme. In seguito la vittoria romana sui Parti fu celebrata di nuovo nel 58 nelle forme consuete della salutazione imperatoria e della costruzione in Campidoglio di un arco onorario, che fu completato nel 62, ossia prima della conclusione del conflitto nel 63. L’arco fu poi distrutto dopo la morte di 4. Pannello del Sebasteion di Afrodisia raffigurante Nerone incoronato dalla madre Agrippina Minore 181 182 5. Rilievo con guerriero partico. Roma, Museo Nazionale Romano 7. Denario raffigurante forse Nerone assimilato ad Apollo citaredo 6. Efebo di Subiaco. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme 8. Altare di Eumolpo. Firenze, Museo Archeologico Nazionale Nerone, ma siamo informati sul suo aspetto grazie alle monete che lo raffigurano e ad alcuni frammenti attribuiti da E. La Rocca alla decorazione architettonica e figurata dell’edificio. Il programma decorativo, che per la prima volta occupava ogni spazio disponibile ed era completato sull’attico dalla statua di Nerone sulla quadriga trionfale, doveva riunire il linguaggio simbolico della propaganda giulio-claudia, riconoscibile per esempio nelle immagini di Vittorie e di danzatrici, con la più concreta rappresentazione delle scene di battaglia. Queste sono a stento leggibili nelle monete, ma potrebbero essere conservate almeno da un frammento di rilievo del Museo Nazionale Romano in cui compare un guerriero partico mentre combatte (fig. 5): si tratta di un documento prezioso del rinnovamento formale e di contenuti in corso nel rilievo storico romano, che aveva iniziato a dare più spazio ai temi bellici, anticipando le conquiste dell’età traianea nella composizione di una scena molto ricca di pathos e lontana ormai dai modelli augustei. Il rilievo consente inoltre di ipotizzare l’esistenza di un repertorio (perduto) di immagini ufficiali raffiguranti le campagne neroniane (cfr. anche i trofei partici citati in Tacito, Annali, 15, 18, 1), che è suggerita anche dall’eco in alcune appliques con guerrieri partici e soprattutto in un bronzetto di Venezia, proveniente da Oderzo e raffigurante Nerone mentre, nei primi anni di regno (il ritratto è un tipo “Cagliari”), seduto e loricato, accettava la sottomissione di un nemico. Il nuovo Apollo citaredo Il primo quinquennio di regno di Nerone fu poi ricordato come un periodo felice e la lieta ricorrenza fu sottolineata nel 59 mediante la creazione di un nuovo ritratto imperiale (tipo “Museo delle Terme”), che segnò per la prima volta un distacco netto dalla tradizione giulio-claudia e l’adesione a quella del sovrano ellenistico. L’inizio di quella che sarà poi considerata la fase “tirannica” del principato neroniano, inizio segnato anche dall’uccisione di Agrippina, vide così Nerone mutare letteralmente volto e rinnovare profondamente l’immagine imperiale (cfr. Svetonio, Nerone, 51 sulla pettinatura). Nel nuovo ritratto, testimoniato da una splendida testa proveniente dal Palatino (fig. 2c), il viso si fece più largo, il collo più massiccio, le basette e i capelli si allungarono fino a coprire guance e collo (Seneca, Apocolocyntosis, 4, 30-34) e la frangia compatta tipica dei giulio-claudi lasciò il posto a un brusco movimento delle ciocche verso la tempia destra concluso da un motivo a forcella sull’angolo esterno dell’occhio destro. 183 Questa adesione a modelli ellenistici è coerente con le decisioni pervase di filellenismo prese dall’imperatore in quegli stessi anni, e in particolare con l’istituzione dei primi concorsi musicali e letterari (Iuvenalia nel 59 e i Neronia nel 60). Di per sé l’interesse dell’imperatore per il teatro e per le recitationes non era una novità, visti l’impegno nel restauro di edifici teatrali municipali e anche la frequente presenza di statue di Nerone nei teatri (Bologna, Caere, Vaison) e soprattutto negli odeia (Cosa, Luni, Vienne), una presenza che si inseriva comunque ancora nel solco dell’esempio augusteo. È significativa del clima culturale dell’epoca anche la contemporanea affermazione di una nuova iconografia del cittadino romano come intellettuale/poeta in toga, ottenuta mediante la rappresentazione del gesto di interrompere la lettura (cfr. un togato di età neroniana dal teatro/odeion di Luni). Nerone si preparava però a fare molto di più, ossia a calcare personalmente la scena come citaredo, attore e pantomimo, coltivando così in pubblico ciò che per un aristocratico romano era stato fino ad allora accettato (e raramente) solo in privato. Dal 59 Nerone si impegnò invece moltissimo nella sua carriera musicale e teatrale, in cui esibiva le abilità nel canto e nell’uso della cetra, condivise proprio con Apollo. L’esordio sulla scena produsse così anche nuove immagini, estranee alle consuete iconografie imperiali. Svetonio (Nerone, 25, 2) riferisce infatti al momento del ritorno “trionfale” dalla Grecia a Roma la rappresentazione di Nerone in costume da citaredo in alcune statue e nella monetazione. In effetti diverse emissioni coniate a Lione e in Grecia tra il 64 e il 67, raffigurano sul rovescio un citaredo in azione in cui è stato riconosciuto l’imperatore nelle vesti di Apollo (fig. 7). L’identificazione non è evidente, ma è significativo che i romani, e tra costoro anche Svetonio, abbiano creduto che si trattasse di immagini di Nerone e non del dio. Per quanto Augusto fosse stato a sua volta assimilato ad Apollo sul Palatino e le immagini di Nerone citaredo fossero una “logica” conseguenza delle sue vittorie nel tour greco, niente di simile si era visto a Roma tanto che l’imperatore stesso ne limitò la collocazione alla propria residenza privata. Calcare le scene fece inoltre sì che Nerone si immergesse a fondo in quel mondo del mito in cui sceglieva i soggetti delle sue interpretazioni, spesso suggerendo, come ha sostenuto E. Champlin, anche un certo grado di identificazione con i “suoi” personaggi. Una coincidenza interessante si scorge allora nel soggetto di due delle poche sculture verosimilmente attribuibili all’arredo scultoreo di una residenza neroniana. Il debutto professionale di Nerone come citaredo nel 64 avvenne infatti con l’interpretazione di una Niobe, un tema scelto probabilmente perché la crudele punizione della donna e dei suoi figli esprimeva al meglio la forza implacabile del potere di Apollo. Lo stesso tema era però illustrato anche nella villa imperiale di Subiaco (Sublaqueum), come testimoniano la statua di Efebo (fig. 6) e forse anche la cd. fanciulla dormiente attribuite a un gruppo raffigurante i Niobidi. L’illustrazione del potere di Apollo poteva dunque accompagnare l’imperatore sia in scena sia nei momenti di otium. 184 9. Ritratto di Nerone, già nella collezione Axel Guttman 10. Aureo raffigurante Nerone in toga, stante e radiato Tra Sol/Helios e il Divo Augusto Dall’assimilazione ad Apollo all’accostamento al Sole il passo era breve, come in parte era già accaduto in età augustea, e per Nerone il tema solare è attestato dalla statua di Tralleis, dai pannelli Afrodisia e da molti brani encomiastici di poeti e letterati del tempo (Lucano, Calpurnio Siculo, alcuni epigrammi greci, in parte Seneca). In questo caso la novità decisiva fu l’adozione della corona radiata, che Nerone indossò per la prima volta nel 64, nel momento della creazione del suo ultimo tipo ritrattistico (il quarto) in occasione dei decennalia di regno. Il volto imperiale (cfr. lo splendido ritratto in bronzo dorato della collezione Alex Guttman, fig. 9, e la testa di München, fig. 2d), come si nota soprattutto nelle immagini monetali, divenne allora più pesante, le basette sostituirono la corta barba precedente e la sistemazione della frangia si fece ancora più teatrale, perdendo la “forcella” sull’angolo dell’occhio destro. Il ritratto di Nerone doveva ormai illustrare il potere benefico dell’imperatore, pronto a distribuire ricchezza ai cittadini (come nelle scene monetali di congiarium) in piena coerenza con quel ritorno della pace e dell’età dell’oro finalmente realizzato con la conclusione delle ostilità con i Parti nel 63 e con la conseguente chiusura delle porte del tempio di Giano che Nerone stesso ordinò nel 64, avendo come unico precedente quello augusteo, anch’esso derivante da una vittoria partica. La scelta della corona radiata, un indubbio attributo solare che caratterizzava però anche l’immagine ufficiale del Divo Augusto, doveva puntare in effetti molto sull’ambiguità di un simbolo che era ormai considerato (anche) un attributo del princeps divinizzato. Nel rovescio di un aureo coniato dopo il 64, in cui Nerone fu ritratto con indosso la toga, la corona radiata, un ramo d’alloro nella destra e un globo niceforo nella sinistra, la nuova immagine “solare” si sposava infatti con la celebrazione della vittoria nel solco del modello augusteo, citato dalla presenza di quella stessa Vittoria sul globo che Augusto aveva fatto porre nella Curia Iulia (fig. 10). Dal punto di vista di Nerone la chiusura del tempio di Giano realizzava di fatto l’aurea aetas promessa e gli consentì di passare dalla semplice imitazione di Augusto alla più impegnativa e inedita emulazione del Divo Augusto, sfruttando anche il comune accostamento ad Apollo e al Sole. La corona radiata presentava dunque Nerone come un divo ante litteram, come in un cammeo di Nancy, in cui era anticipata l’apoteosi stessa dell’imperatore, assimilato a Giove e portato in cielo da un’aquila. Nel ritratto radiato la novità non risiedeva quindi tanto nell’iconografia quanto nella sua estensione all’immagine vivente di un imperatore. Essa fu però solo il punto di partenza per la nascita di nuove immagini in cui l’accostamento al Sole si liberò degli ingombranti precedenti augustei, e cominciò a confidare direttamente sulle abilità personali dell’imperatore, come la partecipazione alle corse dei carri. La nuova iconografia di Nerone auriga solare, che fu mostrata al popolo il giorno dell’incoronazione di Tiridate e riprodotta nella statua loricata cerite, dimostra che Nerone non si “accontentava” della corona radiata, ma cercava di coniugare il ruolo del Sole nel mito (e nel circo) con le sue doti di auriga per costruire un’assimilazione al Sole più stretta ed esclusiva, come aveva fatto con Apollo sfruttando la citarodia. In questo filone si inserisce anche la dedica privata di un piccolo altare offerto al Sole e alla Luna da Eumolpo, uno schiavo che lavorava per la Domus Aurea (fig. 8). La sua decorazione, con al centro l’immagine radiata del Sole caratterizzata però dal volto di Nerone e dal costume d’auriga, dimostra il salto di qualità nell’identificazione tra l’imperatore e il dio, almeno nelle dediche private: l’altare raffigurava infatti il Sole, dando però al dio la fisionomia di Nerone, ragion per cui l’imperatore non si limitava più a indossare la corona radiata ma appariva circonfuso direttamente di radii solari. L’episodio più celebre e controverso dell’assimilazione solare di Nerone fu la decisione di realizzare il Colosso raffigurante il Sole nel vestibolo della Domus Aurea (Plinio il Vecchio, Storia naturale, 34, 18, 45; Svetonio, Nerone, 31, 1). La statua fu completata e dedicata come un’immagine del Sole nel 75 da Vespasiano (Svetonio, Vespasiano, 18 e Dione Cassio, Storia romana, 65, 15, 1), ma, sebbene si corra il rischio di fare un processo alle intenzioni, visto che è probabile che nel 68 185 186 12a. Statua loricata di Nerone dal teatro di Bologna. Bologna, Civico Museo Archeologico 11. Nerone seminudo (opera venduta all’asta negli anni sessanta) 12b. Statua loricata di Nerone da VaisonLa-Romaine. VaisonLa-Romaine, Musée Archéologique Théo Desplans 12c. Statua loricata di Tralleis. Istanbul, Museo Archeologico 12d. Statua loricata da Velleia. Parma, Museo Archeologico Nazionale l’opera non fosse stata ancora terminata, il suo aspetto originario e il grado di somiglianza del volto con Nerone sono da tempo oggetto di discussione. Le fonti letterarie non consentono però di pronunciarsi in maniera definitiva sull’identità prevista per il Colosso. Si può solo dire che l’imperatore amava i ritratti giganti: una sua immagine alta 120 piedi era stata dipinta presso gli Horti Maiani (Plinio, Storia naturale, 35, 51; sarà poi distrutta da un fulmine) e anche quella raffigurata nel velario del Teatro di Pompeo doveva essere enorme. Si ha perciò l’impressione che il frequente accostamento di Nerone al Sole e la colossalità della statua avrebbero indotto di per sé chiunque a riconoscere il volto imperiale nell’immagine del dio, un po’ come nelle monete con Apollo Citaredo, anche al di là dell’effettiva “somiglianza” fisica e prescindendo dal fatto che il Colosso fosse stato pensato o no come un ritratto di Nerone nel senso pieno del termine. Proprio le statue come Apollo citaredo e le immagini come Sol auriga apparse tra il 66 e il 68 segnarono quindi un mutamento nella propaganda neroniana che, dopo aver portato alle estreme conseguenze gli spunti apollinei e “solari” presenti nel modello augusteo, fino a porre l’imperatore sullo stesso piano del Divo Augusto (nel 64), cercava nuove strade, sfruttando le passioni e le “carriere agonistiche” di Nerone come spunto per adottare immagini nuove che ne proclamassero 187 scontornare scontornare 188 13. Contorniato raffigurante Nerone sul dritto e scena con corsa di bighe sul rovescio. Parigi, Bibliothèque Nationale, Département des Monnaies, médailles et antiques, Cabinet des Médailles un’assimilazione più stretta agli dèi protettori dei suoi exploits. Entrambe le iconografie in costume da citaredo e da auriga non erano state inventate ex novo, ma era inedito il loro ingresso nel ritratto imperiale e, visto che almeno fino al 62 Nerone era stato “guidato” dai suoi consiglieri, è probabile che proprio queste immagini più tarde consentano di cogliere oggi l’indirizzo più personale (e scandaloso dal punto di vista senatorio) dell’imperatore nella comunicazione della propria immagine. Il linguaggio dei corpi nei ritratti imperiali I ritratti come auriga e come citaredo avrebbero rinnovato non poco l’immagine imperiale, ma non ebbero il tempo di entrare in quel repertorio di tipi statuari che le classi dirigenti locali usavano in tutto l’impero per “dialogare” con il sovrano ringraziandolo per i benefici (reali o presunti) del suo governo. In effetti proprio la scelta dei tipi statuari abbinati ai ritratti offre altre informazioni sugli indirizzi meno eversivi della propaganda neroniana. Una volta salito sul trono per Nerone si fece infatti ancora ricorso all’abituale immagine togata (il ritratto del Museo Palatino e una statua di Eleusi, una statua acefala di Cosa e un’altra rilavorata come Augusto ad Aquileia), ma prevalse rapidamente la volontà di rinnovare il repertorio tradizionale, mediante la scelta sia dell’immagine eroizzante sia di quella militare. Esse consistevano rispettivamente nell’adozione della nudità, che era spesso velata dal mantello cinto intorno ai fianchi (Hüftmantel), e della statua con corazza o loricata. Entrambe divennero molto frequenti: immagini (semi)nude erano abbinate ai ritratti di Cagliari e Tuscolo (oggi ai Musei Capitolini), realizzati poco tempo dopo il 54, mentre altre statue presentavano Nerone come un eroico guerriero (a München, con testa rilavorata come Domiziano) oppure lo ritraevano come Giove (a Vicenza e in una statua comparsa brevemente solo sul mercato antiquario; fig. 11), una scelta quest’ultima che poneva già l’imperatore vivente su un piano vicino a quello dei divi Augusto e Claudio (depotenziando così l’apoteosi di quest’ultimo, che infatti l’entourage dell’imperatore scherniva apertamente, cfr. l’Apocolocyntosis di Seneca). Le immagini loricate sono le più numerose e significative, anche perché offrivano la possibilità di sfruttare lo spazio vuoto della corazza per un messaggio propagandistico extra (cfr. Caere). Nerone fu così il primo imperatore regnante a puntare molto sulla diffusione della propria immagine loricata anche in Occidente, una scelta che può sembrare paradossale, visto che egli non guidò mai un esercito sul campo, ma legittimata dal fatto stesso che i suoi generali combattevano sotto i suoi auspici. Questo volto della propaganda neroniana si manifestò in modi diversi: nelle monete Nerone fu il primo imperatore a far rappresentare il proprio busto loricato sul dritto (65/66 ca.); alle statue si affiancarono le immagini in piccolo formato, scolpite in pietre preziose, come la statuetta loricata in diaspro di cui parla Plinio il Vecchio (Storia naturale 37, 118), o realizzate in bronzo, come lo splendido loricato ageminato del British Museum, che propone una versione patetica del volto imperiale (cfr. il ritratto in bronzo del Louvre proveniente dalla Cilicia); ma soprattutto all’imperatore furono erette molte statue loricate al naturale o superiori al vero (elenco solo le più probabili: Caere, Bologna, Vaison la Romaine, Velleia, Tralleis, la serie di statue greche con Nereidi e forse Rusellae). Nella basilica di Velleia il contrasto tra la statua loricata di Nerone (fig. 12d) e la ricca serie di immagini in toga dedicate in precedenza agli uomini della famiglia giulio-claudia (Nerone bambino compreso) fa capire l’impatto della nuova immagine nei cicli statuari dominati dal tradizionale costume civile del cittadino romano. I programmi decorativi dei loricati impiegavano, con poche eccezioni, un repertorio standard, quasi formulare, che nasceva a Roma ed era poi riproposto in più statue e anche da personaggi diversi, sfruttando un linguaggio simbolico ma adattabile a eventi contingenti (cfr. Caere). Dalle corazze si può dunque risalire ai temi propagandistici caratteristici di un imperatore. Nel caso di Nerone fu quasi specifica del suo regno la rappresentazione di una coppia di Nereidi a cavallo di draghi marini (ketoi) o ippocampi, attestata in una statua di Bologna (fig. 12a) e soprattutto in Grecia (Olimpia, Durazzo, Salonicco, Narona, Megara, Opus e in due loricati del Louvre e di München di provenienza greca). Forse non tutte queste statue ritrassero l’imperatore, ma l’identificazione è certa a Bologna e Olimpia, e, per ragioni stilistiche, almeno la cronologia neroniana è assai probabile per tutte le altre. Il tema alludeva al dominio stabilito sul mare, un topos della propaganda imperiale connesso però anche ai Domizi Enobarbi, ossia alla famiglia di origine dell’imperatore, legata al culto di Nettuno. Inoltre soggetti marini furono evocati più volte negli spettacoli e nei banchetti allestiti da Nerone e in particolare durante il viaggio in Grecia, a Isthmia, dove fu pronunciata un’ode in onore di Poseidone e Anfitrite (Luciano, Nerone, 3) e a Corinto dove il tema apparve sulle monete. Sembra quindi probabile che il tema sia stato sfruttato proprio per onorare l’imperatore in occasione della liberazione della Grecia e della visita del 66-67, forse alludendo anche all’antico significato agonale di queste immagini. Un altro esempio significativo del modo di procedere di questa propaganda è la statua loricata di Vaison-La-Romaine (fig. 12b), il cui ritratto, posteriore al 64, fu poi rilavorato come Domiziano: la corazza accoglie una scena di venerazione del Palladium, l’antico simulacro di Minerva conservato nel tempio di Vesta e simbolo dell’eternità di Roma. Anche questo tema era specifico della propaganda imperiale (l’imperatore in quanto pontefice massimo era il garante della tutela della statua), ma la salvezza del Palladium e il legame con Vesta furono evocati con forza da Nerone solo dopo l’incendio del 64 e il programma decorativo del loricato di Vaison illustra quel messaggio. Una scena analoga di venerazione di un simulacro arcaico di Minerva, si riconosce del resto anche in un affresco della Domus Aurea (corridoio 117). Queste statue dimostrano quindi due cose: l’importanza dell’immagine “marziale” dell’imperatore, che metteva in luce il ruolo di detentore dell’imperium, e la presenza nella sua propaganda di altri temi, spesso sottostimati rispetto a quello solare/apollineo, forse perché meno rivoluzionari, ma non meno vitali. Quello che resta della memoria di un imperatore Mediante la dedica di statue e monumenti onorari ogni uomo politico romano mirava a garantirsi una memoria pubblica perpetua, mentre il danneggiamento dei suoi ritratti era il primo segnale di discredito, visto che il popolo li usava proprio per comunicare le proprie simpatie e orientamenti. Per un imperatore la morte costitutiva poi anche il redde rationem del suo governo, visto che il Senato si trovava spesso di fronte alla scelta tra la proclamazione della sua apoteosi e la sanzione della damnatio memoriae, ovvero della distruzione delle immagini imperiali di chi si era dimostrato un tiranno. Con Nerone il Senato scelse questa strada, dichiarandolo nemico pubblico mentre era ancora vivo (Svetonio, Nerone, 49, 2) e punendolo dopo la morte mediante la rimozione e il danneggiamento deliberato dei ritratti, sanzioni ripetute sia al momento della caduta dell’imperatore sia durante i regni di Galba e di Vespasiano. L’applicazione di queste decisioni è documentata concretamente in tutto l’impero dalle epigrafi scalpellate, dalle monete sfregiate e dal gran numero di ritratti rimossi, spesso dopo essere stati gravemente mutilati nel volto, oppure lasciati sul posto ma per essere rilavorati e assumere una nuova identità. Come ha dimostrato E.R. Varner, non ci possono essere dubbi sull’effettiva decisione della damnatio memoriae dell’imperatore. La distruzione non fu però l’unico destino delle immagini di Nerone: la memoria dell’imperatore fu occasionalmente difesa, per esempio da Otone e Vitellio, che nel 69 fecero ricollocare in pubblico le statue rimosse (ma non distrutte) da Galba, e fu conservata soprattutto da una parte del popolo, come documenta la notizia della frequente ricomparsa di ritratti dell’imperatore in veste di console (in toga praetexta) nel foro di Roma (Svetonio, Nerone, 57, 2). L’apprezzamento popolare in effetti non abbandonò mai del tutto Nerone e questa indulgenza si spiega anche con l’amore per i ludi e per le corse, che egli aveva condiviso con una folla di appassionati. Questa ansia di riabilitazione tra il IV e il V secolo produsse persino nuove immagini di Nerone: l’imperatore fu raffigurato di nuovo alla guida della quadriga solare in un cammeo oggi al Cabinet des Médailles e il suo busto fu rappresentato spesso e fedelmente nei contorniati che venivano distribuiti durante i giochi circensi. Sui rovesci si trovavano le immagini delle corse (fig. 13), del pantomimo e di Apollo citaredo, riunendo così il volto dell’imperatore alle passioni che aveva coltivato pubblicamente. Della propaganda di Nerone sopravvissero quindi più a lungo proprio le sue ultime e “scandalose” immagini, ossia probabilmente anche le più “vere” e vicine all’indole dell’imperatore. 189 I R E N E B R AG A N T I N I LA PITTURA D I E T À N E RO N I A N A 190 In ricordo di Stefania Adamo Muscettola Il tentativo di isolare, tra le pitture eseguite nei decenni centrali del I secolo d.C., quelle databili all’età di Nerone, non rappresenta un compito facile: tecnica, stile e schemi decorativi non permettono infatti di distinguere con sufficiente certezza una pittura databile all’età di Claudio da una databile a quella di Nerone o di Vespasiano, e costringerebbero inoltre a entrare in una serie di questioni di dettaglio che non possono essere esaminate in questa sede. Il criterio-guida in questo tentativo deve essere quindi, per quanto è ancora possibile, l’analisi dei contesti di provenienza delle pitture; in questa operazione, una posizione di particolare importanza va evidentemente riconosciuta alle residenze imperiali neroniane, Domus Transitoria e Domus Aurea. Le pitture della Domus Transitoria sono di datazione discussa, tra l’età di Claudio e quella di Nerone. L’analisi del contesto e dei soggetti in esso rappresentati ha permesso di dirimere la questione in maniera convincente: tra i frammenti distaccati nel corso del Settecento dal ninfeo sotterraneo del Palatino tradizionalmente noto come “Bagni di Livia” (conservati oggi nei Depositi del Museo Archeologico di Napoli – dove sono giunti seguendo il trasferimento a Napoli della collezione Farnese) – alcuni presentano infatti temi iconografici molto singolari, che sono stati posti in relazione con l’ascesa al potere del giovane Nerone e con la sua concezione teocratica del potere imperiale. In particolare uno di essi rappresenta l’investitura da parte di Eracle del giovane Priamo, diventato re di Troia in seguito all’uccisione, da parte dello stesso Eracle, di suo padre Laomedonte. Sotto le spoglie della narrazione mitologica si alluderebbe quindi all’ascesa al potere del giovane imperatore, mentre la rappresentazione di un’investitura ‘divina’ ben converrebbe ad una concezione teocratica del potere imperiale. I frammenti conservati a Napoli sono purtroppo assai mal conservati, ma quanto è ancora leggibile consente di attribuire allo stesso complesso un altro frammento di fregio non identificato in precedenza, conservato anch’esso a Napoli, raffigurante un’animata processione dionisiaca, i cui personaggi principali sono ancora a stento riconoscibili sul bianco del fondo (figg. 1-2). Il riconoscimento della committenza neroniana dei fregi sopradescritti, basato come già detto non su un’attribuzione di natura stilistica ma su considerazioni di ordine ideologico, costituisce una acquisizione di grande interesse. Dirimendo la questione cronologica della datazione dei “Bagni di Livia”, questa proposta consente di attribuire all’epoca di Nerone anche le porzioni della volta e della lunetta dipinte, oggi conservate nel Museo Palatino (inv. 381404-6). I frammenti rappresentano sul fondo bianco scene iliache, inquadrate entro una partizione formata da fasce a fondo rosso evidenziate da ornati in stucco e gemme in pasta vitrea blu, ad imitazione del lapislazzuli. 1-2. Affreschi dalla Domus Transitoria con riti bacchici. Napoli, Museo Archeologico Nazionale I colori chiari e lo stile, rapido e nervoso, che schizza molto rapidamente le figure, nel quale sono dipinti i fregi napoletani (sia quelli con incoronazione di Priamo che quelli con processione dionisiaca), appare assai lontano dalla gravità ‘epica’ e dai classicheggianti toni scuri in cui sono dipinti gli eroi omerici nei frammenti del Museo Palatino. Questa diversità non deve stupire in pitture contemporanee e collocate all’interno di uno stesso gruppo di ambienti, al contrario: nella produzione figurativa di età romana l’uso dei diversi ‘linguaggi stilistici’ costituisce esso stesso un linguaggio comunicativo ed è strettamente legato a una serie di variabili, tra le quali hanno un peso importante soprattutto la funzione dell’ambiente e il soggetto rappresentato, o per meglio dire il contesto figurativo nel suo complesso. Di tutto questo, le decorazioni qui esaminate della Domus Transitoria costituiscono un esempio molto significativo, che adotta per un soggetto legato all’‘arte per i sensi’, quale è quello della festosa processione dionisiaca, uno stile ‘nervoso e vibrante’, e sceglie invece un linguaggio più aulico per rappresentare gli eroi dell’epos omerico. Inoltre, la giustapposizione in uno stesso complesso – e talvolta anche in uno stesso ambiente – di stili, tecniche e soggetti diversi, costituisce nel linguaggio figurativo della società romana una manifestazione di padronanza di tutti i diversi aspetti delle tecniche artistiche, che rappresenta essa stessa una forma di eccellenza artistica. Nel complesso dei “Bagni di Livia” il contrasto tra l’ambientazione sotterranea, i giochi d’acqua, i rivestimenti di marmi policromi e di bronzo dorato, le pitture su fondo bianco impreziosite da dorature, finte gemme e partizioni in stucco contribuiva a creare in questo gruppo di ambienti una sorta di ‘grotta divina’. La profusione di marmi e materiali pregiati presenti nella decorazione del ninfeo della Domus Transitoria ci introduce a un’altra difficoltà nella trattazione della pittura nell’età neroniana: se alla committenza di questo imperatore è legato il nome di uno dei pochi pittori di età romana dei quali sia noto il nome, tramandatoci da Plinio il Vecchio (Storia Naturale, 35, 120), che lo dice quasi ‘imprigionato’ nella Domus Aurea, quel Fabullus (o Famulus) il cui operato non siamo peraltro in grado di riconoscere all’interno di questo complesso, è proprio in gran parte dei contesti neroniani che la pittura perde il ruolo di principale tecnica decorativa nelle case della società romana, ruolo al quale essa aveva assolto per circa 150 anni anche entro le case di committenza alta e altissima, come ci testimonia l’esempio della casa di Augusto sul Palatino. Come espressione della concezione monarchica del potere imperiale che si attribuisce a Nerone, nella Domus Aurea gli spazi nei quali vive l’imperatore – con una particolare, non casuale concentrazione nell’ala orientale del complesso – sono rivestiti di materiali particolari (marmi colorati, mosaici parietali e altri materiali pregiati), che dovevano essere utilizzati in parete in modo da giocare sulle combinazioni di colore che essi permettevano. Tutto ciò non rappresenta solo una manifestazione di grande lusso abitativo, secondo tendenze già peraltro riconoscibili negli anni precedenti, nell’età di Claudio, ma risponde anche a una concezione teocratica del potere 191 192 193 3. Affreschi dalla Domus Transitoria con scene omeriche e “grottesche” con bottoni finte gemme incastonate. Roma, Museo Palatino imperiale, a una concezione divina della figura dell’imperatore, che ‘imprigiona’ all’interno della sua residenza la natura, divenendone chiaramente il signore. L’uso decorativo di marmi e materiali pregiati – in particolare nei contesti pubblici di committenza imperiale, dove i marmi colorati provenienti dai vari paesi dell’impero rappresentavano il dominio e l’appropriazione da parte del ‘centro del potere’ di un paesaggio e delle sue risorse – non è nuovo: nuove sono le dimensioni eccezionali che il fenomeno ora raggiunge, che non sono paragonabili con le manifestazioni di lusso abitativo a noi note per le epoche precedenti e per quelle successive. Le pareti degli ambienti ‘principali’ della Domus Aurea, quelli nei quali possiamo pensare che ‘agisca’ l’imperatore, non sono dunque dipinte, ma rivestite di marmi: proprio osservando la diversa altezza alla quale giungono le lastre di marmo in parete, a seconda della funzione e della posizione degli ambienti nel percorso della villa, è stato anzi possibile identificare una ‘gerarchia degli spazi abitativi’ entro questa enorme residenza. Spoliati i marmi delle pareti negli interventi degli imperatori successivi, gli ambienti ci appaiono ora con le pareti nude, con le quali 194 195 4a. Affreschi della Domus Aurea, volta della sala 119, intero e particolare contrasta l’esuberanza ornamentale delle volte conservate, come nell’esempio della ‘volta d’oro’ della sala (80). Questa situazione è riconoscibile in particolare nell’ala orientale del complesso; per quanto possiamo affermare – in base ai resti conservati e allo stato delle conoscenze – sulla decorazione parietale degli ambienti dell’ala occidentale che si aprono sul grande peristilio (20), sembra si possa qui riconoscere un’intenzionale diversità di linguaggi decorativi rispetto al complesso dei rivestimenti parietali dell’ala orientale, nella quale il ricorso all’uso ‘tradizionale’ della pittura parietale gioca come si è detto un ruolo assai limitato. Nell’ala occidentale invece, entro spazi che anche per la loro organizzazione planimetrica appaiono più ‘tradizionali’, per i quali è ipotizzabile una funzione ‘di rappresentanza’, tecniche e schemi decorativi si presentano più conservativi, a fronte di una maggiore ‘innovatività’ degli spazi dell’ala orientale, che presentano caratteristiche architettoniche più ‘rivoluzionarie’. 196 4b-c. Affreschi della Domus Aurea, volta della sala 119, particolari con Achille a Sciro Tra le decorazioni più ‘conservative’ citiamo quelle della sala nera (32): al di sopra di uno zoccolo in marmo alto circa 2 metri e di un fregio con tralci vegetali, le pitture presentano ampi pannelli riquadrati da elementi decorativi molto esili, quasi ‘metallici’, ancora del tutto in linea con la tradizione dei decenni precedenti, alla quale si richiama anche la monocromia del fondo nero. Non mancano comunque nella Domus Aurea alcuni soggetti che possono rivestire un interesse particolare per l’imperatore, presenti all’interno di ambienti che appaiono come principali nel percorso dell’enorme complesso. Le pareti della sala (119) – collocata a ridosso della sala ottagonale (128), intorno alle quali si aprono a raggiera le quattro sale con nicchie per i letti tricliniari disposte ai lati del grande ninfeo (124) – erano rivestite di lastre di marmo fino a circa due terzi della loro altezza. Al di sopra le pitture a fondo bianco, scandite da colonne e lesene realizzate in pittura e a stucco, esibiscono una complessa ornamentazione popolata da figure entro architetture. La volta presenta un ricco ornato (al quale appartengono anche i frammenti di fregio con sfingi e tralci vegetali recanti tracce di doratura, oggi al British Museum), al centro del quale è rappresentato lo ‘svelamento’ di Achille (figg. 4a-c). Al suono delle armi, secondo lo stratagemma escogitato da Ulisse per portarlo a combattere a Troia con gli eroi greci, l’eroe – nascosto dalla madre nell’isola di Sciro tra le figlie del re Licomede – si libera con grande impeto delle vesti femminili, mostrando tutta la bellezza del suo corpo giovanile e, afferrando scudo e lancia, va eroicamente incontro al suo destino. Lo stato di conservazione non consente di apprezzare tutti i dettagli di questa vigorosa composizione, che sembra tradurre nella concitazione di tutti i personaggi l’eccezionalità del momento. Analizzando il modo nel quale qui (per la prima volta in questa forma?) viene raffigurato questo episodio della vita di Achille, episodio non compreso nella narrazione omerica e che fino a età tardoantica rivestirà una funzione centrale nel rappresentare gli ideali di vita maschile, e ponendo attenzione allo stile vigorosissimo della rappresentazione, sembra difficile seguire l’interpretazione ‘alternativa’ che alcuni studiosi hanno dato della presenza di questa scena nella residenza neroniana. Secondo questa diversa lettura, non dovremmo qui riconoscere un’altra manifestazione della imitatio Achillis di Nerone, ricostruita sulla scorta di contesti monumentali di grande rilevanza; al contrario, questa figurazione tradurrebbe invece la ‘presa di distanza’ e la denigrazione, da parte del giovane imperatore, dei valori ‘classici’ della cultura: una sorta di ‘ridicolizzazione’ della figura del giovane eroe per antonomasia dell’epos greco, che vigliaccamente si traveste da donna per salvarsi dal combattimento. Questa lettura appare difficilmente sostenibile anche perché, di qui in poi, le storie di Achille, diversamente declinate nei diversi episodi, conosceranno una particolare fortuna, come 7. Quadro con Teti nell’officina di Efesto. Pompei, VII 1, 25, Casa di Sirico, esedra 10, parete E 8. Zoccolo a finto marmo e fregi raffiguranti scene iliache e l’investitura del giovane Priamo da parte di Eracle. Pompei, II 2, 2, Casa di Octavius Quartio, oecus H, parete S tratto E testimoniano le pitture dei centri vesuviani, che costituiscono l’altro polo privilegiato di osservazione per indagare la pittura di età neroniana. Anche se disponiamo qui di dati più precisi, legati ai due eventi principali che segnano gli ultimi anni di vita di queste città – il terremoto del 62/63 e l’eruzione finale del 79 – i problemi di definizione cronologica che abbiamo lamentato per le testimonianze romane (l’impossibilità o l’estrema incertezza di distinguere su basi stilistiche pitture distanti solo di qualche decennio) sussistono anche per i centri vesuviani (Pompei, Ercolano, Stabiae, Oplontis, sito della ricchissima villa attribuita alla famiglia di Poppea, moglie di Nerone) e non è quindi facile, se non in casi molto particolari, districarsi tra questi problemi. Del resto, dal momento che quello che qui interessa è il tentativo di ricostruire – attraverso l’analisi delle pitture – aspetti significativi della mentalità della società romana in quest’epoca, non saranno certo le questioni stilistiche a destare maggiore interesse. Così, seguendo il filo dell’importanza della figura eroica di Achille per l’ideologia neroniana – che come abbiamo già detto è stata convincentemente messa a fuoco per altri materiali e altri contesti – possiamo cercare di approfondire quali aspetti della sua vicenda siano rappresentati nelle pitture dei centri vesuviani e come ad essi sia data forma figurativa, sul modello delle scelte iconografiche prodotte a Roma. Se esaminate ponendo attenzione ai diversi contesti e livelli di committenza e al diverso impegno decorativo che esse attestano, le pitture dei centri vesuviani (in larga parte contesti abitativi) possono infatti essere utilmente analizzate per risalire ai modelli urbani dai quali esse dipendono ‘in tempo reale’. Tra gli episodi della vita di Achille che vediamo più frequentemente rappresentati in quest’epoca vi sono: la consegna, alla madre Teti, delle armi divine dell’eroe forgiate nell’officina di Efesto; quello noto come ‘ira di Achille’, che rappresenta la contesa tra Agamennone e Achille per il possesso di Briseide (rappresentato a Pompei anche nel portico del tempio di Apollo, ma oggi perduto), e quello, già incontrato tra le pitture della Domus Aurea, di Achille alla corte di Licomede. Osservando il modo in cui queste vicende vengono raffigurate, restando all’interno di un repertorio tradizionale o al contrario esibendo significativi ‘salti’ e innovazioni iconografiche, possiamo cercare di comprendere come il tema letterario venga ‘declinato’ e ipotizzare quindi a quali letture esso si possa prestare nei contesti abitativi, contribuendo così a ricostruire la mentalità figurativa di un’epoca. Per quanto riguarda la consegna a Teti delle armi di Achille, nel secolo precedente, intorno alla metà del I secolo a.C., la rappresentazione della celeberrima narrazione che nel libro diciottesimo dell’Iliade descrive la fabbricazione delle armi di Achille da parte di Efesto e le figurazioni dello 197 198 9. Affreschi da Murecine, Triclinio A, parete ovest scudo come immagine del mondo, trova forma figurativa in un fregio nel quale la Nereide, ammantata in atteggiamento di compianto, distoglie lo sguardo dalla contemplazione delle armi divine, rivestito dalle quali il figlio morirà, e il dolore della perdita – più che il preannuncio della morte eroica – sembra qui prendere il sopravvento e costituire il vero significato della rappresentazione. Ad età neroniana è invece credibilmente assegnata una nuova redazione di questo soggetto, che muta completamente l’atmosfera e il ‘senso’ della rappresentazione. L’analisi di questa nuova iconografia rivela la diversa lettura che viene data dello stesso episodio letterario, svelandoci il nuovo ‘senso’ che quello stesso episodio doveva assumere per i committenti dell’epoca: la triste ‘predizione’ della morte del giovane eroe compendiata nella sue armi diventa ora pretesto per una scena di predizione astrologica incentrata sulla rappresentazione delle costellazioni sullo scudo meraviglioso che domina il centro del quadro, scudo che Teti contempla con interesse e ammirazione per l’abilità di Efesto o nel quale essa si specchia. Da segnalare anche la nuova, particolare cromia della rappresentazione, con il fulgore delle armi dorate dipinte in toni di colore molto pastosi e resi più efficaci da forti giochi di luce, lontani dai toni freddi, neoclassici, dei quadri dei decenni precedenti. Con gli altri episodi della vita di Achille sopra citati (‘l’ira di Achille’ e ‘Achille a Sciro’), tali quadri testimoniano l’interesse per questi aspetti della vicenda dell’eroe che possiamo mettere in relazione con le scelte delle grandi committenze urbane. Tra i complessi di recente rinvenimento attribuibili ad età neroniana, il complesso di Murecine, con il notevole stato di conservazione di alcune delle sue pitture, si rivela di un certo interesse. Le pitture ornavano tre triclini aperti su un portico, entro una struttura che costituiva forse la sede di un collegium. L’ambiente centrale si differenzia dai due laterali, a fondo rosso, per il fondo nero della zona mediana e per la presenza in esso di tre grandi figure raffiguranti i Dioscuri e Venere (o Elena?) che conferiscono significato alla sua centralità planimetrica, riflessa anche dalla alta qualità pittorica di queste grandi figure. La cura posta nella loro esecuzione risulta anche dalle incisioni graffite (particolarmente evidenti nelle parti meglio conservate) che sono servite di guida per la realizzazione delle figure, alle quali il tratteggio e il vivace gioco di luci e ombre conferiscono grande plasticità. Nei limiti di spazio di questo saggio non è possibile affrontare in dettaglio i problemi cronologici che questo contesto presenta: è però possibile notare che le trame e i rimandi ipotizzati in una serie di studi specialistici tra le pitture di Murecine e un gruppo di pitture che presentano caratteristiche stilistiche simili e che rimandano agli anni precedenti e a quelli successivi al terremoto del 62/63 rendono difficile accettare per queste pitture una proposta di datazione all’età di Claudio (41-54 d.C.); tra queste pitture, le più significative delle tendenze stilistiche dell’epoca grazie agli agganci cronologici che esse offrono sono quelle pompeiane della Casa dei Vettii e del Tempio di Iside. Va comunque chiarito che la datazione ad età neroniana delle pitture dell’Agro Murecine che viene qui accolta non implica assolutamente che si accetti la proposta di quanti riconoscono ritratti di membri della famiglia imperiale e di Nerone stesso nelle figure al centro dei pannelli, che rappresentano invece consuete immagini ideali di divinità e Muse. Più sostenibile e più feconda di questa discussa ipotesi sembra quella avanzata qualche anno fa da Stefania Adamo Muscettola, che aveva proposto un nesso tra la decorazione di questi ambienti e quelle presenti nelle case di alcuni supporters pompeiani di Nerone, tra i quali la studiosa individuava anche il proprietario della Casa dei Dioscuri, VI 9, 6-7: la casa prende il nome dalla raffigurazione sulle pareti del vestibolo di questi mitici eroi che – come nota la stessa studiosa – “compaiono a Pompei solo con l’età neroniana”. È significativo che questa proposta, che prende le mosse dalle pitture di Murecine per ricostruire il contesto storico e sociale del quale esse potrebbero essere espressione, possa trovare una conferma nel fatto che i due quadri, collocati l’uno di fronte all’altro sulle pareti del tablino, rappresentino l’ira di Achille e Achille a Sciro. Considerato il livello economico e sociale del proprietario di questa casa ricavabile dall’analisi globale della sua residenza – che conserva uno dei pochi esempi pompeiani di ambienti con le pareti rivestite integralmente di lastre di marmo, circostanza che, nonostante le evidenti differenze di scala, può costituire un importante nesso ideologico con le testimonianze romane – possiamo supporre un intervento diretto del proprietario nella scelta dei soggetti dei due quadri presenti nell’ambiente centrale della casa, che costituisce il cuore della rappresentazione pubblica del dominus. Il fatto che qui sia adottata la versione iconografica dell’episodio alla corte di Licomede presente nella Domus Aurea, assente in questa forma dal repertorio figurativo dei decenni immediatamente precedenti e da quest’epoca in poi presente invece in altri contesti pompeiani, conferisce a questa scelta una valenza particolare, e può corroborare la proposta di istituire un nesso con la figura dell’imperatore, che potrebbe essersi recato a Pompei nel 64. Alcune significative particolarità iconografiche distanziano comunque questi quadri pompeiani dall’esempio della Domus Aurea, restituendo una visione meno ‘eroica’ e ideologicamente orientata della figura di Achille: in particolare, l’eroe è qui rappresentato ancora rivestito delle vesti femminili, alle quali si adatta il colorito chiaro del suo incarnato, che contrasta con quello scuro della pelle degli eroi greci. Anche i due fregi dipinti sopra un alto zoccolo a finto marmo nella casa pompeiana II 2, 2-4, illustranti l’uno scene iliache incentrate sulla figura di Achille, l’altro scene della vita di Eracle (compresa l’investitura del giovane Priamo, già incontrata tra i fregi della Domus Transitoria) richiamano gli esempi romani. Questa circostanza sembra particolarmente significativa in quanto 199 la facciata di questa casa presentava una corona civica in stucco, un simbolo del culto imperiale che potrebbe indicare che il proprietario avesse un ruolo in questo culto. La qualità particolarmente elevata di queste pitture e la collocazione di un così particolare soggetto iconografico nell’ambiente della casa in cui vengono ricevuti gli ospiti di pari livello sociale, potrebbe indicare la volontà del dominus di esibire la sua adesione all’ideologia imperiale: l’analisi di un complesso abitativo di un centro italico, del quale come di consueto ignoriamo il proprietario, ci permette forse di ricostruirne la figura sociale e il suo ruolo sulla scena locale. 200 Per concludere questa presentazione della pittura in età neroniana, sebbene la Domus Aurea ci restituisca un ruolo della pittura notevolmente ‘ridimensionato’ rispetto alle epoche precedenti, il complesso – grazie anche al suo stato di conservazione, protetto al di sotto del complesso termale a destinazione pubblica che nell’età di Traiano gli si sovrappone, occupandone e condannandone la memoria, ma preservandone l’integrità – costituisce una testimonianza di grande interesse per ricostruire una visione complessiva della funzione della decorazione immobile (e in particolare della pittura) nei contesti abitativi della società romana. La gerarchia di impegno decorativo tra i vari ambienti ricavabile dall’analisi dei materiali usati per i rivestimenti parietali – in particolare l’osservazione del rapporto tra rivestimenti marmorei e pittura che consente di visualizzare i percorsi dell’imperatore e dei suoi ospiti – costituisce un’ulteriore conferma della stretta relazione tra l’architettura, i percorsi della casa e la funzione delle diverse aree, il diverso impegno decorativo e l’uso sapiente e modulato delle diverse tecniche decorative e ci permette di ricostruire la ‘circolazione’ di quanti si trovano a percorrere gli spazi o a sostarvi nel corso delle diverse occasioni sociali. Così, se la ‘veduta di città’ realizzata su fondo azzurro su una delle pareti della facciata del cortile pentagonale richiama alla mente la celebre ‘città dipinta’ rinvenuta recentemente (1998) su una parete – anch’essa di facciata – sottostante l’area delle Terme di Traiano, il fondo bianco delle pareti del criptoportico (92), illuminato solo da finestre a bocca di lupo, contribuisce a migliorare la ridotta luminosità dell’ambiente, mentre sulle pareti si dispiega tutto il repertorio tipico di quest’epoca qui fantasiosamente assemblato per ricoprire le alte superfici: scorci architettonici, vedute paesaggistiche, figure umane sono schizzate rapidamente sulle pareti. Grazie al confronto con queste pitture e all’aggancio cronologico che esse offrono, è stato inoltre possibile assegnare alla stessa epoca un gruppo di ambienti dipinti appartenenti ad una casa straordinariamente conservatasi a Roma, sull’Aventino, nota come Casa Bellezza: si tratta di un contesto abitativo di alto livello, come risulta dalla presenza di un oecus colonnato, aperto su di un criptoportico. Il complesso è confrontabile anche con contemporanei esempi pompeiani di alto livello, in particolare da quelli che presentano uno stile più miniaturistico, mentre la struttura compositiva della parete, la monocromia della zona mediana e alcuni particolari ornamentali trovano confronto anche tra le pitture di Murecine. Nelle pagine precedenti si è molto insistito sulla difficoltà di riconoscere su sole basi stilistiche le pitture di età neroniana, difficoltà che è accresciuta dal fatto che anche nella pittura parietale – come nel complesso della produzione figurativa di età romana – diversi linguaggi stilistici, più conservatori o più innovativi, convivono fianco a fianco e vengono usati con una intenzione comunicativa, nella quale larga parte viene fatta alla committenza e alle sue possibilità economiche, ai destinatari, nonché agli artigiani produttori. Non è quindi possibile caratterizzare univocamente le tendenze stilistiche più rappresentative dell’età di Nerone. Alcuni esempi sembrano infatti indicare un’esuberanza cromatica e una ridondanza decorativa che si differenzierebbero dalle tendenze ‘restauratrici’ che caratterizzerebbero l’età di Claudio, e quelle – per diversi motivi – nuovamente tradizionali del regno di Vespasiano. Tale esuberanza trova espressione nell’uso dello stucco in combinazione con la pittura, per evidenziare plasticamente in parete o sul soffitto diversi particolari decorativi come lesene, colonnine o cassettonati: il rilievo che così si realizza crea sulla superficie della parete zone più in ombra e zone più in luce che – soprattutto negli ambienti in cui più studiato è il rapporto tra la decorazione e l’incidenza delle fonti di luce – accrescono e ‘movimentano’ la parete. Ad essa si affiancano però, come nell’esempio della sala nera della Domus Aurea o della parete a fondo giallo di ‘Casa Bellezza’, strutture molto aeree e particolari decorativi eseguiti su un fondo monocromo con la nitidezza e la precisione che aveva caratterizzato le pitture dei primi decenni del I secolo d.C. 201 10. Affreschi di Casa Bellezza sull’Aventino, parete gialla 4 La perdita di importanza del ruolo della pittura parietale nei contesti di committenza più alta, ideologicamente orientati verso il lusso dei materiali, segnerà in maniera definitiva gli esiti successivi della pittura: venuto infatti a mancare il ruolo guida che – tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del successivo – la committenza più alta aveva ancora potuto esercitare nei confronti dei ceti di livello inferiore, che erano stati in grado di seguire in maniera ‘accettabile’ il modello sociale che essi rappresentavano, nell’impossibilità economica e sociale di avere ora accesso ai materiali pregiati che caratterizzano gli spazi abitativi, i pittori che operano per committenti ‘di medio livello’ non sono più in grado di proporre sensibili innovazioni. Come ci testimoniano molti contesti ostiensi, gli artigiani cercheranno ora soluzioni nuove restando sostanzialmente all’interno di un repertorio consolidato, fino ad arrivare, di qui a qualche decennio (in particolare nell’area occidentale dell’impero) ad abbandonare la pittura parietale figurata a favore di schemi decorativi che riportano ancora una volta in auge – come era avvenuto nel I secolo a.C. – il linguaggio basato sugli schemi architettonici e sul rimando al valore simbolico del marmo. ROSSELLA REA N E RO N E , L E A RT I E I L U D I 202 “Nulla sopportò con maggiore pazienza degli insulti della gente” (Svetonio, 6, 39) Gli interessi finanziari dell’aristocrazia senatoria e dell’alta dirigenza equestre furono duramente colpiti dal nuovo corso impresso da Nerone alla politica economica con la grande riforma monetaria del 64. Di tali classi erano esponenti di spicco Tacito (Annali, 13-15), Svetonio (Vite dei dodici Cesari, 6), Cassio Dione (Storia Romana, 61-63), in ordine cronologico le principali fonti d’informazione sulla vita di Nerone. Nel presente saggio dalle opere degli autori citati sono state estrapolate e poste a confronto le notizie riguardanti le attitudini artistiche, le attività ludiche e sportive di Nerone, epurate, per quanto possibile, dai commenti degli autori, in particolare di Svetonio e Cassio Dione. Si è, inoltre, tentato di ricomporre gli eventi in successione cronologica, riordinandoli per tematiche, nell’intento di seguire l’evoluzione delle passioni dell’imperatore nel quadro del suo sviluppo personale e sullo sfondo degli eventi politici. Sulla scena Nelle loro opere Tacito e Cassio Dione delineano un quadro molto preciso del clima in cui si svolgeva ogni genere di spettacolo, tra opposte fazioni di tifoserie spesso incontrollabili e violente al punto da richiedere la presenza dei militari. Tuttavia, alla fine del 55 a Roma fu ritirata la coorte che presenziava, con funzioni di controllo, agli spettacoli, secondo Tacito perché l’apparenza della libertà fosse più evidente e la moralità dei soldati, lontani dalla sfrenata permissività degli spettacoli, subisse meno danni, e anche per verificare se la plebe, allontanati gli addetti all’ordine pubblico, sapesse dare prova di moderazione. Ma l’anno successivo fu necessario richiamare i soldati a teatro, ove i disordini e le risse tra i sostenitori degli istrioni si trasformavano in veri e propri scontri grazie ai premi e alle garanzie di immunità concessi (Tacito, 13, 24-25). Cassio Dione riferisce una versione diversa, fortemente strumentale: gli uomini addetti al palcoscenico e alle corse dei cavalli ormai non si preoccupavano più dei pretori e dei consoli, anzi erano i primi a provocare disordini. Nerone non solo non si opponeva, neanche con un semplice ammonimento, ma anzi li incitava, compiacendosi del loro atteggiamento e facendosi condurre di nascosto nei teatri a bordo di una lettiga, dalla quale osservare senza essere visto. L’imperatore vietò ai soldati di continuare ad assistere ai pubblici raduni, per fornire ogni possibile appoggio a coloro che volevano provocare disordini (Cassio Dione, 61, 8, 2-3). Per evitare incidenti gravi dovuti al fanatismo del popolo fu necessario anche cacciare gli istrioni dall’Italia (Tacito, 13, 25). In realtà il 1. Busto di Nerone da Olbia, foro (?). Cagliari, Museo Archeologico Nazionale 203 204 giovane imperatore era costretto ad assistere agli spettacoli di nascosto perché i suoi precettori Seneca e Burro gli proibivano di mostrarsi in pubblico in simili occasioni (cfr. il saggio di A. Giardina in questo volume). Appena divenuto imperatore, Nerone convocò il citaredo allora più quotato, Terpnus, e per parecchi giorni di seguito, dopo cena, trascorse la maggior parte della notte accanto a lui mentre cantava. Cominciò anche a comporre e a esercitarsi personalmente, ponendo in atto tutti gli accorgimenti cui ricorrevano gli artisti per conservare o rinforzare la voce: per esempio, restava sdraiato in posizione supina, con una lastra di piombo sul petto, e si purgava con emetici e clisteri, astenendosi dal consumare frutta e cibi nocivi. Tuttavia, per non degradarsi fino alla pubblica esibizione in teatro, istituì nel 59, in occasione del primo taglio della sua barba (Cassio Dione, 61, 19), i giochi chiamati Iuvenalia, in onore della gioventù, che si svolsero nel Palatium e nei suoi giardini, cui si iscrissero persone di ogni provenienza (Tacito, 14, 15). Nerone salì sulla scena, accordando con molto impegno le corde della cetra e provando il tono giusto con i maestri di canto al suo fianco. Si dedicò anche alla poesia, raccogliendo intorno a sé quanti, benché non ancora noti, mostrassero talento poetico (Tacito, 14, 15-16). Le sue “disonoranti” esibizioni non produssero, come pensavano Seneca e Burro, sazietà: secondo Tacito, Nerone, convinto che l’offesa alla propria dignità si sarebbe stemperata coinvolgendo nella vergogna molti altri, trascinò sulla scena gli eredi di nobili famiglie, anche dietro compenso, costringendo pure noti esponenti romani dell’ordine equestre, con doni cospicui, a promettere di esibirsi sull’arena (Tacito, 14, 14). La svolta decisiva nel regno di Nerone è attribuita dalle fonti al 59, dopo il quinquennium, quando aveva 22 anni: poco a poco nell’imperatore crebbe l’insofferenza nei confronti dell’autorità materna e dei precetti di Seneca e Burro (Cassio Dione, 61, 4-5). Anicetus, suo educatore nell’infanzia, in seguito comandante della flotta di Miseno, suggerì a Nerone il modo di procurare la morte alla madre per annegamento durante la festa delle Quinquatrie che si svolgeva a Baia, in onore di Minerva, dal 19 al 23 marzo e prevedeva, oltre alla danza dei Salii, gare fra scrittori, musicisti, artisti e combattimenti tra gladiatori (Tacito, 14, 3-4). L’idea era nata da uno spettacolo teatrale in cui una nave si era aperta lasciando uscire alcuni animali, e ricomposta tornando di nuovo stabile (Cassio Dione, 61, 12, 2). Il tentativo fallì (Tacito, 14, 7) e Agrippina fu uccisa poco dopo nella sua camera da letto a colpi di spada dal trierarca Erculeius e dal centurione della flotta Obaritus, al cospetto dello stesso Anicetus (Tacito, 14, 8). Dopo la morte di Agrippina nel 59 alcuni eventi furono considerati prodigi nefasti: tra questi, a parte un’eclissi totale di sole, Cassio Dione racconta che gli elefanti che trainavano il carro dell’imperatore entrarono nel Circo Massimo e avanzarono fino alla zona ove sedevano i senatori, ma una volta giunti lì si fermarono e non proseguirono oltre (Cassio Dione, 61, 16, 4). L’episodio fu, forse, strumentalmente interpretato come un preciso invito divino rivolto a Nerone perché si fermasse a riconsiderare e riaffermare il ruolo politico del senato. In onore della madre defunta organizzò una festa così splendida e sontuosa che le celebrazioni durarono parecchi giorni e si svolsero in cinque o sei teatri contemporaneamente: in tale occasione fu addirittura fatto salire un elefante sulla sommità delle gradinate del teatro, da dove ridiscese camminando su una fune con in groppa un esponente dell’ordine equestre (Cassio Dione, 62, 7, 2-3). Svetonio, unico tra gli autori, attribuisce tali spettacoli ai ludi Massimi, fornendone la seguente versione: durante i giochi che, votati per l’eternità dell’Impero, volle chiamare Maximi, parecchi componenti dei due maggiori ordini, senatori e cavalieri, e dei due sessi recitarono come attori, e un noto cavaliere romano attraversò il Circo sulla corda, seduto su un elefante (Svetonio, 6, 11). Ma lo spettacolo più umiliante, secondo Cassio Dione, ebbe luogo quando uomini e donne di rango non solo equestre, ma anche senatorio, si esibirono, “proprio come gli uomini di bassa estrazione sociale”, sul palcoscenico, nel Circo e nell’anfiteatro: alcuni di essi suonarono il flauto e danzarono, oppure interpretarono tragedie e commedie o, ancora, cantarono con l’accompagnamento della cetra; in altri casi, poi, condussero cavalli, uccisero bestie selvatiche o combatterono come gladiatori (Cassio Dione, 61, 17, 2-3). Ogni giorno, racconta Svetonio, venivano lanciati al popolo regali eterogenei ed elargiti migliaia di volatili di ogni specie, vivande e tessere che davano il diritto di ricevere in regalo viveri, abiti, oro, argento, pietre preziose, perle, quadri, schiavi, animali da soma e persino belve addomesticate, navi, case e poderi (Svetonio, 6, 11). La notizia è confermata da Cassio Dione: Nerone distribuiva ricchezze ricorrendo al sistema dei contrassegni, facendo lanciare tra la folla una moltitudine di palline, ciascuna delle quali recava 205 2. Frammento di un ritratto di Agrippina Minore, da Ostia. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme un’iscrizione precisa, donando a ciascuno il corrispondente di quanto aggiudicatosi (Cassio Dione, 61, 18, 1-2). Al citaredo Menecrate e a un gladiatore, il mirmillone Spiculus, elargì patrimoni e palazzi degni dei trionfatori (Svetonio, 6, 30). La partecipazione agli spettacoli era aperta a tutti, anche ai non giovani o alle persone di salute malferma che, non potendo fare nulla autonomamente, potevano almeno prendere parte a canti corali. Tutti si esercitavano in base alle proprie inclinazioni: persone illustri, sia uomini che donne, ma anche fanciulle, ragazzini e anziani frequentavano scuole appositamente aperte (Cassio Dione, 61, 19, 2-3). Nerone apparve di persona in teatro, salendo sul palcoscenico in abito da citaredo e suonando un brano intitolato Attis, o Le Baccanti. Tutto ciò, ironicamente sottolinea Cassio Dione, fu quanto fece per celebrare la rasatura della sua barba (Cassio Dione, 61, 21, 1), attribuendo agli Iuvenalia eventi riconducibili ai successivi Neroneia, come confermato da un precedente passo in cui l’autore, confondendo le due manifestazioni, riferisce che i Neroneia furono celebrati in onore della sua barba, rasa per la prima volta proprio in quel periodo (Cassio Dione, 61, 19, 1). Lo storico afferma anche che, secondo quanto tramandato, la voce dell’imperatore era bassa e fioca (Cassio Dione, 61, 20, 2). Nel 59 o 60, per celebrare i primi cinque anni di regno, istituì a Roma un concorso quinquennale triplice, per la prima volta all’uso greco, comprendente gare di musica, eloquenza, atletica e corse di cavalli: i Neroneia che, come riporta Tacito (14, 47), suscitarono reazioni molto diverse. Alcuni ricordavano che anche Pompeo era stato criticato dai più anziani per avere conferito una sede fissa al teatro: in passato, infatti, il palcoscenico veniva eretto solo per l’occasione e gli spettatori sedevano su gradinate provvisorie. Ancora prima, il popolo assisteva agli spettacoli in piedi, per non sprecare nell’ozio intere giornate restando comodamente seduto a teatro. Secondo i conservatori era bene preservare almeno l’antica usanza di non obbligare alcun cittadino a partecipare a una gara in pubblico. Purtroppo le consuetudini degli antenati, decadute poco alla 206 3. Apollo citaredo, particolare, da Murecine (triclinio A, parete nord), età neroniana, intonaco dipinto. Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei volta, erano stravolte dall’immoralità giunta da altri paesi, giacché si vede ormai anche a Roma – sostenevano i detrattori – quanto, altrove, ha la possibilità di corrompere e di essere corrotto e i giovani, influenzati da mode straniere, degenerano tra palestre, sprechi di tempo e turpi amori, grazie all’esempio del principe e del senato che non solo hanno concesso licenza ai vizi, ma anche costretto le più autorevoli personalità di Roma, con il pretesto di recitare prose e versi, a degradarsi sulla scena. Che altro restava se non denudare il corpo, infilare i guantoni da pugile e addestrarsi a quelle lotte, invece di fare il soldato e usare le armi? I giudici sarebbero stati migliori se avessero ascoltato musiche leziose e voci effeminate? Equamente Tacito riporta anche le ragioni dei favorevoli: neppure gli antichi avevano avversato lo svago degli spettacoli, avevano anzi accolto gli istrioni dall’Etruria e importato le corse dei cavalli da Turi. Dopo la conquista della Grecia e dell’Asia, nel 146 e 133 a.C., avevano allestito, con maggiore raffinatezza, i giochi, anche se nessuno di famiglia illustre a Roma si era mai abbassato a recitare in pubblico nei 200 anni successivi al trionfo nel 145 a.C. di Lucio Mummio, il primo a offrire nella Capitale questo genere di spettacoli. Costruendo un teatro stabile si era curato il risparmio, invece di erigere e abbattere costruzioni ogni anno, con spese enormi. Inoltre, se lo Stato faceva fronte alle spese degli spettacoli, gli edili non avrebbero più dilapidato il loro patrimonio, né il popolo avrebbe avuto più motivo di insistere per ottenere giochi greci dai magistrati. Le vittorie di oratori e poeti non potevano che stimolare gli ingegni, e per nessun giudice sarebbe stato un disonore prestare orecchio a occupazioni oneste e a piaceri leciti. Queste le ragioni dei favorevoli. Gli spettacoli si svolsero tranquillamente, senza scandali ed esplosioni, anche modeste, di tifo popolare e i pantomimi, banditi da Roma nel 56, poterono tornare sulla scena (Tacito, 14, 20-21). Secondo Cassio Dione, i Neroneia furono istituiti nel 60 per propiziare la continuità del potere dell’imperatore e la sua prosperità, e per questo evento furono costruiti il ginnasio (Cassio Dione, 61, 21), o palestra, e le terme (Tacito, 19, 47), nella IX Regione augustea, a nord-ovest del Pantheon. In occasione dell’inaugurazione del ginnasio fu distribuito, con generosità tutta greca, olio per gli esercizi ai membri dell’ordine equestre e ai senatori (Tacito, 14, 47). La palestra bruciò nel 62, colpita da un fulmine: la statua di Nerone, ivi contenuta, si ridusse a una massa informe di bronzo (Tacito, 15, 22) e l’edificio non fu più ricostruito (LTUR II, s.v. Gymnasium Neronis). Le terme, un complesso lussuoso e assiduamente frequentato, furono invece riedificate nel 63 o 64 (LTUR V, s.v. Thermae Neronianae/Alexandrinae). A differenza di quanto riferito da Cassio Dione, secondo Svetonio le prime esibizioni pubbliche di Nerone ebbero luogo solo nel 64, dopo la morte di Burro e il ritiro di Seneca dalla scena politica, quando l’imperatore aveva 27 anni. Desideroso di esibirsi in pubblico, fino a quel momento aveva cantato solo a Palazzo e nei suoi giardini durante gli Iuvenalia, ora disprezzati perché seguiti da una platea ristretta; non osando esordire a Roma, Nerone si esibì per la prima volta pubblicamente a Napoli, città greca, e, benché il teatro fosse scosso da un terremoto, non smise di declamare fino alla fine del brano (Svetonio, 6, 20). Era infatti sua intenzione iniziare da Napoli, per poi andare in Grecia e, dopo avere conquistato corone prestigiose e considerate sacre fin dall’antichità affrontare, forte di una più grande notorietà, gli abitanti di Roma. Nel teatro di Napoli affluì una grande folla di cittadini e di gente accorsa dalle colonie e dai municipi vicini, cortigiani, funzionari e reparti di soldati, che stiparono l’edificio (Tacito, 15, 33). In partenza per la Grecia si fermò a Benevento, ove gli fu offerto da Vatinius un affollatissimo spettacolo gladiatorio. Tuttavia, rinunciò al viaggio e fece rientro a Roma (Tacito, 15, 34, 36). Nel teatro di Napoli si esibì in varie occasioni, e per parecchi giorni. Desideroso di cantare anche a Roma, ricominciò i Neroneia prima della data fissata, e quando gli spettatori gli chiesero di udire la sua voce rispose che li avrebbe accontentati nei suoi giardini; tuttavia, di fronte alle insistenze del pubblico, promise di esibirsi subito e fece iscrivere il proprio nome nell’elenco dei citaredi che partecipavano al concorso. Dopo avere suonato un preludio, fece annunciare che avrebbe cantato la Niobe. Tra le tragedie da lui interpretate furono: Il parto di Canace, Oreste matricida, Edipo cieco ed Ercole furioso (Svetonio, 6, 21). In occasione di uno spettacolo popolare, nel 65, scese nell’orchestra del teatro e declamò alcuni versi di una sua composizione sulla guerra di Troia (Cassio Dione, 62, 29-1). In seguito, nel 66-67, si esibì finalmente in Grecia, nel corso del suo unico viaggio (Svetonio, 6, 22), anche per potere, come diceva, vincere in tutti e quattro i grandi giochi (Pitici, Nemei, Istmici, Olimpici), riportando numerose vittorie (Cassio Dione, 63, 8, 3-4). Nerone gareggiò in ogni città 207 208 209 4. L’organo di Aquincum, ricostruzione d’epoca moderna. Roma, Museo della Civiltà Romana che organizzasse un agone, tranne ad Atene e a Sparta (Cassio Dione, 63, 14, 1-3). Durante le gare dimostrava molta ansia e timore dei giudici, che dovevano esortarlo a farsi coraggio. Era molto rispettoso dei regolamenti: una volta, durante la scena di una tragedia, gli cadde accidentalmente a terra lo scettro, che raccolse immediatamente. L’incidente gli causò molta ansia, perché temeva di essere escluso dal concorso, il che non avvenne (Svetonio, 6, 23-24). Quando l’imperatore tornò a Roma nel 68 fu abbattuta una porzione delle Mura Serviane e fu infranta una parte delle porte: alcuni sostenevano che entrambe le usanze facevano parte del costume tradizionale in occasione del ritorno dei vincitori incoronati dai giochi. Il corteo trionfale era aperto dagli uomini che recavano le corone vinte; seguivano altri che portavano, issate su aste, tavole su cui erano iscritti il nome dell’agone, il tipo di competizione e la dichiarazione di vittoria. Infine appariva il vincitore sullo stesso carro trionfale sul quale Augusto aveva a suo tempo celebrato i suoi numerosi trionfi: l’imperatore indossava una veste di porpora con ricami dorati, era coronato da una ghirlanda di ulivo selvatico e recava in mano l’alloro pitico. Dopo avere attraversato il Circo Massimo e il Foro scortato da esponenti dell’ordine equestre, senatori e soldati, Nerone salì sul Campidoglio e da qui si diresse al Palatino. La città era interamente decorata da ghirlande, illuminata e invasa da fumi d’incenso, la folla acclamante (Cassio Dione, 63, 20, 1-5). Concluse le celebrazioni, l’imperatore fece annunciare corse di cavalli e dispose l’esposizione nel Circo Massimo delle corone conquistate in Grecia e di tutte le altre vinte nelle gare di corsa, da collocare intorno all’obelisco egizio posto al centro della spina: in totale 1808 corone. Infine, si esibì come auriga (Cassio Dione, 63, 21, 1; Svetonio, 6, 26). Svetonio riferisce una versione più sintetica del rientro dalla Grecia: Nerone attraversò il Circo Massimo, di cui aveva fatto demolire un arco, attraversò il Velabro e il Foro e giunse al Palatino e al tempio di Apollo. Al suo passaggio il popolo spargeva zafferano e gli offriva in dono uccelli, nastri e dolci (Svetonio, 6, 25). Dopo le vittorie riportate in Grecia, per conservare la voce non volle più rivolgere proclami alle truppe, facendoli leggere da altri, e non trattò più alcuna causa senza essere affiancato dal maestro di declamazione che lo ammoniva di non sottoporre a sforzo i bronchi e di coprirsi la bocca con un 5. Affresco con corsa di quadrighe, da Pompei, Casa delle Quadrighe. Napoli, Museo Archeologico Nazionale fazzoletto (Svetonio, 6, 25). Non urlava, e se doveva gridare acclamazioni c’era subito qualcuno pronto a fermarlo e a ricordargli che avrebbe dovuto esibirsi come citaredo (Cassio Dione, 63, 26, 2). Nel 66 Nerone gareggiò tra i suonatori di cetra, e dopo che Menecrate, maestro di arte citaredica, ebbe celebrato per lui un trionfo nel Circo, si esibì come auriga (Cassio Dione, 63, 1,1). Probabilmente al medesimo anno 66 si riferisce la notizia secondo cui Nerone accettò la corona di oratoria e di poesia latina, aggiudicandosi anche quella per la cetra (Svetonio, 6,12). Si apprestava, forse nel 67, a scrivere un poema epico che narrava tutte le imprese dei Romani: ancora prima di comporre un solo verso aveva iniziato a fare una stima del numero dei libri da scrivere, consultando, tra le varie persone coinvolte, anche Anneo Cornuto, in quel periodo celebre per la sua cultura (Cassio Dione, 62, 29, 1-2), un filosofo stoico, consigliere letterario di Nerone, maestro di Persio e di Lucano. Esperto di strumenti musicali, Nerone mostrò ad alcuni senatori un nuovo modello di organo idraulico, fece loro esaminarne ogni singola parte, illustrandone il complesso meccanismo (Svetonio, 6, 41). Si trattò, secondo Cassio Dione, di uno dei suoi numerosi scherzi: una notte, all’improvviso, convocò in tutta fretta i senatori e i cavalieri più in vista come se dovesse renderli partecipi di un evento imprevisto e disse: “Ho scoperto un modo in cui l’organo idraulico produrrà toni musicali più alti e più armoniosi” (Cassio Dione, 63, 26, 4). Svetonio racconta di avere visto le brutte copie e le annotazioni autografe dell’imperatore di alcuni suoi versi molto conosciuti, da cui era evidente che non aveva copiato, né scritto sotto dettatura: i versi erano, al contrario, meditati, come dimostravano le tante cancellature, le note e le aggiunte (Svetonio, 6, 52). Di parere diverso Tacito, che definisce le sue poesie prive di vigore, ispirazione e unità stilistica, prova dell’intervento di altri poeti, poco noti, che si riunivano dopo la cena con il principe per ricucire versi da lui già composti o improvvisati (Tacito, 14, 16). Svetonio riferisce che il gradimento del pubblico per le declamazioni di Nerone era tale che dopo una sua esibizione fu decretato un pubblico ringraziamento agli dei e i suoi versi furono dedicati a Giove Capitolino, scritti in lettere d’oro (Svetonio, 6, 10). 210 Come celebrato dal poeta Calpurnio nelle Ecloghe, il regno di Nerone, caratterizzato sul piano culturale dalla ripresa della vita intellettuale, fu un ritorno “all’età dell’oro” in cui, in contrasto con il torpore dei decenni precedenti, rifiorirono tutti i generi letterari, pervasi da idee originali e da nuove concezioni artistiche. Il gruppo di scrittori e artisti riuniti intorno al principe era molto numeroso, e Nerone fu forse l’unico imperatore a comporre intorno a sé, nel corso del I secolo d.C., “un movimento artistico coerente e originale”. Il vilipendio cui Nerone fu sottoposto dai suoi avversari politici ha trovato, a distanza di quasi duemila anni, ampia cassa di risonanza nella cinematografia moderna cui si deve, in gran parte, il radicarsi nell’immaginario collettivo di uno stereotipo distorto: un principe cultore delle lettere e delle arti, cui la società civile del tempo era debitrice del rinnovato clima di rinascita culturale, è stato così trasformato in un ridicolo e patetico istrione. Nerone declamava tragedie accompagnandosi con il suono della cetra, secondo una tradizione consolidatasi in età ellenistica, ma che affondava le sue radici nella cultura greca di età classica, quando la musica era componente inscindibile dei testi tragici. Proprio alle tragedie è legata la nascita, in età ellenistica, di una particolare forma di interpretazione da parte di solisti che si esibivano in veri e propri recital: agli inizi del II secolo a.C., durante i giochi Pitici, un famoso suonatore di aulo, principale strumento a fiato della musica greca, tenne un recital con esecuzione di brani dalle Baccanti di Euripide, le cui opere dovevano essere ampiamente utilizzate per tali forme di spettacolo. Si è visto come tra le tragedie interpretate da Nerone le fonti indichino, tra le altre, proprio le Baccanti. L’esecuzione cantata di versi che, nell’opera originale, erano destinati alla recitazione è documentata nel II secolo d.C., epoca in cui è attestata anche l’esecuzione di dialoghi lirici: le Bucoliche di Virgilio furono, per esempio, varie volte messe in scena a teatro e cantate da professionisti. Sembra anche attestata, nel II secolo d.C., una probabile selezione, per la tragedia, di parti già in origine liriche – corali, oppure a una o due voci – destinate a esclusiva esecuzione monodica, sulla base di personali elaborazioni musicali. Tra gli spettacoli più in voga presso il pubblico romano fino alla tarda antichità furono il mimo e il pantomimo, generi di intrattenimento in cui la musica accompagnava la danza: brani e figure della poesia virgiliana costituirono soggetti per spettacoli di mimo, così come i versi di Ovidio. Il pantomimo, di matrice greca, era stato introdotto a Roma verso la fine del I secolo a.C. da due artisti orientali: un solista rappresentava, danzando, storie tratte in genere dal repertorio mitologico, accompagnato da un canto corale e dal suono di vari strumenti musicali, tra i quali era l’organo idraulico, inventato nel III secolo a.C. da un ingegnere, Ctesibio. Lo strumento, considerato una delle meraviglie del mondo al pari del tempio di Artemide ad Efeso, era molto apprezzato da Nerone (fig. 4). Le motivazioni addotte da Nerone per giustificare le proprie inclinazioni ed esibizioni artistiche erano, sul piano culturale, saldamente fondate. L’affermarsi della musica come arte pubblica in età ellenistica era legata alle feste in onore delle divinità: la musica accompagnava i vari momenti cultuali, cioè le preghiere, i sacrifici, le processioni. Il numero dei concorsi artistici in onore degli dei, gli agoni, aumentò nel tempo: si trattava di gare musicali, alle quali partecipavano suonatori di cetra e di aulo, con componimenti solo strumentali o anche funzionali ad accompagnare il canto. Negli agoni musicali e drammatici si esibivano, oltre ai suonatori, anche poeti, rapsodi, attori tragici e comici, coreuti, in competizioni che andavano dagli assoli strumentali al canto accompagnato alle rappresentazioni drammatiche. La diffusione degli agoni aveva contribuito in maniera determinante alla diffusione internazionale della cultura greca e, di conseguenza, alla coesione tra le popolazioni elleniche. Gli stessi sovrani ellenistici promossero, attraverso le loro feste, le esecuzioni musicali, che erano anche occasioni per cementare i rapporti tra il monarca e la sua corte. Nerone quindi tentò, dapprima timidamente con gli Iuvenalia, più decisamente con i Neroneia, di diffondere in ambiente romano, attraverso gli agoni, la tradizione culturale ellenistica, anche aprendo apposite scuole per il popolo. Nel Circo Adolescente, ma già imperatore, Nerone si divertiva ogni giorno a giocare con quadrighe di avorio disposte su un tavolo. Abbandonava il suo ritiro per partecipare, dapprima di nascosto, alle corse del Circo, in seguito apertamente, nonostante le proibizioni. Volle aumentare il numero dei premi, e quindi delle corse, che si protraevano in tal modo per una intera giornata (Svetonio, 6, 22). Nutriva una passione così profonda per le corse dei cavalli che dispose appositi finanziamenti per il mantenimento degli esemplari da gara non più giovani (Cassio Dione, 61, 6, 1). Era una sua vecchia passione guidare la quadriga, unita all’altra mania, secondo Tacito non meno spregevole, di declamare, accompagnato dalla cetra. Alle critiche Nerone rispondeva che gareggiare nella corsa dei cavalli era consuetudine di re e di antichi condottieri, e materia del canto dei poeti consacrata a onorare gli dei, riferendosi alle gare equestri di Olimpia, Corinto e Delfi, in onore rispettivamente di Giove, Nettuno, Apollo. Il canto, inoltre, era sacro ad Apollo, raffigurato con la cetra non solo nelle città greche, ma anche nei templi di Roma. Poiché non si riusciva a frenarlo, Seneca e Burro decisero di cedere almeno su un punto: fu così recintato, nella valle del Vaticano, uno spazio in cui Nerone potesse guidare i cavalli senza dare spettacolo a tutti. Ma in seguito, dopo essersi allenato anche nei suoi giardini si esibì nel Circo Massimo (Svetonio, 6, 22). In Grecia guidò il carro in parecchi concorsi e, nei giochi olimpici del 67 ne condusse uno trainato da dieci cavalli: rovesciato dal carro, poco mancò che si sfracellasse, dovette rinunciare alla corsa prima della fine (Svetonio, 6, 24; Cassio Dione, 63, 14, 1). Spettacoli anfiteatrali e battaglie navali Svetonio riferisce genericamente che Nerone offrì molti spettacoli, e di vario genere: giochi giovanili, spettacoli circensi, recite teatrali e un solo combattimento tra gladiatori, munus. Nel Circo assegnò posti riservati all’ordine equestre, e fece correre anche quadrighe di cammelli (Svetonio, 6, 11). Raramente presiedeva agli spettacoli e di solito vi assisteva sdraiato in lettiga, in un primo tempo osservando attraverso fori praticati nelle cortine, e in seguito dall’alto del podio, che aveva fatto scoprire. Talvolta pranzava in pubblico, nella Naumachia recintata, o in Campo Marzio, o nel Circo Massimo (Svetonio, 6, 27), come già Claudio aveva fatto prima di lui. Durante il regno di Nerone, nel 59, nel corso di un munus organizzato a Pompei da Livineius Regulus avvenne uno scontro talmente violento tra opposte tifoserie, Nocerini e Pompeiani, da essere non solo tramandato dalle fonti letterarie, ma persino immortalato in un affresco su una parete di una modesta casa pompeiana (fig. 6). Tacito riferisce i particolari e le conseguenze dell’evento: le parti cominciarono a scambiarsi insulti, poi sassi, e finirono con lo sguainare le spade. Nella rissa gli abitanti di Pompei ebbero la meglio, mentre molti Nocerini furono riportati nella loro città feriti o mutilati, e parecchi piansero la morte di figli o genitori. Nerone affidò l’inchiesta sugli incidenti al senato e questo ai consoli. Quando l’inchiesta ritornò al senato, ai Pompeiani, evidentemente colpevoli di avere scatenato gli incidenti, fu vietata per dieci anni la partecipazione agli spettacoli e furono sciolte le associazioni costituitesi illegalmente. A Livineius, già espulso dal senato, e a quanti avevano provocato i disordini, fu comminato l’esilio (Tacito, 14, 17). Di uno spettacolo offerto nel 56 riferisce Cassio Dione: uomini a cavallo abbatterono alcuni tori, abbordati al galoppo, e i cavalieri che facevano parte della guardia del corpo di Nerone trafissero 400 orsi e 300 leoni. In quella stessa occasione 30 esponenti dell’ordine equestre combatterono come gladiatori (Cassio Dione, 61, 9, 1). Nerone assisteva ai ludi dall’alto del proscenio: nel munus che offrì in un anfiteatro di legno, costruito in meno di un anno nel Campo Marzio, non fece morire nessuno, nemmeno i condannati. (Svetonio, 6, 12,1). L’apparente atto di clemenza da parte di Nerone è, in realtà, un chiaro indizio del disinteresse dell’imperatore per gli spettacoli cruenti. La costruzione, avvenuta nel 57, delle fondamenta e delle strutture lignee dell’anfiteatro in cui si svolse il munus fu, secondo Tacito, l’unico avvenimento dell’anno degno di menzione, ma solo negli acta diurna della città e non negli annales (Tacito, 13, 31), come dire in un quotidiano piuttosto che nell’annuale repertorio ufficiale degli eventi meritevoli di nota. Nello stesso anno 57 Nerone stabilì che nessun magistrato o procuratore organizzasse uno spettacolo di gladiatori o di qualunque altro genere nella Provincia a lui assegnata, onde evitare, come avveniva, che tali prodigalità giustificassero le estorsioni e le prevaricazioni da cui i sudditi erano afflitti (Tacito, 13, 31). Di spettacoli svoltisi in teatro nel corso dello stesso anno è il ricordo in Cassio Dione: Nerone fece improvvisamente riempire l’orchestra con acqua di mare, in cui nuotarono pesci e mostri marini, e fece rappresentare una battaglia navale (naumachia) tra Persiani e Ateniesi. Subito dopo fece defluire l’acqua, asciugare il terreno e mettere in scena ancora una battaglia, questa volta campale, in cui i soldati non combattevano in coppie, come negli scontri tra gladiatori, ma si fronteggiavano in gruppi numerosi (Cassio Dione, 61, 9, 5). Dell’evento l’autore riporta anche una versione leggermente diversa, o forse riferibile a un altro 211 212 6. Rissa nell’anfiteatro, da Pompei, Casa della Rissa nell’Anfiteatro (I, 3, 23, peristilio), 59-79 d.C., intonaco dipinto, cm 170 x 185. Napoli, Museo Archeologico Nazionale spettacolo: dopo avere fatto uccidere alcuni animali selvatici, fece convogliare l’acqua nel teatro per la naumachia. Dopo questa, defluita l’acqua, allestì un munus, terminato il quale riempì di nuovo l’area e vi organizzò un costoso banchetto a spese pubbliche (Cassio Dione, 62, 15, 1). Qui Cassio Dione sembra confondere le informazioni, assommando le notizie sui pubblici banchetti riportate da Svetonio (6, 27) e sulle taverne poste intorno al lago di Augusto di cui è menzione in Tacito (14, 15). Sui mostri marini, probabilmente persone mascherate, torna anche Svetonio: Nerone offrì una naumachia, in acque ove nuotavano mostri marini, e fece danzare le Pirriche (danze di guerra, in uso a Sparta) ad efebi, e dopo lo spettacolo offrì loro i diplomi di cittadinanza romana (Svetonio, 6, 12). Come accennato anche da Svetonio, Tacito conferma che nel 63 l’imperatore fissò i posti riservati nel Circo agli esponenti della classe equestre, davanti a quelli della plebe. Entrambe le categorie, fino ad allora, erano entrate nel Circo senza distinzione alcuna: infatti, la lex Roscia del 67 a.C. aveva stabilito che i cavalieri occupassero, ma solo in teatro, le prime 14 file. Si svolsero nel 63 munera di sfarzo pari agli spettacoli del passato: molte donne nobili e molti senatori si degradarono scendendo nell’arena (Tacito15, 32). Si tratta, forse, dell’evento di cui parla anche Svetonio: Nerone presentò uno spettacolo di combattimento cui parteciparono anche 400 senatori e 600 cavalieri, parecchi dalla fama e posizione inattaccabili, e scelse tra questi due ordini anche i domatori di belve e i vari sovrintendenti all’arena (Svetonio, 6, 12). Per festeggiare la nascita della figlia Augusta, avuta nel 63 da Poppea e morta ad appena 4 mesi, furono indette gare e uno spettacolo circense ad Anzio ove, dopo il parto, si riversò l’intero senato (Tacito, 15, 21). Nel 66 l’imperatore offrì a Tiridate, re d’Armenia, un munus a Pozzuoli. Ne curò l’allestimento il liberto Patrobius, che sfoggiò una magnificenza e profuse spese tali che durante una giornata furono fatti entrare in teatro solo Etiopi, cioè esclusivamente persone dalla pelle scura. In segno di omaggio a Patrobius, Tiridate bersagliò con l’arco gli animali selvatici dall’alto del suo seggio (Cassio Dione, 63, 3, 1-2). Nerone condusse poi Tiridate a Roma, ove si svolse anche una celebrazione in teatro. Cassio Dione descrive i teli (vela) stesi per proteggere il pubblico dai raggi del sole: erano di porpora e nel centro di essi era ricamata un’immagine di Nerone che conduceva un cocchio, su uno sfondo di splendenti stelle d’oro (Cassio Dione, 63, 6, 1-2). In seguito Nerone si esibì, alla presenza di Tiridate, come citaredo e come auriga, indossando la divisa dei Verdi e l’elmo tipico dei condottieri di cocchi (Cassio Dione, 63, 6, 3). L’anfiteatro di Nerone in Campo Marzio L’interesse di Nerone per gli spettacoli anfiteatrali non appare, dal racconto delle fonti, paragonabile alla passione nutrita dal suo predecessore e zio Caligola, e dal medesimo Nerone per le corse del Circo. A fronte dell’emanazione di provvedimenti amministrativi vòlti a regolamentare la materia, Nerone non sembra interessato ai munera e non risulta, al contrario di Caligola, avere mai partecipato direttamente, come protagonista, a spettacoli gladiatori o di caccia, limitandosi a offrirne al popolo, con la partecipazione di senatori e cavalieri, in un crescendo numerico che, dai 30 esponenti dell’ordine equestre del 56, giunse alle 1000 persone di alto rango nel 63. L’atteggiamento di Nerone nei confronti di munera e venationes potrebbe fornire indicazioni indirette sulla struttura, a carattere stabile o meno, dell’anfiteatro inaugurato in Campo Marzio nel 57 (Tacito, 13, 31, 1; Plinio, Storia Naturale, 16, 76, 40; Ps. Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 5, 3). Nonostante il malcelato disprezzo manifestato da Tacito, la magnificenza della costruzione è testimoniata da Plinio il Vecchio (Storia Naturale, 19, 6, 24) che descrive l’azzurro velum stellato, e da Calpurnio Siculo, poeta bucolico vissuto al tempo di Nerone, autore di sette Ecloghe, composte probabilmente tra il 54 e il 63, in cui l’autore celebra gli inizi del principato neroniano come un riavvento dell’età aurea. Nell’Ecloga 7 il protagonista, il pastore Coridone, descrive tanto accuratamente e con tale dovizia di particolari l’anfiteatro, da suscitare forti perplessità sulla struttura completamente lignea del vasto edificio, cui, tuttavia, sembra inequivocabilmente rimandare l’espressione iniziale trabibus textis – intreccio di travi – che potrebbe anche indicare, come in seguito nel Colosseo, il solo coronamento ligneo della sommità della cavea. Tra i passi più significativi dell’Ecloga 7 sono i primi versi: “Abbiamo visto innalzarsi verso il cielo l’anfiteatro con le travi commesse, come se guardasse dall’alto la cima del monte Tarpeio, e distendersi le immense gradinate dolcemente digradanti… cosa potrò dirti se io stesso sono stato a stento capace di guardare il tutto parte per parte? Lo splendore che promanava da ogni luogo 213 214 impressionò il mio animo. Guardavo fisso e con la bocca spalancata, ammirando ogni cosa”. Tralasciando il chiaro intento da panegirista dell’autore, dalle sue parole emerge con chiarezza il concetto dell’imponenza dell’edificio. Ancora, Calpurnio si sofferma sui dettagli: “Il corridoio tempestato di pietre preziose, il portico rivestito d’oro, rilucevano a gara, e lungo il muro di marmo che cinge il perimetro dell’arena sono ruote lisce di avorio inafferrabili per le belve, che le rovesciano a terra. Le reti che sporgono verso l’arena splendono come oro, e lungo le reti sono disposti, a eguale distanza, denti, ogni dente molto più lungo di un aratro… abbiamo visto emergere le belve da voragini apertesi nel terreno… e spesso dalle stesse latebre crescere alberi d’oro, dal colore giallo dello zafferano con cui erano dipinti”. L’anfiteatro di Nerone era dotato, quindi, di strutture sotterranee, funzionali alla preparazione, nello spazio sottostante il piano dell’arena, degli allestimenti scenografici utili agli spettacoli. Sull’arena apparivano all’improvviso animali e fondali naturalistici, come più tardi nel Colosseo, il cui primo impianto sotterraneo, utilizzato da Tito per i giochi inaugurali dell’80, era di legno, probabile riproposizione delle soluzioni tecniche adottate nell’anfiteatro neroniano, delle quali era stata collaudata la funzionalità. I particolari descrittivi forniti da Calpurnio – il muro rivestito di marmo circostante l’arena, il corridoio tempestato di pietre preziose, il portico rivestito d’oro – si addicono più a un edificio in muratura che a una struttura interamente lignea che, per quanto robusta e solida, conserva comunque un carattere di precarietà. Ma Svetonio dichiara che l’anfiteatro era di legno e che la sua costruzione avvenne in un solo anno, periodo troppo esiguo per realizzare un edificio in muratura. Tacito, che forse poté vederlo, riferisce di fondamenta e di strutture lignee. Nel Campo Marzio, e precisamente nei Saepta, i recinti in cui in età repubblicana si svolgevano le elezioni, già dal 7 a.C., in occasione dei funerali di Agrippa, si erano svolti combattimenti in onore del defunto (Cassio Dione, 55, 8). Da allora i Saepta divennero luogo destinato agli spettacoli, come quelli realizzati nel 2 a.C. (Cassio Dione, 55, 10, 7) e nel 9 d.C. (Cassio Dione, 56, 1, 1). Già Augusto, pertanto, aveva adibito il luogo ai munera (Svetonio, Augusto 43; Cassio Dione, 55, 8) e, forse, alle battaglie navali (Cassio Dione, 55, 10) (LTUR I, s.v. Amphitheatrum Caligulae) benché l’imperatore avesse già destinato alla costruzione di un anfiteatro stabile l’area, al centro della città, in seguito occupata da una parte della Domus Aurea, e ove poi fu costruito il Colosseo (Svetonio Vespasiano, 9). Caligola, dopo avere offerto numerosi munera nell’anfiteatro di Statilio Tauro e nei Saepta, aveva avviato la costruzione di un nuovo edificio, forse ligneo, in Campo Marzio, iuxta Saepta, mai terminato e abbandonato da Claudio (Svetonio, Caligola 18, 21, 2). Cassio Dione riferisce che Caligola detestava il teatro di Statilio Tauro e preferì realizzare i concorsi agonistici inizialmente nei Saepta, di cui aveva fatto scavare interamente l’area interna riempiendola poi d’acqua per potervi condurre una nave, mentre in seguito li trasferì in un altro luogo, dove demolì moltissime e vastissime costruzioni, al posto delle quali fece erigere stabilmente i palchi (Cassio Dione, 59, 10, 5). Non è da escludere che Nerone abbia solo completato, in un anno, l’opera intrapresa presso i Saepta da Caligola (LTUR I, s.v. Amphitheatrum Neronis), nella medesima area in cui avrebbe, pochi anni dopo, edificato terme e ginnasio, prossima al teatro di Pompeo, definendo in tal modo una sorta di quartiere dedicato alla cura del corpo, allo svago e alla cultura. Permangono pertanto i dubbi sulla natura, completamente lignea o meno, dell’anfiteatro, e sulla sua precisa ubicazione. Nella capillare cancellazione dell’opera di Nerone attuata dopo la sua morte, apparentemente nessuna traccia si è conservata dell’anfiteatro, se non nella topografia dei luoghi e, sicuramente, nelle strutture fondali di cui parla Tacito, che, pure in presenza di un elevato ligneo, dovevano essere di consistenza tale da ritenere probabile la loro, anche parziale, conservazione nel sottosuolo della città moderna. Probabilmente la costruzione di un anfiteatro stabile non rientrava nei programmi edilizi di Nerone, molto più interessato ad altre forme di intrattenimento. Gli adepti della congiura dei Pisoni nel 65 si proposero di uccidere Nerone “nel palazzo tanto detestato e costruito con le spoglie dei cittadini”, la Domus Aurea, o in alternativa, in un luogo pubblico (Tacito, 15, 52). Fu deciso di dare seguito al piano il 19 aprile, giorno conclusivo dei Ludi Ceriales che si svolgevano in onore di Cerere dal 12 al 19 aprile e terminavano con una gara nel Circo Massimo. Nerone infatti, che in quel periodo restava chiuso, salvo rare uscite, nel Palazzo e nei suoi giardini, frequentava regolarmente gli spettacoli del Circo (Tacito, 15, 53). La cospirazione non ebbe successo per il tradimento di uno dei congiurati (Tacito, 15, 55). Subrius Flavus, un tribuno militare che faceva parte del corpo di guardia del principe e partecipò al complotto, quando Nerone gli chiese la ragione del suo tradimento rispose: “Ti ho amato e odiato più di qualsiasi altro uomo: ti ho amato nella speranza che ti saresti dimostrato un buon imperatore, ma ti ho odiato perché fai tutto e il contrario di tutto: del resto, non posso essere schiavo di un conduttore di carri e di un suonatore di lira” (Cassio Dione, 62, 24, 1-2). Nerone, repressa la congiura e puniti i colpevoli, convocò il senato, fece seguire un editto al popolo e presentò la raccolta, in vari volumi, delle denunce e delle confessioni degli imputati per contrastare le accuse di quanti lo ritenevano responsabile della morte di personalità illustri e innocenti (Tacito, 15, 73). Scampato il pericolo e fatta giustizia furono decretati offerte e ringraziamenti agli dei e particolari onori al Sole, che aveva un antico tempio presso il Circo, ove si era organizzato l’attentato. Si stabilì anche che i giochi del Circo in onore di Cerere fossero celebrati con un numero maggiore di corse di cavalli (Tacito, 15, 74). Dalla lettura delle fonti, nonostante alcuni margini di confusione nelle notizie tramandate, dovute presumibilmente al lasso di tempo intercorso tra gli eventi e la loro narrazione – tra la morte di Nerone nel 68 e la maturità di Cassio Dione era trascorso oltre un secolo – nonostante la difficoltà di collocare nel tempo le informazioni di Svetonio, che comunque poco aggiungono alla narrazione di Tacito (la più completa ed equilibrata, nonché la più attendibile in quanto prossima agli eventi), è possibile delineare un quadro complessivo del rapporto di Nerone con gli spettacoli, attività cui l’imperatore fu a lungo costretto a dedicarsi in solitudine, di nascosto, e nelle quali in prosieguo coinvolse, con una reazione forse direttamente proporzionale alle proibizioni imposte durante la prima giovinezza, strati sempre più ampi della popolazione fino a trascinarvi, volenti o nolenti, le classi sociali più elevate, quasi trasformando la sua passione per gli spettacoli in un formidabile strumento di irreverente “persecuzione politica” della vecchia classe dirigente. Ma il coinvolgimento delle classi sociali più elevate negli spettacoli non fu una prerogativa di Nerone: già Augusto aveva esibito nel Circo aurighi, corridori e bestiari, non di rado giovani della più alta nobiltà, avvalendosi talvolta anche, per gli spettacoli teatrali e per i combattimenti gladiatori, dell’opera di esponenti dell’ordine equestre, fino a quando un senatoconsulto lo vietò (Svetonio, Augusto, 43). Nerone era giovane, chiaramente iperattivo, versatile, un uomo dalla solida cultura ellenica, che traspare in moltissimi aspetti della sua vita, dalle sue scelte – i frequenti soggiorni a Napoli, città greca, il suo unico viaggio, in Grecia – alle sue poche dichiarazioni tramandateci a sostegno e difesa del suo operato. Nuotatore, auriga, amante dell’arte, letterato, citarista, compositore di musica e versi: le fonti delineano l’immagine di una persona esuberante, fisicamente e culturalmente, avida di esperienze e amante della vita. Non conosciamo il livello qualitativo delle sue prestazioni artistiche, e quindi non possiamo sapere se le sue capacità fossero, almeno in alcuni campi, reali o velleitarie. Nell’attività fisica appare spericolato, se rischiò di sfracellarsi con il carro durante le Olimpiadi in Grecia e di affogare nelle sorgenti dell’Acqua Marcia (Tacito, 14, 23). La sua incosciente vitalità giovanile scontratasi, appena adolescente, con la forte personalità di Seneca, fu costretta a destreggiarsi tra due opposte e potenti forze, la madre e i precettori, e tra diverse esigenze: coltivare i propri interessi artistici e letterari e le passioni sportive e, al contempo, adeguarsi al suo ruolo di principe, per il quale Seneca e Burro avevano previsto un tradizionale percorso formativo in contrasto con l’indole del ragazzo. Inizialmente, in virtù della giovane età del principe, si giunse a una soluzione di compromesso: l’adolescente poteva dare libero sfogo alle sue passioni, purché in forma assolutamente privata, nei giardini del Palazzo imperiale e nel recinto vaticano. Nerone, di nascosto, si recava al teatro e al Circo Massimo, ove assisteva agli spettacoli chiuso nella lettiga, forse pervaso dai sensi di colpa per la sua disubbidienza. Con la mentalità moderna e gli strumenti forniti dalla psicanalisi possiamo facilmente immaginare le frustrazioni di un adolescente irrequieto fortemente condizionato da un’educazione formale e repressiva, per lui incomprensibile e, alla lunga, inaccettabile. Le esibizioni artistiche in solitudine, infatti, non gli bastarono più e istituì, a 22 anni, gli Iuvenalia, i giochi della gioventù: probabilmente si riteneva pronto per il confronto. Non sappiamo se la tendenza al pubblico coinvolgimento e alla corale esibizione scaturissero anche da 215 216 7. Erma di auriga, da Roma, viale Trastevere, età neroniana, busto in marmo lunense, erma in marmo africano, alt. busto cm 36, alt. erma cm 150. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme 8. Erma di auriga, da Roma, viale Trastevere, età neroniana, busto in marmo lunense, erma moderna in marmo africano; alt. busto cm 36, alt. erma cm 150. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme una forma di esibizionismo o dal desiderio di condividere le sue passioni e le sue creazioni: probabilmente sono vere entrambe le ipotesi. Tacito racconta, al proposito, che riunì intorno a sé quanti, inclini alla poesia, non erano ancora noti: sicuramente lo divennero dopo aver preso parte a uno spettacolo accanto all’imperatore, protettore delle arti e scopritore di nuovi talenti. Ma solo cinque anni dopo, nel 64, a Napoli, osò esibirsi per la prima volta pubblicamente in teatro, per quanto è possibile dedurre dalle fonti. Il 59 è un anno chiave nella vita di Nerone: fa uccidere la madre, forse su istigazione di Seneca, e inizia il rapido processo di allontanamento dal suo precettore che, tre anni dopo, si ritira a vita privata. Nel frattempo Nerone stava maturando, nel prendere le distanze dalla politica di Seneca, una propria linea di gestione della cosa pubblica, più aderente a una società in trasformazione delle cui reali esigenze egli aveva, con ogni evidenza, compreso la natura e la portata e alle quali diede risposte che scatenarono definitivamente la durissima reazione dei conservatori, rappresentanti di istituzioni fatiscenti, saldamente ancorate a tradizioni, modelli di vita, privilegi e diritti superati dall’evoluzione sociale e politica. Nel suo spirito innovatore, Nerone giunse, come altri prima di lui, ma forse con un diverso spirito, al vilipendio delle vecchie istituzioni, costringendo aristocratici e cavalieri, in un crescendo inarrestabile, a esibirsi pubblicamente, anche dietro compenso, a teatro e, nel 63, nell’anfiteatro, negli spettacoli più amati dal popolo, in veste di gladiatori, considerati la feccia della società. In tal modo l’imperatore disconosceva Seneca e i suoi insegnamenti, si liberava del suo oppressore e cattivo consigliere, si vendicava dei suoi detrattori che, per paura o per avidità, lo assecondavano. Alla fine, tuttavia, questi ebbero la meglio e si liberarono, con il suicidio del principe, di un imperatore forse per alcuni aspetti in anticipo sui tempi, anticonformista, sicuramente non dotato, caratterialmente, di capacità di mediazione, né incline ai compromessi, fuori sintonia sul piano culturale e politico con istituzioni e tradizioni di stampo vetero-repubblicano: un monarca colto, costretto a recitare un ruolo che non aveva scelto e da cui, di fatto, nascondendosi dietro una maschera teatrale, rifuggiva. 217 EMANUELE BERTI L A L E T T E R AT U R A A L T E M P O D I N E RO N E 218 L’epoca di Nerone è una delle più ricche e vivaci nella storia della letteratura latina. Dopo l’età “aurea” augustea, segnata dall’apparizione di una serie irripetibile di capolavori, era seguita sotto i primi successori di Augusto una fase di minor rigoglio e quasi di ristagno delle lettere; è solo con il principato di Nerone che si assiste a una nuova importante fioritura, che vede alcuni tra i più interessanti autori latini produrre nell’arco di meno di un quindicennio una quantità di opere altamente significative. Tra le prime ragioni di questo rinnovato fervore letterario va annoverata la ripresa del mecenatismo promossa da Nerone. Cultore delle lettere e delle arti, appassionato di poesia, musica e spettacoli teatrali, Nerone nutrì in prima persona velleità artistiche e poetiche, come testimoniato da una ricca aneddotica tramandata soprattutto da Tacito e Svetonio, ma raccolse anche attorno a sé un gruppo di artisti e letterati, stimolandone l’attività con iniziative come i Neronia, certame poetico quinquennale istituito nel 60 d.C. Dietro tutto ciò si scorge da parte del giovane principe un coerente programma di politica culturale, mirante a fare della letteratura e dell’arte uno strumento di propaganda e consenso; a posteriori possiamo dire che questo progetto di controllo e indirizzo delle lettere non sortì gli effetti sperati, se è vero che le opere più importanti si producono lontano dalla corte neroniana: ma l’impatto sulla vita culturale di Roma fu indubbiamente benefico. Per illustrare certe peculiarità della letteratura neroniana nel suo insieme può essere utile un raffronto con l’età di Augusto. La grande poesia augustea nasce da un’adesione meditata e a volte anche sofferta, ma in definitiva sincera, per quanto sapientemente organizzata dalle cure di Mecenate, il “ministro della cultura” di Augusto, alla politica e all’ideologia del princeps; poeti come Virgilio e Orazio danno consapevolmente vita a una letteratura “nazionale”, che all’altissimo valore artistico associa un forte impegno ideale e che in forma più o meno diretta vuol farsi portavoce di quel programma di restaurazione dei valori dell’antica romanità che era il cardine dell’ideologia augustea. Ben diversamente stanno le cose sotto Nerone. Esiste sì una poesia cortigiana e celebrativa, impegnata a cantare incondizionatamente le lodi del principe, che però non raggiunge grandi risultati sul piano artistico; come si accennava, gli esiti migliori vanno cercati altrove, in una letteratura di opposizione, schierata apertamente contro il potere. Abbiamo così un poeta come Lucano (che pure ai suoi inizi aveva fatto parte dell’entourage di Nerone), che nel suo poema epico mira a demolire il mito di Roma costruito dalla propaganda e dalla poesia augustea, mostrando come l’avvento dell’impero segni il tramonto dei valori autentici della romanità e l’inizio di un’era di schiavitù che prosegue fin nel presente; da parte loro autori come Seneca e Petronio, sperimentando generi letterari nuovi e mai praticati a Roma, come la lettera 1. Un poeta (Virgilio?), affresco dalla parete ovest del triclinio C di Murecine. Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei 219 220 filosofica e il romanzo, conducono un’approfondita riflessione sull’uomo, la cultura e la società del tempo, mettendone in luce le contraddizioni e le miserie. Non è un caso che tutti e tre gli scrittori citati finiranno in rotta di collisione con il potere imperiale, pagando il loro desiderio di indipendenza con la morte. Non meno rilevanti sono i mutamenti attinenti alla forma. La letteratura neroniana è contrassegnata da alcuni ben definiti caratteri stilistici e formali, che appartengono a tutta la cosiddetta età argentea, ma che in quest’epoca giungono a piena maturazione e che possono essere complessivamente compresi nella definizione di “manierismo”. Una delle marche peculiari della letteratura augustea era stata la volontà di rifare i grandi classici della letteratura greca, ponendosi di fronte a essi in un rapporto di imitazione-emulazione, così da creare delle opere che anche per la loro perfezione formale potessero stare alla pari con i modelli: è questa l’essenza del classicismo augusteo. Allo stesso tempo questi scrittori e poeti si impongono come i nuovi classici e divengono a loro volta oggetto di imitazione da parte degli autori delle generazioni successive; ma il desiderio di andare oltre quei modelli ritenuti insuperabili determina un’esasperata ricerca di novità e una conseguente spiccata tendenza verso l’eccesso e l’artificiosità espressiva, che portano alla rottura di quell’equilibrio classico a all’affermazione di un gusto nuovo che si può appunto definire manierista: rientrano in esso l’inclinazione per i toni più patetici ed enfatici, il gusto del paradosso, la predilezione per le rappresentazioni a tinte forti, orride, sovraccariche. In opere come le tragedie di Seneca o il poema di Lucano riconosciamo gli esempi più rappresentativi del manierismo latino. Al diffondersi di questo gusto contribuiscono anche altri fattori. In primo luogo bisogna tener conto del cambiamento nei modi di fruizione della letteratura dovuto all’istituzione delle recitationes, letture pubbliche di brani di opere letterarie, avvenuta verso la fine dell’età augustea: ciò comporta che le opere concepite per le recitationes siano spesso costruite come una serie di pezzi di bravura, che avendo come fine precipuo quello di far presa sull’uditorio, fanno ricorso ad artifici di ogni genere e assumono marcati tratti di spettacolarità. Ma l’elemento che più caratterizza la letteratura argentea è il predominio assoluto della retorica, o meglio di quella particolare forma di retorica sviluppatasi nelle scuole di declamazione. Nel periodo compreso tra i regni di Augusto e Nerone il fenomeno delle declamationes conosce un successo e una popolarità crescenti; veri virtuosi della parola, i declamatori elaborano nuovi moduli espressivi, adatti a una retorica il cui scopo non è più quello di ottenere la vittoria in un dibattito reale, ma di suscitare il diletto e l’applauso del pubblico: è il cosiddetto “nuovo stile”, che presto varca i confini delle scuole di retorica per estendersi a gran parte della prosa letteraria della prima età imperiale. Suo portato principale è la dissoluzione delle strutture periodiche in favore di un dettato più mosso e nervoso, che trova la sua cellula stilistica nella sententia, breve frase a effetto capace di esprimere un’idea nel modo più originale e brillante, concentrando il massimo di significato nel minimo di parole; sarà soprattutto Seneca filosofo a fare del nuovo stile lo strumento perfetto per l’espressione del suo pensiero, creando una maniera destinata a fare scuola. L’influsso della retorica non si limita però alla prosa, ma si esercita in modo prepotente anche sulla poesia: possiamo citare ancora le tragedie di Seneca e l’epica di Lucano come esempi paradigmatici di una poesia retorica, in cui l’interazione tra i due generi raggiunge il grado più alto, fin quasi ad annullare i rispettivi confini. Anche sotto questo aspetto la poesia neroniana porta al loro pieno sviluppo tendenze che avevano iniziato a manifestarsi già da prima (significativo è soprattutto il precedente di Ovidio), lungo l’itinerario che conduce dall’età aurea all’età argentea della letteratura latina. La letteratura cortigiana Della produzione cortigiana legata a Nerone resta testimonianza nell’opera di Calpurnio Siculo, un poeta altrimenti ignoto, autore di sette ecloghe ispirate al modello delle Bucoliche virgiliane. Già Virgilio aveva entro certi limiti concepito il genere bucolico come un travestimento della realtà, usando il mondo dei pastori per parlare di fatti salienti della storia recente; nel suo epigono tale procedimento è portato all’estremo e spinto decisamente in direzione dell’allegoria. Calpurnio costruisce così delle poesie “a chiave”, intessute di una trama di allusioni a eventi e personaggi reali; e prendendo in particolare spunto dalla famosa quarta ecloga virgiliana, in cui si annunciava la nascita di un puer che preludeva al ritorno dell’età dell’oro, in tre carmi egli celebra il giovane principe (in realtà mai citato per nome; ma ci sono pochi dubbi che si tratti di Nerone), raffigurato nelle vesti di un dio, che riporta sulla terra gli aurea saecula inaugurando un’era di pace e 221 2-3. Doppia erma con il ritratto di L. Anneo Seneca accanto a quello di Socrate, prima metà del III secolo d.C., da Roma, alt. cm 28. Berlino, Pergamonmuseum prosperità, secondo una simbologia che apparteneva alla propaganda ufficiale neroniana e che vedremo ricomparire ancora. Alla corte di Nerone muove i suoi primi passi anche Lucano: come riferiscono le biografie antiche del poeta, egli si segnalò giovanissimo per il suo talento letterario, tanto da essere ammesso dal principe nella cerchia dei suoi amici più intimi. Il culmine della fase cortigiana della poesia lucanea (del tutto perduta, a parte pochi brevi frammenti) può essere ravvisato nelle laudes Neronis, recitate in occasione dei Neronia, e che gli valsero l’incoronazione a poeta; ma oltre a queste abbiamo notizia di una ricchissima produzione poetica – tanto più sorprendente se si pensa che Lucano morì appena ventiseienne – che a giudicare dai titoli (tra gli altri un Iliacon, un Catachthonion, carme sulla discesa agli inferi, un Orpheus) prediligeva soggetti mitologici di matrice greca. Proprio la natura di questa produzione minore di Lucano può gettare luce sui gusti poetici dello stesso Nerone; sappiamo del resto che anche l’imperatore compose un poema sulla guerra troiana intitolato Troica (forse lo stesso carme che egli avrebbe declamato durante l’incendio di Roma sullo sfondo della città in fiamme, secondo la celebre immagine immortalata da Tacito e Svetonio). Tale preferenza per una poesia di gusto grecizzante si accorda con quella spinta verso l’ellenizzazione dei costumi che fu uno degli aspetti salienti della politica culturale di Nerone e che, nonostante lo sdegno dei tradizionalisti, rispondeva a fermenti vivi nella società romana del tempo. Seneca La famiglia di origine spagnola degli Annei esercita una specie di egemonia sulla vita letteraria del I secolo d.C. fino a tutta l’età neroniana. Dopo il capostipite Seneca il Vecchio, autore della raccolta Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores, a cui dobbiamo le nostre conoscenze sulla declamazione della prima età imperiale, a essa appartennero il poeta Lucano e, probabilmente come liberto, il filosofo Anneo Cornuto; ma la figura centrale è ovviamente quella di Seneca filosofo, figlio di Seneca il Vecchio e zio di Lucano. Seneca esordisce come scrittore ben prima dell’inizio del principato di Nerone nel 54 d.C.; ma tale data costituisce uno spartiacque fondamentale nella sua carriera. Caduto in disgrazia presso Claudio, che nel 41 d.C. l’aveva relegato in Corsica in seguito a un’oscura vicenda di adulterio, fu richiamato a Roma nel 49 grazie ad 222 4. Luca Giordano, La morte di Seneca. Parigi, Louvre Agrippina, che lo volle come precettore del figlio adolescente Nerone; quando questi salì sul trono, Seneca si trovò così a essere tutore e primo consigliere del nuovo sovrano, reggendo di fatto, almeno inizialmente, le sorti dell’impero. Il regno neroniano si apre con l’orazione funebre per Claudio, pronunciata da Nerone ma composta da Seneca, nel ruolo di quello che oggi si direbbe ghostwriter (Tacito, Annali, 13, 3); ma più o meno contemporaneo alla laudatio funebris è un altro scritto di ben altro tenore, in cui Seneca dava sfogo ai suoi veri sentimenti verso Claudio: si tratta dell’Apokolokyntosis, la più singolare e una delle meglio riuscite opere senecane. Appartenente al genere della satira menippea (così detta dal nome del suo inventore, il filosofo greco Menippo di Gadara), da cui l’operetta mutua i suoi peculiari caratteri formali – l’uso del prosimetro, cioè la mescolanza di prosa e versi, l’alternanza dei registri stilistici, il continuo ricorso a procedimenti di parodia letteraria – in essa Seneca inscena una feroce satira della divinizzazione di Claudio decretata dal senato, mettendo in ridicolo la figura del defunto imperatore; non manca un inserto poetico in cui si celebra l’avvento del nuovo princeps Nerone, con il ricorso alla consueta simbologia dell’età dell’oro (cap. 4). L’Apokolokyntosis riflette bene le attese che Seneca riponeva in Nerone. Lo stoicismo, la dottrina filosofica professata da Seneca, consigliava espressamente la partecipazione del saggio alla vita politica: in quanto legato agli altri uomini dalla comune appartenenza a una stessa civitas o res publica, egli aveva il dovere di operare in prima persona per il bene della collettività. Seneca ebbe modo di mettere in pratica tale principio al più alto livello nei primi anni del principato neroniano, quando coltivò la speranza di realizzare l’utopia già platonica della filosofia alla guida dello stato: è il cosiddetto quinquennium felix, durante il quale, grazie alla presenza al suo fianco di Seneca, Nerone sembrò avviarsi verso un modello di buon governo. In questo contesto si colloca la più politica delle opere senecane, il trattato De clementia; dedicato a Nerone da poco asceso al trono, Seneca vi tratteggia un ideale di monarchia illuminata, in cui è la coscienza stessa del sovrano, ispirata dalla sapienza filosofica, a dover garantire un equilibrato esercizio del potere, e indica nella virtù della clemenza, intesa come un atteggiamento di umanità e moderazione nel trattare con i sudditi, il discrimine che distingue il buon re dal tiranno. Le speranze di Seneca dovevano però andare presto deluse; possiamo seguire l’evolversi del suo pensiero riguardo all’impegno politico nella sequenza di tre Dialogi, che, nonostante le incertezze cronologiche che gravano sulle opere incluse in questa raccolta (di cui fanno parte dieci trattati filosofici composti in epoche e occasioni diverse), sono databili con buona sicurezza. Il De vita beata risale a un periodo in cui Seneca era ancora in una posizione di potere e nasce da un fatto contingente, cioè dalle accuse che nel 58 d.C. gli erano state mosse da Suillio Rufo, un losco personaggio noto come delatore: facendosi portavoce di ambienti ostili a Seneca, questi prendeva di mira la scarsa coerenza tra i princìpi professati dal filosofo e la sua condotta, rinfacciandogli in particolare le enormi ricchezze accumulate, anche con mezzi poco leciti, in quattro anni di amicizia con Nerone (Tacito, Annali, 13, 42). Era chiaro che a essere posta sotto accusa era l’intera azione politica di Seneca e il suo rapporto con il principe: egli sentì dunque la necessità di replicare – seppur indirettamente, in un’opera che tratta del tema della felicità e del sommo bene – e nel De vita beata respinge le accuse di incoerenza e nega l’inconciliabilità tra virtù e ricchezza (poiché per il saggio ciò che conta non è il possesso o meno di ingenti ricchezze, ma l’uso che se ne fa); più in generale l’opera può essere letta come una difesa e una giustificazione, da parte di Seneca, del proprio operato in un momento in cui le sue fortune politiche iniziavano a vacillare. I primi segni di un distacco dalla politica si colgono nel dialogo De tranquillitate animi, che deve essere di poco posteriore al De vita beata. Trattando del problema filosofico della tranquillitas o euthymìa, Seneca ribadisce l’opzione dell’impegno politico per il saggio, ma argomenta che, se le circostanze lo imporranno, egli dovrà trovare modi diversi per giovare alla collettività, senza perciò venir meno ai suoi doveri di cittadino (capp. 3-5). Questa posizione si radicalizza nel De otio, risalente ormai al periodo successivo alla rottura definitiva con Nerone, nel 62 d.C. Qui Seneca affronta l’annoso problema, assai dibattuto nella cultura romana almeno dai tempi di Cicerone, della scelta fra negotium e otium, la vita attiva spesa al servizio dello stato e la vita contemplativa dedita agli studi filosofici e letterari. Se nel De tranquillitate animi la tensione tra i due poli opposti si risolveva ancora nella ricerca di un compromesso, nel De otio Seneca si pronuncia decisamente a favore dell’otium; ma contrariamente alla mentalità romana tradizionale, che vedeva nell’otium solo una soluzione di ripiego rispetto all’attivo impegno dell’uomo politico, e 223 ribaltando le sue stesse posizioni di partenza, Seneca ne rivendica ora con forza la piena legittimità, rivalutandolo quasi come una forma superiore di negotium: mentre infatti chi opera nella vita pubblica si rende utile solo al suo stato di appartenenza, nell’otium degli studi filosofici il saggio potrà porsi al servizio di una res publica più grande, coincidente con il mondo intero, e contribuire al progresso spirituale e morale di tutti gli uomini. Il De otio fornisce la giustificazione filosofica della decisione di Seneca, ormai escluso da qualsiasi ruolo politico, di ritirarsi a vita privata. Scaturisce da qui l’ultima fase dell’attività letteraria senecana, la più intensa e ricca, che oltre all’ampio trattato De beneficiis e all’opera scientifica Naturales quaestiones, dà come frutto principale le Epistulae ad Lucilium, il capolavoro di Seneca. Lasciata cadere ogni prospettiva di intervento nella vita pubblica, Seneca si rivolge alla ricerca morale, concentrando il suo interesse sulla coscienza individuale; nella corrispondenza con l’amico e discepolo Lucilio (poco importa se si tratti di corrispondenza reale o fittizia) egli intraprende un percorso di liberazione dai vizi e perfezionamento morale, che ha per fine ultimo il raggiungimento della saggezza. L’opera deve molto del suo fascino al suo carattere aperto, alieno da ogni rigidità dogmatica: conscio di essere lui stesso ancora lontano da quella meta, Seneca si mette in gioco con le sue debolezze, che sono le stesse di tutti, rispecchiando nella sua condizione 224 5. Pieter Paul Rubens, La morte di Seneca. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek quella dell’uomo in faticoso cammino verso la necessaria conquista della saggezza. Nelle Epistulae ad Lucilium dà il meglio di sé anche lo stile senecano, uno stile che, secondo la felice formula di Alfonso Traina, può definirsi “drammatico”, scisso tra “linguaggio dell’interiorità” e “linguaggio della predicazione”: da un lato il ripiegamento verso l’introspezione, nella quale Seneca raggiunge una profondità finora ignota alla letteratura latina, dall’altro l’urgenza della parenesi morale, che sfrutta tutte le risorse della retorica per bandire la verità e inculcarla nell’animo dei lettori. L’altro versante dell’attività letteraria di Seneca è costituito dalle tragedie. Sulla produzione tragica senecana, comprendente otto drammi autentici (Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes), più uno di autenticità dubbia (l’Hercules Oetaeus) e uno certamente spurio (l’Octavia), pesano varie questioni aperte, a partire dalla cronologia e l’epoca di composizione, che è del tutto ignota (anche se l’ipotesi prevalente è che essa debba essere fatta risalire, almeno in gran parte, a dopo il rientro di Seneca dall’esilio, quindi in piena età neroniana), ma anche riguardo la sua destinazione: oggi si tende a credere che le tragedie siano state composte, più che per la scena, per essere oggetto di recitationes (e in tal caso si può pensare come destinatario privilegiato alla corte neroniana, in linea con l’interesse per la poesia che abbiamo visto essere ivi diffuso). Altrettanto discusso è il problema del rapporto tra l’opera filosofica di Seneca e il suo teatro tragico, nel quale molti sono inclini a vedere nulla più che un’illustrazione poetica, una sorta di exemplum in versi delle dottrine stoiche. Si tratta di una posizione senz’altro eccessiva, se è vero che le tragedie sono innanzitutto opere di poesia, che rielaborano illustri modelli greci e latini; ma sarebbe anche errato disconoscere la sostanza filosofica dei drammi senecani. Così ad esempio uno dei nodi tematici in essi più ricorrenti è il conflitto tra ragione e passione, una questione centrale anche nel pensiero stoico: il furor che ispira l’agire di tanti personaggi tragici senecani (basti pensare a Medea o Fedra) è figura di quella “follia” che affligge gran parte del genere umano e che la filosofia si propone di curare. Non meno importanti sono i contenuti politici, soprattutto in quelle che potremmo definire “tragedie del tiranno”, che hanno al loro centro la figura di un tiranno (come le Phoenissae, il Thyestes, l’Oedipus, ecc.): se non è forse lecito cercare nella trama delle tragedie precise allusioni a fatti storici o vedere in taluni dei protagonisti controfigure di personaggi reali, sono però evidenti i risvolti di attualità che esse presentano; il teatro tragico diviene così per Seneca, ancor più delle opere in prosa, lo strumento per riflettere sui meccanismi del potere e la natura del regno, tematiche intimamente legate alla sua esperienza biografica. Un cenno a parte merita l’Octavia, che pur essendo trasmessa nel corpus delle tragedie di Seneca non è opera sua (come basta a dimostrare il fatto che lo stesso Seneca figuri tra i personaggi); la sua composizione risale verosimilmente a una data di poco posteriore alla morte di Nerone. L’opera si differenzia dai drammi autentici per il fatto di essere una praetexta, una tragedia di argomento romano; essa rappresenta la storia di Ottavia, la prima moglie di Nerone ripudiata e fatta uccidere per fare posto a Poppea. Al centro della praetexta sta un lungo dialogo tra Seneca e Nerone (vv. 440-592): al sovrano che afferma la sua idea tirannica del potere, si oppongono i consigli di moderazione del filosofo, che appaiono ispirati alla dottrina politica del De clementia; come nella realtà, Seneca esce sconfitto dal confronto-scontro con l’imperatore fatto tiranno. L’anonimo autore mostra di aver assimilato in profondità la lezione del teatro senecano, sia sul piano stilistico che su quello ideologico; e l’Octavia offre una preziosa testimonianza della ricezione immediata dell’opera e del pensiero di Seneca, ma anche del modo in cui le vicende e le dispute ideologiche del tempo di Nerone fossero rilette dalla generazione successiva. La letteratura stoica di opposizione: Persio e Lucano Abbiamo visto come lo stoicismo avesse fornito a Seneca le basi dottrinali per la sua azione politica e per la teorizzazione, nel De clementia, di una monarchia illuminata a guida filosofica. Ma nella stessa dottrina stoica vi erano le premesse per un atteggiamento ben diverso nei confronti del regime imperiale: la concezione dell’assoluta libertà interiore del saggio e la proposta del suicidio come possibile mezzo di liberazione da ogni schiavitù terrena potevano facilmente assumere una connotazione politica; in questa direzione portava l’esempio di Catone Uticense, divenuto con il suo suicidio il simbolo del rifiuto di sottomettersi a un potere dispotico (in quel caso quello di Cesare) e subito consacrato come una sorta di martire stoico della libertà. Non è dunque casuale che dalle file stoiche provenga la più importante corrente di opposizione e resistenza al principato 225 226 6. Statua di togato nel gesto della lettura interrotta, età neroniana, marmo lunense, alt. cm 160. Dal teatro/odeion di Luni. La Spezia, Museo del Castello di San Giorgio, Collezioni Archeologiche “Ubaldo Formentini” io BRE sul grig eliminare OM neroniano: è il caso di figure come Trasea Peto, costretto al suicidio nel 66 d.C. dopo aver tra l’altro pubblicato una biografia di Catone, ma anche come Anneo Cornuto, che fu invece condannato all’esilio. Proprio Cornuto fu il comune maestro dei due poeti che incarnano al meglio il filone della letteratura di opposizione: Persio e Lucano. Persio è autore di una raccolta di sei Satire, precedute da un breve componimento programmatico in coliambi (un tipo di verso usato soprattutto nella poesia d’invettiva), che furono pubblicate postume dopo essere state riviste da Cornuto (Persio morì a ventotto anni nel 62 d.C.). Il genere satirico, un’invenzione tutta latina secondo il noto giudizio di Quintiliano, era stato piegato da Orazio a strumento di critica dei vizi e delle debolezze umane; ma alla bonaria e pacata ironia che costituiva la cifra caratteristica della satira oraziana Persio, che pure si ispira a quel modello, sostituisce i toni dell’invettiva, della riprovazione indignata, della pressante esortazione morale. La filosofia stoica, con il suo rigorismo etico, impregna la poesia di Persio e gli fa apparire il mondo circostante in preda alla corruzione e al vizio, dominato dai falsi valori, dall’ambizione, dall’ipocrisia; tanto più urgente è dunque la necessità di smascherare tali comportamenti e quasi aggredire le coscienze per redimerle. A questa istanza etica corrisponde una precisa scelta estetica, dichiarata nella quinta satira (vv. 14 ss.): il crudo realismo del linguaggio, le audacie e i contorcimenti espressivi che spesso forzano la lingua fino all’oscurità, sono funzionali al proposito di radere mores, “raschiare i costumi”, e defigere culpam, “inchiodare la colpa”. Non sorprenderà allora che l’altro bersaglio ricorrente delle satire di Persio sia costituito dalla letteratura contemporanea: nella prima satira egli si scaglia contro la fatua pratica delle recitationes e contro la poesia epica e tragica alla moda, con i suoi insulsi soggetti mitologici e il suo manierato gusto grecizzante, rivendicando per contro la sua natura di poeta semipaganus (“semirozzo”), come si definiva nei Choliambi; è facile individuare l’obiettivo della polemica di Persio nella produzione dei poeti cortigiani gravitanti intorno a Nerone, e forse, come suggeriscono gli scolii antichi, anche nelle poesie dello stesso principe. La rivalità letteraria sarebbe stata, secondo alcune fonti, la causa della rottura tra Lucano e Nerone; fatto sta che, dopo aver legato i suoi esordi alla corte neroniana, la poesia di Lucano si volge in tutt’altra direzione con l’opera maggiore, il poema epico Bellum civile (noto anche con il titolo di Pharsalia). Con quest’opera Lucano innova profondamente e quasi stravolge lo statuto del genere epico; la novità non sta tanto nella scelta di un soggetto storico come la guerra civile tra Cesare e Pompeo (per cui c’erano nella letteratura latina molti illustri precedenti), né in certi caratteri formali che incontrarono già le critiche degli antichi, come la rinuncia all’apparato divino, quanto nelle modalità stesse in cui la materia epica è trattata. Con l’Eneide Virgilio aveva dato vita a un’epica nazionale, che attraverso la narrazione delle gesta di Enea e della preistoria mitica di Roma intendeva magnificare anche la grandezza attuale dello stato romano, incarnata dal principato augusteo; e più in generale una finalità celebrativa ed encomiastica era iscritta nel codice genetico del genere epico. In Lucano nulla di tutto ciò: il suo è un epos senza veri eroi, che come è detto nel proemio, canterà una scellerata guerra fratricida, la vicenda di un popolo potente che si è rivolto contro le sue stesse viscere fino all’autodistruzione. Rapportandosi direttamente al modello virgiliano con un procedimento che è stato definito “antifrastico”, Lucano smonta pezzo per pezzo la visione mitica e idealizzata della storia romana a cui l’Eneide dava voce, creando un vero e proprio “antimito” di Roma; se Virgilio seguiva nel suo racconto il dipanarsi di un disegno provvidenziale che aveva come fine ultimo l’avvento di Augusto, in Lucano c’è spazio solo per una “provvidenza crudele”, che ha decretato la morte della civiltà romana. Rivestendo la narrazione di un colorito stoico, Lucano tende a dare al conflitto una dimensione di catastrofe cosmica e a trasformarlo in uno scontro tra due princìpi astratti, regnum e libertas: a impersonarli sono da un lato Cesare, caratterizzato come un despota sanguinario ossessionato dalla conquista del potere, dall’altro Catone, ancor più di Pompeo il vero antagonista di Cesare, esaltato come la perfetta incarnazione del saggio e come l’ultimo alfiere della libertà repubblicana, e tuttavia destinato alla sconfitta (è probabile che nei piani di Lucano il poema, rimasto interrotto a metà del decimo libro, dovesse concludersi con il suicidio di Catone). Di fronte a tutto ciò il poeta non può restare indifferente, ma infrangendo la tradizionale obiettività epica entra di prepotenza nel poema per commentare con la propria voce i fatti narrati, apostrofare i personaggi, levare invocazioni. È questo il segno più vistoso della rottura delle convenzioni del genere operata da Lucano, che nasce dall’aver calato nella forma 227 epica un soggetto eminentemente tragico; se ne colgono i riflessi anche sullo stile, che, come lo definirà Quintiliano, si fa ardens e concitatus, fa del pathos la sua cifra dominante. Nel Bellum civile si manifestano dunque sentimenti palesemente anti-imperiali; non può allora non destare sorpresa la presenza nel primo libro, subito dopo il proemio, di un elogio di Nerone (1, 33-66), la cui interpretazione rappresenta da sempre uno dei problemi cruciali della critica lucanea. Poiché le biografie antiche del poeta danno la notizia che i primi tre libri del poema furono pubblicati a parte, è stato pensato che essi potessero essere stati composti in un periodo in cui Lucano era ancora in buoni rapporti con il principe e non si era ancora attestato su posizioni così critiche verso il potere imperiale: ma in realtà non si notano nel corso dell’opera tracce significative di una tale evoluzione nelle idee di Lucano. Altri hanno supposto che l’elogio debba essere inteso in senso ironico, ma gli indizi in tal senso sono piuttosto deboli. È invece probabile che esso vada letto come un pezzo di maniera, inserito per motivi di convenienza, ma che proprio nella sua trita convenzionalità rivela la sostanziale insincerità. È in ogni caso indubbio che con il Bellum civile Lucano rompe con il passato e si allontana del tutto da Nerone; e non è da escludere che la pubblicazione del poema abbia avuto un ruolo nella sua caduta in disgrazia e nella successiva condanna a morte. 228 Il caso Petronio Petronio è una delle figure più affascinanti, ma anche più sfuggenti ed enigmatiche della letteratura latina. Tutto ruota intorno alla domanda se si debba identificare l’autore del Satyricon con il Petronio del celebre ritratto di Tacito, il cortigiano di Nerone arbiter elegantiarum del principe: raffigurato come un gaudente eccentrico e sofisticato, dedito a una vita di piaceri e dissolutezze (e perciò favorito da Nerone), Petronio cadde infine in disgrazia e scelse di darsi la morte inscenando il proprio suicidio come una rappresentazione teatrale; Tacito aggiunge che morendo egli lasciò dei codicilli in cui si denunciavano i flagitia principis, gli scandali della corte neroniana (Annali, 16, 18-19). Le consonanze di questo ritratto con l’atmosfera che si respira nel Satyricon sono indubbiamente suggestive, anche se l’immagine potente del Petronio di Tacito rischia, sovrapponendosi all’opera, di sviarne in qualche modo l’interpretazione; ma a prescindere da questo, gli indizi interni che depongono per una datazione del Satyricon in età neroniana sono piuttosto forti e rendono tale ipotesi cronologica a tutt’oggi la più verosimile. A sciogliere il mistero non contribuisce lo stato di conservazione dell’opera: ciò che possediamo del Satyricon è infatti solo un lungo frammento (in realtà formato a sua volta da una sequenza di estratti cuciti insieme da un compilatore medievale, quindi piuttosto lacunoso al suo interno), che copre forse due libri di un’opera che doveva contarne almeno sedici, ed era dunque di molte volte più estesa. La definizione di romanzo, con cui si è soliti designare il Satyricon, deriva dal fatto che non esiste nessun altro termine più appropriato per classificare un’opera unica nel suo genere, che si pone al di fuori del sistema dei generi letterari codificato nell’antichità. Se alcuni caratteri formali, su tutti l’uso del prosimetro, avvicinano il Satyricon alla satira menippea, esso si presenta nel complesso come una sorta di raffinato pastiche aperto all’influenza dei generi più disparati, dal poema epico alla narrativa greca di consumo; ma il tratto davvero caratterizzante dell’opera è il gioco parodico che l’autore mette in atto nei confronti di tutti questi modelli letterari. Nel frammento superstite sono narrate attraverso la voce di uno dei protagonisti, Encolpio, le peripezie non proprio eroiche di un gruppo di avventurieri, che si muovono in un mondo di bassifondi, fatto di personaggi falliti e screditati, incontri erotici degradanti, espedienti e inganni per sbarcare il lunario. Uno degli aspetti più ammirati del Satyricon è il realismo della rappresentazione, che tocca l’apice nel celeberrimo episodio della cena Trimalchionis, il banchetto offerto dal liberto arricchito Trimalcione; ma – è questa la grande novità del realismo petroniano – ciò non è funzionale a esprimere alcun giudizio morale: come i grandi esponenti del realismo moderno, Petronio si limita a rappresentare, senza giudicare. La strategia seguita dall’autore, un “autore nascosto”, proprio perché almeno in apparenza assente dal romanzo, è diversa, e si fonda su quei procedimenti di parodia letteraria cui si accennava sopra: giocando sullo scarto tra la meschina realtà rappresentata e i sublimi modelli letterari che i protagonisti dell’opera, primo fra tutti Encolpio, vero e proprio “narratore mitomane”, evocano di continuo come termine di confronto per le loro avventure, Petronio esercita ai danni dei suoi personaggi una costante intenzione satirica, che va a colpire ora i nuovi ricchi alla Trimalcione e le loro vane ambizioni culturali, ora gli pseudo-intellettuali nutriti di pedante cultura scolastica come Encolpio, con la loro “nostalgia del sublime”. Come tutto ciò debba essere inquadrato nel contesto della cultura e della società neroniana resta difficile da afferrare fino in fondo. Certo, nel romanzo non mancano allusioni (o presunte tali) a figure di spicco della vita letteraria dell’epoca, come Seneca e Lucano: così nella lunga inserzione poetica del Bellum civile, pronunciata dal poeta Eumolpo, sembra di cogliere un chiaro intento polemico contro la nuova epica lucanea; ma allo stesso tempo Eumolpo è presentato come un poetastro da strapazzo, e i suoi versi, in cui lo scoppio della guerra civile è narrato con il ricorso a tutto il tradizionale apparato divino, appaiono quanto di più banale e convenzionale (lo stesso si può dire dell’altro inserto poetico maggiore del romanzo, in cui Eumolpo declama un soggetto neroniano per eccellenza come la presa di Troia): cosicché la satira pare rivolgersi anche contro quella poesia di maniera che doveva andare per la maggiore nella cerchia di Nerone. Osservando la realtà che lo circonda con un atteggiamento di aristocratica superiorità, Petronio sembra voler denunciare la volgarità e la mancanza di gusto diffuse a tutti i livelli, non esclusa la corte imperiale (e sarebbe interessante capire se il Satyricon abbia qualcosa a che fare con i codicilli di cui parla Tacito nel ritratto di Petronio – sempre ammesso che si tratti della stessa persona); anche se delle reali intenzioni dell’autore molto è destinato inevitabilmente a sfuggirci. Questo non ci impedisce però di apprezzare l’altissimo valore letterario dell’opera, che fa del Satyricon uno dei capolavori assoluti della letteratura latina. alle pagine seguenti Henryk H. Siemiradzki, Dirce cristiana, 1897. Varsavia, Museo Nazionale La morte ravvicinata di Seneca, Lucano e Petronio, tutti e tre caduti vittima tra il 65 e il 66 d.C. della repressione seguita alla scoperta della congiura dei Pisoni, segna la drammatica conclusione di una stagione letteraria che si era aperta sotto ben altri auspici. Nerone vivrà ancora per circa due anni, prima di trovare la morte in una congiura di palazzo nel 68 d.C.: sono gli anni più oscuri del suo principato, in cui egli dà libero sfogo ai suoi istinti peggiori e alle sue manie di grandezza anche in campo artistico; sono gli anni in cui, abbandonato ogni ritegno, il principe si dà sempre più spesso a calcare le scene, gli anni del viaggio in Grecia, che lo porta a esibirsi a ogni tappa in performances poetiche e musicali, ottenendo una serie di successi tanto trionfali quanto effimeri e fasulli. Qualis artifex pereo!, “quale artista muore con me!”: le parole che secondo Svetonio Nerone avrebbe ripetuto prima di morire suonano come l’estrema rivendicazione del suo preteso talento di artista: i posteri giudicheranno molto diversamente. 229