Quaderno pacifismo definitivo.qxp
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Quaderno pacifismo definitivo.qxp
15/09/2011 14.50 Pagina 1 Fare pace Jugoslavia, Iraq, Medio Oriente: culture politiche e pratiche del pacifismo dopo il 1989 Giulio Marcon 14 I LIBRI DE LO STRANIERO 9 788863 570687 I QUADERNI I QUADERNI Un saggio sulla storia del pacifismo italiano dal 1945 a oggi introduce in questo quaderno ad alcuni drammatici reportage, interventi e racconti delle esperienze del movimento pacifista italiano ed europeo dai principali luoghi dei conflitti del dopo 1989: le guerre in Jugoslavia, i conflitti in Palestina e in Medio Oriente, la guerra in Iraq, i conflitti nella ex Unione Sovietica. Un viaggio “dal di dentro” nella cultura e nelle pratiche del pacifismo italiano tra interventi di solidarietà, aiuto umanitario, nonviolenza e disobbedienza civile nei maggiori conflitti degli ultimi venti anni, raccontato da uno dei suoi protagonisti e testimoni, senza tacerne le difficoltà e contraddizioni. € 5,00 COVER.qxp Fare pace Jugoslavia, Iraq, Medio Oriente: culture politiche e pratiche del pacifismo dopo il 1989 Giulio Marcon © 2011 Edizioni dell’Asino Isbn 978-88-6357-068-7 Distribuzione PDE spa Progetto grafico Orecchio Acerbo Hanno collaborato: Goffredo Fofi, Francesca Nicora, Sara Nunzi, Fabio Piccoli, Ilaria Pittiglio, Nicola Villa. Le Edizioni dell’Asino sono un progetto frutto della collaborazione tra Lunaria e Lo Straniero con la partnership di Redattore Sociale www.gliasini.it Prefazione Questo quaderno è diviso in due parti. La prima include un saggio sulle culture politiche del pacifismo del secondo dopoguerra. La seconda raccoglie reportage, racconti e diari su alcuni dei teatri di guerra o di emergenza umanitaria degli ultimi vent’anni, dalla caduta del muro di Berlino fino a oggi. L’obiettivo è di fornire una cornice di riferimento generale e di dare un piccolo quadro – dal di dentro – di alcune vicende e delle conseguenze da queste prodotte sulle identità e le culture del pacifismo e dell’intervento umanitario: dalla lunga guerra jugoslava (Bosnia e Kosovo) alla guerra in Iraq, dall’infinito conflitto israelo-palestinese ai golpe e alle tensioni violente in Russia. Questo quaderno – insieme a una prima parte analitica delle culture politiche del pacifismo – racconta alcune vicende – vissute in prima persona – a continuo confronto con le idee, le convinzioni e le proposte che il pacifismo e l’intervento umanitario hanno sedimentato in questi anni, con contraddizioni, dilemmi, conflitti etici e politici. Cosa succede alla convinzione della nonviolenza, quando ti trovi nella Sarajevo assediata e i suoi abitanti ti chiedono di rinunciare ai tuoi principi pacifisti invitandoti a fare qualcosa per far tacere i cecchini che sparano dalle colline sulle persone in coda per il pane o per riempire una bottiglia d’acqua? E che cosa deve fare l’operatore umanitario quando un governo inizia una guerra (Kosovo, 1999) e nello stesso tempo ti propone (grazie alla Missione Arcobaleno) di coprire con una montagna di soldi la tua organizzazione, soldi da utilizzare a fin di bene per i profughi? Oppure, cosa succede alla tua storica convinzione di assoluto sostegno al principio di autodeterminazione del popolo palestinese, quando la confronti con il diritto alla sicurezza nelle discussioni in un kibbutz o con i pacifisti israeliani? Emergono dalle vicende vissute direttamente (e ci riferiamo alla seconda parte di questo quaderno) dei nodi di carattere più generale: la tensione tra pacifismo assoluto e pacifismo politico, le ambiguità degli aiuti umanitari, i dilemmi tra l’aiuto alle vittime della guerra e la difesa dei diritti umani, la crisi del con3 cetto di autodeterminazione in un mondo sempre più globalizzato, la fine della cooperazione internazionale e il nuovo ruolo dei movimenti sociali. Fino al conflitto doloroso tra credenze ritenute fino a poco tempo prima assolute e inamovibili e la realtà che le rimette in continua discussione, provocando uno smottamento, non solo delle ideologie e delle culture politiche, ma anche dei comportamenti individuali. Sono stati anni (dal 1989 a oggi) particolarmente complessi e difficili per i pacifisti e gli operatori umanitari. Le guerre jugoslave hanno moltiplicato, come in un labirinto a specchi, le “immagini del nemico”, rendendo difficile la vita a un pacifismo che si è ritrovato senza un’unica e univoca controparte. La guerra in Iraq ha messo in evidenza, da una parte, l’impatto drammatico di terrorismo e “guerra permanente” e dall’altro, quanto sia potente la forza (anche se perdente) di un movimento contro la guerra e quanto debole quella di un movimento per la costruzione della pace. I conflitti umanitari degli anni ’90 e oltre hanno evidenziato quanto sia ormai definitiva la connivenza affaristica e governativa di una parte delle Ong e quanto sia complicato dare vita a un nuovo paradigma della solidarietà internazionale. E il conflitto israelo-palestinese ha evidenziato quanto sia complesso per i pacifisti destreggiarsi tra il sacrosanto rispetto dei diritti umani, il principio dell’autodeterminazione e le ragioni di due popoli in conflitto. Veniamo ai contenuti dei diversi paragrafi. Per la prima parte: Le culture politiche del pacifismo è il testo della relazione al convegno italo-spagnolo (promosso dall’Istituto per la pace catalano) sulle culture del pacifismo tenutosi nell’ottobre del 2010 a Barcellona. Riguardo alla seconda parte: I pacifisti e Gorbaciov. Il giorno del golpe è il breve diario di una giornata: il 19 agosto 1991, il giorno del tentato golpe in Unione Sovietica contro Gorbaciov, durante l’ultima riunione della End (European Nuclear Disarmament), il meeting annuale dei pacifisti europei. Si tratta di un testo che rielabora un articolo scritto per “Linea d’ombra” nel 1991. Time for Peace è il parziale racconto (qui ridotto all’incirca di metà) di una settimana in Palestina durante l’iniziativa Time for Peace (1989-1990): incontri, manifestazioni, scontri con la polizia israeliana. Sempre in questo capitolo si trova un reportage da Israele (2007), da un’iniziativa dei pacifisti e della sinistra israeliana nel sud del paese sotto i colpi dei missili da Gaza e da un soggiorno in uno storico kibbutz della sinistra laburista. Uscito in versione ridotta su “Carta” nel 2007. Guerre fratricide sono diari, articoli e racconti – raccolti in unico testo – di tre anni di guerra in Bosnia Erzegovina (1992-1995) e in particolare delle iniziative pacifiste e di solidarietà con le vittime della guerra. Parte degli articoli e degli interventi sono usciti su: “il manifesto”, “l’Unità”, “la Terra vista dalla luna”, Dopo il Kosovo (Asterios 2000). I diari qui riportati rappresentano una parte limitata (circa un terzo) della loro versione originaria. 4 La guerra umanitaria e il Kosovo è il diario parziale tenuto tra il marzo e il giugno 1999, durante la guerra in Kosovo. Una piccola parte di questo diario è uscita ne: Le ambiguità degli aiuti umanitari (Feltrinelli 2002). Anche in questo caso si tratta di circa un terzo della versione originaria (che abbracciava tutti i giorni dal 24 marzo al 10 giugno 1999). Iraq, la guerra infinita è il reportage di due viaggi compiuti in Iraq nel 2003, il primo durante il regime di Saddam Hussein (febbraio) e il secondo dopo la sua caduta e la fine della guerra (luglio). Una parte di questo testo è uscito su “Lo Straniero”. Vi erano infine altri testi (originariamente destinati a un altro editore) non inclusi in questo quaderno: in particolare alcuni reportage sui forum sociali di Porto Alegre e Bamako (usciti su “il manifesto” e su “Lo Straniero”) e un racconto (Macchie uscito in piccolo frammento su “Pagine in bottiglia”) ispirato a un fatto vero (una drammatica storia d’amore tra un serbo e una musulmana nella Sarajevo assediata del 1993). Non sono stati inclusi nel quaderno per motivi di brevità, qualità e omogeneità rispetto al resto dei testi. Questo quaderno è dedicato a Tommaso e ai “magnifici sette” delle sue avventure pacifiste: Otto, Spartaco, Briegel, Gigi Pagnotta, Serpieri, Buttiglione e Setter. Giulio Marcon è stato – negli anni cui si riferiscono questi scritti – Segretario della branca italiana del Servizio Civile Internazionale (fino al 1992), Portavoce dell’Associazione per la pace (dal 1993 al 1998) e Presidente (dal 1997 al 2004) del Consorzio Italiano di Solidarietà (Ics). Attualmente è Portavoce della campagna Sbilanciamoci!. Ha scritto: Dopo il Kosovo (Asterios 2000), Le ambiguità degli aiuti umanitari (Feltrinelli 2002); Come fare politica senza entrare in un partito (2005) e Le utopie del ben fare (L’ancora del mediterraneo 2006). 5 Parte prima Le culture politiche del pacifismo a Tom Benetollo e Josep Palau Prima degli anni ottanta Riflettendo sulle culture politiche del pacifismo in Italia e in Europa molti pensano che il salto di qualità abbia avuto origine negli anni ottanta e che quegli anni, gli anni della lotta contro gli euromissili, siano gli anni in cui il pacifismo assume una sua propria dimensione politica in discontinuità con le esperienze precedenti del movimento per la pace, esperienze, soprattutto quelle tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta – schiacciate tra la testimonianza singola o di piccoli gruppi (sostanzialmente quelli ispirati alla nonviolenza e alla disobbedienza civile) e il variegato movimento dei “partigiani per la pace”. In realtà la dimensione politica dell’azione per la pace compare in molte esperienze, certo minoritarie, ma non per questo meno importanti di quelle di massa degli anni ottanta. Si pensi solamente all’esperienza della mobilitazione antinucleare (della Campaign for Nuclear Disarmament-Cnd, mobilitazione solo formalmente “non politica”) nella Gran Bretagna del dopoguerra. Da Gandhi a Capitini (che parlava di nonviolenza come “aggiunta alla politica”) il valore politico dell’azione nonviolenta e per la pace non solo è riconosciuto, ma assolutamente rivendicato. In India la politica e la pratica della nonviolenza ebbero un certo impatto sulla lotta di liberazione e gli assetti postcoloniali di quel paese. E sia in Gandhi che in Capitini (due filosofi e attivisti prettamente politici) alcuni principi fondamentali come la “noncollaborazione” e la “nonviolenza” (accanto alla “nonmenzogna”) rappresentano i capisaldi di una politica della pace – o meglio della nonviolenza – che poco avevano a che fare con le culture politiche tradizionali. Proprio Aldo Capitini promuove nel 1961 la prima marcia pacifista da Perugia ad Assisi, la cui impronta politica è chiara nei suoi obiettivi e nella sua organizzazione (Capitini, 2010; Gandhi, 1973; Pontara, 1996). 7 La dimensione della protesta pacifista americana degli anni sessanta contro la guerra in Vietnam e contro le guerre coloniali e imperialiste ha parimenti un suo forte spessore politico in evidente collegamento con quella rivoluzione antiautoritaria e libertaria che fu la caratteristica del ’68 americano (e degli anni precedenti) e dei primissimi passi del ’68 in Italia e in Europa. Sempre il ’68 (insieme a tante altre lotte per i diritti civili) fa emergere con chiarezza un movimento antimilitarista fortemente politico in Europa come negli Stati Uniti, diffondendo – questo grazie, almeno in Italia, all’impegno dei radicali e dei cattolici più che della sinistra – il fenomeno dell’obiezione di coscienza al servizio militare e alle spese militari e la pratica della disobbedienza civile. Un antimilitarismo politico – diverso da quello della testimonianza religiosa (come nel caso dei Testimoni di Geova) – che contesta “l’istituzione totale” dell’esercito, come in altri campi i movimenti antipsichiatrici denunciano l’“istituzione totale” del manicomio e come gli studenti del ’68 contestano la struttura autoritaria della Scuola e dell’Università (Marcon, 2004; Fofi, 1997). Prima degli anni ottanta le culture politiche del pacifismo sono dunque incardinate essenzialmente sulle seguenti pratiche e filoni di pensiero: il movimento nonviolento, antimilitarista e della disobbedienza civile che è presente in tutto il secondo dopoguerra (con decine di piccoli gruppi ignorati sia dalla sinistra che dalle gerarchie della Chiesa cattolica) e diventa più forte negli anni sessanta e poi a cavallo del ’68 (Martellini 2006); la tradizione (quella più minoritaria, democratica e per certi versi radicale) del cattolicesimo sociale di base e delle chiese evangeliche (spesso sovrapposto all’esperienza dei movimenti nonviolenti), particolarmente forte grazie alla testimonianza e alla disobbedienza di alcuni sacerdoti (in Italia: don Milani, padre Balducci, eccetera) e delle esperienze delle comunità di base e di molte minoranze religiose come i valdesi e i quaccheri; la tradizione di sinistra e del movimento operaio che, almeno fino agli anni sessanta, è sostanzialmente strumentale e subalterna alla logica dei blocchi e del bipolarismo: si veda l’esperienza dei “partigiani per la pace”, un movimento certo complesso e articolato che però rispondeva a una logica sostanzialmente bipolare (Bobbio, 2005); la spinta del movimento studentesco tra gli anni sessanta e gli anni settanta, che – abbracciando almeno in parte la cultura antimilitarista e nonviolenta – si incardina sostanzialmente sulla contestazione della guerra in Vietnam e sulla solidarietà con i movimenti di liberazione anticoloniali e antimperialisti. 8 Gli anni ottanta Con gli anni ottanta irrompe il pacifismo come soggetto sociale e politico di massa (e per certi versi globale) e questo nel contesto di una particolare situazione internazionale (quella della guerra fredda e del bipolarismo) e grazie a una vasta percezione del rischio di una guerra nucleare. Il rischio di una guerra totale (nucleare) è alla base dello sviluppo del forte movimento pacifista di questo periodo: la sua durata e la sua capacità di mobilitazione sono essenzialmente legate all’intensità della percezione di questo rischio. Il movimento cresce rapidamente nella prima metà degli anni ottanta e poi – una volta installati i missili – declina. Il movimento degli anni ottanta rappresenta, per le culture politiche del pacifismo, una sostanziale discontinuità (forse più per l’Italia e meno per la Gran Bretagna e la Germania) rispetto agli anni precedenti: permangono elementi del passato, ma emergono con forza elementi nuovi nelle culture politiche del pacifismo. Questi ruotano sostanzialmente intorno al cambiamento delle relazioni e degli equilibri tra il ruolo delle forze politiche e sociali organizzate (partiti, sindacati, eccetera) e la dinamica di movimento che crea sue soggettività, forme di rappresentanza e di organizzazione sconosciute negli anni precedenti. C’è una coabitazione – difficile, contrastata, conflittuale – tra dinamica autonoma di movimento e forme tradizionali di organizzazione politica che si può ricondurre a partiti, sindacati e grandi associazioni. Le Chiese, in molti paesi europei (in Italia solo in modesta parte, molto più sono coinvolte invece le strutture cattoliche di base), giocano un ruolo significativo nel promuovere e sostenere questo movimento. Emerge con forza il tentativo di costruire una dimensione politicamente autonoma del movimento per la pace che, nel secondo dopoguerra, era stato possibile solo ai margini delle grandi culture politiche (quella comunista e quella cattolica) per pochi e isolati gruppi nonviolenti. In questo periodo vi sono alcune significative novità nella costruzione delle culture politiche del pacifismo. Alcune riguardano le forme politiche, altre quelle organizzative. Per quanto concerne l’aspetto politico: un nuova idea di sicurezza fondata non sulle armi, ma sulla libertà, la democrazia, i diritti umani (tre temi che rimandano, ovviamente, alla situazione dei regimi autoritari dell’est europeo), la cooperazione e la giustizia economica e sociale (Benetollo, 1981); la cultura, la pratica e la politica della nonviolenza che inizia a permeare, con maggiore efficacia e intensità, in vasti strati del movimento pacifista che – lo ricordiamo – in questo periodo è prevalentemente un movimento contro la guerra e per il disarmo, contro i blocchi; 9 la consapevolezza maggiore del rapporto pace-guerra come chiave di lettura non solo delle relazioni internazionali, ma del modello di sviluppo, del rapporto tra economia e società, dei rapporti di dominio e di potere, della disparità tra Nord e Sud del pianeta; l’inizio di una relativa contaminazione politico-culturale attraverso l’incontro del pacifismo con altre culture politiche, come quelle dell’ambientalismo (proprio degli anni ottanta), dei movimenti della solidarietà internazionale e dei diritti umani (delle Ong), del femminismo e del volontariato sociale, che nascono o si sviluppano parallelamente in quegli anni. È qui che ha inizio l’influenza sul movimento per la pace di idee e culture (come quelle del movimento delle donne, dell’ecologismo e del volontariato internazionale), fino ad allora assenti nel pacifismo (Marcon, 2004). Da ricordare l’ovvio legame tra le questioni del disarmo e la scienza e tecnologia (determinanti per la costruzione di nuovi armi sempre più sofisticate e distruttive): in questi anni nascono nuove organizzazioni di scienziati e ricercatori che si impegnano per il disarmo, alcune di queste ricollegandosi al movimento Pugwash. Per quanto riguarda l’aspetto organizzativo, due sembrano gli elementi di novità che emergono dal movimento per la pace: lo sviluppo di modalità di mobilitazione a rete e la costruzione di sedi organizzative autonome (alle quali partecipano, certamente, anche le organizzazioni tradizionali) come espressione di questa nuova dinamica e soggettività: in Italia nascono i comitati e i coordinamenti dei comitati per la pace a livello locale, regionale e nazionale, ma questo processo è estendibile a tutto il continente europeo; l’avvio della costruzione di un percorso associativo autonomo che rispetto al passato (esperienze, comunque significative, come quelle di tanti piccoli gruppi della galassia del movimento nonviolento, dell’International Fellowship of Reconciliation, del Service Civil International, eccetera) acquista una nuova e particolare valenza, quella di rendere impossibile il ritorno del collateralismo e dell’egemonismo delle forze politiche organizzate: in Italia nascono, negli anni ottanta, la sezione di Pax Christi, i Beati i Costruttori di Pace, la Legambiente, e l’esperienza dei comitati per la pace porta alla creazione dell’Associazione per la pace, (Castellina, 1998). È un pacifismo che produce una sua cultura politica, sue autonome e originali forme organizzative e di coordinamento, dei suoi leader, anche a livello internazionale. L’esperienza della End1 ne è testimonianza. È un mo1 Le convenzioni della European Nuclear Disarmament (End) si tengono dal 1982 al 1991 in diversi paesi europei. Un appello per il disarmo nucleare europeo (elaborato da M. Kaldor, E.P. Thomson, K. Coates, D. Smith) era stato lanciato nel 1980, dopo la deci- 10 vimento che costringe partiti e politica a confrontarsi con soggettività nuove nella società civile, autonome e irriducibili ai vecchi collateralismi. I movimenti pacifisti degli anni ottanta sono in qualche modo il sintomo di una febbre che sta colpendo l’assetto bipolare e che porterà, con la caduta del muro di Berlino, alla diffusione della democrazia e dei diritti umani. È certamente, oltre che un movimento contro i blocchi, un “movimento contro la guerra” più che un “movimento per la pace”. È un movimento che – in alcune sue parti – è ancora condizionato da una vena ideologica antiamericana e antimperialista. È un movimento che ancora non è capace di assorbire l’esperienza, gli insegnamenti e le pratiche della nonviolenza: Gandhi, Capitini, la marcia Perugia-Assisi, le pratiche della disobbedienza civile sono ancora – nonostante le evocazioni e i richiami più o meno formali – sostanzialmente sullo sfondo delle mobilitazioni2. Nella considerazione delle culture politiche del pacifismo in questo periodo, non può non essere considerato, con specifico rilievo, il tema del rapporto tra pacifismo e ambientalismo. E questo per due motivi. In primo luogo, perché il movimento ambientalista si definisce in molti paesi e tante sue parti come movimento “ecopacifista”, si pensi solo alla Germania. Non è solo il tema del nucleare (contro il nucleare “civile e militare”) a unire, ma la considerazione della guerra atomica come il più grave pericolo di distruzione totale di un pianeta che deve essere salvato. In secondo luogo, a differenza del pacifismo, una parte dell’ecologismo degli anni ottanta diventa forza politica, partito. Sarebbe il caso – in altra occasione – di approfondire le ragioni della stessa mancata trasformazione del pacifismo in movimento politico tout court. L’ambientalismo, più del pacifismo, sembra capace in questi anni di produrre – e con un grado molto più alto di autonomia dalle tradizionali forze organizzate – una propria identità e soggettività politica, una sua forza attrattiva perdurante sul lungo periodo verso l’opinione pubblica, capace di far permanere la propria iniziativa politica nel tempo, al contrario di un pacifismo che sembra troppo legato a una dimensione emergenziale: l’installazione degli euromissili e il rischio di una guerra nucleare. sione del 1979 della Nato di installare i missili nucleari Pershing e Cruise in Europa. Le convenzioni, che si tennero durante l’estate, rappresentarono il punto di raccolta e d’incontro del movimento di massa antinucleare europeo. 2 Con alcune importanti eccezioni come le azioni nonviolente e le manifestazioni di protesta nei pressi dei siti dove si sarebbero dovuti installare i Cruise e i Pershing. 11 Tra gli anni ottanta e gli anni novanta La cultura pacifista dopo gli anni ottanta si evolve dovendo confrontarsi con alcuni cambiamenti fondamentali nelle relazioni internazionali e nel pianeta: la fine della guerra fredda e il passaggio dal bipolarismo a un unipolarismo più o meno esplicito, l’emergere della globalizzazione neoliberista, la dimensione etnica, fratricida e interna delle guerre di questo decennio. Le categorie degli anni ottanta non funzionano più. E non funzionano più alcune forme e approcci del pacifismo come il “disarmismo”, la sola identità “antiguerra”, l’unilateralismo anti-imperialista e anti-americano, la lettura delle relazioni internazionali guidata da chiavi interpretative ideologiche. Il pacifismo sembra paradossalmente orfano di quel bipolarismo e di quella guerra fredda contro cui aveva combattuto negli anni precedenti. È un problema questo che riguarda non solo il pacifismo, ma anche la politica, i governi, le istituzioni internazionali. I nuovi assetti in costruzione sono complessi e di difficile decifrazione. Sembra – in una stagione in apparenza di speranza e di realizzazione dei “dividendi di pace” – che il processo di disarmo possa svilupparsi – come quello della democratizzazione nell’Europa dell’est – ma mantenendo dentro molte contraddizioni. Globalizzazione e neoliberismo da una parte, costruzione di un nuovo unipolarismo dall’altra scompaginano le relazioni internazionali, aprono “vasi di pandora” in tante periferie del mondo, rimettono in discussione rapporti di potere consolidati (Marcon, Pianta 2001). Le speranze vengono contraddette – appena dopo pochi mesi dal 1989 – da due eventi paradigmatici delle relazioni internazionali e delle guerre degli anni a venire: l’intervento armato occidentale contro l’Iraq (1991) e l’inizio delle guerre jugoslave in Europa (1991). Vi sono in particolare tre aspetti principali con cui confrontarsi: la nuova situazione che si è costituita nell’Europa dell’est dopo la caduta del muro di Berlino: i processi di democratizzazione si intrecciano con quelli autoritari, l’autodeterminazione dei popoli con la crescita del nazionalismi, la nascita della società civile con lo sciovinismo populista e xenofobo; lo scoppio di nuove guerre etniche e nazionaliste, e non solo nell’est europeo3: infatti fine del bipolarismo, globalizzazione e politiche neoliberiste contribuiscono a portare alla luce conflitti mai risolti, costruzioni nazionali precarie, dinamiche di esclusione e inclusione che usano la cifra etnica per Le guerre “interne” più drammatiche degli anni novanta sono state il conflitto jugoslavo (1991-1999), la guerra in Ruanda (1994) e quella in Somalia (1992-1993). 3 12 nascondere la vera posta in gioco: potere, accesso alle ricchezze, controllo delle materie prime (Kaldor 1999)4 ; l’assenza per tutto un decennio di un nuovo chiaro equilibrio post-bipolare: gli anni novanta iniziano con la guerra in Iraq (prodromo di un nuovo unipolarismo) ma anche con l’Agenda per la pace di Boutrous Ghali (la speranza di un mondo multipolare e con un ruolo prevalente delle organizzazioni internazionali5) e si concludono con la guerra umanitaria in Kosovo (la conferma definitiva dell’unipolarismo e del nuovo ruolo dominante della Nato). Per quanto riguarda noi europei la guerra in ex Jugoslavia è stata un aspetto chiave dell’esperienza pacifista e della maturazione di una nuova cultura politica (Marcon, 2010). Non solo perché ci si è confrontati con una guerra – etnica, nazionale, civile, fratricida, di aggressione – così difficile e complessa. Ma perché è stata la prima guerra europea, dopo il 1945; è durata un decennio ed è stata – per usare un’espressione dello scrittore italiano Luca Rastello – una “guerra in casa” (Rastello, 1998): decine di migliaia di europei – portando aiuti, promuovendo relazioni tra le comunità, organizzando manifestazioni, accogliendo i profughi – hanno “abitato” quella guerra, dal di dentro. Tutto questo ha aiutato, in un certo modo, a cambiare la percezione, il vissuto, il modo – meno semplicistico, dogmatico, astratto – dei pacifisti di rapportarsi con la realtà della guerra. La guerra nucleare era una guerra possibile, quella in Iraq era una guerra lontana, quella in Jugoslavia era, per l’appunto, una “guerra in casa”. Di fronte a quella guerra il pacifismo europeo – con alcune importanti eccezioni: tra queste sicuramente una parte dell’Hca6, una parte del pacifi4 “Il decennio ha registrato 56 conflitti gravi (major armed conflicts) di cui solo tre hanno coinvolto degli Stati (Iraq-Kuwait, Etiopia-Eritrea, India-Pakistan), mentre tutti gli altri sono stati conflitti interni (nazionali, etnici, eccetera). Le guerre di questo decennio, inoltre, hanno visto crescere sensibilmente il numero di vittime civili (oltre il 90% del totale), e di rifugiati e sfollati, che alla fine degli anni novanta hanno raggiunto la soglia di 50 milioni. Questi conflitti sono stati prevalentemente combattuti da eserciti privati, bande irregolari, gruppi etnici e nazionalistici, che hanno generato una prolungata e drammatica pressione sulle comunità”. (Marcon, 2005) 5 L’Agenda per la pace aveva ingenerato molte speranze nelle organizzazioni pacfiste: si erano create le aspettative – nel contesto del crollo del bipolarismo, non rimpiazzato a quel momento da nessun altro equilibrio internazionale – di una rapida ed incisiva riforma del sistema delle Nazioni Unite. 6 La Helsinki Citizens Assembly (Hca) è stata sicuramente una delle esperienze più interessanti degli anni novanta: luogo di incontro tra esperienze pacifiste, organizzazioni civiche dei cittadini, gruppi e associazioni per la promozione dei diritti umani dell’est e dell’ovest. Nata nel 1990 ha organizzato importanti conferenze internazionali a Bratislava (1991), Ohrid in Macedonia (1993) e Tuzla in Bosnia Herzegovina (1995). 13 smo italiano e anche quello spagnolo (Palau 1996) – arrivò in ritardo, sottovalutò e non comprese quello che stava succedendo. Allora Alex Langer stigmatizzò, di fronte alla guerra in Jugoslavia, sia, il cosiddetto pacifismo tifoso (che ha sempre bisogno di un nemico per scendere in piazza) sia quello dogmatico (ancorato ai suoi sacri principi) per sottolineare l’importanza di quel pacifismo concreto che lui tanto apprezzava (Langer 2010). E qui c’è un primo elemento della nuova cultura politica del pacifismo degli anni novanta: quella costruita intorno al legame con le pratiche della solidarietà concreta, della diplomazia dal basso, della nonviolenza attiva che così tanto era stata praticata dal movimento per la pace in ex Jugoslavia (Marcon, 2000). In questo contesto cinque sembrano le culture politiche – che ovviamente si intrecciano, per cui da non considerare mai del tutto separate – prevalenti in questo periodo: la prima, appena ricordata, è quella di un pacifismo concreto che ha nutrito una parte importante del pacifismo europeo degli anni novanta: diplomazia dal basso, volontariato e aiuto umanitario, difesa dei diritti umani e riconciliazione sono alcune delle coordinate attorno alle quali si è costruita questa esperienza; si pensi alle mobilitazioni per l’ex Jugoslavia, ma anche in Palestina (la straordinaria esperienza di Time for Peace nel 1989-1990) e in altri scenari e conflitti di quegli anni (Langer, 2010; Marcon, 2004). Naturalmente va ricordato che la dimensione umanitaria dei conflitti fu utilizzata anche da chi volle legittimare la guerra “in nome dei diritti umani” e di un nuovo “umanitarismo militare” (Chomsky, 1999)7; la seconda è quella di un pacifismo dell’ordine democratico internazionale che si è concentrato sul tema della democrazia internazionale, della riforma e del ruolo delle Nazioni Unite, della promozione dei diritti umani, di una visione politico-istituzionale della promozione della pace a livello planetario; si pensi all’esperienza internazionale della Campaign for a more Democratic United Nations (Cadmun)8 della Tavola della Pace e dell’Onu dei popoli in Italia, iiniziative che hanno avuto il merito di affrontare un tema L’umanitarismo militare è diventato una costante dei conflitti dell’ultimo decennio. La nuova dottrina ha avuto il suo banco di prova con la guerra umanitaria in Kosovo e poi ha trovato altre applicazioni in Afganistan e in Iraq. La Nato, a partire dall’Afganistan, ha teorizzato la cosiddetta Cimic (Civil-Military Cooperation) allo scopo di far interagire intervento militare ed aiuto umanitario, cooptando Ong e organizzazioni della società civile nella strategia dell’intervento armato. La Nato ha creato nell’Europa meridionale anche una sede di addestramento e coordinamento della Cimic che si trova a San Motta di Livenza (Italia). 8 Altre campagne internazionali su questi temi: l’Action for Un renewal (Arc) ed il World Civil Society Forum. 7 14 importante come quello del vuoto istituzionale internazionale dopo la fine della guerra fredda (Lotti, Giandomenico, 1996)9. Come variante modesta e minoritaria di queste prime due tendenze, va registrata l’esistenza di alcune forme di pacifismo interventista., che, di fronte a conflitti come quelli della ex Jugoslavia o del Ruanda, si fece portavoce della richiesta dell’uso della forza, per porre fine a queste drammatiche guerre. L’uso, la legittimità e i vincoli dell’intervento militare sono stati comunque temi presenti – in modo sofferto – nel dibattito del pacifismo in questi anni (Langer, 2010). la terza è quella (in continuità con il passato) di un pacifismo del disarmo e della sicurezza umana che – anche in collegamento con molte iniziative e a campagne internazionali10 – ha privilegiato l’azione per il disarmo: la campagna contro le mine, contro le armi leggere, contro i bambini-soldato, eccetera. Anche in questo caso queste iniziative hanno avuto il merito di costruire network globali e di tenere aperto un problema (quello del disarmo) che dopo l’89 sembrava essere stato rimosso (Manzocchi, 1992; Venti di pace, 1991). la quarta è quella (anche questa in continuità con il passato) di un pacifismo nonviolento, legato alla promozione delle pratiche dal basso dell’obiezione di coscienza e della disobbedienza civile, della cultura e dell’educazione alla pace: pratiche che talvolta – come nel caso della ex Jugoslavia – si confrontano con interventi quali l’interposizione e l’azione diretta; infine persiste (come negli anni precedenti) un pacifismo ideologico, anti-imperialista e unilaterale che ha continuato ad avere una sua forza e ad interpretare ogni conflitto in chiave amico-nemico e a cercare nella dinamica pace e guerra sempre e unicamente quel tipo di responsabilità e di cause. Da evidenziare che in questo filone è prosperato un ambito di pacifismo giuridico che si è impegnato ad usare lo strumento del diritto internazionale – nel contesto del rispetto dei diritti umani – dei trattati e dei protocolli internazionali per promuovere la pace ed i diritti umani. In particolare possono essere messi, tra i risultati di questo tipo di approccio, l’istituzione dei tribunali internazionali per giudicare i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (1993) e in Ruanda (1994) nonché l’istituzione della Corte Penale Internazionale, il cui statuto è stato varato nel 1998, anche se solo nel 2002 la Corte (dopo la ratifica degli Stati) ha iniziato a operare. 10 Le campagne internazionali più importanti in questo decennio sono: l’International Campaign to Ban Landmines (Icbl), vincitrice del premio nobel per la pace nel 1997, la campagna International Action Network on Small Arms (Iansa), la Coalition to Stop the Use of Child Soldiers. Da ricordare anche l’iniziativa dell’Hague Appeal for Peace (1999). Nel decennio successivo si è sviluppata l’importante campagna contro il commercio di armamenti: Controlarms. 9 15 Tutti e questi cinque approcci hanno avuto una dimensione e una declinazione politica. Si è trattato dunque di un decennio importante dove queste diverse culture politiche si sono evolute e molto spesso intrecciate, dando vita a una cultura politica del pacifismo complessa e differenziata, spesso contaminata anche con esperienze di altri movimenti. E fino a oggi L’11 settembre del 2001 e la successiva “guerra permanente” o “infinita” hanno aperto un nuovo scenario internazionale, ma hanno cambiato solo in parte le culture politiche consolidate del pacifismo. Si è trattato di una grande discontinuità nell’ambito delle relazioni internazionali e dell’equilibrio mondiale. Dopo la guerra degli Stati Uniti in Afganistan, la minaccia di una nuova guerra contro l’Iraq ha provocato la più grande mobilitazione contro la guerra realizzata dal 1945 a oggi. Tanto che il “New York Times” ha evocato per questo movimento, dopo le manifestazioni per la pace del 15 febbraio 2003 in tutto il mondo, l’appellativo di “seconda superpotenza mondiale”11. Questi eventi hanno comportato nel movimento per la pace, uno scarto nella consapevolezza, la dimensione delle sfide e la complessità della propria azione in un contesto così drammatico12. La guerra in Iraq ha rappresentato un nuovo spartiacque per il pacifismo europeo e mondiale, un salto di qualità nell’imposizione della guerra come strumento della politica estera, ma anche dell’opposizione della società civile alle logiche militari e belliche. Questa riduzione della guerra a strumento della politica estera ha rappresentato una delle più preoccupanti derive politiche dell’azione dei governi occidentali, a partire dagli anni novanta: l’interventismo armato ha rappresentato, nella politica estera americana di questi anni, uno dei tratti caratteristici della costruzione del suo dominio geopolitico ed economico. Per un cambiamento significativo di questa impostazione aggressiva e interventista bisognerà attendere l’elezione di Obama. In ogni caso le culture politiche che si sono sviluppate, o sono apparse per la prima volta negli anni novanta, hanno continuato in qualche modo a consolidarsi e a seguire una traiettoria culturale e pratica abbastanza coerente. Il Patrick E. Tyler, A New Power in the Streets, “New York Times”, 17 febbraio 2003. Movimenti, gruppi e coordinamenti pacifisti sono sorti in tutto il mondo per cercare di fermare l’intervento americano in Iraq nel 2003. Va ricordata l’importanza della mobilitazione degli Stati Uniti dove sono state attive organizzazioni come l’United for Peace & Justice (oltre 1300 gruppi pacifisti di base), Peaceful Tomorrows (organizzazione delle vittime dell’11 settembre) e Democracy Now! 11 12 16 pacifismo umanitario e concreto ha continuato la sua azione nelle aree di conflitto e si è sempre di più collegato con molte esperienze di solidarietà internazionale; quello politico-istituzionale ha rafforzato la sua capacità di intervenire nel merito e con competenza sulle questioni della democrazia e delle istituzioni internazionali; il pacifismo nonviolento ha accresciuto la sua diffusione – anche in termini pedagogici ed educativi, pensiamo all’intervento nelle scuole – tra la società; l’azione di un pacifismo per il disarmo è sempre più necessaria di fronte alla crescita della spesa per armamenti e del commercio delle armi e continua a permanere un pacifismo ideologico, dogmatico, unilaterale, tendenza che – ovviamente – la “guerra permanente” non aiuta a indebolire. La vera novità – a parte quella così decisiva della “guerra permanente” e di un così oramai schiacciante unipolarismo americano – è la congiunzione che si è verificata, a partire dal 2001, tra movimenti pacifisti e movimenti sociali globali (Pianta, 2001). I forum sociali – da Porto Alegre in poi – hanno rappresentato un importante laboratorio nella costruzione di questa “alleanza”. C’è stata, anche in questo caso, una contaminazione che in qualche modo testimonia il carattere strutturalmente magmatico, permeabile, mobile di una cultura politica pacifista che è capace, in alcuni frangenti (nelle emergenze di fronte a conflitti e guerre imminenti), a costruire sul tema pace-guerra una mobilitazione più larga di quella dei propri confini, salvo poi non riuscire a continuare a gestire, in un progetto di più lungo periodo, un’iniziativa politica estesa a tutte le componenti sociali. Questa contaminazione con le culture politiche dei movimenti sociali globali è servita ad arricchire le culture politiche del pacifismo su una serie di aspetti (la natura del neoliberismo e delle relazioni economiche globali, delle dinamiche del potere del dominio, delle origini delle guerre e dei conflitti) che in qualche modo hanno reso il pacifismo più pronto e attento ad affrontare le nuove sfide globali, i conflitti e le evidenti contraddizioni delle attuali relazioni internazionali. Quanto invece il pacifismo abbia condizionato e attraversato le culture politiche dei partiti, dei governi e delle istituzioni è un tema da sviluppare in altra sede: ovviamente ci sono luci e ombre, passi in avanti e resistenze insormontabili. È interessante notare come nessuna forza politica ha assunto un profilo autenticamente pacifista. Quello che a noi interessa però in questo caso è quanto da questa “lunga marcia del pacifismo” nelle istituzioni le culture politiche abbiamo tratto in termini di accresciuta consapevolezza della complessità della costruzione di politiche della pace dentro i vincoli del sistema internazionale e di norme, disposizioni amministrative, risorse da impiegare, vincoli istituzionali. La sfida di compenetrare un pacifismo che nasce dalla società con quello che si può sviluppare nelle istituzioni è molto importante. 17 La valutazione dell’impatto del pacifismo, in questo contesto, è di complessa declinazione. Da una parte quasi nessuna guerra è stata impedita o fermata grazie alla mobilitazione del pacifismo, da l’altra la fine del bipolarismo negli anni novanta(e l’avvio del processo del disarmo nucleare, anche grazie all’associazione del movimento pacifista) può essere in qualche modo ricondotta a una crescita della società civile e della cultura democratica e dei diritti umani che ha minato le fondamenta della guerra fredda. A livello internazionale alcune iniziative pacifiste o riconducibili al movimento per i diritti umani hanno portato a risultati concreti, quali la firma di alcuni trattati internazionali come quelli sulle mine anti-uomo e sulle armi nucleari o, a livello giuridico, l’istituzione della Corte penale internazionale e dei tribunali internazionali per la ex Jugoslavia e il Ruanda (mentre minori risultati hanno dato l’azione e le campagne per la riforma delle Nazioni Unite). Un ruolo specifico l’ha avuto il “pacifismo concreto” che, con la sua azione umanitaria ha avuto il merito di salvare molte vittime e di arginare le forme più estreme di guerra etnica in vari conflitti locali. L’azione umanitaria nelle guerre si è molto diffusa a partire dai conflitti degli anni novanta. Più difficile definire l’impatto del movimento per la pace su temi come la cultura, la comunicazione e l’educazione. È indubbio, però, che negli ultimi vent’anni la cultura della pace, della democrazia e dei diritti umani è enormemente cresciuta ed è diventata patrimonio di sempre più vasti settori delle nostre comunità. Il carattere composito, e allo stesso tempo sovrapposto, delle culture politiche del pacifismo si è evoluto nel corso degli anni grazie a una contaminazione sempre maggiore tra le varie ispirazioni, evidenziando però una strutturale difficoltà nel fare massa critica e nell’esprimere una soggettività politica comune forte. La debolezza del pacifismo – nei momenti di scarsa mobilitazione – sembra più evidente che per altri movimenti sociali: questo forse perché la dimensione della protesta contro la guerra sembra avere (ed è naturale che sia così) una capacità di coagulazione molto più forte della “pace positiva” nella quotidianità dell’azione sociale collettiva. Il pacifismo continua a essere un movimento che riemerge nei momenti di frattura e di rottura dell’ordine dato (conflitti, tensioni internazionali, eccetera), ma che rimane sotterraneo (nel bene e nel male) di fronte alla stabilità delle condizioni di dominio o di equilibrio interno e internazionale. Sembra si riproponga qui un problema relativo alla capacità del pacifismo di darsi una “politica della nonviolenza”. Questa ha a che vedere, non solo con i contenuti della “politica della pace”, ma anche con le forme (il rapporto mezzifini è centrale per il pacifismo) dell’azione del movimento: nonviolenza attiva, azioni dirette, disobbedienza civile, non collaborazione, obiezione di coscienza, eccetera. Si tratta di forme e modalità che permettono alla “politica del18 la nonviolenza” di superare quella concezione militarizzata e violenta della politica – fondata sulla dialettica amico/nemico – che è la caratteristica di gran parte dell’azione collettiva del Novecento e della “guerra come continuazione della politica con altri mezzi”. Solo in questo modo il pacifismo può costruire un terreno di pratica politica (e di cultura politica) sottratta alle forme politiche tradizionali, che inevitabilmente possono produrre processi di adattamento all’esistente e, in definitiva, alla realpolitik o anche solamente di mediazione su principi e valori (come quelli del rifiuto della guerra) irriducibili a ogni declinazione opportunistica. Infine la cultura del pacifismo soffre ancora troppo la sua dipendenza da quello a cui si oppone (la guerra, il riarmo), e la sua incapacità di declinare una “nonviolenza attiva” (come ci insegnavano Gandhi e Capitini) come costruzione positiva della pace. La nonviolenza come aggiunta alla politica, diceva Capitini. È questo uno dei punti su cui le culture politiche del pacifismo devono continuare a interrogarsi. 19 Bibliografia Aa.vv. (1992), Fare la pace. Pacifismo e nonviolenza alle soglie del terzo millennio, Kaos edizioni Archibugi D., Betham D. (1998), Diritti umani e democrazia cosmopolitica, Feltrinelli Battistelli F. (1990), Rapporto di ricerca: I movimenti pacifisti in Italia 19801988, “Rivista militare”, n. 7 Benetollo T. (1981), Niente missili dal Portogallo agli Urali. La proposta della Fgci per un movimento contro la guerra, “il manifesto”, 24 settembre 1981 Bonanate L. (1992) Etica e politica internazionale, Einaudi Bobbio N. (1989), Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, Sonda Bobbio N. (2005), Politica e cultura, Einaudi Capitini A. (1969), Il potere di tutti, La Nuova Italia Capitini A. (1991), Opposizione e liberazione, Linea d’ombra Capitini A. (2010), Le tecniche della nonviolenza, Edizioni dell’Asino Castellina L. (1988), Dopo i missili, un movimento fuori dalla fortezza della armi, “il manifesto”, 26 ottobre 1988 Chomsky N. (1999), The New Military Humanis. Lessons from Kosovo, Pluto Press Gandhi M.K. (1993), Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi Fofi G. 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Il giorno del golpe Quando ci svegliamo la mattina del golpe a Mosca, lunedì 19 agosto, all’ex Ostello del Komsomol (il refettorio dell’organizzazione giovanile comunista dove è ospite la delegazione pacifista italiana: siamo quasi un centinaio) nella Ulitza Kibalchicha – un po’ in periferia a una mezz’ora dal centro della città – il custode della struttura ha l’orecchio attaccato a una radiolina che gracchia secche frasi seguite da brani di musica classica. Beviamo un caffè in una stanza dalle pareti scrostate e con un quadro di Gorbaciov un po’ pendente a destra. Il custode cerca di sintonizzare meglio la radio su una frequenza disturbata dai fruscii. La musica finisce, il concerto di Haydn viene bruscamente interrotto e seguito dalle parole di uno speaker che sembra leggere un comunicato stampa o un annuncio funebre. Il custode, l’inglese non lo parla e scuote solo la testa mentre fissa il vecchio transistor. Riprende la musica. Forse non è morto nessuno, non è successo niente. Passano due inservienti, sono due donne addette alle pulizie che procedono silenziose con dei pacchi di lenzuola tra le braccia. Da loro non riusciamo a sapere niente: filano via e non si fermano alle nostre voci. Dal custode quello che riusciamo a ottenere è solo un cenno al quadro di Gorbaciov appeso in portineria. Il saluto appena accennato e poi di nuovo ingobbito ad armeggiare sulla manopola della vecchia radio per azzeccare la frequenza meno disturbata. Cerchiamo di prendere un taxi: dobbiamo andare alla Piazza Rossa. Alcuni non si fermano ai nostri richiami, eppure sono vuoti. Proseguono diritti; sembra anche che scorgendoci, accelerino. È solo un’impressione. Che siamo occidentali lo si vede a un chilometro di distanza. Di solito sono loro ad accostarsi senza richiesta e a chiederti se hai bisogno di un passaggio. Uno riusciamo a fermarlo, si accosta un po’ bruscamente; il tassista ha il berretto alla Lenin e ci guarda un po’ di sbieco: Krasnaja Ploscad chiediamo mentre gli mettiamo sotto gli occhi una piantina spiegazzata. Fa ampi gesti con la mano sporgendosi dal finestrino, dice 23 qualcosa di incomprensibile in russo e riparte senza complimenti. A un secondo tassista che arriva dopo un po’ – saranno passati altri dieci-quindici minuti – non riusciamo nemmeno a parlare. Si accorge che siamo occidentali solo quando si accosta al marciapiede. Riparte rapidamente senza darci il tempo di aprire bocca. Non capiamo cosa stia succedendo. Ce lo spiega venti minuti dopo Artyom, quando arriva sudato e ansimante dal fondo della via. Artyom ha vent’anni e ci fa da guida a Mosca. Dire che sia un pacifista forse è eccessivo. È semplicemente un rappresentante, o meglio un incaricato del Soviet Peace Committee, l’organizzazione ufficiale del regime sovietico. Ci è stato assegnato come guida. Ed è una guida vera; non è invadente e soprattutto si capisce subito che non ha niente a che fare con la polizia e i servizi segreti. Artyom è stato sempre disponibile ed entusiasta: ricerca cautamente la nostra complicità per scaricare il suo “mondo a parte” ed essere come noi occidentali. Abbiamo passato i giorni scorsi a scambiarci opinioni sulla musica, gli scrittori, i viaggi. E ci racconta molto dei cambiamenti di questa Russia in fibrillazione da tre anni. Artyom parla un inglese approssimativo. “Stamattina, quando ho acceso la radio, hanno letto un comunicato che Gorbaciov è malato, si trova in Crimea e una trojka di dirigenti del Partito ha preso il suo posto. Ma la malattia non c’entra niente; questo è un golpe. Forse è già morto, non lo so. Ma sicuramente lo vogliono far fuori. Mi hanno detto che nel centro della città ci sono già i soldati che presidiano il Cremlino e gli altri palazzi”. Siamo increduli non solo per il fatto in sé (e comunque per molti di noi Gorbaciov, fino ad allora, aveva rappresentato la speranza di una trasformazione del socialismo in senso democratico), ma anche perché sembra che la vita quotidiana prosegua come sempre: i negozi sono aperti, gli anziani in fila in posta a spedire lettere e pacchi, le macchine circolano nella solita quantità. Il golpe ce lo si aspetta in modo diverso: abbiamo in mente il Cile di Pinochet, i prigionieri nello stadio, i bombardamenti dell’edificio presidenziale, i militari in ogni angolo della città. Fino a poche ore prima avevamo discusso animatamente (in sessioni plenarie un po’ dispersive e ingessate e in tanti workshop più liberi e interessanti) in un grande palazzo dei congressi; un migliaio di pacifisti europei con centinaia di esponenti di piccoli e grandi gruppi da varie repubbliche dell’Unione Sovietica. È la riunione annuale della European Nuclear Disarmament Convention (la cosiddetta End) che per la prima volta quest’anno sbarca a Est, con esponenti delle organizzazioni ufficiali e del dissenso dell’ “altra Europa”. Ma, più che occasione di confronto sui temi del momento – dai postumi della guerra del Golfo alla guerra in ex Jugoslavia appena iniziata – la Convention è diventata una specie di sfogatoio psico-sociale, di sublimazione del Super Io collettivo a lungo represso e irreggimentato dall’ideologia 24 comunista e ora tracimato nei mille rivoli di un rito disordinato e catartico di autocoscienza collettiva. Nelle salette dei gruppi di lavoro si affollano in tanti: le madri dei soldati sovietici e gli obiettori di coscienza, i tolstojani nonviolenti e gli ecologisti impegnati contro le centrali nucleari (sono solo passati quattro anni da Chernobyl), i radicali “transnazionalizzati” (anche qui hanno fatto proseliti) e qualche gruppo femminista. C’è di tutto, anche un gruppo di barbuti ucraini che ha proposto un workshop sul tema della “prova scientifica sull’esistenza di Dio”. E ovviamente anche le tendenze meno folcloristiche e più pericolose come quelle di un gruppo lituano (sciovinista e razzista) che mellifluamente ha proposto una discussione sull’influenza del “gotha ebraico e massonico” nell’economia internazionale. Come hanno fatto ad avere accesso alla Convenzione? Tutto nel pentolone di un informe zibaldone democratico. Eppure come dice il mio amico Karl – un volontario tedesco del Servizio civile internazionale di ritorno proprio di un campo di lavoro in Lituania – non è tanto colpa della democrazia, anzi: “Questo è il risultato dello stalinismo, della mancanza della democrazia: e poi nelle situazioni di difficoltà, la risposta è quella di trovarsi un nemico con cui prendersela, e la xenofobia e il razzismo ben si prestano a questo scopo”. E d’altronde – anche tra gli occidentali – c’è un po’ di tutto. Nonviolenti a oltranza e pacifisti tedeschi realos (o realpolitik), femministe e funzionari di partito, boy scout e anche qualche sindacalista italiano di basso bordo (e fortunatamente pochi, quelli seri sono molti di più) che intravediamo a puttaneggiare come agenti di commercio in trasferta, nelle hall degli alberghi internazionali con ragazze russe in minigonna a sorseggiare champagne e vodka (tutto a rimborso spese del sindacato, c’è da scommetterci). Ci sono gli orfani del Pci e i demoproletari in disarmo, qualche radicale, molti dell’Arci e della Sinistra Giovanile (da poco si chiama così la Fgci), Legambiente e naturalmente l’Associazione per la pace; e poi tanti cani sciolti. Si parla molto di est in transizione, di nazionalismi in agguato, di guerre civili sulla porta di casa (quella jugoslava è iniziata appena da un mese e mezzo). Ma i “disarmisti” sono ancora in tanti, pensano che la priorità sia il disarmo nucleare e non lo sfascio che avanza rapidamente in questa Europa dimenticata oltre cortina. Dietro le quinte, la delegazione italiana discute e litiga fino a tarda notte sulle solite cose: chi parla in plenaria e a nome di chi, la frase da limare nel documento finale, l’appuntamento da mettere in evidenza nell’appello, l’interpretazione dei discorsi dei leader e tra questi, quelli internazionali come Mary Kaldor, Mient Jan Faber che, con il loro lavoro sotterraneo, stanno costruendo una nuova rete europea che unisca le organizzazioni dei cittadini dell’est e dell’ovest. La End è ormai finita: nata come spazio di coordinamento del movimento contro gli euromissili nucleari, oggi – dopo l’installazione Per25 shing e Cruise e soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino – si è aperta una nuova fase politica e storica. Quando arriviamo sulla Piazza Rossa un paio di carri armati stazionano immobili con carristi sperduti e sbarbati che spencolano dinoccolati dalla torretta. Attorno qualcuno che li apostrofa, e poi molti curiosi e tanti turisti stranieri. Ci tornano in mente le parole strazianti delle madri dei soldati ascoltate nella conferenza, con tanto di foto dei loro figli: ogni anno seimila soldati muoiono negli incidenti e nelle esercitazioni per le violenze dei superiori. E poi soprattutto l’invasione in Afganistan, iniziata nel 1979 e terminata nel 1989 con decine di migliaia di morti tra i soldati russi. E il peggio, forse, può ancora arrivare: in Cecenia il presidente Dzohkar Dudaev vuole portare il paese alla separazione dall’Unione Sovietica e Mosca non lo permetterà. Altre invasioni, altre guerre, altri morti. Questo ci dicono queste “madri coraggio” che chiedono: basta con la leva obbligatoria, l’esercito sia solo professionale. Alcune di queste madri le ritroviamo nella Piazza Rossa: “Questa volta i soldati non spareranno al popolo”, dice una di loro, agitandosi in direzione di un capitano dell’Armata Rossa che controlla i soldati. Da un’altra parte un soldato estrae il caricatore della sua mitraglietta e lo fa vedere alla gente: “Non lo userò contro di voi”, grida. Applausi, esclamazioni di gioia; il terrore delle punizioni dei superiori per il momento non c’è. Ci aggiriamo sperduti, mentre degli ignari turisti americani vanno in giro per i Gum (i grandi magazzini che si affacciano sul Cremlino) e comprano balalajke e samovar. La gente sciama verso l’Arbat. C’è una manifestazione contro il golpe. “Gorbaciov è in Crimea, ma Eltsin resiste”. Ci dicono che sta parlando da qualche parte, addirittura l’hanno visto salire su un carro armato con un megafono in mano. Come, hanno arrestato Gorbaciov, e lasciano che Eltsin, che è più radicale del segretario generale, faccia comizi e arringhi ai manifestanti? Da altri amplificatori improvvisati stridono appelli alla mobilitazione. E verso l’Arbat lo sciame della gente si trasforma in manifestazione, in corteo compatto e ordinato: slogan e urla si rincorrono con pugni e mani alzate verso il cielo. Molti giovani, e donne. Alla manifestazione incontriamo un ragazzo che si chiama Kramar, uno dei primi obiettori di coscienza in Urss: è stato accalappiato dai radicali italiani e cooptato nel partito radicale transnazionalizzato. Inizia già a scimmiottarne sicumera e sprezzo politico. Dice in un perfetto inglese: “la colpa è di Gorbaciov, si è circondato di fascisti”. Artyom –che è con noi – non è d’accordo e confusamente, un po’ in russo e un po’ in un balbuziente inglese, gli ribatte citando i meriti del leader sovietico. Ma le polemiche durano poco. Siamo trascinati via dal fluire della gente. La situazione è insolitamente statica e il golpe sembra morbido, gli sviluppi sono incerti. Elhena è una studentessa di biologia di 23 anni, di buo26 na famiglia: il padre professore universitario, vacanze estive passate a Porto Rose in Istria (ben pochi si possono permettere di andare all’estero anche se questo “estero” è la federazione jugoslava), elegante e curata, anche lei con il miraggio dell’occidente. L’abbiamo conosciuta qualche sera prima all’Arbat. Tra le bancarelle che ti smerciano un colbacco dell’Armata Rossa o le matriosche rimodellate, con quella più grande dal volto di Gorbaciov e quella più piccola con quello di Lenin (passando per Stalin), Elhena mi racconta di quello che si augura per la sua vita: viaggiare, conoscere l’Europa, uscire dal carcere della vita sovietica, leggere libri che a Mosca non si trovano; e mi chiede molto della letteratura italiana, di Pavese e di Vittorini. Ha letto già Moravia, La noia e Professione di desiderio. E mi costringe a raccontarle la mia vita quotidiana e soprattutto il racconto dei viaggi la fa esclamare di gioia. Facciamo fatica a confrontare i nostri ideali – la pace, la rivoluzione, cambiare il mondo... – con quelli molto più concreti di una ragazza che vorrebbe solo la libertà e sa che il modo più facile per raggiungerla è scappare con un occidentale. Le parliamo al telefono durante la manifestazione. Ha paura e se ne sta a casa: “Eltsin e Gorbaciov hanno sbagliato a non fare prima fronte comune. Ma l’errore più grande l’ha fatto Gorbaciov. Doveva rischiare di più e abbandonare i conservatori”. Fino a qualche giorno fa Elhena se ne stava a Porto Rose. Ha visto da vicino la guerra jugoslava, cioè la separazione della Slovenia dalla Federazione e i brevi combattimenti che hanno interessato soprattutto Lubiana e i posti di frontiera con l’Italia. Ma anche in Istria ci sono stati problemi: l’esercito jugoslavo rinchiuso nelle caserme, i serbi lì residenti timorosi di essere colpiti, i primi profughi. E proprio noi italiani alla Convenzione pacifista di Mosca abbiamo sostenuto con forza l’idea di una “carovana per la pace” in Jugoslavia. Dovremmo partire il prossimo 25 settembre da Trieste per arrivare a Sarajevo il 29 settembre e tenere una grande catena umana per la pace. Mi implora di stare attento, di non uscire dall’albergo, di andare subito all’aeroporto e partire. Intanto si intuisce una certa confusione tra i militari. I movimenti dei carri sembrano lenti. Si fermano, ripartono. Singhiozzano, incespicano. La Piazza Rossa viene chiusa solo alle 11 e la circolazione è comunque assicurata nella città. C’è rabbia nei russi che manifestano; molti hanno giubbe chiare e magliette a strisce (come da noi con Tambroni nel 1960) qui tornate di moda. Artyom ci accompagna; è spaesato, ma continua a spiegarci quello che riesce a capire della situazione in corso. Dietro di noi un carrista appoggiato alla torretta del suo tank osserva senza capire quello che ci diciamo: è stanco, tutto fuorché minaccioso, solo la voglia di farla finita al più presto. Almeno così ci sembra. Molti di noi vorrebbero rimanere, ma dobbiamo andare all’aeroporto. Il nostro viaggio è già prenotato e non possiamo permetterci 27 di perdere il volo. Artyom ci saluta con un sorriso che è una smorfia. Ci abbracciamo per qualche secondo. Ci facciamo gli auguri e la promessa di rimanere in contatto. Un’ultima telefonata a Elhena e l’impegno di rivederci a Roma. Il taxi cerca di farci uscire dal traffico impazzito del centro. Incontriamo le facce tristi dei soldati e quelle scure dei manifestanti: sembra di essere sull’orlo di scontri violenti. Molti sperano ancora in un capovolgimento democratico, nonviolento, ma mentre ci avviciniamo all’aeroporto una trentina di blindati spunta da una stradina e, incolonnandosi verso il centro, ci fa nuovamente sprofondare nell’angoscia. Gli sguardi dei militari che si sporgono dai camion e dai cingolati sono tesi e determinati. Guardano avanti senza concedersi agli sguardi di chi, in macchina o in taxi, si sta dirigendo all’aeroporto. Abbiamo avuto prima l’illusione di un golpe “morbido”, la speranza della grande compattezza dei manifestanti, il disincanto incoraggiante dei soldati sulle torrette dei carri. E se ci fossimo sbagliati? “Potranno anche vincere”, dice il tassista scuotendo la testa, guardandoci dallo specchietto, “ma non durerà, ormai il tempo è dalla nostra parte”. E ci lascia all’aeroporto nel caos infernale del terminal con i turisti che vogliono partire, mentre noi vorremmo rimanere ancora; non si capisce più nulla, mentre il sole lentamente scende verso l’orizzonte e la sensazione di un mondo sempre più in disordine – guerra in Iraq, in Jugoslavia, golpe a Mosca, tutto in pochi mesi – ci avvolge senza il conforto di una risposta consolatoria. 28 Time for Peace Gerusalemme, Time for Peace (1989-1990) La partenza. Una volta decollati da Roma e spente le spie delle cinture di sicurezza, Vittorio Tanzarella e altri esponenti dell’Associazione per la pace si fanno dare il microfono dalle hostess dell’Alitalia e ci danno le informazioni essenziali: “Quando arriviamo a Tel Aviv ci saranno dei pullman ad attenderci e alcune guide: una è Rino La Rocca, della compagnia Dedalus, l’altra è Randa, palestinese e interprete dall’inglese. Seguiteli e vi porteranno sul pullman assegnato”. Poi dai microfoni si danno altre informazioni più politiche: la situazione in Palestina, l’organizzazione dell’iniziativa, la condizione delle forze di pace israeliane, il significato del movimento dell’Intifada. Abbiamo per le mani un numero speciale di “Arcipelago” (il giornale dell’Associazione per la pace) con altre informazioni sulla storia, i problemi politici, il conflitto in corso. Una volta sbarcati ci ritroviamo nella hall degli arrivi e poi sul piazzale dell’aeroporto, guardati a vista dalla security dell’aeroporto che controlla che ogni bagaglio abbia il proprio proprietario. Dopo una giornata di arrivi di pacifisti italiani (e non solo: sindacalisti, amministratori locali, giornalisti, politici, eccetera) da Roma e da Milano alla fine siamo più di novecento. 1990 Time for Peace (una settimana a cavallo di capodanno) è il titolo dell’iniziativa per la pace in Medio Oriente promossa e lanciata dalla convenzione End la scorsa estate. Il titolo dell’iniziativa non è forse originale, ma lo slogan “due popoli, due stati” – alla base della manifestazione – ha una sua pregnanza per noi che cerchiamo di andare oltre vecchio terzomondismo filo arabo a favore di una posizione più equa, a sostegno dei diritti dei due popoli, quello palestinese e quello israeliano. L’iniziativa è il risultato di più di un anno di frequentazioni, di mediazioni e compromessi tra le organizzazioni italiane, i comitati palestinesi dell’Intifada e Peace Now. Il senso è chiaro, l’obiettivo “semplice”: mettere insieme i palestinesi e gli israeliani, a fianco degli europei, per favorire il dialogo e promuovere iniziative comuni. Da tre anni in Palestina c’è l’Intifada e il pacifismo israeliano ha sposato la causa del riconoscimento di uno stato palestinese accanto a quello israeliano. Dai tempi della guerra del Libano nel 1982 Peace Now è diventata una forza importante nel paese. L’iniziativa è ostacolata dal governo israeliano. I trecento italiani che partono da Roma con la compagnia israeliana El Al, subiscono cinque ore di interrogatori con domande del tipo: “Di che partito sei?”, “Chi ti ha dato i soldi per il biglietto?”, “Conosci palestinesi in Israele?”, e così via. Oltre alla polizia c’è l’estrema destra. Voleva organizzare una contro-manifestazione, ma gli è stata vietata. Il giorno dopo il nostro arrivo, quando andiamo al Yad Vashem, il Museo dell’olocausto di Gerusalemme, troviamo alcuni 29 fanatici oltranzisti, ci accolgono con cartelli e slogan che ci accusano di aiutare i palestinesi a fare quello che aveva già in mente Hitler: la liquidazione degli ebrei. Un provocatore con la casacca verde militare ci aggredisce. Giovanni Bianchi, presidente delle Acli, sale su una panchina, prende un megafono e pronuncia un breve discorso per calmare le acque. Ricorda: “Bisogna rimuovere le radici dell’intolleranza, proprio a partire dalla consapevolezza di quello che ha significato l’olocausto. Dobbiamo lavorare per una pace che sia alla portata di tutti”. Entriamo nella sala del museo dell’olocausto che ricorda il milione e mezzo di bambini ebrei sterminati dai nazisti: una stanza completamente buia, illuminata solo da centinaia di candele inscatolate in specchi labirintici e impalpabili. Solo una voce profonda rompe il silenzio: è un nastro che ricorda i nomi e l’età dei bambini sterminati dai nazisti. L’occupazione. L’occupazione israeliana della Cisgiordania e della striscia di Gaza è innanzitutto storia di brutalità. Ma non solo nei territori occupati. A Jaffa, quartiere arabo di Tel Aviv (che sorse nel 1948 a ridosso di questa antica città araba, che allora contava 70.000 abitanti e oggi ne ha 17.000), si susseguono prepotenze e discriminazioni. Andrea Marussy, fondatore della Lega degli arabi di Jaffa e insegnante, ci accoglie nella sua casa ed è quasi divertito dal nostro stupore. “L’obiettivo degli israeliani – dice – è di cancellare Jaffa ed espellere da questa città la popolazione araba. Come? È molto semplice. Prendi il problema delle case. Jaffa sta cadendo a pezzi, ma la municipalità di Tel Aviv proibisce agli arabi di ristrutturare gli edifici. Le case più fatiscenti vengono rase al suolo. Chiaramente questo divieto non vale per gli ebrei, che si stanno lentamente insediando a Jaffa”. Ci facciamo un giro per la città e il suo degrado è indicato da tante cose: sporcizia, strade sconnesse, edifici scrostati e cadenti. “Ci hanno impedito anche di ristrutturare alcune piccole moschee. Adesso sono diventate latrine e ritrovi per prostitute. Visto che non ci mandano i camion per prendere l’immondizia la raccogliamo da soli. Ogni estate organizziamo un campo di lavoro internazionale per la manutenzione degli spazi verdi, al quale partecipano anche i vostri volontari del Servizio Civile Internazionale”. Nei territori occupati quattrocento ragazzi sono morti in due anni di Intifada perché sventolavano la bandiera palestinese o perché tiravano dei sassi. Il cadavere dei ragazzi viene di solito sequestrato dalla polizia israeliana che ne dispone per alcuni giorni, imponendo poi un funerale segreto a cui sono ammessi solo genitori e fratelli della vittima. I palestinesi vengono controllati continuamente. Alla Porta di Damasco, a Gerusalemme, il giorno della catena umana (la manifestazione che siamo venuti a organizzare) vediamo due militari che fermano un palestinese con un casco di banane che viene inutilmente rovistato. Poi, uno dei soldati stacca una banana e butta 30 la buccia ai piedi del palestinese. Al check point di Betlemme, mentre aspettiamo in pullman di poter passare, arrivano due bambini palestinesi in bicicletta. Le ruote delle gomme gli vengono sgonfiate, “per motivi di sicurezza”. Con il grugno i bambini continuano a piedi. Dimenticata ormai è la storia delle alture del Golan, strappate da Israele alla Siria nella guerra del 1967 e annesse nel 1981. Nel 1967 vi vivevano 130mila siriani. In questi anni i villaggi sono stati distrutti e i siriani deportati. Sono rimasti in 9.mila, ma il futuro è segnato. Il Golan è ormai deserto. Stanno arrivando solo i coloni israeliani, immigrati da altri paesi. Passiamo un pomeriggio nell’ultimo villaggio del Golan, a ridosso del confine siriano. Un paese dimenticato e isolato, dove i soldati israeliani hanno facile gioco a praticare ogni sorta di angheria. I “grandi vecchi” del paese (anziani, dalle facce stanche e segnate, baffoni folti e vestiti neri tradizionali) ci accolgono un po’ frastornati, offrendoci un caffè e una mela nella piazza del paese. Ci danno una pergamena di cittadinanza onoraria del villaggio. Ogni tanto due elicotteri militari passano sopra le nostre teste, a non più di 150 metri. Il villaggio è proprio sul confine ed è separato da un altro insediamento siriano, come fossero Berlino Ovest e Berlino Est, Gorizia e Nova Gorica. Dal 1967 amicizie e famiglie si sono separate. Talvolta vedi amici e parenti che, a cento metri di distanza, si parlano ognuno aggrappato al proprio reticolato, e lo stesso succede anche gli innamorati. Un vecchio mi racconta che c’è stato anche un matrimonio per procura, con una cerimonia svolta con Romeo e famiglia dalla parte del reticolato israeliano e Giulietta e famiglia dalla parte di quello siriano. Poi hanno festeggiato, ciascun gruppo dalla propria parte di reticolato. I campi dei rifugiati che visitiamo assomigliano a degli autentici lager, con tanto di torrette e cancelli blindati. Le case sono baracche di lamiera o di altro materiale inaffidabile. Stanze sovraffollate, fogne a cielo aperto, sporcizia a ogni angolo. Solo le strade sembrano ben curate, larghe e ramificate: servono al passaggio delle camionette. Per gran parte della giornata nei campi c’è il coprifuoco. Visitiamo le famiglie dei ragazzi morti durante l’Intifada. Le madri parlano e si rivolgono soprattutto alle giovani pacifiste e alle donne italiane. L’altra Israele. Parlare con l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) – in Israele – è reato. Si può andare in galera per farlo. “Ma perché i palestinesi non se ne vanno in qualche stato arabo? Cosa vogliono da noi? Questa è la nostra terra. Perché forse gli americani hanno riconosciuto il diritto degli indiani a farsi un proprio stato?”, ci dice un oltranzista alla fermata dell’autobus. È un colono, ha un mitra a tracolla, avrà sì e no vent’anni, un giubbetto da pescatore, una tasca rigonfia da un caricatore di ri31 cambio. Questa è l’Israele che oggi è maggioranza. Ma c’è anche l’altra Israele, quella degli obiettori di coscienza che si fanno cinque anni di carcere per il rifiuto di svolgere il servizio nei territori occupati; l’Israele delle Women in black, che ogni giorno, vestite di nero e silenziose, in una piazza di Gerusalemme, chiedono la pace e vengono riempite di sputi e spinte dagli estremisti di destra; l’Israele di Peace Now e dei pacifisti come Michael Warschawski che per aver pubblicato sulla sua rivista l’articolo di un leader palestinese, si fa venti mesi di carcere; l’Israele che dà vita a cooperative e comunità insieme ai palestinesi. È questo il caso di Neve Shalom-Nevi at Saalam, una comune di un’ottantina di persone, metà palestinesi e metà ebrei che vivono, lavorano, educano i propri figli insieme. Il villaggio è posto sul confine dei territori occupati, la “linea verde” del 1967. Sta su un’altura. È composto di piccoli prefabbricati e oblunghe costruzioni in muratura, parchi giochi per bambini e molti olivi che si incuneano sulle strade sterrate e affiancano le costruzioni. È una bella giornata. Ci vengono incontro in due, un israeliano e un palestinese, naturalmente. Shai è un medico israeliano. Introduce l’incontro e ci dice che: “Non possiamo ignorare che palestinesi e israeliani vogliono lo stesso pezzo di terra. Quindi dobbiamo imparare a convivere e a rispettarci gli uni con gli altri. Noi qui, nel nostro piccolo, abbiamo tentato di metterla in pratica questa convivenza. Siamo partiti dalle relazioni umane, dalla dimensione educativa”. Nella scuola della comunità bambini ebrei e arabi studiano insieme (in Israele vi sono scuole distinte per ebrei e arabi) e si festeggiano tutte le feste di entrambe religioni, insieme. “I bambini sono contenti, così fanno anche doppia festa...”, scherza Habet, il portavoce palestinese della comunità. Nel governo israeliano c’è chi sabota in ogni modo queste prove di convivenza (creando problemi fiscali, legali, di ogni tipo) e nello stesso tempo punta deliberatamente a esasperare la protesta palestinese, per poter avviare la macchina della repressione. Che colpisce il villaggio di Neve Shalom, ma anche i giornalisti, i pacifisti, gli obiettori di coscienza. Warszawski – durante un incontro a Gerusalemme est nell’ostello dell’Ymca dove siamo alloggiati – critica Peace Now per il moderatismo e dice: “Bisogna fare molto di più, soprattutto per aiutare chi si batte contro questa guerra”. Gli obiettori di coscienza israeliani in galera sono un centinaio. Da tre a cinque anni l’ammontare delle condanne per ciascuno. Il 29 dicembre andiamo a fare una manifestazione a Haifa, di fronte a un carcere dove ci sono alcuni obiettori rinchiusi ormai da tempo. Saliamo su una collina e ci sparpagliamo su un terreno incolto che sovrasta il carcere. Ci inerpichiamo tra rovi e sentieri malmessi, con le nostre bandiere pacifiste. Piazziamo lì i nostri altoparlanti e un pacifista israeliano si mette a gridare a squarciagola, per farsi sentire. Poi scandisce slogan: non capiamo 32 niente. Agitiamo le nostre bandiere e salutiamo. Alcuni soldati di questo carcere-base militare ci salutano anch’essi con dei fazzoletti bianchi. Lo fanno appena le guardie carceriere si voltano. Fanno finta di voltarsi, lo sanno benissimo che ci stiamo salutando. Forse anche loro sono contro questa guerra, ma non hanno avuto il coraggio di fare cinque anni di galera. Il giorno dopo dovrei andare con Luciano Vecchi (un giovane eurodeputato del Pci) a visitare un obiettore detenuto in un altro carcere. La visita ci viene negata dalle autorità. È possibile il dialogo tra palestinesi e israeliani? Il caso di Neve Shalom sembrerebbe suggerire una risposta positiva. Ma è un dialogo ancora di minoranze. L’unico dialogo possibile, per ora, è allora quello con l’Altra Israele. Feisal Husseini – leader dei palestinesi dei territori occupati – nel convegno all’Hotel Tower dice di sperare “nella vittoria delle forze di pace dell’Israele”. Parla di Alice nel paese delle meraviglie. Non è certo una citazione classica da comizio politico, è la prima volta che mi capita di sentirla citare a una manifestazione: “Alice ha superato le proprie paure e la chiusura in se stessa. Noi con l’Intifada abbiamo superato le nostre paure e siamo cresciuti e maturati. Ora tocca a voi israeliani”. Le violenze della polizia. La manifestazione delle Women in black e delle donne palestinesi e la catena umana del trenta dicembre hanno successo. Alle due manifestazioni complessivamente, partecipano 40mila persone. Per la prima volta israeliani e palestinesi sono in piazza insieme per la pace e per “due popoli, due stati”. Per la prima volta, dopo la guerra in Libano, una manifestazione di massa in Israele. Durante la manifestazione delle donne la polizia aspetta l’arrivo del corteo davanti al teatro, dove la strada si stringe a imbuto. E lì carica. Anche in questo caso la scusa è stata lo sventolio di una bandiera palestinese. È vietato. Flavio Lotti (dell’Associazione per la pace) ha cercato di frapporsi tra la polizia e le manifestanti: scaraventato a terra, manganellato è stato portato in prigione. La riunione dopo gli incidenti è tesa. Molti pensano che potrebbe accadere qualcosa di simile l’indomani quando ci sarà la catena umana. Si discute come fare. Ci si organizza in modo puntuale, dividendosi per gruppi e alberghi e scegliendo i punti delle mura della città vecchia dove appostarsi per fare la catena. L’appuntamento per il giorno dopo è al Notre Dame, il nunzio apostolico di Gerusalemme, dove per precauzione si fanno arrivare i palestinesi dei territori occupati (il nunzio gode dell’extraterritorialità, la polizia non vi può entrare). Ma di palestinesi dai territori occupati ne arrivano ben pochi. I check point israeliani li rimandano tutti indietro. La polizia carica brutalmente tra la Porta di Damasco e la Porta di Erode. Manganelli di legno si alternano a colpi di fucile che sparano proiettili di gomma con l’anima di ferro. Renzo Maffei, dell’Arci di Pontedera, viene col33 pito da tre proiettili di gomma sulla nuca mentre sta soccorrendo una palestinese svenuta. E lo stesso accade a un’ attivista israeliana, quando nel mezzo delle cariche si ferma, paralizzata dalla paura. Quattro colpi la raggiungono al corpo. Una francese del nostro albergo viene colpita al gomito: fratturato. Un camioncino con due mitragliette lancia-flutti (da una parte esce l’acqua, dall’altra un acido urticante di color verde), opera con continuità sui manifestanti. A un certo punto, sotto l’albergo Pilgrim (proprio di fronte alla Porta di Damasco), che ospita una delegazione italiana, un lancia-flutto si gira su se stesso e stranamente si orienta verso l’alto. Molti di noi rimangono interdetti, non capiamo subito. Mira a una finestra dell’albergo e colpisce Marina, una pacifista napoletana che si trova dietro la finestra dell’albergo. Il getto è violento: colpisce la vetrata che le scoppia davanti al viso. Perderà l’occhio. Le cariche si susseguono. È caccia all’uomo. Arriviamo al National Palace Hotel (il quartier generale di Time for Peace) che dista poche centinaia di metri dalla Porta di Damasco. Un buddista battendo su un tamburello ha raccolto dietro di sé una trentina di persone che ordinatamente sul marciapiede scandiscono con lui il ritmo e strillano “We want peace”. Arrivano trafelati anche i poliziotti – camionette con le sirene, pulmini con le portiere aperte, pronte a far scendere i soldati – che si schierano davanti all’albergo. Passa qualche secondo, noi siamo già dentro la hall. Dall’esterno un poliziotto con un megafono strilla qualcosa, nessuno capisce. Con Luciano Vecchi, Chiara Ingrao e altri siamo sulle scalinate dell’albergo con le mani alzate cercando di calmare i poliziotti, che sembrano pronti ad attaccarci. Infatti dopo qualche secondo scendono tutti dalle loro camionette e vengono sparati tre candelotti lacrimogeni all’interno dell’edificio che si riempie di fumo bianco. Tutti piangono e molti stanno soffocando. Un palestinese è svenuto ed è disteso a terra sul terrazzino dell’albergo. Forse è stato colpito. Qualcuno ha l’impressione che sia morto. Sfondiamo le vetrate del terrazzino e lo portiamo dentro. È solo stordito. Temiamo l’irruzione della polizia, ma dopo pochi secondi se ne vanno. Usciamo sulla scalinata per fuggire dal fumo dei lacrimogeni, molti strillano, piangono. Siamo ancora all’Hotel Nazionale, girovaghiamo nella grande hall che sembra l’atrio di un’università occupata: volantini attaccati sulle colonne, annunci sulla vetrata del bar, cartelli poggiati sui divani. Israele (Ashkelon e Sderot), al confine con la striscia di Gaza (2007) Moderno, efficiente, tranquillo e silenzioso proprio come un tipico campus per studenti modello. Anche questa oasi di rilassante e produttivo studio ha ricevuto, nell’estate del 2005, il suo missile kassam proveniente dalla striscia di Gaza, mentre l’esercito israeliano metteva a ferro e fuoco il territorio palestinese uccidendo civili e distruggendo abitazioni civili. Da allora la vi34 ta al campus non è più la stessa, come anche nella vicina Sderot, poverissima cittadina israeliana di confine (e da cui proviene l’attuale ministro della difesa, il laburista Amir Peretz) che per mesi è stata bersagliata da centinaia di missili e ordigni. Qui, a ridosso della striscia di Gaza, gli abitanti israeliani di Sderot si sentono in guerra, sotto assedio. E meglio non se la passano quelli di Zikim o Karmija; e nemmeno quelli della poco più lontana Ashkelon. In molti chiedono di porre fine a questi continui attacchi. Peretz più volte è venuto qui a promettere il “pugno di ferro” verso Hamas; e ancora di più quelli del Likud o di Kadima. Per non parlare dei partiti oltranzisti ultra-religiosi. La guerra continua a essere – nel bene e soprattutto nel male – il collante della società israeliana: un collante fatto di paura e di immobilismo. Nato dai molti pionieri arrivati qui nel nome dell’egualitarismo e della solidarietà, questo paese si sta rovinando stritolato dal fondamentalismo e dalla deriva bellica. A parte Tel Aviv (città europea e secolarizzata, che vuole stare lontana da questa sporca guerra e dalla linea del fronte) e Haifa (città industriale e laica, nel nord), gran parte del resto del paese sembra vivere nelle tenebre di una guerra diffusa e interminabile. E qui nel sud (più che a est, com’era un tempo, ma come al nord verso il Libano e la Siria) che il paese si sente veramente al fronte, costantemente sotto minaccia da una striscia di Gaza, non più occupata dai soldati israeliani e nello stesso tempo segregata dalla limitazione del passaggio di merci e persone. È qui nel sud (come in molte delle aree di prima colonizzazione, come nel Negev) che si è radicata una certa sinistra laburista che ha trovato proprio nei kibbutz un luogo privilegiato di insediamento. Nato proprio intorno alla “scuola regionale” dei kibbutz, il Sapir College –a soli tre chilometri in linea d’aria dalla striscia di Gaza e a mezz’ora da Ber Sheva, la capitale del deserto del Negev – ospita da tre anni un importante forum (coordinato dal Zvi Shuldiner insegnante del Sapir College e antico collaboratore de “il manifesto”) che mette a confronto una parte dell’intelighenzia democratica del paese e molti gruppi di base, attivisti sociali e pacifisti. Quest’anno i temi del forum sono quelli della costruzione di “un altro tipo di politica” e l’impegno contro “il darwinismo sociale” prodotto dalle politiche neoliberiste. In Israele i gruppi di base e di quella che potremmo definire la “sinistra sociale” del paese, non se la passano troppo bene. Non solo per la guerra e le conseguenze dell’occupazione dei territori palestinesi, ma anche per quella particolare “guerra interna” che in Israele ha assunto due facce: la militarizzazione della società e della politica e la riduzione dei diritti sociali e civili. La declinazione della “questione sociale” in Israele è simile a quella di altri paesi: privatizzazione dei servizi sociali, riduzione del settore pubblico, precarizzazione del lavoro (con l’introduzione del cosiddetto “piano Wisconsin” che privatizza i centri di collocamento), aumento della povertà e delle 35 diseguaglianze. Niente di nuovo: è il credo neoliberista che qui in Medio Oriente si accompagna a guerra e a drammatiche discriminazioni. In Israele ci sono gruppi radicalmente all’opposizione che i pacifisti italiani hanno imparato a conoscere in questi anni nell’impegno per il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese: da Peace Now ai vari forum e gruppi di donne, da Gush Shalom all’Alternative Information Center di Warshanski (che monitora costantemente le violazioni dei diritti umani), da riviste come “Occupation Magazine” fino al nuovo gruppo degli “Anarchici contro il muro” (di cui uno dei suoi leader è in carcere per aver manifestato contro il muro che segrega i territori palestinesi) ai gruppi che monitorano i cinquecento check point sul territorio palestinese. L’accusa più moderata che viene fatta dalla destra a questi gruppi è di essere anti-patriottici, antinazionali, sleali con lo Stato di Israele. E nelle conferenze pubbliche vengono interrotti e contestati. L’impegno dei gruppi di base israeliani contro la guerra e per il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese è assai difficile e impervio. Si va dalle accuse di tradimento agli insulti per strada, dalle minacce fisiche alla censura violenta. Sono prevalentemente gruppi di giovani e di donne, autentiche piccole minoranze che non sembrano usare toni particolarmente estremisti: alcuni dicono semplicemente le cose come stanno, altri sono molto pazienti e argomentano le posizioni anche in modo molto diplomatico. Ma non c’è niente da fare: ottengono delle risposte violente, aggressive, incontrollate dai coloni, dagli esponenti di destra, dai militari. Non c’è modo di trovare un linguaggio comune. Anche per noi che da sempre diciamo: “due popoli, due stati”, è difficile poter ragionare: si è trascinati in discussioni dove viene agitata la memoria delle sofferenze e degli attentati, dei torti subiti, del dramma storico del popolo israeliano. E l’opinione diversa viene tacciata come filo-palestinese, e non c’è modo di ragionare oltre. Ti rendi conto di come il nostro pacifismo (quello occidentale, quello europeo) sia stato in realtà vittima di due errori (dannosi anche per i rapporti con la società israeliana). Il primo (fino agli anni ottanta) quello – in ossequio al mood terzomondista dagli anni sessanta in poi – di un appoggio unidirezionale all’Olp di Arafat senza comprendere la specificità della situazione mediorientale. Il secondo – nell’illusione pacificante del dopo ’89 – la banalizzazione delle pur giuste soluzioni prospettate del conflitto (“due popoli, due stati”, una specie di mantra), senza un’adeguata consapevolezza dell’enorme complessità delle questioni in gioco (e della loro difficile e lenta trasformazione): questioni sociali, culturali ed economiche delle società israeliana e palestinese. Proposte che venivano via via stravolte non solo dalla trasformazione della società israeliana, ma anche di quella palestinese, sotto il peso e la forza dei mutamenti di tutte le società arabe e islamiche. 36 In Israele, oltre a quelli pacifisti, ci sono molti altri gruppi impegnati sulle questioni sociali, economiche, ambientali. La sofferenza e il disagio sociale nel paese sono molto estesi e profondi. Frammentati, divisi, minoritari, questi gruppi cercano comunque di far fronte alla “guerra sociale interna” fatta a colpi di privatizzazioni, di precarizzazione del lavoro, di riduzione della spesa pubblica e del welfare. Gadi Algami ha dato vita nel 2000 (dopo l’inizio della seconda Intifada) insieme a molti suoi amici ebrei e arabi di Israele all’organizzazione Ta’ayush, che significa in arabo coesistenza, vita in comune. Una delle prime attività dell’organizzazione è stata quella di portare aiuti alla popolazione araba dei villaggi assediati e isolati dalle forze militari israeliane. Partivano convogli di camion all’alba con derrate e altri beni di prima necessità. Spesso dovevano aspettare ore per entrare nei villaggi: lunghe colonne ferme giorno e notte in attesa di autorizzazione. Organizzazione di volontari, ramificata su tutto il paese, ora Ta’ayush è impegnata contro il muro costruito da Israele per isolare territori occupati: “La guerra in Libano è stata una catastrofe – dice Gadi Algami, poco più di trent’anni, vive a Tel Aviv con tre figli, mentre si aggira per le sale della conferenza – e sempre di più assistiamo a un processo di militarizzazione della politica che si traduce in una militarizzazione della società: dei suoi modi di pensare, di comportarsi”. Gli fa eco Natalia Espanioli, femminista e donna in nero, del centro anti-violenza di Nazareth: “Bisogna evitare che la guerra sia la logica della politica. Ci deve essere un’altra possibilità. Altrimenti i problemi sociali e i diritti della povera gente saranno sempre esclusi dall’agenda della politica. La logica della guerra è una logica maschilista, dobbiamo riportare nella politica un’altra logica, quella delle donne, dei bisogni sociali, della quotidianità, delle relazioni tra le persone”. E questi gruppi di base tentano disperatamente di tenere insieme l’impegno per la pace con il cambiamento sociale. Ancora Natalia Espanioli ricorda come: “Dobbiamo farci carico di tutte le sofferenze. Non ci deve essere competizione le sofferenze nostre e quelle altrui, o viceversa. La nostra società israeliana è abituata a vedere solo i propri, e questo non è giusto”. Tanto basta per attirare interruzioni e proteste di una parte della conferenza del Sapir College. E Natalia ricorda ancora come la discriminazione sia, non solo verso i palestinesi, ma una costante della società israeliana: contro gli arabi e i beduini (siamo a ridosso del Negev) e –ancora oggi – contro gli ebrei provenienti dai paesi africani e arabi. Tanto che dieci anni è stata formata una “Rainbow Coalition” (di cui è stato proprio nel forum ricordato l’anniversario della fondazione) al fine di difendere i loro diritti dalla discriminazione (non solo politica ed economica, ma anche culturale) praticata a loro danno dagli ebrei di provenienza europea, che rappresentano l’establishment del paese. È la storica contrapposizione 37 tra ebrei askenaziti (gli ebrei europei: Ashkenaz viene identificata nella Germania nel giudaismo medievale) e sefarditi (i discendenti degli ebrei cacciati dalla Spagna nel 1492 e peregrinanti poi nel Maghreb e in altri paesi arabi), tra le elite politiche e sociali (i primi) e la parte più svantaggiata (i secondi). Al congresso dei laburisti del 1997 Ehud Barak chiese addirittura perdono alla comunità sefardita per i torti subiti nel secondo dopoguerra. Infatti, la cosa può sembrare singolare, il risentimento sefardita si è indirizzato prevalentemente verso i laburisti e non verso il Likud. Perché? Ha provato a spiegarlo Abraham Yehoshua, ritornando alle origini della formazione dello stato di Israele: “Qual è l’ingiustizia commessa dal partito laburista nei confronti degli immigrati sefarditi e soprattutto di quelli dell’Africa del Nord? Ritengo che alla radice della questione vi sia la concezione ideologica della sinistra in base alla quale un essere umano può cambiare, liberarsi dalle sovrastrutture, delle tradizioni e dei costumi aviti per trasformarsi in qualcosa di nuovo. La pretesa rivolta agli immigrati del Maghreb di trasformarsi in ebrei di una nuova sorta pareva agli occhi dei governanti laburisti moralmente legittima... Ma gli ashkenaziti giunti in Israele non avevano mai preso in considerazione l’idea che la loro trasformazione in ebrei israeliani dovesse implicare un cambiamento di cultura. Essi mantennero le proprie abitudini... e non rinunciarono a Mozart, a Beethoven, a Tolstoj, a Dostoevskij, a Rembrandt e a Michelangelo. Il governo socialista di allora pretese invece dagli ebrei sefarditi, e soprattutto da quelli marocchini, un doppio sforzo: non solo rinnegare la diaspora per trasformarsi in nuovi ebrei, ma abbandonare le tradizioni orientali per accettarne altre. Non c’era alcun dubbio che l’infrastruttura dello stato di Israele sarebbe dovuta essere di stampo occidentale... Gli ebrei giunti dai paesi orientali dovettero non solo trasformarsi, come tutti, in “ebrei nuovi” ma anche “occidentalizzarsi”. Questa imposizione era, ed è tuttora, al di là delle possibilità di gran parte di loro e la sua legittimità morale e altamente discutibile”. È istruttivo come il sacrosanto riconoscimento dei diritti del popolo palestinese debba poi – nel nostro caso – affrontare una sorta di “corpo a corpo” con un altrettanto importante diritto come quello del popolo ebraico alla sua terra madre: paure, fobie, frustrazioni e sospetti entrano in una girandola senza fine di accuse e irrazionali recriminazioni. Ti chiedi quanto il principio di autodeterminazione (di ciascuno) debba essere assoluto o relativo, quali vincoli e condizioni debba avere, quali procedure e tempi debba seguire per rispettare i diritti umani e la pace. Chi ci dice dove finisce il 38 diritto di autodeterminazione di uno e inizia quello dell’altro? E poi, l’autodeterminazione si deve tradurre per forza nella costituzione di uno Stato? E siamo sicuri che il principio dell’autodeterminazione debba essere senza alcun condizionamento? (ad esempio senza essere nonviolenta, concordata, rispettosa dei diritti delle minoranze?). I gruppi di base della sinistra israeliana si muovono dentro la crisi della sinistra israeliana (crisi di cui nel dibattito della conferenza al Sapir College, si avverte la consistenza) sempre di più considerata distante dai problemi sociali del paese, spesso identificata come una elite privilegiata. E tale accusa riguarda anche una parte della sinistra sociale israeliana, quella storicamente radicatasi con le prime esperienze comunitarie dei coloni. La sinistra israeliana – come quella di molti altri paesi – sembra avvolta in una pesante crisi di identità (come d’altronde anche da noi): quello che poteva dare lo ha fatto con Rabin, e poi è morta con lui. Non si distingue sul terreno coraggioso della pace, non su quello della secolarizzazione della società, non su quello della questione sociale (che oggi è pesantissima nel paese). Rischia di essere considerata snob, elitaria, staccata dalla realtà drammatica del paese. Paradigmatica in questo senso è la vicenda dei kibbutz (sono circa duecentosettanta in tutto il paese), gran parte dei quali nati nei primi anni del secondo dopoguerra proprio in stretta connessione con il movimento laburista e con un’idea di socialismo comunitaria e collettivista. Chi negli anni settanta non ha pensato di andare una volta in un kibbutz, una sorta di territorio libertario in cui i figli vengono allevati da tutti, non sei proprietario di niente, lavori secondo le tue capacità e ricevi quello di cui hai bisogno? Ma anche queste isole di egualitarismo sociale e di proprietà collettiva hanno nel corso del tempo perso la loro ideologia originaria: si sono aperte al profitto, alle privatizzazioni, all’individualismo più tradizionale. Dove rimaniamo noi per qualche giorno, nell’agglomerato di Dorot, non sembra proprio di stare in un kibbutz. Villette a schiera come in un villaggio turistico, prato all’inglese, un piccolo zoo per i bambini (l’educazione e la vita in comune dei bambini non c’è più da tempo in gran parte dei kibbutz), automobiline elettriche (come quelle dei campi di golf ) che girano per i vialetti alberati, qualche Suv parcheggiato. E quello che fino a poco fa era proprietà condivisa e collettiva ora è in progressivo corso di smantellamento. Case vendute a chi ci abita, la mensa comune privatizzata e affidata a una società profit, le industrie (a Dorot ce n’è una di confezionamento di aglio e di altri prodotti ortofrutticoli) sempre più condotte con piglio capitalistico. E sempre più lavoratori vengono da fuori, mentre prima appartenevano alla comunità. È la fine di un’utopia su cui socialisti libertari e qualche anarchico aveva riposto qualche illusione di una società diversa. Il comunitarismo libertario e socialista è stato così adeguato alla “mo39 dernità” e al benessere individualista e consumista. E così quelli che erano stati il simbolo di una scelta rude, ma sobria e solidaristica oggi sono diventati l’emblema di privilegi e di tranquillità borghese. Nei kibbutz non senti l’angoscia della guerra che incombe, ma se esci dai suoi recinti e fai qualche chilometro e ti ritrovi a Sderot in attesa di un Kassam da Gaza, allora ti rendi conto che quella storia è finita per sempre. Rileggendo un testo di Amos Oz, A Perfect Peace, ambientato in un kibbutz prima della guerra dei sei giorni (e che riflette bene l’inizio del disorientamento e della crisi del movimento laburista e dell’identità kibbutzina) ho trovato questo passaggio: “‘Salve. Molto piacere. Mi chiamo Azariah Gitlin. Io... mi piacerebbe restare qui. Vivere da voi, cioè. Ormai solo nei kibbutz c’è giustizia. In nessun altro posto c’è giustizia, oggigiorno. Vorrei vivere qui’. Eitan si trovò dunque costretto a tendere la mano e toccare, seppure con la punta delle dita, quella che gli veniva tesa. Gli sembrò strano scambiare una stretta di mano con quel personaggio un po’ stordito, lì fra le siepi dietro il magazzino dei fertilizzanti. Azariah Gitlin continuò a spiegare e a chiedere: ‘Guarda, compagno, non vorrei che mi prendessi per quello che non sono. Non c’entro niente io con quel tipo di persone che arrivano al kibbutz per motivi personali e cercano chissà cosa. Al kibbutz la gente è ancora legata, mentre nel resto del mondo si vedono ormai solo odio, gelosia, volgarità. Per questo sono venuto qui, con l’intenzione di unirmi a voi e cambiare in meglio la mia vita’”. I kibbutz erano così il simbolo di un’utopia politica, sociale e anche umana. Tutto questo non c’è più e la storia del protagonista (Yonatan) di A Perfect Peace, che lascia il kibbutz per avventurarsi nel mondo esterno – alla vigilia di una nuova guerra arabo/israeliana – è il prototipo del fallimento di una umanità che ha smarrito per sempre un’utopia che si voleva concreta, ma che è durata troppo poco. Se i kibbutz appartengono ormai al passato (almeno per ciò che riguarda il loro significato libertario e socialista), c’è chi È concentrato sulle sfide dell’oggi. Il rappresentante della sezione israeliana dell’Oxfam, Ishai Menuchin (un giovane ricercatore e attivista che ha lavorato con i gruppi del commercio equo e solidale) parla a lungo di un’economia sociale alternativa a quella capitalista, mentre l’idea di una “banca etica” (quella italiana, di cui parlo al convegno) suscita un grande entusiasmo tra tutti i partecipanti. Sono bombardato di domande e informazioni: mi chiedono di prendere contatti e consigli su come fare una banca etica in Israele. L’organizzazione Shatil è da tempo impegnata a promuovere diritti sociali, partecipazione democratica, società civile. Shatil ha anche il ruolo 40 di Fondazione che finanzia i gruppi di base. In Israele non c’è, come in Italia, un “Forum del terzo settore”, ma Shatil cerca in qualche modo di coprire questo vuoto. Fanno attività di microcredito, corsi di partecipazione democratica, danno vita a gruppi comuni di ebrei e arabi, attività di advocacy per le minoranze (come i beduini, qui nell’area) discriminate. La Direttrice di Shatil, Rachel Liel, ci dice: “Siamo molto interessati all’esperienza della finanza etica, vorremmo ora costruire una banca che sia etica, che dia finanziamenti ai gruppi di base, alle attività sociali. Le vecchie banche nate dall’esperienza del movimento dei lavoratori, qui in Israele sono ormai diventate delle banche tradizionali che hanno perso il senso della loro origine. Servirebbe proprio una “banca etica” per dare identità e coerenza ai nostri interventi sociali”. Tenere vive queste esperienze è anche un modo per sfuggire alla tenaglia della guerra e di una società sempre più militarizzata. A volte non sai però, se questo lavoro di una parte della sinistra sociale di base israeliana su temi come quelli della finanza etica o del commercio equo e solidale (comune un lavoro assai di nicchia, da molti considerato un po’ esotico) sia effettivamente la scelta che serve per superare le paure prodotte dalla guerra oppure un diversivo per evitare di confrontarsi con un problema insolubile e che alimenta spaccature nella società. Infatti questo rinnovato attivismo sociale (ancora debole e frammentato, con pochi legami con i movimenti sociali globali di Porto Alegre) si continua a scontrare pero’ con la mancata soluzione del conflitto israelo-palestinese e dell’occupazione della West Bank. L’impressione è quella di una claustrofobia sociale, di una trappola politica (fatta di impotenza, mancanza di coordinamento, concorrenza, eccetera) azionata dalla logica di guerra. È per questo che il titolo di una delle sessioni della conferenza di Sapir “La logica della guerra. La sola logica?” rischia di essere, purtroppo, ancora tremendamente vero e mettere ancora una volta nell’angolo la sinistra e i movimenti sociali della società israeliana. A questa “logica” bisogna resistere con un “altro modo di fare politica”, come gli esponenti dei gruppi di base auspicano. Ed è anche uno dei pochi messaggi di ottimismo della conferenza. Anche in Israele, nella migliore società civile, c’è poca (quasi nessuna) fiducia nei partiti, e in modo specifico nel Labour. Come dice Natalia Espanioli: “Abbiamo veramente bisogno di un’altra logica alla base della politica, che non è quella della guerra, ma del riconoscimento delle reciproche sofferenze di ciascun individuo e di ciascun popolo”. È questa la base per un “altra Israele”. E allora “l’altra politica” e la soluzione politica e concreta del conflitto israeliano-palestinese sembrano sostenersi reciprocamente. La salvezza (non solo la sicurezza dal terrorismo) della società israeliana può venire solo dall’innescare questa dinamica virtuosa. Non tutte le guerre (come le crisi) sono eguali: alcune producono spostamenti benefici (si guardi alla Gran Bretagna nel 1945 41 con lo spostamento a sinistra e la nascita del Welfare) mentre altre producono conseguenze disastrose (come in Germania dopo il 1918). Israele sembra, a detta di molti, essersi incamminata su una strada dalle mille incognite. E da quello che per molti era stato il sogno della nuova frontiera, sembra ora diventato l’incubo di una trincea permanente. 42 Guerre fratricide 1991 Slovenia e Croazia Giugno-Luglio Da Trieste a Belgrado. 30 giugno, due giorni dopo la dichiarazione di indipendenza della Slovenia, ci ritroviamo per una manifestazione di poche centinaia di persone in piazza dell’Unità a Trieste. C’è qualche tensione con alcuni esponenti della comunità slovena. Il 7 luglio a Belgrado ci si riunisce in duecento. Per l’Italia ci sono delegazioni dell’Associazione per la pace, dell’Arci, delle Acli, della Cgil, dei Verdi. Dall’Europa ci sono esponenti della sinistra europea. Dalla Polonia arrivano Geremeck e della Helsinki Citizens Assembly Mary Kaldor e Mient Jan Faber e discutono con l’anziano Gilas sul futuro della Jugoslavia. Dice Gilas: “Se la guerra si limiterà alla Slovenia e alla Croazia ne potremo uscire fuori. Se si estenderà anche alla Bosnia, allora durerà anni”. Mary Kaldor interviene: “I movimenti nazionali dell’ottocento erano progressivi, democratici, tendevano a includere, a rompere gli steccati, erano espressione della borghesia cittadina. I nazionalismi odierni sono antidemocratici, tendono a escludere, a erigere steccati, espressione dei ceti arretrati contadini. I movimenti nazionali del secolo scorso avevano una funzione di liberazione, quelli di oggi sono regressivi”. Sonia Licht, serba ed ebrea, esponente del ’68, espulsa dalla Lega dei Comunisti, ora leader del movimento per la pace jugoslavo dice: “Devo fare la Cassandra, ma voi ancora non avete capito ciò che accadrà qui”. I pacifisti a Belgrado – e ovunque – sono una minoranza. Stretti tra nazionalismo e paura, sono delle elite intellettuali senza sponda politica. Tra questi piccoli gruppi ci sono l’Alleanza Civica, la Fondazione Soros, il Belgrade Circle. I media – a eccezione di qualche giornale o televisione, come il periodico “Vreme” e l’emittente Studio B 92 – sono stati tra i principali responsabili della guerra. Hanno alimentato la fobia nazionalista e l’immagine del nemico. Hanno prodotto l’evento, la guerra, lo hanno fatto precipitare. L’opposizione che conta a Belgrado non è quella che ci piace. È principalmente quella del monarchico Draskovic e dello sciovinista Seselj. Gli studenti si mobilitano e fanno dell’Università il centro della resistenza. Si fanno assemblee, cortei, ci si organizza per resistere alla deriva nazionalista e di guerra, si creano network e gruppi di lavoro, si prendono contatti con le altre città europee, ma il movimento stenta a decollare, e non dura. Settembre La carovana della pace. Dopo la Slovenia è toccato alla Croazia. C’è la secessione delle Krajine e lo scontro tra l’esercito croato e quello federale. Si decide alla convenzione End di Mosca (agosto) di fare una carovana per la pace 43 da Trieste a Sarajevo. Si parte il 25 settembre del 1992 dalla collina di San Giusto a Trieste. Dopo qualche discorso di rito di assessori e rappresentanti locali, la gente – arrivata a Trieste con i treni della notte – cerca il proprio pullman, e poi via. Segue una troupe del Tg3 e ci sono alcuni parlamentari: Luciana Castellina, Alex Langer e due deputati austriaci. Oltre ai pullman ci sono macchine, furgoncini, camper: in tutto trecento pacifisti, sindacalisti, sacerdoti e boy scout. Il coordinamento non è perfetto e, prima di attraversare il confine, siamo già in ritardo sui tempi di marcia. In Istria incontriamo gli esponenti della minoranza italiana a Fiume. L’incontro si tiene in una grande palestra. C’è poca gente. L’atmosfera è un po’ desolata, la città sembra assente. “La colpa della guerra è del vecchio sistema” sentenzia con rancore un rappresentante della comunità italiana. Per bilanciare l’incontro della prima tappa un gruppo della carovana si incontra con la comunità slovena (che in questa zona, come d’altronde lungo tutta la linea di confine, è molto numerosa e anche discriminata) a Villa Opicina: sostengono l’indipendenza slovena e croata dall’“aggressione jugoslava”. Gli italiani si devono ancora orientare; sono qui per capire. Quelli che intervengono balbettano posizioni di principio: parliamo di pace, diritti umani, democrazia... Molti parlano di guerra civile, ma agli sloveni non piace; “è una guerra di indipendenza”. La sera si arriva a Lubiana, con grande ritardo e si salta la manifestazione di piazza. Il palco è montato, ma non c’è nessuno sopra. Solo gli operai che stanno già svitando i primi tubi innocenti. Siamo arrivati troppo tardi. I nostri pullman arrivano a singhiozzo. I pacifisti vengono dirottati verso i propri alloggi: parrocchie, ostelli della gioventù, scuole. C’è un gruppo di obiettori di coscienza italiani che vengono dalla comunità di Papa Giovanni XXIII, che si trova a Rimini. Non potrebbero uscire fuori dall’Italia. Quando torneranno si autodenunceranno presso la procura militare. Marco Hren, del Centro per la cultura della nonviolenza, di Lubiana, si aggira per la piazza. È critico verso le tradizionali organizzazioni pacifiste jugoslave, accusate di essere legate ai vecchi regimi. I nonviolenti sloveni ancora non hanno digerito la parabola di Janez Jansa, da obiettore di coscienza e oppositore pacifista al regime comunista, a ministro (in tuta mimetica) della difesa territoriale del nuovo governo post-comunista. Il 26 settembre, da Lubiana, si parte verso Zagabria. La discussione si arroventa. Sui pullman c’è polemica. Soprattutto i veneti, Don Albino Bizzotto (Beati i Costruttori di Pace) in testa, sono critici verso la conduzione della carovana: troppa poca comunicazione, tutto già deciso, e così via. L’“organizzazione” mi mette a fare il capo de pullman dove si trova Bizzotto e devo fare due ore di assemblea permanente per cercare di calmare le acque. Si arriva a Zagabria che sembra sotto assedio. La guerra qui, a differenza di Lubiana, si vede. Una guerra non ancora civile, ma tra stati. Il centro della 44 città è deserto e i pullman raggiungono la sala comunale con prudenza. Una signora, con un sacchetto di plastica della spesa mezzo vuoto, ci dice che sono previsti imminenti bombardamenti. Ci consiglia di andare via. Gli incontri con le autorità locali e i rappresentanti delle associazioni di Zagabria sono all’insegna del nazionalismo: “Se volete aiutare la pace, fateci avere le armi per difenderci”, dice uno di loro. Anche le “madri coraggio” – qui molto attive – che tentano di portare via i loro figli dall’armata federale non sono immuni dal virus nazionalista: i loro discorsi sono molto croati e alcune di loro viaggiano per l’Europa a spese del governo con lo scopo di fare propaganda contro l’aggressore serbo. La stampa locale ci accusa di essere filo-serbi, perché chiediamo come prima cosa il “cessate il fuoco”, non schierandoci (con loro). Per lo stesso motivo a Belgrado ci accuseranno di essere agenti sloveni e croati. Chiedono di schierarsi, di non essere imparziali. A Zagabria rimaniamo solo tre ore. Il 28 settembre arriviamo a Belgrado, alla Casa della gioventù, zeppa di ragazzi e ragazze, assordata da musica rock e da annunci gracchiati che escono da vecchi altoparlanti. Festoni colorati e manifesti, volantini e foto tappezzano i muri zebrati dai colori di lampadine psichedeliche. Quando parla, per ricevere i pacifisti italiani, il rappresentante del comune di Belgrado, è accolto da una salva di fischi dei pacifisti belgradesi. Con noi è Sonia Licht: “Il fatto fondamentale è che tutte le parti stanno cercando di risolvere il problema del loro futuro attraverso il rafforzamento del loro Stato. La premessa del dialogo serbo-albanese è la seguente: dobbiamo evitare che inizi un’altra guerra in Kosovo”. Ora, però, incombe la ripresa della guerra tra serbi e croati in Slavonia e l’inizio di un incendio dalle incalcolabili conseguenze in Bosnia Erzegovina. Aggiunge Sonia: “Ma, se si divide – come si sta dividendo – la Yugoslavia, si dividerà anche la Bosnia Erzegovina. È inevitabile. La Bosnia non potrà continuare a essere uno stato multietnico e multinazionale se sarà circondato da Stati nazionalisti ed etnicisti. Se così non fosse sarebbe un miracolo”. A Belgrado le donne sono particolarmente attive. Prendendo esempio dalle donne israeliane (che manifestavano vestite in nero contro la guerra in Libano) stanno nascendo anche qui le Donne in nero. L’appuntamento è per il prossimo 9 ottobre, quando da ogni mercoledì si ritroveranno davanti alla Presidenza della Repubblica, vestite di nero per manifestare contro la guerra. In programma anche una “Maratona antiguerra belgradese” per organizzare una raccolta di firme per un referendum contro la guerra. Racconta Stascia delle Donne in nero di Belgrado dopo una riunione con le donne slovene e croate: “La riunione è stata molto dolorosa, specialmente per le femministe. Ci siamo rese conto che la guerra ha fatto cambiare i rapporti tra le donne, alcune femministe si sono identificate, per prima cosa, con la propria causa nazionale, emarginando e 45 scordando l’identificazione di genere. Ci ha colpito profondamente che non tutte le femministe siano pacifiste, come pensavamo da sempre”. È l’ora di partire per Sarajevo. Seguiamo il corso della Drina attraversando splendide gole e corridoi di boschi e colline verdi. Siamo in Bosnia Erzegovina: la piccola Jugoslavia. Il serpentone di pullman arriva a Sarajevo e si organizzano le iniziative. Ci sono incontri con la Presidenza della Repubblica e il Governo. La città è piena di gente. Nella città vecchia turisti stranieri fanno acquisti di souvenir. Con l’occasione giunge anche un aereo speciale da Roma. Ci sono il vice Presidente del Parlamento europeo, Formigoni e due gruppi musicali: i Nomadi e i Litfiba. Con loro altre trecento persone (rappresentanti di enti locali, associazioni, sindacati) che si sono venuti a unire con noi. I musicisti suoneranno per la pace in serata. Una grande catena umana, con tanta gente di Sarajevo, stringe il centro della città. Il concerto si tiene in un vecchio piazzale d’oratorio. Augusto Daolio dei Nomadi canta Auschwitz, ma c’è poca gente. Molti non capiscono l’italiano e i ragazzini di Sarajevo giocano a rincorrersi sotto il palco. Qui i Nomadi non sono conosciuti. Si susseguono anche gli incontri politici, con partiti e associazioni. Un esponente socialdemocratico di Sarajevo ci dice: “Quando tornate in Europa, chiedete che mandino qui i caschi blu dell’Onu. La prossima tappa della guerra è la Bosnia. E se scoppia qui, è una polveriera. La Bosnia è una Jugoslavia in miniatura. Qui la guerra non finirebbe mai”. Molti di noi ancora non capiscono. Un giornalista del Tg 1 mi dice: “Torno in Italia, qui ormai i servizi non superano il minuto, c’è poco da fare”. 1992 Bosnia Erzegovina Giugno La guerra a Sarajevo. Da due mesi è iniziata la guerra in Bosnia Erzegovina. Veltroni scrive un articolo su “l’Unità”, dal titolo Ma dove sono i pacifisti?, lamentandosi della mancanza delle grandi manifestazioni come ai tempi del Vietnam. L’Associazione per la pace risponde con una lettera privata, ricordandogli tutte le cose fatte finora – aiuti, iniziative di là, manifestazioni, eccetera – e soprattutto rimproverandolo del quasi inesistente spazio dato a raccontare del dramma di questa guerra e delle iniziative di pace sull’Unità. La nostra lettera è un po’ ruvida e spigolosa. Veltroni chiama un po’ seccato nel nostro ufficio e promette di seguire meglio quello che facciamo. Ci vediamo a Padova in assemblea. È il 7 giugno. Ci sono posizioni diverse: c’è chi difende il diritto all’autodeterminazione e chi vuole ripristinare la Federazione jugoslava; chi preme perché non sia demonizzata la nazione serba e chi vuole dare un mandato più forte alle truppe dell’Onu. Rasimelli propone di lavorare con le opposizioni a Milosevic. Lidia Campagnano, una gior46 nalista de “il manifesto”, risponde: “Con chi, con Draskovic, l’ultra nazionalista? Pensi sia meno sciovinista di Milosevic? Dobbiamo sostenere le forze democratiche, non le forze nazionaliste”. Si parla anche del ruolo dell’Onu, della possibilità di un’azione militare per fermare la guerra. Il pacifismo è generalmente anti-interventista e l’ingerenza umanitaria è ancora da digerire. L’assemblea di Padova decide di organizzare una staffetta, questa volta in Italia, per fare un po’ di controinformazione su quello che sta succedendo. Dicembre Oltre cinquecento persone con Don Bizzotto e Don Tonino Bello partono per Sarajevo e rompere l’assedio. Don Tonino propone: “Un esercito di pace. Un esercito costituito da obiettori, parlamentari, ministri, che invada le zone di guerra. Un cuscinetto umano fatto di gente dotata di forza propositiva”. Noi come Associazione per la pace e Arci siamo abbastanza scettici sull’iniziativa: ci appare rischiosa e poco realizzabile. Io decido di non partecipare: non mi sembra ci siano le condizioni. Invece con dieci pullman il 10 dicembre i volontari partono per Sarajevo, superano il posto di blocco dei serbi, lasciando in dono un’ambulanza. Nel gruppo dei 500 c’è una parte che consiglia di fermarsi, perché la situazione è troppo pericolosa. Si fanno le assemblee e si decide di continuare. Arrivati a pochi chilometri dalla città assediata, la maggior parte dei partecipanti vuole provare ad arrivarci. Dieci pullman entrano di notte nella città e fortunatamente i fucili e i mortai tacciono. Per precauzione i pacifisti hanno messo gli zaini sui finestrini. Ma non servirebbe a niente se venissero mitragliati. Il giorno dopo si tiene una manifestazione nel centro della città e i cinquecento si dividono in quattro gruppi che vanno uno alla cattedrale cattolica, uno alla chiesa ortodossa, uno alla moschea, l’ultimo alla sinagoga. Il culmine della manifestazione è al cinema Radnik: intervengono i rappresentanti delle varie fedi e le autorità. Parla anche Don Tonino Bello: “Noi siamo l’Onu rovesciata, non l’Onu dei potenti, ma l’Onu dei popoli. La prima entra a Sarajevo fino alle 16.00, noi siamo entrati dopo le 20.00”. Per la gente di Sarajevo l’11 dicembre è una giornata senza combattimenti e senza spari, dopo tanto tempo. Qualcuno ne approfitta per fare rifornimento di acqua e di legna. Dicembre-gennaio Trascorre qualche settimana e siamo noi a partire per Sarajevo con una delegazione di una trentina di persone. Ci sono anche Tom Benetollo, Giovanni Bianchi, Nichi Vendola, Raffaella Bolini. Nella città si sta combattendo. Ci si ferma a Ilijda, periferia serba di Sarajevo, in parte distrutta dalle offensive dei musulmani. Il giorno prima sono giunte nella città le ottanta tonnellate di aiuti che abbiamo raccolto in Italia: medicine, alimenti, teli di 47 plastica per coprire 40mila finestre distrutte. La situazione è disperata; la città è in ginocchio. Il 31 dicembre fa 15 gradi sotto zero. Mancano acqua, luce, viveri. Siamo in fila con le macchine per le strade della città, insieme a un convoglio di cinquanta camion francesi dell’organizzazione umanitaria Equilibre. Io sono in macchina con Mimmo Pinto, Nichi Vendola e Quarto Trabacchini. Alle 19.00 del 31, si arriva a poche centinaia di metri dal centro della città si spara, cadono granate. Superiamo il cartello sforacchiato di Sarajevo. È buio e a fari spenti, a un bivio, prendiamo la strada che non dovremmo prendere, arrivando a una barricata. Una signora esce da una casa e gesticola; vuole farci tornare indietro. Dopo qualche attimo, dall’altra parte della barricata tirano in aria dei razzi che illuminano il cielo e poi sparano. Torniamo indietro, schivando grossi bossoli di granate. Una pattuglia serba ci costringe ad accostare e ci fa passare la notte in una viuzza, dove poco dietro si trovano le postazioni di artiglieria. La cena dell’ultimo dell’anno consiste una scatoletta di alici, tonno, canditi e grappa; tutto apparecchiato sul cofano della macchina mentre il freddo fa perdere la sensibilità alle mani. Alle undici di sera riprendono i combattimenti. I riscaldamenti delle macchine sono accesi in continuazione per non patire il freddo. Sopra le nostre teste si infiamma il cielo di lampi di razzi e mitragliate. I musulmani cercano di accerchiare Ilijda per conquistarla e rompere l’assedio. Piccoli gruppi di miliziani scivolano tra le nostre macchine e sparano dalle fessure dei camion francesi. Dei miliziani serbi ci fanno tirare giù il finestrino e puntano con un mitra Nichi Vendola che sta dormendo al posto di guida. Riusciamo a spiegarci con il miliziano serbo ubriaco e tutto finisce bene. Il culmine è a mezzanotte; sembra un fuoco d’artificio. Poi con l’inizio del nuovo anno, tutto si calma. Entriamo a Sarajevo, il mattino presto. Gli alberi sono quasi tutti tagliati (usati per riscaldarsi), a eccezione di quelli del giardino di fronte alla Presidenza della Repubblica e di parti del centro della città. Il palazzo della presidenza della Bosnia è un altro bersaglio preferito dell’artiglieria serba. Ci entriamo per gli incontri ufficiali. Molte finestre del palazzo non ci sono più; continuano a fischiare le granate. Ci sembrano tanto vicine. Dentro l’edificio non c’è luce e fa sempre più freddo. Muhamed Krejelavovic è il canuto e ossuto sindaco di Sarajevo, imbacuccato in un vecchio cappotto grigio, si è appena iscritto al partito radicale transnazionalizzato e ci dice: “Non permettete l’assedio della nostra città. Senza acqua, luce e viveri siamo allo stremo”. ricorda: “Serve un maggiore impegno della comunità internazionale per Sarajevo. Fino al prossimo aprile non avremo acqua. Non sappiamo se ce la faremo. Stiamo assistendo a un urbicidio e va fermato”. Nella famiglia che ci ospita per la notte (Ibrhaim, musulmano – un cameriere che lavora all’Holiday Inn –, Rada, serba e un amico Hari anche lui 48 musulmano) al 14esimo piano di un palazzo sfiorato ogni giorno da proiettili e razzi si parla poco della guerra, ma di Roma e dell’Italia. Insieme a me c’è Stefano Fassina, della Sinistra Giovanile. Tre pugni di riso e poca acqua è la nostra cena. “Chi si è mai chiesto a quale etnia appartenessimo?”, si chiede Hari, medico, che da due mesi non ha notizie di moglie e figli che si sono trasferiti a Zagabria. Fuma una sigaretta dietro l’altra. Si ritorna a parlare di guerra. Rada sorride: “Questa non è una guerra tra serbi e musulmani. È una guerra di estremisti e di minoranze. Qui, la convivenza è ancora una realtà. La colpa è dei politici nazionalisti”. Le finestre della casa di Rada sono ricoperte internamente da uno strato di ghiaccio, l’unica luce è quella di un lumino degli alberi di Natale collegato a una batteria di macchina. Con Stefano dormiamo, tutti vestiti e con molte coperte addosso, in una stanza con le finestre rotte; e ormai siamo a venti gradi sotto zero. La notte è interrotta da bagliori e scoppi; molte coperte, maglioni e giacche a vento non leniscono un acuto freddo. La faccia è rigida dal gelo. Rada, il mattino dopo dovrà andare a lavorare alla posta; con lo stipendio (ed è tra i pochi fortunati a poter lavorare) riesce a comprare in un mese quattro uova al mercato nero. Prima di andare via ci facciamo una foto, io, Stefano e Rada; dietro a noi – non ce ne accorgiamo – le croci e i paletti musulmani delle tombe in quello che prima doveva essere stato un parco. Lasciamo tutto quello che abbiamo: viveri, dolci, medicine, soldi. 1993 Sarajevo e Mostar Maggio Dopo l’inizio della guerra croato-musulmana Gorni Vakuf (Bosnia centrale) diventa un punto di passaggio strategico. La direttrice Gorni Vakuf-Zavidovici è segnata da durissimi scontri, si combatte sulla strada e sulle alture che dominano i passaggi più angusti. Far arrivare, da qui, gli aiuti alla Bosnia Erzegovina è molto più difficile di qualche mese fa. La strada di Jablanica è interrotta. Arrivare a Sarajevo è quasi impossibile. La guerra croato-musulmana ha portato a una riduzione dei convogli. Noi non sappiamo bene come fare, se non correndo dei rischi. I funzionari dell’Alto Commissariato (in gran parte nord-europei) sono professionali e burocrati. Litigano in continuazione con i funzionari dei caschi blu e gli esponenti dei governi dei vari paesi. La concorrenza – in una sorta di agonismo umanitario – è per chi arriva prima con i propri sacchi con su stampigliato “dono del governo...” oppure “dono dell’Unhcr...” e via così. Un problema di visibility (c’è anche questa “voce di spesa” nei progetti umanitari). Intanto al mercato di Spalato si possono comprare a venti marchi delle lattine di “Olio italiano. Dono del governo italiano”. Noi con i nostri pulmini e mac49 chine scassate cerchiamo di raggiungere Mostar, Zenica, Tuzla. Normalmente i blindo dell’Unprofor non ci scortano, anche se fanno la stessa strada. Se i volontari fossero attaccati, i caschi blu non li difenderebbero. “Non abbiamo il mandato per farlo”, dice un soldato spagnolo di stanza a Jablanica, durante una sosta per rifornirci: “Possiamo rispondere solo per autodifesa o per proteggere convogli sotto la nostra protezione”. A Gorni Vakuf il 31 maggio una banda di irregolari musulmani ferma un camion di volontari bresciani che si dirige verso Zavidovici, città alla quale le organizzazioni di volontariato di Brescia da tempo portano e distribuiscono aiuti. Vi sono stati già vari convogli nelle settimane precedenti, senza nessun problema. Dal 9 maggio (quando croati e musulmani hanno cominciato a combattersi) la situazione sul campo è cambiata. Ora è molto più pericoloso. Le strade sono deserte, e passando per quella camionabile si avvertono normalmente spari e scoppi di granate che non sembrano molto lontani. Il camion dei volontari bresciani, questa volta, non riesce a giungere a destinazione. I banditi li fermano e sequestrano il carico: cibo, vestiti, giocattoli per i bambini. Ordinano ai volontari di scendere e li fanno incamminare su una strada di montagna e iniziano a sparargli alla schiena. Muoiono sul colpo Guido Puletti (giornalista freelance), Sergio Lana (piccolo imprenditore, trasportatore) e Fabio Moreni, obiettore di coscienza della Caritas. Agostino Zanotti – il quarto del gruppo – riesce a fuggire. Nei giorni a seguire la stampa e le tv ne parlano diffusamente; seguono riunioni con Andreatta e la Boniver. Ai funerali dei tre volontari non c’è nessun ministro od esponente del governo. Chiediamo alla riunione con Andreatta alla Farnesina, un paio di giorni dopo, che il governo faccia il proprio dovere: inviando gli aiuti finora non mandati, accogliendo i profughi, sostenendo il volontariato. Chiediamo un coordinamento vero, di non essere ignorati, ma non vogliamo la protezione militare. Queste morti aprono anche tra di noi un dibattito: la necessità di coordinarci e d organizzarci meglio, di prepararci, di darci una struttura tecnica, evitando di andare in Bosnia, senza una sufficiente preparazione. Dopo la morte dei volontari le associazioni di volontariato e pacifiste sono convocate nuovamente alla Farnesina dal ministro degli Affari Esteri, Beniamino Andreatta. C’è anche il ministro per gli Affari Sociali, l’avvocato Fernanda Contri: “Dovete stare più attenti – dice con cipiglio il ministro – munitevi di caschi e di giubbetti antiproiettile. Consultateci prima di partire. Forse è il caso di iniziare a pensare di inviare soldati italiani per scortare i volontari in Bosnia”. Ci fanno intervenire subito dopo Andreatta e lo critico per tutti gli impegni non mantenuti e per la scarsa iniziativa umanitaria. “Che fine ha fatto il tavolo di coordinamento? Invece di ramanzine, ci servirebbe una mano, soprattutto le istituzioni dovrebbero fare il loro do50 vere”. Ci risponde la Contri, che fino a oggi non ha potuto fare molto: “Non sono abituata a fare tanti discorsi; vi prometto di convocare un tavolo di coordinamento entro la fine del mese”. Intanto in Erzegovina si continua a sparare e la pulizia etnica si aggrava: questa volta sono i croati a farla a danno dei musulmana. Anche il campo di Posusije viene smantellato dalle milizie croate. Siamo nella prima metà di luglio – è una domenica – e l’azione, molto violenta, è nell’aria. I profughi vengono deportati, i volontari caricati sui camion: destinazione ignota. Questa volta interviene il governo italiano che si fa carico degli sfollati: saranno ospitati da strutture italiane, chi in parrocchie, chi in albergo, chi presso delle famiglie. Intanto su “il manifesto” scriviamo una proposta: mandiamo centomila caschi blu in Bosnia Erzegovina per cercare di sterilizzare il conflitto. I caschi blu dovrebbero esigere l’apertura e il mantenimento dei corridoi umanitari con tutti i mezzi a disposizione, garantendo una presenza a Vitez, Maglai, Goradze – dove sono assenti – e a Mostar, dove mancano quasi completamente. È il nostro “piano di pace”. Agosto Mir Sada. I Beati i costruttori di pace, sull’onda del risultato positivo della precedente marcia, ci riprovano otto mesi dopo. Siamo nell’agosto del 1993. Sarajevo 2 si chiama “Mir Sada. Si vive una sola pace”. L’ipotesi è più ambiziosa: dar vita a una presenza permanente, portare diecimila persone a Sarajevo, dare maggiore spessore e meno episodicità all’iniziativa. L’appello della manifestazione dice: “Vogliamo sollecitare l’Onu perché nelle aree di crisi i caschi blu vengano affiancati da un corpo non armato e nonviolento per abbassare le tensioni e favorire il dialogo [...] vogliamo offrire un contributo alla Comunità internazionale per una credibile ripresa delle trattative di pace”. Il 12 agosto, dal porto dalmata torneranno in Italia gli ultimi 150. In tutto 1.600 persone (l’adesione sarà minore del previsto e anche l’associazione francese Equilibre, che aveva promesso di portarne migliaia, si presenterà all’appuntamento con poche centinaia di persone) che tenteranno di arrivare a Sarajevo, ma dovranno rinunciarci di fronte ai feroci combattimenti (ben otto punti di fuoco) che dopo Gorni Vakuf infestano la strada per la capitale bosniaca. Partner francese dei Beati i Costruttori è per l’appunto Equilibre, una Ong che poi verrà messa sotto inchiesta per malversazioni e che – per raccogliere i suoi progetti per i suoi progetti in Africa – scriveva sui suoi poster: “Vi si volevano mostrare gli occhi imploranti di un bambino ruandese, ma è sempre più difficile trovarne uno vivo”. La manifestazione è caratterizzata, anche in questo caso, da lunghissime assemblee e capannelli. Al lago artificiale di Prozor i pacifisti si accampano in attesa di 51 proseguire. La località è a poche centinaia di metri dalla linea del fronte e si sentono le cannonate. Ogni tanto arriva un elicottero che trasporta i feriti dei combattimenti. In molti si raccomandano – sotto una cappa di caldo infernale – di non nuotare nel lago e di non assumere atteggiamenti incoerenti con la missione di pace. Appena si capisce che non si può arrivare a Sarajevo la delusione e la frustrazione investono molti partecipanti. In 58 su un pullman decidono di continuare lo stesso. C’è il rischio che i serbi usino i pacifisti, una volta arrivati a Sarajevo, come ostaggi e scudi umani. Fare il diario, raccontare quest’esperienza – pur non avendone preso parte – è relativamente semplice. Non solo per i ricordi dei molti che ci sono stati, ma per i numerosissimi “appunti di viaggio” dei partecipanti pubblicati su bollettini e giornali e sui quali è facile seguire l’iniziativa. “Mosaico di pace”, “Aspe”, “Guerre e pace”, “Fogli di collegamento”, “Rivista Anarchica”, “Azione nonviolenta”, “Qualevita”, “l’Espresso”, “Tempi di fraternità”, “Azione sociale”, “Segnosette”, “Missione oggi”, “Confronti”, “il manifesto”, “Liberazione”, “Adista”, Avvenimenti”, “Smemoranda” dedicano ampio spazio agli avvenimenti di quei giorni. Soprattutto ospitano in seguito articoli, riflessioni e lettere dei pacifisti che ci sono stati. Ed è proprio in questi “appunti di viaggio”, in questi articoli, nei diari che i dubbi e gli scetticismi verso l’iniziativa e la sua struttura sono più espliciti. Molti mettono l’accento sul lato soggettivo dell’“impresa” di raggiungere Sarajevo, ma anche sulla sua vanità. Lo Vecchio è dell’associazione “Gandhi, King, Khan” di Brescia: “Nel mio gruppo qualcuno non teme di morire per una causa ‘grande’, ma per una causa ‘inutile’; alcuni pacifisti ritornano indietro ma coloro che rimangono ‘persistono nel Sarajevo-dream’”. Anche Fausto Martinetti sulle colonne di Mosaico di pace (il mensile di Pax Christi) rievoca il sogno, raccontando dell’attesa a Spalato: “Si dorme come si può sotto le stelle, sognando Sarajevo. L’unica cosa di cui si parla”. Ci sono anche comunisti greci che dicono: “Sarajevo o morte”. Una volta svanito il sogno, la tensione emotiva viene meno. Ricorda il giornalista Ochetto: “La maggioranza si è reimbarcata a Spalato con un diffuso senso di frustrazione”. Mentre ancora è incerta la conclusione dell’iniziativa le cose all’interno dei gruppi di partecipanti non vanno troppo bene. Disorganizzazione, mancanza di comunicazione, difetto di democrazia i problemi principali. Fabrizio Forti – uno dei principali protagonisti dell’iniziativa e stretto collaboratore di Bizzotto – ricorda le assemblee e le discussioni: “Il seme della guerra è dentro di noi: divisioni, incomprensioni, violenza verbale”. Una voce tra le più critiche è quella di Mao Valpiana, del Movimento nonviolento e redattore di Azione nonviolenta, la rivista fondata da Aldo Capitini. Valpiana fa un bilancio sugli obiettivi dell’iniziativa e i suoi concreti risultati: “Il volersi porre come forza di interposizione di pace, ma non esserci riusciti, l’essere stati elemento 52 di testimonianza, ma non di cambiamento, l’aver saputo mobilitare persone e mezzi di grande quantità, per essere poi costretti all’immobilismo di lunghe assemblee e altrettanto estenuanti trattative deve far riflettere”. Valpiana parla di bluff nell’aver annunciato dapprima 100.000 pacifisti a Sarajevo e poi essere in realtà 1.600 e sottolinea il velleitarismo di “fermare la guerra” con l’interposizione fisica. “La nonviolenza oltre a testimoniare deve vincere sul piano politico”. Anche Emanuele Rebuffini, sul periodico “Confronti”, non è meno tenero. Durante la marcia “è emerso un certo fanatismo in talune persone che si dichiaravano disposte a raggiungere Sarajevo a ogni costo [...] a ciò si deve aggiungere il comportamento vacanziero dei turisti di guerra”. Sarajevo 1 e Mir Sada hanno una coda nei primi di ottobre. Padre Angelo Cavagna è un padre dehoniano di Bologna; Fu il protagonista alla fine degli anni ’80 di una prolungata campagna per il riconoscimento del diritto dell’obiezione di coscienza. Attuò uno sciopero della fame integrale di 26 giorni. Padre Cavagna e altri tre pacifisti decidono di andare sul ponte di Vrbanja, dove ci fu la prima vittima della guerra. Il ponte divide la città in due ed è il luogo preferito dai cecchini. Vogliono fare un’azione simbolica: portare i fiori sul punto in cui fu uccisa la prima vittima. Ma è estremamente rischioso. Nessuna delle due parti (serbi bosniaci e croati, musulmani) dà il via libera. Cavagna e gli altri decidono di fare in ogni caso l’azione, nonostante in molti lo sconsiglino. C’è anche Gabriele Moreno Locatelli, un ex frate. Lui non è d’accordo con chi vuole andare a tutti i costi sul ponte, ma ci va lo stesso. Per solidarietà, per non lasciare soli i suoi compagni. Quando arrivano sul ponte sono accolti da una prima mitragliata di avvertimento. La seconda colpisce Moreno Locatelli che muore sul colpo. È il quarto pacifista italiano che muore durante questa guerra. Si apre un dibattito sul significato di questa morte e sull’utilità di questa azione. A Sarajevo, con i volontari di pace, c’era il fotografo Mario Boccia, anche lui in molte occasioni un volontario, che ricorda una frase di Moreno: “Noi non abbiamo il diritto di essere così presuntuosi da voler insegnare ai cittadini di Sarajevo come si muore per la pace”. Mario Boccia dice che “quello pagato è un prezzo troppo alto” ed elenca tutta una serie di punti per sottolineare la scelleratezza dell’azione: “Non è vero che l’azione era concordata con le parti in conflitto [...] nessuno nella città sapeva dell’azione del ponte di Vrbanja [...] che senso ha scegliere per una manifestazione un ponte costantemente sotto tiro lontani dagli sguardi di qualsiasi civile?”. Don Albino rinvia alla responsabilità individuale di ciascuno e non accetta critiche. Insieme a Luisa Morgantini scriviamo un articolo per “il manifesto”: “la morte di Moreno è un evento che deve interrogarci rispetto a un’azione improvvisata e di una simbolicità fine a se stessa [...] che non può essere inseguita a ogni co53 sto quando sono in gioco vite umane. Che non hanno minor valore quando si tratti di pacifisti, anziché di vittime della guerra”. Aspettiamo una risposta pubblica da parte degli organizzatori dell’azione. Che non arriverà mai. Ottobre La guerra a Mostar. È l’inizio di ottobre. Arriviamo a Spalato con un aereo da Roma. Il volo è insolitamente affollato: molti funzionari delle agenzie umanitarie, giornalisti, profughi che rientrano. Ci riuniamo presso la sede della Cooperazione del ministero degli Affari Esteri con Margherita Paolini e altri volontari. Il Consorzio italiano di solidarietà ha nella città croata una sede operativa che si trova però in un’altra zona. L’ufficio della Cooperazione è sul lungomare; una sede spoglia, con molte stanze ma con poche sedie e qualche computer, con fax e terminali di agenzie. In compenso ci sono molti elmetti, walkie-talkie e qualche giubbetto antiproiettile. L’obiettivo per il quale siamo qui è portare aiuti ai musulmani di Mostar, che sono assediati dai croati sulla riva est della Neretva. Accerchiati dalle milizie croate non hanno contatti con l’esterno. I posti di blocco della Hvo (la milizia militare croata) impediscono l’arrivo dei convogli. Ormai sono passati cinque mesi dall’inizio della guerra croato-musulmana. Una parte dei musulmani è stata deportata nel campo di concentramento dell’“Helodriom”. Con Margherita Paolini – che lavora alla Cooperazione – si fa l’esame delle difficoltà: i posti di blocco, i punti critici dove possono sparare i cecchini, i collegamenti radio, le macchine. Alcuni di noi siedono per terra, altri sui tavoli. Ragiona in modo meticoloso sui possibili imprevisti, le difficoltà, le strade da fare. Controlliamo i giubbetti antiproiettile, i caschi. Mario Zichina, il nostro focal point dell’Ics a Spalato, ci avverte beffardo: “Guardate che sono giubbetti antischegge, una pallottola li trafigge. Anche con un giubbetto antiproiettile non ci fate granché contro le granate. Gli elmetti sono solo una sfoglia d’acciaio”. È lui il conducente della jeep che ci porterà a Mostar. La mattina, la sveglia è alle cinque e mezzo. Spalato è deserta. Si parte. Sono in macchina accanto a Gianfranco Bettin. Sul sedile davanti c’è Raffaella Bolini. Prima tappa Medjugorje: qui sono di stanza i soldati dell’Unprofor. Dovremmo essere inclusi nel convoglio dei caschi blu spagnoli, ma ce lo impediscono. Si discute e si litiga, Margherita li sfotte. Ma non mollano. Triste la sorte dei caschi blu in ex Jugoslavia: impotenti e costretti alla rinuncia. Sono dei vigili urbani della guerra, forse solo dei testimoni al di sopra delle parti. Non ci vogliono. “Oggi è una giornata particolare. A Mostar si spara. Non potete venire con noi; ci sono i parlamentari che hanno bisogno di una particolare protezione. Noi non ci assumiamo la responsabilità”, ci conferma il comandante spagnolo. Allora noi ci accodiamo. Que54 sto non ce lo possono impedire. Ma la differenza tra lo stare dentro o alla fine del convoglio è grande. Nel primo caso, se vieni attaccato, i caschi blu ti difendono, nel secondo, qualsiasi cosa ti succeda ti abbandonano sul posto. È frequente: a un posto di blocco fanno passare i mezzi dell’Onu e quelli umanitari vengono fermati per un controllo dei documenti e dei carichi. Questi ultimi sono costretti a continuare da soli, senza nemmeno l’ausilio della vicinanza, che potrebbe essere deterrente dei blindo bianchi delle Nazioni Unite. Anche oggi succede lo stesso. All’improvviso il convoglio di caschi blu parte e ci lascia sul posto. Ci organizziamo, prendiamo delle scorciatoie, corriamo all’impazzata e lo raggiungiamo prima dell’ultimo posto di blocco dell’Hvo in vista di Mostar. Il convoglio di aiuti umanitari è organizzato congiuntamente dall’Ics e dalla Cooperazione italiana. Sono cinque camion. Che portano 37 tonnellate di aiuti (20 di farina, 5 di olio, 5 di fagioli, 1,5 di latte, 1,7 di alimenti per bambini e altro ancora). È già qualcosa. Il convoglio attraversa i posti di blocco della Hvo e dell’Armija bosniaca e finalmente giungiamo nelle prossimità di Mostar. Sulla strada incontriamo case completamente bruciate, accanto a quelle intatte. Sono lì, ancora dalla prima fase della guerra, archeologia di una pulizia etnica che ha selezionato le case da distruggere e quelle da salvare. Molti minareti sono stati rasi al suolo dai serbi. Mostar è in gran parte distrutta. Arriviamo all’aeroporto – divelto nelle strutture – e, dopo aver percorso la tetra ed esposta pista dell’aeroporto devastata dai colpi di mortaio e pericolosamente seminata di mine (sicuramente italiane), ci inoltriamo in una stradina di campagna. All’improvviso ecco il primo posto di blocco musulmano. I soldati sono nascosti in trincee e in buche celate dal fogliame. Sono nervosi. È da tanto tempo che non arriva più un convoglio occidentale. L’Onu è mal tollerato: detestano i soldatini spagnoli. Passano diversi minuti, ma finalmente un miliziano ci chiede una sigaretta. È il segno del disgelo. Sulla riva sinistra della città siamo accolti dai saluti e dalla gente e dai bambini che corrono verso la strada. “Bonboni, cichlets, sigaret!”, gridano i bambini correndo pericolosamente a pochi centimetri dai camion e dalle camionette e allungando le mani dentro i finestrini. Ora c’è il pezzo più pericoloso: l’attraversamento di uno stradone esposto ai cecchini croati. Lo percorriamo con l’acceleratore a tavoletta. Tutto bene. Entriamo nel cuore della città nella tarda mattina a velocità ridotta. Lungo la strada ci sono centinaia di persone che ci saltano addosso contente; siamo emozionati. Quasi ogni palazzo è ferito e bucato da proiettili e granate, strade dissestate dai bombardamenti, mine nei passaggi strategici: è molto peggio di Sarajevo. Solo un ponte, su sette, è rimasto in piedi: il più vecchio, ha cinquecento anni di storia. Donne e anziani corrono accovacciati – per paura dei cecchini – su quell’unico ponte ancora rimasto in piedi, per andare a prendere l’ac55 qua a una delle ultime fonti ancora in funzione. I cecchini (croati) li guardano dai binocoli dei loro fucili. La Carja, il vicolo degli antiquari che porta al Ponte Vecchio, è desolata e piena di macerie. Un tempo era la via delle botteghe e degli artigiani. Dal 9 maggio scorso sono stati quasi settecento i morti musulmani della guerra a Mostar. Nell’incontro i rappresentanti delle associazioni che lavorano in progetti di pace e di solidarietà con Mostar (sono più di venti città, tra cui: Trieste, Forlì, Cesena, Ivrea, Bari, Gambettola, Aosta) hanno distribuito un messaggio ai cittadini: “Siamo oggi nella parte di sinistra della Neretva, perché avevamo, abbiamo amici tra voi, perché patite una violenza che mai potrà essere risarcita. Andremo anche nella parte destra della Neretva tra la gente come voi, la gente della vita quotidiana che si mescolava nei mercati, nei bar, nelle strade, nei luoghi di lavoro. Vorremmo essere un ponte tra voi, ora che i ponti di pietra non ci sono più per passeggiare”. Le donne ci chiedono come poter fuggire dalla città. I rom sono i più angosciati. Implorano. Ognuno ci racconta la sua storia. Altri scherzano e tentano di parlare un italiano che è misto al veneto. Ogni tanto lo sparo di un cecchino isolato interrompe il silenzio irreale di una calma inattesa. Volti emaciati, corpi smagriti e sguardi impauriti ci circondano , chiedendo aiuto, qualcosa da mangiare, la fine di questo calvario. Dopo un paio d’ore – prima che faccia notte – rientriamo a Spalato. Dicembre Tre città, una pace. Altra carovana per la pace: per Sarajevo, passando per Zagabria e Belgrado. Il 27 si parte da Trieste. Assemblea dei partecipanti. Si discute e molti chiedono: “Andremo anche a Sarajevo? Sarà possibile andare nei campi profughi?”. Prima di partire arriva una telefonata: “Sono il console della repubblica di Jugoslavia a Roma. Fermatevi, non potete partire”. Perché? “La vostra visita non è gradita. Sarete fermati alla frontiera con l’Ungheria. La vostra visita viene da noi presa come un’iniziativa antiserba. A Belgrado c’è molta violenza e delinquenza. Potrebbe essere pericoloso. Ci preoccupiamo della vostra incolumità”. Segue un battibecco; avverto il ministero degli Esteri e i deputati pacifisti. La situazione si risolve promettendo che incontreremo anche il sindaco di Belgrado e finalmente si parte. La sera si arriva a Zagabria. Il mattino dopo, teniamo due forum. Nel primo si confrontano le forze di opposizione. Vivono nell’incertezza e sono ancora poco risolute contro il regime di Tudjman. Parla Ivan Cicak: “Il nazionalismo è la via d’uscita delle vecchie classi dirigenti comuniste, è il virus che ha dato il via alla guerra”. Petar Ladevic, presidente del Forum democratico dei serbi di Croazia ricorda che i serbi di Croazia sono discriminati. Chi ha un cognome serbo a Zagabria, preferisce cambiarlo. Qualcun altro dice: “ 56 Ma se i serbi avevano i migliori posti a Zagabria, sotto Tito!”. Ladevic continua: “Viviamo in un regime nazionalista di massa. E anche un regime nepotista. Il figlio di Tudjman è il responsabile dei servizi segreti”. Molti tra i pacifisti presenti prendono appunti e stabiliscono contatti per invii di aiuti, per gemellaggi con campi profughi, dove organizzare il volontariato e l’assistenza. Il 29, in piazza Jelacica si snoda il nostro serpentone di pacifisti con cartelli e candele. Fino a qualche ora prima si era discussa l’opportunità di tenere la manifestazione. I pacifisti croati non erano pronti e preferivano che la manifestazione non si svolgesse. La gente guarda con curiosità e prende i volantini. Solo qualche mese prima un gruppo di pacifisti tedeschi, per una iniziativa simile, era stato malmenato da una squadra di fascisti locali. Va tutto bene, ma è solo una piccola manifestazione simbolica senza seguito. Il 30 arriviamo – quattro pullman, due minibus e diverse macchine – a Belgrado. Il traffico non manca, ma i negozi sono vuoti. L’embargo ha prodotto i suoi devastanti effetti. Dall’inizio della guerra la produzione è diminuita del 50% e il valore del marco tedesco al mercato nero è aumentato di 5mila volte rispetto al dinaro. I disoccupati sono più di 2 milioni e l’inflazione cresce dell’1% all’ora. Incontriamo il responsabile serbo dell’agenzia di protezione dei rifugiati che ci ospita in una sede dall’intonaco scrostato. La sua segretaria va a prendere lo stipendio. È fatto di molti milioni di dinari: ovvero quattro marchi. Se non li cambia subito in valuta straniera domani non valgono nemmeno mezzo marco. Si scusa, prende il cappotto e se ne va. L’incontro finisce dopo pochi minuti: dobbiamo andare al palazzo che ospita gli uffici della “Repubblica serba di Bosnia Erzegovina”, dove riusciamo ad avere i nostri pass per poter entrare nella parte serba della Bosnia. Dentro gli uffici l’atmosfera è tesa e tetra. Manifesti di propaganda bellica pendono dalle pareti. Ricordano in qualche modo i manifesti della Dc e del Pci per le elezioni del 1948. “Se vinceranno i musulmani...”, e un’onda verde (il colore dei musulmani) di vernice che macchia l’Europa. Incontro, con Tom e altri 3-4 esponenti del nostro gruppo, Slobodanka Gruden, sindaca di Belgrado. Non volevamo, ma abbiamo dovuto accettare un compromesso, altrimenti non ci avrebbero fatto entrare in Serbia. Siamo sporchi e malmessi, dopo quasi 24 ore di viaggio in pullman. È glaciale e il volto imbellettato non muove un muscolo della faccia. Le televisioni ci riprendono e siamo imbarazzati. “Aiutateci, le sanzioni stanno uccidendo la popolazione. I suicidi tra gli anziani sono aumentati”. Ma le organizzazioni umanitarie dell’opposizione di lei non si fidano. È una pedina di Milosevic. Ci impegniamo a inviare medicinali a un ospedale psichiatrico. Il pomeriggio incontriamo le Donne in nero (una di esse ci rimprovera l’incontro con la Gruden: “così legittimate il potere e sconfessate noi”, sono molto arrabbiate) e un giornalista di “Vreme”, che parla delle censure 57 del regime di Milosevic. Siamo in un grande salone della Casa della gioventù di Belgrado, mezza discoteca e mezza sala giochi, mezzo pub e mezzo circolo culturale. Stascia, delle Donne in nero, dice: “Ci chiamano puttane quando manifestiamo in piazza, ma noi continuiamo il nostro lavoro. Aiutiamo tutte le donne, quelle violentate, quelle che soffrono nei campi profughi”. Continuiamo il dibattito con esponenti del Depos (il cartello delle forze di opposizione, tra cui ci sono anche forze nazionaliste e monarchiche), tra i quali un giovane yuppy balcanico dice: “Non potete capire il problema del Kosovo. Gli albanesi sono arrivati anche da voi, in Puglia, in Calabria. E lì, cosa hanno fatto? Mica hanno chiesto l’indipendenza o rivendicato l’unione con l’Albania! Prima della guerra in Kosovo abitava il 50% di serbi e il 50% di albanesi. Poi ci fu lo spopolamento serbo, anche perché Tito promise il Kosovo all’Albania. Oggi gli albanesi vogliono la secessione, ma devono capire che questo è impossibile, a prescindere dal fatto che sono ormai il 90% della popolazione locale. Ma anche a Miami il 60% sono cubani; cosa succederebbe se anche lì rivendicassero la secessione o l’unione a Cuba?”. Questi deputati del Depos dovrebbero rappresentare l’opposizione democratica a Milosevic; ma spesso la lotta è tra due nazionalismi ugualmente pericolosi. Il loro leader – Vuk (che significa “lupo”) – Draskovic parla e fa il mistico: “Dio e Patria trionferanno. Costruiremo la grande nazione serba”. Partiamo per Sarajevo. Facciamo il viaggio di notte. La neve e la nebbia ci fanno rallentare. Abbiamo macchine poco affidabili: un pulmino Ford regalato pieno di aiuti, una Renault 4 vecchia di dieci anni, un’Audi poco adatta a queste strade di montagna. La guida Mario Boccia, il fotografo freelance, che ci segue dall’inizio della guerra. Alle tre di notte siamo al confine tra la Serbia e la Repubblica serba di Bosnia. Per passare il confine siamo costretti a bere grappa e prenderci pacche sulle spalle – non si sa se rassicuranti o minacciose – dai soldati ubriachi della baracca di confine che ripetono: “Velika Srbi’ja” (grande Serbia) davanti ai ritratti di Mladic e Karadzic. Arriviamo infine a Pale (il quartier generale dei serbi) alle otto del mattino. Dobbiamo fare di nuovo i pass stampa e saliamo fino a un albergo costruito appositamente per le olimpiadi invernali di dieci anni fa. Per arrivare a Sarajevo bisogna attraversare tanti posti di blocco, passare rasenti le colline protette da bandoni di latta e tronchi di legno. Passiamo accanto alle trincee serbe da dove si domina, dall’alto, la città. Da qui si assedia la gente. È un effetto strano vedere questi soldati, i loro volti, e associarli – una volta in città – agli anonimi spari dei cecchini e alle notizie delle tv che ci arrivano in Italia. Hanno barbe lunghe e divise stracciate. Puzzano d’alcool; sono sguaiati e allegri. Sembra il ritratto fatto dalla propaganda, ma è proprio così. Sono insieme a dei giornalisti (Luca Del Re di Video Music, Raffaella Menichini e Marco Calabria de “il ma58 nifesto”, Fabio Benes dell’Ansa) e alcuni operatori dell’Ics. Si arriva all’ultimo posto di blocco. Si perde un po’ di tempo per una consegna che intendiamo fare all’ospedale civile serbo di Sarajevo, non lontano dalla caserma di Lukavica, quartier generale dei serbi che assediano la città. È un ospedale completamente abbandonato dalle agenzie umanitarie, a causa dell’embargo. Privi di attrezzature e di bende, anestetici, siringhe i medici cercano di operare come meglio possono anziani e bambini colpiti da granate e fucilate. Sembra un ospedale da campo, ma è pulitissimo e ordinato. La sala operatoria è un piccolo vano con specchi ossidati e pesanti attrezzature metalliche opache. Ci guidano delle ragazze, una in divisa militare, l’altra, l’addetta stampa, si chiama Bjelosnjezka, cioè: Biancaneve. Non è il suo soprannome, ma il nome di battesimo. Nel suo ufficietto disadorno è aperto sul tavolo un romanzo di Hermann Hesse (Demian) mentre il giradischi fa cantare i Doors. Entrambe sono gentili e spiritose. Sono ragazze, studentesse che potresti incontrare a Torino, Barcellona, Amburgo in una libreria o in una discoteca. Parlano pianamente, senza il furore bellico degli uomini. L’altro ieri hanno sparato proprio qui, fuori dalla finestra. State attenti quando uscite”, dice con normalità, senza agitazione, Biancaneve. Se avesse detto: “Qui fuori, sulla destra, c’è il droghiere”, avrebbe usato lo stesso tono. La guerra è ormai un dato di fatto, un colpo di un cecchino (in questo caso un musulmano) è una disgrazia che cade dal cielo: come un tumore o un incidente in macchina. Decidiamo di partire: di corsa sulla pista dell’aeroporto con il pedale dell’acceleratore a tavoletta. È ormai notte e bisogna guidare a fari spenti per le strade della città. Sono 7-800 metri da fare in pochi secondi. Mentre corriamo a 110 km sbirciamo un Hercules italiano parcheggiato sulla pista che sta terminando lo scarico dei pallets di aiuti. Passano pochi secondi e siamo dall’altra parte dalla pista: ce l’abbiamo fatta. A Sarajevo – al centro della città – si arriva a notte fonda. Incontriamo Ibrahim Spahic che si sbraccia quando ci vede. Abbracci, pacche sulle spalle. È dimagrito ancora dall’ultima volta: i pantaloni senza cintura gli scivolano giù e la camicia è lasca sull’addome. Poi ci porta subito al nostro alloggio. Siamo ospiti da delle ragazze, europee, molto simili a quelle incontrate poco prima alla caserma di Lukavica. Si chiamano Jasna e Diana: sono due sorelle di cui è difficile dire di che etnia siano. Nella loro genealogia familiare si alternano nonni e bisnonni serbi, croati, musulmani. Vivono a Sarajevo e dalla città non se ne sono andate quando è scoppiata la guerra nella capitale bosniaca nell’aprile del 1992. I loro parenti sono invece partiti per la Slovenia e la Croazia, e anche per la Serbia. I nonni e il figlio di Diana, Goran di quattro anni e mezzo, vivono a Belgrado. Diana non vede Goran da diciotto mesi. Si commuove quando ne parla. Jasna e Diana, insieme agli inquilini di un condominio di 59 quindici piani – vicino all’ospedale di Sarajevo, Kosevo – ci ospitano. Le giornate a Sarajevo si consumano uguali l’una all’altra. Il 1° gennaio centocinquanta granate, il giorno dopo, mille, dice la radio. La notte ci si sveglia per gli scoppi. Noi. Ma per loro di Sarajevo è ormai storia ordinaria da venti mesi. “Non puoi mai dire se e quando arriverà un proiettile o una granata. Viviamo nell’attesa, così”, dice Jasna. Stiamo pensando ad altre iniziative di solidarietà: la distribuzione di pacchi-famiglia, la gestione di una struttura che ospiti bambini orfani di guerra, l’organizzazione di convogli umanitari. Ma non solo. Ibrahim Spahic dice: “Abbiamo bisogno non solo di viveri e di medicinali, ma anche di continuare a sperare. Abbiamo bisogno che giornalisti, artisti, scrittori vengano qui ad ascoltare e a dare un contributo. Anche con il teatro, la musica e il cinema si deve costruire un legame di solidarietà. È una forma di resistenza alla guerra che vuole cancellare la vita normale”. Ed ecco alcune idee: l’organizzazione di una rassegna di video musicali e l’invio di almeno cinquemila libri a Sarajevo. La biblioteca della città è stata distrutta. Molti dei volumi sono andati bruciati. Decidiamo insieme a Ibrahim il nome della campagna “Sarajevo, cuore d’Europa” per raccogliere migliaia di libri, carta per i giornali, fax e computer. E, di ritorno in Italia, organizziamo gli aiuti dalle librerie e dalle case editrici. A Siena (dove l’università, rettore Luigi Berlinguer, per prima aveva lanciato l’idea) si attivano numerose iniziative e si tenta di coordinare la campagna a livello europeo: analoghe iniziative di solidarietà si svolgono in Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania. Si aggregano dandoci una mano Ginevra Bompiani (che si attiverà moltissimo nei mesi successivi) e la Roberta Einaudi che mi vengono a trovare nel nostro ufficietto dell’Associazione per la pace a Roma. Da Firenze mi mandano una copia delle partecipazioni di matrimonio di Arianna Papini e Federico Gasperini, dove c’è scritto: “Arianna e Federico hanno aperto a loro nome il c/c 1640-00 presso l’agenzia n° 10 della Banca Toscana di Firenze. La somma raccolta con l’aiuto di parenti e amici andrà a fare parte dell’iniziativa in atto presso l’Università di Siena volta alla ricostruzione della Biblioteca di Sarajevo, distrutta dai bombardamenti”. 1994 “Qualcuno dovrà dopo tutto” Settembre Morte a Sarajevo. Harris Prolic ha 33 anni. È un giovane regista di Sarajevo che ha girato un lungo documentario: “Morte a Sarajevo”. Il film, proiettato al Festival di Taormina di luglio scorso, è piaciuto. Il documentario di Prolic – un’opera fatta di un massacrante lavoro di montaggio e di sequenze rappate – riproduce l’inferno di Sarajevo usando la metafora dei gironi 60 danteschi, assegnando a ciascuno di questi un corrispondente vizio della guerra: la pratica criminale dell’assedio, la vigliaccheria infame dei cecchini, la vergogna dei campi di concentramento... Il film è un bel lavoro, ma non saprò mai cosa succede negli ultimi tre minuti del girato: va via l’elettricità e non ritornerà fino alla nostra partenza. Sarajevo è stretta tra una precaria normalità di città assediata e l’imminente ripresa della guerra, quella combattuta e quella che porterà l’inverno con il freddo e la mancanza di approvvigionamenti. Per ora negozi e bar (nel centro) sono aperti, anche se sono pochi quelli che se lo possono permettere. Sono con Ginevra Bompiani – dormiamo nella casa di Prolic – per portare avanti il progetto a favore della Biblioteca di Sarajevo. Siamo arrivati a Sarajevo con un aereo dell’Unprofor da Zagabria. Con noi c’è anche Predrag Matvejevic. Dinoccolato e con gli occhi ridotti a piccole fessure tra le segnate borse e le gonfie palpebre, Prolic commenta: “La morte a Sarajevo non è solo quella dei poveri ammazzati; è la morte di una città, di una storia, di una cultura. Non c’è speranza, è tutto finito. Sarajevo è morta, ma anche l’Europa qui ha trovato la sua tomba”. A Sarajevo è sopravissuta per tanti anni una cultura cittadina: chi abita a Sarajevo, non è musulmano, serbo, croato, è sarajevese. Ed è proprio l’idea della cittadinanza a essere stata qui sconfitta sotto il peso travolgente delle identità etniche e nazionali. Protagonista – io narrante – del film/documentario: “Morte a Sarajevo” è Trvtko Kulenovic, uno scrittore apprezzato a Sarajevo che ora è presidente del Pen club, l’organizzazione degli scrittori. Parla un buon italiano, è stato spesso a Siena, Roma, Venezia. Ha avuto la famiglia falcidiata dalla guerra: moglie e figlia ammazzate. Lui si è salvato. “Un giorno, mentre stavamo girando il film – ricorda Kulenovic – ho sentito un grande botto e poi un gran caldo alla coscia; mi sono accorto di un buco dei pantaloni. Per fortuna il cecchino mi aveva solo sfiorato”. Il Pen club, insieme al Centro internazionale per la pace ha dato vita quasi due anni fa – nel pieno della guerra e della mancanza di ogni forma di sostentamento – a un’iniziativa quasi incredibile: la pubblicazione di una bella antologia dei poeti della Bosnia ed Erzegovina (che, con l’Associazione per la pace e anche con l’aiuto di Matvejevic, facciamo tradurre in italiano e gli diamo come titolo una delle poesie incluse: Qualcuno dovrà dopo tutto). “Per noi la cultura è vita, è speranza. Un libro, qui, è una cosa preziosa e indispensabile, come il pane e l’acqua”, dice Kulenovic. Ma, nel momento peggiore della guerra, i libri (molti dicono che fossero solo le bozze di volumi mai pubblicati) sono stati usati per impacchettare le sigarette. Pagine di Rimbaud e Tolstoj che avvoltolano un tabacco scadente. Dizdarevic ne ha tratto ispirazione per un libro: Le sigarette di Sarajevo. Più tardi Miljenko Jergovic pubblicherà il racconto Le Marlboro di Sarajevo: sigarette di guerra avvolte 61 nei vecchi involucri delle Marlboro prodotte nella ex Jugoslavia. Gli europei, i giornalisti che sono venuti qui le collezionano; sono una specie di reperto prezioso nella serie dei souvenir più originali di questo turismo di guerra, che porta ogni giorno centinaia di persone dentro e fuori da Sarajevo. C’è un giro impressionante (e anche un certo mercato nero) di press card, blue card e tutto ciò che permette di essere imbarcato sugli aerei Unprofor delle Maybe airlines, come qualcuno con ironia ha voluto chiamare quei voli. A Sarajevo si incontrano molti pessimisti come Harris (“niente sarà più come prima”), ma anche volitivi ottimisti che non rinunciano alla speranza. Tra questi c’è Sejfudin Tokic. Alto e dinoccolato: sembra un ragazzone appena uscito dal collegio. È capogruppo, al parlamento di Sarajevo, dell’Unione socialdemocratica bosniaca. Vive a Tuzla, la Bologna bosniaca. È amministrata dalle sinistre, l’unica città dove nel 90 hanno vinto i partiti non nazionalisti. Era con Markovic, a quel tempo. Ma alle elezioni, a parte a Tuzla, vinsero dappertutto i partiti nazionalisti. Il partito riformista di Markovic (con loro c’erano anche il regista Emir Kusturica e il poeta Abdullah Sidran) prese poco più del 10%, ma a Tuzla andò molto meglio e con le altre forze non nazionaliste andarono al governo della città. E decisero di difendere la convivenza con serbi e croati. Tokic e Beslagic (che è il sindaco di Tuzla e presidente dell’Unione socialdemocratica bosniaca) rappresentano l’alternativa a Izetbegovic, che non a caso ha tentato di rovesciare l’amministrazione di Tuzla attraverso vari espedienti. Mentre siamo ancora a Sarajevo, per la cerimonia dei 1000 giorni di assedio, c’è un ricevimento, è la serata conclusiva. Tokic mi chiede un incontro; per il giorno seguente, all’una, alla sede del Partito. Ci sarà anche Beslagic. Il giorno dopo, Sarajevo è calma: la tregua tiene. Sembra quasi che nessuno spari più. Incredibile, ma si passeggia tranquillamente anche lungo la Milijacka, il fiume di Sarajevo: è la passerella davanti alle postazioni dei cecchini. Ogni tanto echeggia un tiro. Puntuali all’una ha inizio l’incontro. C’è anche Drazena Peranic, è una giornalista e lavora all’Aim (Alternative Information Media), una rete di giornalisti indipendenti jugoslavi. Scrivono articoli e li mandano alle agenzie di stampa internazionali. In pochi li riprendono, solo i periodici specializzati, come il Balkan War Report, che si pubblica a Londra. Beslagic e Tokic hanno appena tenuto una conferenza nella città in cui hanno messo sotto accusa il nazionalismo del Partito di Azione Democratica (Sda). Spiega Tokic: “Izetbegovic ha messo suoi uomini di partito in ogni posto di potere. C’è un uomo dell’Sda a capo dell’esercito, della polizia, della televisione. Lui è il nostro Berlusconi”. Tokic viene al dunque: “Nei territori serbo-bosniaci da tempo c’è un piccolo gruppo di parlamentari che si oppone a Karadzic. Sono una dozzina. Siamo in contatto con loro. Abbiamo già fatto un incontro in Macedonia. Con loro comu62 nichiamo quando usciamo fuori dalla Bosnia, quando possiamo parlare con più tranquillità. Finora si è trattato di incontri segreti, ma siamo pronti a promuovere un incontro pubblico e rendere noto un accordo che stiamo preparando e che prevede la possibilità di un dialogo per la pace, sulla base del riconoscimento dell’integrità della Bosnia Erzegovina. Sareste disponibili a organizzare questo incontro in Italia? Altrimenti c’è la possibilità che si faccia in Ungheria”. Proprio così. In venti, trenta secondi Tokic snocciola le tre cose che doveva dire. Gli italiani e i balcanici hanno questo in comune: di prenderla sempre alla larga e da lontano e arrivare al punto dopo mezzora. Ma Tokic non è fatto così. Vale la pena ricordare come è entrato in politica: laureato in biologia era un esperto delle doti provvidenziali delle erbe curative che si potevano trovare sulle montagne intorno a Sarajevo. Ne fece anche un libro. Andò dall’allora premier Markovic per perorarne la causa. Ma Markovic lo preferì come politico invece che come botanico. Sulle montagne intorno a Sarajevo, Tokic da quel 6 aprile del 1992 non c’è più tornato. Che da quei monti, per lui prodighi di virtù curative, ora arrivi la morte è uno dei paradossi di questa guerra. Beslagic è un contadino furbo e concreto. Sembra lo zio di Tokic, Insieme sono una coppia piacevole: si fanno le battute e si divertono. Io parlo. Beslagic annuisce e sorride. Drazena Peranic traduce. Rispondo: “Mi sembra interessante... può essere lo sbocco... abbiamo sostenuto sempre le opposizioni... certo, la situazione è delicata...”. Beslagic mangia una tartina, Tokic tamburella l’indice sul tavolo. Naturalmente, la riposta è: sì. L’incontro è finito. “Okay, ciao, ciao. Ci sentiamo per telefono, a presto e buon viaggio”. Esco dalla stanza e guardo l’orologio. L’una e sei minuti. Sei minuti per un’iniziativa che si può considerare importantissima: si incontrano i campi “avversari”, seppure a livello delle opposizioni per un accordo politico. È da tempo che i pacifisti lo dicono: vanno sostenute le opposizioni democratiche, le forze non nazionaliste e di pace in tutti i territori della ex Jugoslavia. 1995 Tuzla e Langer Maggio-luglio I nemici si incontrano. Organizziamo la riunione. A fine maggio ecco arrivare Milorad Dodik, il capo dei parlamentari di Pale che si oppongono a Karadzic. Da parte bosniaca ci sono: Tokic, Kulenovic (direttore di Canale 99 di Sarajevo), Simic (del Consiglio serbo di Tuzla) e Drazena Peranic. L’incontro si tiene a Perugia, in una località lontana dal centro della città. La riunione è naturalmente a porte chiuse. Dodik e Tokic si conoscevano da tempo. Fino al 1992 militavano nello stesso partito riformista di Markovic. 63 Poi la guerra li ha divisi. Tokic ci dice che Dodik non si è macchiato di alcun crimine di guerra: altrimenti non l’avrebbero incontrato. Sono più o meno della stessa generazione. Dodik vive tra Banja Luka e Belgrado. È un imprenditore: ha un mobilificio e un grande magazzino. È molto intimorito. È teso: parla sottovoce con tono monocorde. Cerchiamo di metterlo a suo agio, ma senza riuscirci. Dodik scaglia però parole di fuoco contro Karadzic: “Va riconosciuta l’integrità della Bosnia Erzegovina, anche se andranno riconosciute più unità costitutive. Dobbiamo sconfiggere il nazionalismo di Karadzic e costruire una soluzione politica al conflitto; nessuna pace verrà dalle armi”. Anche le parole di Tokic sono molto dure verso il suo presidente: “In realtà Izetbegovic e Karadzic si sostengono l’un con l’altro; sanno che la loro sopravvivenza politica è legata alla guerra. La pace li scalzerebbe via. Ecco perché entrambi sono favorevoli alla continuazione dei combattimenti”. L’incontro di Perugia si chiude con una dichiarazione di cinque punti che prevede l’integrità della Bosnia Erzegovina, l’accettazione del piano di pace del gruppo di contatto, la punizione di tutti i criminali di guerra, la continuazione del dialogo tra le opposizioni. Facciamo un incontro allargato anche a esponenti politici per spiegare il senso dell’iniziativa. Viene anche Piero Fassino che sminuisce il senso della nostra operazione: “Serve un accordo per gradi e piccoli passi e con il governo in carica di Izetbegovic; la vostra rischia di essere un’iniziativa illuminata, ma senza seguito”. Tokic si arrabbia e gli risponde duramente. Il 25 maggio, nel momento di rendere pubblica la dichiarazione, scoppia la granata serba su un bar di Tuzla: oltre ottanta morti. Sono quasi tutti ragazzi. L’atmosfera dell’incontro è sconvolta e surreale. Tutti chiamano a Tuzla per sapere se ci sono conoscenti tra i morti: Simic perde due parenti. Tokic e Beslagic non rappresentano solo una forza politica (i socialdemocratici), ma anche una città: Tuzla. Ogni sbaglio e ogni pretesto è buono per metterla sotto accusa da Sarajevo: si aspetta il momento buono per un colpo di mano, dell’Armija, per porre fine all’amministrazione democratica e commissariarla. Tuzla è diventata in questi mesi meta di molte nostre iniziative pacifiste e di solidarietà. A Tuzla il Consorzio italiano di solidarietà ha aperto un proprio ufficio per seguire un progetto sponsorizzato dall’Unicef: si tratta di fornire ai neonati e ai bambini del “cibo supplementare”, necessario per la loro crescita. A Tuzla la Helsinki Citizens Assembly promuove convegni e iniziative, tra cui la propria assemblea generale, cui partecipano seicento delegati da quaranta diversi paesi, croati e serbi compresi. A Tuzla si riunisce il Verona Forum, di cui è ispiratore sin dall’inizio Alex Langer. Spesso Tokic e Beslagic lo vanno a trovare a Strasburgo e a Bruxelles; organizzano iniziative insieme. Si sentono di frequente. In Tuzla Langer vede una delle ultime possibilità di mantenere aperta la via della convivenza, l’ultima fiammella 64 della Bosnia multietnica. Dopo la strage del bar, Langer riceve un biglietto da Beslagic che lo prega di diffondere tra i parlamentari europei: “Voi, con la vostra inazione state diventando complici di questo massacro [...] non fate niente [...] Siamo arrivati a un punto di non ritorno”. Poco più di un mese dopo Langer si toglie la vita. Non ho fatto in tempo a raccontargli per bene il senso di questa nostra iniziativa prima della sua morte; solo di sfuggita, qualche cenno quando a metà giugno l’ho chiamato a Bruxelles per chiedergli un articolo per La Terra vista dalla Luna (l’ultimo che ha scritto). Una volta, a un convegno (era il novembre del 1993, a Vicenza) Langer rispose a tono a chi se la prendeva con i pacifisti per la guerra nella ex Jugoslavia: “I pacifisti sono presenti più che mai nel conflitto jugoslavo. Con meno tifo e meno bandiere, meno slogan e meno manifestazioni, ma con un’infinità quantità di visite, scambi, aiuti, gemellaggi, carovane di pace e quant’altro. Un pacifismo (finalmente!) meno gridato, ma assai più solido e concreto. Il che vuol dire anche più complicato, perché la vita è complicata, e la pace non la si ottiene per vie semplicistiche; né con il sostegno unilaterale alle parti ritenute ‘buone’ e ‘vittime’, e neanche con l’idea che un massiccio intervento armato esterno potrebbe davvero pacificare la ragione”. Continuava Langer criticando il pacifismo “tifoso” (quello che ha bisogno di un nemico per scendere in piazza) e quello “dogmatico” ( che antepone astratti principi alla realtà). Diceva di preferire “il pacifismo concreto. Credo che serva di più delle opzioni semplicistiche, buone per accontentare i tifosi, ma sterili rispetto alla realtà”. E concludeva che il nostro compito è di “dare voce e appoggio e credito all’altra Serbia, all’altra Croazia e all’altra Bosnia Erzegovina, a partire dalle quali ricostruire democrazia, diritti, convivenza e integrazione con il resto d’Europa”. Quante volte – in riunioni, convegni, manifestazioni – ho usato queste sue parole e quante volte ho rivendicato l’importanza del pacifismo concreto che ci ha guidato in tutti gli anni delle guerre jugoslave. 65 La guerra umanitaria e il Kosovo 24 marzo 1999 Ore 20. Inizia la campagna di bombardamenti aerei della Nato chiamata Determinate Force contro la Repubblica federale di Jugoslavia. Pomeriggio Riunione in ufficio sulle iniziative da intraprendere in caso di attacco della Nato. Siamo in pochi (esponenti di Arci, Associazione per la pace, Cipax, un rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – Acnur – in Italia e qualche volontario), forse 7 o 8. Si discute di un’eventuale manifestazione di protesta, ma si scarta l’idea. La discussione si concentra sugli aspetti umanitari. Il rappresentante dell’Acnur dice che i piani preparati dal governo sono un bluff: si potranno accogliere al massimo due, tremila profughi. Sul campo, in Albania gestiamo due campi profughi (che sono già arrivati in 20.000 durante l’estate). Vari operatori Ics; Bruno e Carlo sono già a Burrell e Rubik. Aggiorniamo la riunione. Sera Si continua la discussione a cena a casa mia. Con Anna Eva e Paolo parliamo delle nostre attività sul campo: in caso di guerra che ne sarebbe del progetto di microcredito con i profughi a Nis? E dell’orfanotrofio Zmaj di Belgrado, dove mandiamo aiuti? Che ne sarà dei 70 bambini? Sappiamo dalla televisione dell’inizio dei bombardamenti. Si interrompono le trasmissioni, compaiono le prime immagini. La Nato ha iniziato i bombardamenti. Preoccupazione per la sorte dei nostri amici. Bata (nostro aiutante in ufficio) a Belgrado, che fine avrà fatto, sarà stato richiamato alle armi? E Nicolas a Nis? Riceviamo le prime telefonate allarmate, le consultazioni sul da farsi. Il telefonino squilla fino a tarda notte. La riunione di domani è confermata. 25 marzo I capi di governo dei paesi dell’Unione Europea riuniti a Berlino dichiarano il loro appoggio e sostegno all’azione della Nato. L’incontro di oggi pomeriggio è molto più affollato. Ci sono una trentina di gruppi e di organizzazioni: Arci, Acli, Associazione per la pace, Pax Christi, Papa Giovanni XXIII, Cgil, Ong come Cric, Cospe, Gvc e tante altre sigle simili. I partiti non sono stati invitati. Si discute sul da farsi, come mobilitare le associazioni. Prima si parla di un appello contro la guerra: ce n’è uno che hanno preparato i frati francescani di Assisi e la Tavola per la pace. Decidiamo di prenderlo come base della mobilitazione. Ma che fare? Una giornata di protesta in tutta Italia? Una manifestazione nazionale a Roma? Viene avanzata prudentemente la proposta; promuovere un’iniziativa 66 nazionale per il 3 aprile. Se n’era parlato prima dell’inizio con Tom e Raffaella. Tom è prudente, mentre Raffaella sembra determinata a fare una manifestazione a Roma: “Se non la promuoviamo noi, che in questi anni siamo stati a lavorare in ex Jugoslavia, chi lo fa?”. 26 marzo Si riunisce il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Un documento di condanna dell’intervento della Nato viene votato da Cina, Russia e Namibia e respinto dagli altri 12 membri del Consiglio. Intorno alle 17 si fa un sit-in davanti al Parlamento. La manifestazione è improvvisata (200-300 persone). È di fatto una manifestazione autoconvocata: chi ha voluto, ha aderito. Dopo ci spostiamo in un bar, davanti al cinema Capranichetta, per riunirci ancora con le associazioni. Con Raffaella abbiamo già deciso: organizzare una manifestazione nazionale per il 3 aprile. Serafini di Legambiente invece sostiene un’altra proposta: una marcia in Campidoglio a metà settimana (per poi fare una manifestazione nazionale il 10 aprile). Rifondazione vuole fare una manifestazione di studenti. Ci impuntiamo e ci battiamo per il 3 aprile per fare un corteo promosso dalle associazioni che si sono impegnate con l’intervento umanitario in questi anni in ex Jugoslavia. I partiti, se vogliono, aderiranno. Ma il 3 aprile è il sabato prima di Pasqua: ci sono molte obiezioni. Queste derivano dal fatto che a proporre tale manifestazione sono le associazioni: i partiti non hanno ancora detto niente, mentre “il manifesto” punta sul 10 aprile. Noi insistiamo. Pensiamo che la gente ci venga: c’è il clima adatto, riceviamo tante telefonate che ci invitano a muoverci. La nostra argomentazione è: i bombardamenti sono iniziati il 24 marzo. Non possiamo aspettare 17 giorni per fare una manifestazione nazionale. Ironizziamo su chi invita a essere prudenti: è Pasqua e c’è il rischio che venga meno gente per le gite fuori porta. Da Piazza Montecitorio, andiamo a via Tomacelli dove c’è la redazione de “il manifesto”: la riunione si continua in una piccola stanza, dove lavora Gigi Sullo. La discussione si protrae per qualche ora: c’è Cremaschi (segretario Fiom del Piemonte) e altri della Fiom di Brescia (Zipponi) che sono contrari. Loro vogliono farne una per il 10 aprile. Questa manifestazione (la loro) sarebbe la convergenza di diverse forze: Rifondazione, il manifesto, Cgil “di sinistra”, pacifismo “antagonista”. Ci sono una serie di telefonate di Cremaschi e di alcuni del giro de “il manifesto” con Bertinotti per consultazioni (così ci dicono). I redattori de “il manifesto” sono divisi: una parte (Gigi Sullo, Tommaso Di Francesco, Roberta Carlini) è d’accordo con noi, gli altri (tra questi Valentino Parlato) insiste per il 10 aprile. Noi ripetiamo: vogliamo fare una manifestazione gestita dalle associazioni, senza intrusioni dei partiti. Valentino Parlato cerca di convincer67 ci. “Vedrete: non verrà nessuno. Come pensate di fare una manifestazione senza il sostegno di noi sindacalisti? Chi li organizza i pullman?”, chiede Cremaschi. Tutta questa discussione ha un effetto sgradevole. Tatticismi, politicismi, acrobazie di una politica che avevo dimenticato da anni. Alla fine comunque ci impuntiamo e rischiamo. Non ci sono pullman e non ci sono soldi. L’Arci ci può mettere qualche milione di lire, ma poco di più. Lo stesso per l’Ics. Sugli altri non si può contare. Siamo abbastanza soli. La riunione a “il manifesto” si interrompe, bisogna scappare perché Lerner ci ha invitato alla sua trasmissione, per parlare della situazione umanitaria in Kosovo. C’è anche Anna Eva che è molto efficace nel descrivere l’opera dei volontari in Kosovo. Accenno al fatto che c’è anche un’”altra” Serbia, democratica e non nazionalista, e un serbo fascistoide – che viene regolarmente invitato da Lerner perché ha una buona resa televisiva, una sorta di ventriloquo italiano di Milosevic – mi aggredisce. Lucio Caracciolo mi difende. In una pausa pubblicitaria chiedo al sottosegretario Minniti perché non accogliamo in Italia i profughi albanesi cacciati dal Kosovo dalle bande serbe. “Il problema non si pone...”. La trasmissione riprende. 27 marzo Arrivano notizie drammatiche della pulizia etnica delle forze paramilitari serbe in Kosovo. La Nato, per ora, colpisce obiettivi militari solo in Serbia. Mattino. Riunione del Tavolo di coordinamento per gli aiuti al Kosovo presso la Presidenza del Consiglio. Ci sono ministri, funzionari, militari, rappresentanti di associazioni di volontariato. Vogliono creare una sorta di coordinamento permanente per gli aiuti umanitari d’emergenza per i profughi kosovari. Ci sono il sottosegretario Minniti e la ministra Livia Turco. Lanciano la Missione Arcobaleno. Mentre bombardano, aiutano i profughi. Il segno di questa iniziativa è chiaro: ricreare un consenso intorno al governo sull’azione umanitaria, mentre è in atto una contestazione del volontariato per la scelta di guerra fatta dal governo di centrosinistra. Il tutto con un’operazione di immagine, di marketing politico, dove il volontariato in cambio di un po’ di soldi potrà essere cooptato in modo subalterno nell’operazione. Quasi tutte le Ong presenti non pongono grandi problemi: chiedono chiarimenti, domandano come fare a presentare i progetti, al massimo sollevano qualche dubbio sull’opportunità di lanciare una sottoscrizione popolare gestita dallo Stato. Sono tutti molto professionali e operativi. Qualcuno ha qualche cartellina con degli schemi di progetto. Raffaella fa un intervento durissimo. “Non staremo sotto il vostro elmetto. Potevate almeno avere il buon gusto di non usare un simbolo 68 della pace, voi che state in guerra. Comunque di fronte al dramma dei profughi agiremo in autonomia e collaboreremo lealmente con tutti”. La Turco abbozza: “Raffaella non me l’aspettavo da te...”. Poi le manda un biglietto: “In questi momenti detesto essere un ministro...”. E perché non si dimette, allora? Noi (Ics e qualcun altro) siamo isolati: molte altre organizzazioni non governative sotto quell’elmetto ci si mettono. Ci sono in ballo soldi e progetti. 29 marzo Chiediamo un incontro a Walter Veltroni a Botteghe Oscure. Ci viene accordato: con lui ci sono Roberto Cuillo (funzionario della sezione Esteri) e Luigi Colajanni, ex capogruppo del Pds a Straburgo. Con me, ci sono Raffella Bolini, Tom Benetollo, Massimo Serafini, Giampiero Rasimelli, Soana Tortora. Danno a me il compito di aprire l’incontro. Riassumo le nostre posizioni contro la guerra e invito comunque a tenere aperta la porta del dialogo. Ricordo a Veltroni che sin qui l’Unità ci ha maltrattato e non ci ha dato voce. Veltroni allarga le braccia, a dire: e che ci posso fare io? Mentre parlo, Veltroni ha uno sguardo obliquo, giocherella con la penna e non prende appunti. Ha lo sguardo corrucciato e ostentatamente triste e dà (vuole dare) una sensazione di impotenza e rassegnazione. Intervengono gli altri: Tom Benetollo, Raffaella Bolini che ribadiscono le posizioni. Tom dice: “Qui nessuno di noi è contrario all’uso della forza per fermare la violazione dei diritti umani, ma lo deve fare l’Onu. Quello della Nato è un intervento strumentale”. Luigi Colaianni dice che, sì, quello della Nato è un intervento illegittimo, ma che altro si poteva fare? “Siamo al governo e dobbiamo essere responsabili”. E parla per un’altra decina di minuti di Onu, Nato, diritti umani, senza entrare nel merito delle conseguenze reali dell’intervento. Sembra girare intorno al problema. Interviene Veltroni: “Non voglio proprio litigare con voi. Siete quelli sui quali voglio costruire il nuovo partito. Voi dite: non bisognava bombardare. E cosa dovevamo fare per fermare l’eccidio dei kosovari? Qual era l’alternativa? Che altro potevamo fare? Tutti siamo in difficoltà. Tutti dobbiamo interrogarci; dobbiamo tutti rimetterci in discussione. Anche voi: le vostre manifestazioni non stanno andando bene. Mi dicono che quella degli studenti stamattina è stata annullata”. Qualcuno di noi si guarda e tocca ferro. Tutti siamo infatti in ansia per la riuscita della manifestazione del 3 aprile. Veltroni interviene di nuovo e ricorda: “Noi ovviamente non aderiamo alla manifestazione, ma sapete che ha comunque aderito la Sinistra Giovanile e la sinistra Ds”. Poi, vuole fare un comunicato stampa congiunto dell’incontro, ma noi non siamo d’accordo. 69 30 marzo Milosevic offre di ritirare le truppe serbe dal Kosovo in cambio della fine dei bombardamenti. L’offerta viene rifiutata. Solo da oggi si registrano i primi attacchi a obiettivi militari serbi in Kosovo, dopo una settimana di pulizia etnica. Incontro – insieme a Raffaella Bolini, Soana Tortora, la figlia Chiara – Pietro Ingrao, a casa, per chiedergli di intervenire alla manifestazione, ma sono raggiunto al telefono dalla notizia di un’altra polemica con i Ds. Stefano Kovac, direttore di Ics, rilascia dall’Albania una dichiarazione all’Ansa: “Non prenderemo soldi da una missione come quella Arcobaleno, fatta da un governo che si è macchiato della responsabilità della guerra”. Si scatena la bufera. Chiamano ripetutamente i funzionari dei Ds: Calvisi, Amendola, Cuillo dello staff di Veltroni. Vogliono una smentita, qualcuno che ritratti la dichiarazione di Kovac. Ovviamente non se ne parla. Scrivo una dichiarazione più articolata, ma che spiega in tono pacato le nostre posizioni. Mentre parlo con Calvisi, si sente urlare dalla stanza di Botteghe Oscure da dove sta chiamando Calvisi: “Eccoli, questo sarebbe il reciproco rispetto, ci accusano di essere guerrafondai!”. Credo sia Cuillo a sbraitare. Risultato: dalla manchette de “l’Unità” che invita alla solidarietà vengono tolti i riferimenti dei nostri campi profughi, il nostro indirizzo e il telefono. Per una polemica politica, a rimetterci sono i profughi kosovari che sono nei nostri campi. Sentiamo Stefano Kovac per la polemica sulla sua dichiarazione all’Ansa. Sembra preoccupato per altro. È sconsolato. “Nei campi non c’è niente da mangiare. Mandateci della roba; cercate di organizzare qualche convoglio, altrimenti non sappiamo più come fare. Non sappiamo più dove sistemarli. Li abbiamo messi anche nelle cucine. Così non possiamo più cucinare pasti caldi. mandate subito dei camion con della roba da mangiare”. In Albania stanno arrivando ogni giorno migliaia di profughi. Nel nostro campo di Burrell nel giro di due ore se ne sono presentati 500. La capienza delle strutture residenziali in Albania non supera i 25-30.000 posti letto e le tendopoli non sono ancora state organizzate. I profughi sono già più di 150-200.000. Molti dormono all’aperto, sotto un albero. A noi questa polemica con i Ds ha occupato tutta la giornata che per Stefano è passata invece alla disperata ricerca a Tirana di 500 materassini dove far dormire i profughi di Burrell. Mi racconta che alla fine ha chiesto anche a un funzionario della protezione civile italiana a Tirana se poteva prestarceli. “Ma voi non siete al di fuori della Missione Arcobaleno?”, ha risposto ironico. E i materassini non ce li hanno dati. 2 aprile La Russia chiede una riunione del G8. Domani c’è la manifestazione. Dopo quattro, cinque giorni di paura (pochi 70 pullman, lentezza della mobilitazione, mancanza di soldi) adesso siamo tutti un po’ più tranquilli: riceviamo centinaia di telefonate ogni giorno (ci sono oltre 350 adesioni di organizzazioni e associazioni), notizie di gruppi che vogliono partecipare, ne parla la stampa (anche se dice che è una manifestazione di Rifondazione Comunista). Ormai, quello che potevamo fare l’abbiamo fatto. Ieri sera siamo andati a fare un altro sopralluogo a Porta San Paolo, dove terminerà il corteo. Abbiamo scelto il punto dove mettere il palco. Abbiamo il timore che qualche autonomo o esponente dei Cobas scateni incidenti. Oggi ho incontrato il capo gabinetto della questura in una stanza occupata da monitor che trasmettevano le immagini in diretta sulle vie dove dovrebbe passare il corteo. Ci siamo messi d’accordo su questo percorso: piazza Esedra, via Cavour, via Merulana, via Ostiense. Ho chiesto che la loro presenza sia discreto. Ci hanno chiesto di organizzare anche noi un servizio d’ordine, soprattutto per la testa del corteo. Ci guardiamo incerti: un servizio d’ordine non ce l’abbiamo. Sono passati i tempi quando il “Partito” o il “Sindacato” garantiva centinaia di “vigilanti” ai cortei. E poi perché dovrebbero darceli? Né il “Partito”, né il “Sindacato” aderiscono alla manifestazione. Finisco di scrivere il mio discorso. Ecco l’ultimo passaggio: “Da tempo l’avevamo chiesto, noi pacifisti e volontari. Diamo la parola, la forza e l’autorità all’ Onu. Inviamo delle truppe di interposizione per proteggere i profughi, le popolazioni civili. Invece si è tolta la parola all’Onu, si è svuotata l’autorità delle Nazioni Unite. Non siamo stati ascoltati. Per mesi l’Onu è stata tenuta fuori dal Kosovo. Si è aggiunta, invece, guerra alla guerra nell’illusione di difendere i diritti umani. Ma, le bombe non difendono i profughi, non portano alla pace. Portano e hanno portato ad altre sofferenze; stanno aiutando non le vittime della guerra, ma i dittatori...”. 3 aprile 100.000 pacifisti manifestano a Roma contro la guerra. Iniziano i bombardamenti delle forze della Nato dei ponti del Danubio. Manifestazione a Roma. Ci sarà abbastanza gente? “Se saremo 15mila sarà già un successo”. Alle 13.30 a piazza Esedra non c’è nessuno; 2-300 persone. Qualcuno srotola i primi striscioni, vengono montati gli altoparlanti sulle macchine mentre vengono distribuiti i nostri adesivi arancioni: “Fermare i massacri in Kosovo”. Un’ora dopo, siamo costretti ad arrivare a via Cavour con la “testa” del corteo per far incolonnare la gente. Ci sono già 30-40mila persone, ci sembra. Da dove sono saltate fuori? Improvvisamente c’è una selva di bandiere, striscioni, cartelli. La ressa in testa: arrivano dirigenti di 71 associazioni, giornalisti, persone conosciute. Chiama Tagliente, il capo di Gabinetto della questura: devo correre a via Genova, proprio lì vicino, in questura. Informa: “Ci sono 300 autonomi con i caschi e i bastoni; teniamo la situazione sotto controllo, ma dateci una mano pure voi”. Già, e come? Davanti ci siamo noi (le associazioni), poi i partiti (Rifondazione) e dietro gli altri (autonomi, Cobas). Il corteo è proprio diviso in due. Lo si vede nettamente: all’inizio barriere di ogni colore, striscioni variopinti, slogan nonviolenti, nella coda del corteo cordoni di militanti agguerriti, slogan minacciosi, bandiere rosse. I politici per il momento non si vedono. Alle 16.30 facciamo il die-in vicino al Colosseo, poi si arriva a Porta San Paolo. Faccio il mio discorso: qualcuno mi fischia quando attacco Milosevic definendolo un criminale nazionalista. Ciotti e Ingrao sono seduti su un tavolo vicino. Luisa Morgantini legge una lettera di donne kosovare, Soana Tortora un messaggio della pacifista serba Sonia Licht. La tensione nella piazza è evidente. C’è il timore di qualche azione violenta delle frange più dure. Lanciano pomodori, ne arriva qualcuno sul palco. Uno mi colpisce. Sembra che vogliano assaltare il palco, si crea un vuoto proprio sotto di noi, ma in pochi secondi le “donne in nero” con uno striscione si schierano a difenderci. Alla fine i telegiornali dicono che alla manifestazione c’erano 100mila persone. 6 aprile Milosevic annuncia una tregua unilaterale per la Pasqua ortodossa (11 aprile), ma la Nato decide di andare avanti con i bombardamenti. Dopo la manifestazione di sabato scorso, oggi abbiamo discusso su come continuare la mobilitazione contro la guerra. Naturalmente ci sono molte iniziative locali e il prossimo 10 aprile si terrà a Roma la manifestazione promossa da Rifondazione e da “il manifesto”. Tra gli ambienti cattolici (Beati i costruttori di pace) qualcuno sta pensando di organizzare qualche iniziativa eclatante in Kosovo (sul modello della marcia pacifista nella Sarajevo assediata del dicembre del 1992). Ma a differenza di Sarajevo del 1992, Pristina del 1999 è impenetrabile e i rischi sono mille volte maggiori. Discutiamo così l’ipotesi di organizzare un’iniziativa di “diplomazia popolare”. Perché non andiamo in 500 a Belgrado con una carovana della pace? L’idea iniziale è di andare oltre che a Belgrado anche a Podgorica (la capitale del Montenegro) e a Pristina, con l’intento di portare un messaggio di pace e di solidarietà in tutte le aree del conflitto. Il tentativo è di andare dai serbi e dai kosovari e cercare di parlare con entrambi e di ricostruire un ponte di comunicazione. Sarà difficilissimo. C’è un problema di permessi, di autorizzazioni. 72 8 aprile Oggi, appuntamento con l’ambasciatore jugoslavo, Miograd Lekic. L’ambasciata ai Parioli è troppo grande (prima era l’ambasciata di tutta la Jugoslavia) per un piccolo stato in ginocchio. La stanza dove ci riceve è buia, forse un po’ polverosa. I corridoi sono vuoti; di personale ce n’è poco. Siamo venuti qui per consegnargli una lettera di protesta per gli eccidi in Kosovo e chiediamo che venga fermata la pulizia etnica. Lekic è montenegrino (è stato ministro degli Esteri del Montenegro) ed è una persona cortese e aperta. Non condivide la politica nazionalista di Milosevic. Alle nostre condanne a Milosevic reagisce con comprensione; è il massimo che può fare e ce lo fa capire. 10 aprile Ieri la Nato si è “sbagliata” ancora: ha colpito un convoglio di civili nei pressi di Pristina: 12 morti. Ha anche bombardato un altro obiettivo civile: la fabbrica di automobili Zastava: 128 feriti. Organizziamo l’assemblea dell’Ics, al centro sociale della Maggiolina a Roma, nel quartiere Nomentano. Discutiamo su come organizzare l’invio degli aiuti nei campi profughi (ormai ne gestiamo 8, con più di 7mila profughi), come andare a fare volontariato nei campi, della situazione in Macedonia, dove da qualche giorno sono al lavoro Giorgio Cardone e Alessandro Pieroni. I nostri operatori distribuiscono aiuti ai profughi ospiti nelle famiglie. Lanciamo l’iniziativa della carovana della pace per il 25 aprile a Belgrado e con una piccola delegazione che vada a Pristina. Serviranno 10 pullman e bisognerà andare a Belgrado per parlare con il governo e ottenere le autorizzazioni. Nel pomeriggio, alle 15, c’è la manifestazione promossa da “il manifesto” e da Rifondazione comunista e da varie altre associazioni. Le bandiere pacifiste si contano sulle dita di una mano. Quelle rosse sommergono la piazza. 12 aprile La Nato colpisce un treno passeggeri che sta attraversando il ponte di Grdelicka: 50 morti carbonizzati. In ufficio a preparare il viaggio della delegazione per Belgrado. Telefonate all’ambasciata (sono probabili dei tempi lunghi per farci dare i visti) e incontri con Raffaella e Soana per coordinarci nella promozione dell’iniziativa. Chiama Carlo Feltrinelli: mi conferma che sabato prossimo le librerie Feltrinelli doneranno il 50% dell’incasso ai progetti dell’Ics. Ci informa che potrebbero entrare in questo modo 300-400 milioni. “Stiamo preparando un appello degli intellettuali contro la guerra. Compreremo alcune pagine sui quotidiani. Possiamo dare il vostro riferimento per gli aiuti?”. 73 15 aprile Ieri, altro errore della Nato: una bomba colpisce un convoglio di profughi kosovari in fuga verso Djakovica: 70 morti e oltre 100 feriti. Luisa Morgantini, Flavio Mongelli (Arci di Milano) e Paolo Tamiazzo sono partiti per Belgrado. Vanno in aereo fino a Budapest, poi in macchina fino a Subotica. Da lì a Belgrado. Devono incontrare i ministri e i funzionari per ottenere i permessi della carovana. Partano in avanscoperta per noi. Prima che partano stabiliamo per telefono gli ultimi dettagli: ci mettiamo d’accordo sul programma degli incontri, sulle cose da dire, i permessi da ottenere. Dicono che ci sono scarse possibilità di realizzarla. 16 aprile Il mattino, si tiene un incontro del Tavolo di Coordinamento per il Kosovo, al Dipartimento per gli Affari Sociali. La saletta di via Veneto è strapiena. Rappresentanti delle Ong si accalcano: si parla di progetti, interventi, finanziamenti. Siamo in minoranza: non abbiamo accettato di stare dentro la Missione Arcobaleno e ne paghiamo le conseguenze. Ci sono organizzazioni non governative che, di fronte al dramma di un’emergenza profughi da gestire subito, tirano fuori progetti di adozioni a distanza, bilanci predisposti, grafici e cronogrammi. Vogliono tutti adottare famiglie, profughi, bambini: anche se in Albania l’emergenza è imprevedibile e non si sa che fine faranno i profughi. Nonostante il chiarimento della settimana precedente, a livello locale siamo discriminati. Nelle riunioni dei comuni e delle regioni si parla solo di Missione Arcobaleno. L’Ics è costantemente escluso. L’atmosfera della riunione è deprimente: confusione e mancanza di coordinamento, futile rincorsa ai finanziamenti, amministrazioni pubbliche allo sbando. Molti sono stufi e annoiati. Gira tra le sedie un dirigente di un’associazione di terzo settore, probabilmente candidato alle europee che si sta facendo campagna elettorale e ci promette una volta eletto “di occuparsi dei profughi”. Il pomeriggio c’è la riunione con il Comune di Roma. Stanzieranno un miliardo per la Missione Arcobaleno. Nonostante le nostre richieste di fare in modo diverso (discutendo insieme le priorità e coinvolgendo il volontariato), hanno deciso di fare così. “Loro sono contro la guerra, così imparano”, avrebbe detto un funzionario dei Ds, parlando di noi. Un paio di giorni fa ho incontrato il segretario particolare di Rutelli, che ha allargato le braccia come a dire “ve la siete cercata”. 18 aprile Ci si rende conto che è impensabile poter accogliere tutti i profughi in Albania. Non ci sono adeguati centri di accoglienza, né tendopoli sufficienti per tutti. Il sistema delle infrastrutture è fatiscente. In realtà una parte an74 drebbe portata in Italia, almeno tutti quelli che lo vogliono e che si trovano in condizioni disperate. Nessuno è in grado di dire oggi quando e come finirà la guerra. Non si possono tenere centinaia di migliaia di persone per mesi nei boschi o in tende bucate. Il paradosso è che se i profughi riuscissero da soli ad arrivare in Italia, sarebbero trattati come immigrati “clandestini”: altro che “vittime di un genocidio” come sdegnosamente dicono i nostri uomini e donne di governo. Qualche parlamentare che ci aiuta ha provato a interpellare il ministro dell’Interno, ma senza risultati. Parlo con Vilma e Luca Casarini e gli chiedo: “Perché, visto che il governo non vuole ospitare i profughi kosovari in Italia, non affittiamo una nave e andiamo a prendere 500 profughi kosovari a Valona e li portiamo in Italia? Che faranno, mica ci fermeranno con le motovedette o ci arresteranno quando arriveremo a Bari o a Brindisi?”. Ci avevano pensato anche loro, ma ci sono alcuni problemi, tra tutti trovare un comandante della nave consenziente. Può rischiare il carcere per traffico illegale di immigrati “clandestini”. Facciamo le prime telefonate, avviamo i primi contatti. Prime risposte: negative. 20 aprile Paolo, Luisa e Flavio chiamano da Belgrado. Non hanno buone notizie. La carovana dei 500 non si può fare, non ci sono i permessi e ci impedirebbero di andare in massa verso il Montenegro o il Kosovo. Troppo pericoloso: dicono che hanno paura della Nato. Farebbe scoppiare un incidente per dare poi la colpa a loro. Ma forse non ci vogliono fare vedere cosa stanno combinando in quell’inferno. Una delegazione un po’ più ristretta, però, si può fare. Alla fine si concorda con i responsabili del governo il permesso per organizzare un pullman con 40 persone: esponenti di associazioni, enti locali, partiti. Andremo a Belgrado. Poi da lì vedremo come continuare (ci lasceranno andare in Montenegro e, soprattutto, a Pristina? Questo il punto che ci preoccupa di più. Stamattina ho parlato con Morozzo della Rocca, che ha tenuto per la Comunità di Sant’Egidio i contatti con Rugova in questi anni. Mi ha dato i suoi telefoni di Pristina. Ho provato a chiamare senza speranza. Infatti, linee interrotte e messaggio sul disco in serbo. Mi ha dato anche il telefono del suo segretario: niente da fare. Chiamano da tutta Italia per la carovana. Vorrebbero venire tutti. Ma dobbiamo dirgli di no. Anche Dario Fo e Franca Rame, ma solo se “siamo più di 500”. La delegazione minore non gli interessa, la reputano un’iniziativa secondaria, e rinunciano a parteciparvi. 26 aprile Ieri la Nato ha festeggiato a Washington i suoi cinquant’anni di vita, confermando l’intenzione di proseguire i bombardamenti fino alla disfatta di Milosevic. 75 Incontro con una delegazione dei 160 parlamentari della maggioranza (quasi tutti della “sinistra” Ds) che hanno firmato un appello per la tregua, di cui molti temono le conseguenze politiche. Una settimana fa alcuni di loro ci avevano promesso di unirsi alla nostra carovana della pace: “Verremo con voi a Belgrado e a Pristina. Saremo in tanti”. Oggi rinunciano: paura delle conseguenze, del rischio di venire accusati di negoziare con il nemico. Qualcuno trova una scusa speciosa: “C’è una deputata di rifondazione con voi, potremmo essere strumentalizzati”. Oppure: “Ci sono gli incontri con le autorità jugoslave; poi ci accuserebbero di essere filo-Milosevic”. 30 aprile Inizia l’embargo petrolifero dell’Unione Europea contro la federazione jugoslava. A Ginevra la commissaria Onu per i diritti umani denuncia le conseguenze prodotte dai bombardamenti in Serbia. Da Udine, partiamo con la carovana della pace. Prima tappa, Belgrado. E poi, da lì, a Podgorica e Pristina. Il viaggio è pieno di incognite. Il primo obiettivo è di arrivare intanto in Serbia. Poi vedremo per Podgorica e Pristina. Tra di noi c’è anche monsignor Bettazzi e poi sindacalisti e rappresentanti di vari gruppi e associazioni. L’appuntamento è davanti alla stazione di Udine, alle otto. Con i nostri zaini pieni di pubblicazioni e vettovaglie, con stemmi e adesivi pacifisti, con giacche a vento usate già a Sarajevo e in Bosnia negli ultimi anni, ci mescoliamo con gli studenti udinesi con i loro zainetti colorati che si affrettano ai pullman o camminano trafelati verso la scuola. Consultiamo le cartine per individuare le strade migliori da seguire. Al primo distributore compriamo 5 taniche da 25 litri ciascuna da riempire di nafta: in Serbia c’è il rischio di non trovarne. 1° maggio Entriamo da Szeged (ultimo paese dell’Ungheria) in Serbia. Sui viali dei villaggi ungheresi a ridosso del confine ci sono cicogne accovacciate nei loro nidi sui pali dell’elettricità o anche su alcuni tetti di case. Una irreale pennellata di paesaggio bucolico prima di entrare in un territorio sconvolto dagli uragani dell’embargo e della guerra. Alla frontiera serba pochi problemi: più che altro sono stati gli ungheresi a farcene. Ultimi arrivati nella Nato, adesso sono i più zelanti. Il governo ungherese è di centro-destra. Trascorre un’ora e – dopo accurati controlli – passiamo la dogana. Ci avviciniamo a Subotica, in Vojvodina. Dovremmo passare per un paesino che si chiama Palic. Impossibile. Hanno bombardato stanotte la caserma nel centro della città: ci sono stati dei morti. Passiamo lungo il lago. Il clima è surreale. È una bella giornata: ci sono ragazzi che giocano su un prato, fidanzati mano 76 nella mano, famiglie che arrostiscono cevapcici, bambini in bicicletta. È una giornata di festa; sembra un quadretto pastorale della “profonda” Serbia,dove Milosevic ha sempre fatto man bassa di voti. Arriviamo a Belgrado. Il pullman subisce alcuni controlli, ma tutto fila liscio. Belgrado non è come Sarajevo: non c’è ovviamente un comparabile livello di distruzione e di pericolo personale. Qui la minaccia che viene dalle bombe è di natura diversa da quella violenza medievale fatta di cecchini, granate, l’assedio che per oltre mille giorni ha afflitto Sarajevo. Siamo in un albergo, l’Intercontinental (che ci ha imposto il governo serbo, forse per controllarci meglio), dove in passato la “tigre” Arkan (il criminale serbo a campo delle bande paramilitari operanti nelle guerre jugoslave sin dal 1991) ha avuto il suo quartier generale. Nell’albergo c’è poca gente: personaggi equivoci e brutti ceffi in doppio petto, accompagnati da donne inguainate e pesantemente truccate. A Belgrado, come a Sarajevo la vita continua, nonostante la guerra. Mentre il resto della delegazione partecipa nella sede del sindacato indipendente (“Nezavisnost” ) all’incontro con una ventina di Ong belgradesi e il sindacato indipendente (ci sono Nastascia Kandic, delle donne in nero, e Bradislav Canak, di Nezavisnost, e poi Rada, che è di Mostar: sfuggita da lì durante la guerra in Bosnia, adesso si trova sotto quest’altra tempesta), Raffaella, Flavio e io corriamo all’albergo. Ci aspetta Ristic, che è viceministro degli Esteri, oltre che esponente di spicco della JUL, il partito della sinistra comunista della Miriana Markovic, moglie di Milosevic. Ristic (azzimato funzionario fasciato da un gessato ministeriale) ha in realtà il phisique du role di un agente dei servizi segreti: sfuggente, vagamente minaccioso, sbrigativo. Dobbiamo concordare il programma. Siamo raggelati dalle sue prime frasi: “Non potete andare a Pristina e Podogorica; non ci sono le condizioni di sicurezza, non ve lo permettiamo. Se volete fare degli incontri qui a Belgrado, va bene; vi aiuteremo”. È una notifica, non è l’inizio di un negoziato. Lo stesso giorno nel sud della Serbia un missile della Nato ha colpito un pullman: 40 morti. Sera La sera, sono già le otto, suona il primo allarme aereo. Il suono della sirena è è la prima volta che lo sento. Usciamo dall’albergo. Un inserviente indica il cielo: c’è un Awacs ad alta quota che traccia la rotta dei cacciabombardieri che arriveranno da lì a poco. È come se indicasse una nuova stella cometa, un pianeta fino ad allora sconosciuto, che solca il cielo ormai da quaranta giorni. È un appuntamento fisso. Il cameriere, tranquillo e senza malizia nei nostri confronti, ci informa che gli europei che arrivano a Belgrado non vengono più salutati con dober dan (buona giornata), ma con Bomberdan. 77 2 maggio Il leader democratico americano Jesse Jackson è a Belgrado. Milosevic gli consegna 3 soldati statunitensi catturati al confine con la Macedonia dalle truppe serbe. Altro errore della Nato: colpito un pullman con dei profughi a Pristina, 20 morti. Partecipiamo ad altri incontri. Alle nove del mattino incontro gli esponenti della Croce Rossa Jugoslava. Decidiamo di fare un convoglio per i profughi serbi e kosovari. Metà degli aiuti andranno a Nis, gli altri a Pristina. Almeno, questo in teoria. Bisognerà verificare tutte le fasi. I nostri camion potrebbero arrivare a Nis, e da lì – con una parte di aiuti – con i camion si andrà a Pristina. Chiedo che un paio di noi vadano con loro: sono d’accordo. Gli diamo una donazione di 10 milioni. Che fine faranno questi soldi? Andranno veramente a chi ne ha bisogno o alimenteranno le casse del regime? La Croce Rossa serba non è proprio al di sopra di ogni sospetto. A Roma, all’ambasciata jugoslava ce l’avevano fatto capire. Mica penserete di andare là e aiutare solamente i vostri amici oppositori? In cambio dei 10 milioni la funzionaria ci lascia tanto di ricevuta già compilata e timbrata, e una specie di pergamena in cirillico. Chiediamo che i nostri volontari possano ritornare al lavoro a Nis e a Belgrado. Non possono rispondere di sì. Mi informano come dobbiamo fare: bisogna passare per il Commissariato serbo per i rifugiati, inoltrare regolare domanda e aspettare. “Ma è difficile...”. Pomeriggio Ci raggiunge nel pomeriggio Bata, il responsabile nel nostro ufficio a Belgrado. Non l’avevo conosciuto prima. È altissimo (più di due metri), parla saggiamente e lentamente: “Stamattina è venuta la polizia: voleva portarci via il fuoristrada dell’Alto Commissariato. Non mi ha trovato e se ne è andata. Quando vengono, di solito mi nascondo. Chiudo l’ufficio e me ne vado”. È già successo a Nis – dove diamo assistenza a oltre 1.000 famiglie di profughi serbi delle Krajine con dei programmi di microcredito – nel sud della Serbia: “Lì, ci hanno portato via tutto: due macchine e tutti i computer. I condomini – che sono tutti ex militari – ci hanno denunciato: dicevano che avevamo delle apparecchiature per indicare ai paesi della Nato la rotta degli aerei. Insomma: ci accusavano di essere delle spie”. Gli consegno 6mila dollari per pagare gli stipendi degli ultimi mesi degli operatori locali e tre stecche di sigarette. Gli do anche 3mila marchi che abbiamo raccolto tra la nostra delegazione per l’orfanotrofio Zmaj, con il quale l’Ics lavora da sei anni; ci sono bambini di tutte le etnie: croati, serbi, albanesi, rom. Gli do anche un enorme busta alta un metro piena di cioccolatini e caramelle per i bambini (me l’hanno regalata quelli della elementare romana Badini). Sorride meravigliato. 78 3 maggio Incontriamo Goran Matic, ministro jugoslavo “senza portafoglio”. Non possiamo andare in tutti. Siamo in otto. C’è Tom dell’Arci e Marina delle Acli. Alcuni ministeri sono distrutti, altri sono dei “target”. Perciò ci portano in un “club” – una sorta di residence ministeriale – che si trova nella zona delle ambasciate, dove abita anche Milosevic. Raggiungendo il “club” scorgiamo su un prato di un’elegante villa un cratere dove nella notte è caduto un missile. Il “club” sembra una vecchia colonia d’altri tempi. Si vede che il luogo è abbandonato: i fiori sui tavoli sono appassiti. Le stanze sono deserte. C’è molta polvere sulle poltroncine. È un incontro ufficiale a tutti gli effetti. La nostra delegazione è su un lato del tavolo; quella del ministro sul lato opposto. Il ministro è un giovane funzionario; è biondo e ha gli occhi trasparenti. Ha l’aria dimessa e triste, stanca, così sembra. Ma, quando inizia a parlare si dimostra un vero aparatcniki: fa mezzora buona di propaganda. Ha il piglio intransigente. Intervengo a nome della delegazione: condanno l’intervento della Nato, esprimo la solidarietà a tutte le vittime e dico pure “Bisogna dare una soluzione al problema del Kosovo; garantire un’autonomia e smilitarizzare l’area. La Nato deve porre fine ai bombardamenti e devono finire le azioni militari sul campo, dell’esercito e dell’Uck”. Non risponde. Interviene Tom: “Dovete prendere un’iniziativa politica, non potete più aspettare”. Matic non risponde. Tom, con la sua solita intelligenza politica, insiste: “Accettereste una forza armata internazionale di garanzia in Kosovo, senza i paesi che hanno partecipato all’azione militare?”. Matic non risponde. Poi alla fine si limita a dire: “L’Italia e la Grecia possono avere un ruolo importante per la pace”. È passata un’ora e mezza. Matic fa un cenno e portano da un’altra stanza un frammento inzaccherato di Tomahawk, un missile americano piombato sul ministero della Difesa a Belgrado: “Vedete? È del 1983. Questa guerra è combattuta anche con un altro fine: rinnovare l’arsenale militare”. Ce lo regala per portarlo in Italia e farlo vedere. Siamo imbarazzati, ma ce lo portiamo via. Poi se lo prende don Vitaliano per farlo vedere ai suoi fedeli. Mentre ce ne andiamo – siamo sul corridoio – mi rivolge una battuta: “Lo sa di che colore è lo Stealth?”. Rispondo che mi sembra nero. Matic ride: “No, di nessun colore, perché è invisibile”. Infatti è l’aereo fantasma-invisibile ai radar. Ride come un bambino. 4 maggio Siamo pronti per partire per Pancevo (pochi chilometri da Belgrado, 130mila abitanti) dove andiamo a vedere cosa ha bombardato la Nato: per la precisione un petrolchimico e diversi impianti che contengono gas tossici. Ci sono stati molti morti, centinaia di feriti, migliaia di persone evacuate dai quartieri limitrofi. Un pericolo di catastrofe ecologica scampata per un pe79 lo. Migliaia di operai non hanno più un lavoro. Il petrolchimico della città è deserto; ci aggiriamo tra gli isolati abbandonati in un ambiente spettrale. Non un custode, non un operaio. Lentamente, a passo d’uomo il nostro pullman passa a fianco di serbatoi bruciacchiati, capannoni anneriti, frammenti di metalli e di muratura in una strada desolata. 8.000 per la precisione sono le persone rimaste senza lavoro. Nella sede del comune di Pancevo – il mattino – ci hanno fatto vedere dei video strazianti di persone a brandelli: sono riprese fatte appena dopo i bombardamenti. All’incontro si affaccia anche Aleksandar Zograf. È di Pancevo, ha lo sguardo penetrante e intelligente; una cartella sotto il braccio. Ha disegnato fumetti straordinari (che rendono benissimo l’ottusità minacciosa del volto di Milosevic, mentre il bianco e nero delle sue strisce hanno un che di fuligginoso, di grigio, come la sua Pancevo inquinata), usciti anche in Italia (“il manifesto” sta pubblicando un suo diario di guerra). Nessuno capisce come, ma a un certo punto sale sul pullman un prete ortodosso, si chiama padre Andreas. È un ragazzo alto e dinoccolato di 2526 anni, occhi rutilanti, barba lunga ramata, una tonaca grezza e povera che sembra di stamigna, una specie di giovane Rasputin. Ha fatto qualche cenno all’autista? Si è messo in mezzo alla strada? Ha convinto qualcuno della nostra delegazione? Ci spiega allegramente in un italiano stentato, dalla cadenza teutonica, ma brioso, espressivo. È del patriarcato di Belgrado. Durante la mattina ha incontrato Bettazzi insieme a Pavle, il patriarca della chiesa serbo-ortodossa. Adesso capiamo come è salito. Padre Andreas è Nato in Germania, da padre serbo scappato quando ha vinto Tito nel 1945. “Mio padre era un anticomunista; ha fatto la resistenza con Mihailovic. E quando ha vinto Tito è dovuto emigrare”. Andreas parla, parla, è allegro. Racconta tante cose nel suo italiano stentato. Racconta anche lui storielle e barzellette. “Sapete? Quando Dio decise di fare gli stati, disse: non più di dieci. E li fece così: uno per gli stati uniti dell’est, un altro per gli stati uniti dell’ovest. E gli altri otto per la Jugoslavia”. Ci accompagna a vedere il suo monastero; alla periferia di Novi Sad. Escono gli altri monaci; tutti giovani e dalle barbe lunghe. Ci offrono delle grappe. Siamo in un giardino e la calma del luogo fa dimenticare di essere in guerra. Il capo dei monaci fa un discorso in cui condanna l’intervento della Nato e ricorda che questo e altri monasteri sono stati aperti dopo la caduta del comunismo. Bettazzi, che non ci sente bene, a un certo punto lo interrompe: “Perché ripete sempre D’Alema?”. Risponde il capo dei monaci: “ No, ho detto nema che significa, no, nessuno”. “Davvero? D’Alema significa nessuno?” chiede ancora Bettazzi. Tutti ridono. Andreas ci porta a vedere i tre ponti distrutti a Novi Sad. Ce n’è uno di particolare, sul Danubio. Dice il prete: “Qui ci venivano gli innamorati pri80 ma di sposarsi. Si facevano solenni promesse”. Accanto al ponte distrutto degli innamorati, ci sono i basamenti di un altro ponte che non esiste più. “Anche questo distrutto dalla Nato?”, chiede qualcuno. “No – risponde Andreas – questo è stato distrutto dai nazisti, durante la seconda guerra mondiale”. Gli innamorati non ci sono più; nessuno sembra più farsi grandi promesse né tra sospiri, né romanticamente in barca: solo una fila di persone (donne, anziani, bambini) in attesa di una chiatta che li condurrà dall’altra parte del fiume. Prima di salutarci Padre Andreas ci trascina a vedere un altro ponte, sempre appena fuori Novi Sad. È un ponte enorme, un cavalcavia di un’autostrada. I missili della Nato l’hanno completamente buttato giù. Per arrivarci dobbiamo superare alcuni sbarramenti e barriere di legno sistemate dalla polizia. Il pullman arriva fino a un certo punto, troppo pericoloso proseguire, e non può andare oltre. Scendiamo tutti e ci avviciniamo guardinghi sull’autostrada deserta e surreale, nel silenzio della campagna rotto solo dal vento freddo che sibila. Padre Andreas, saltellando, ci invita: “Andiamo, andiamo”. Arriviamo sull’orlo del precipizio. Una montagna di macerie di asfalto, tondini, telai di acciaio, blocchi di cemento armato ingombra la valle, appena un centinaio di metri sotto. Alzo gli occhi: a 150 metri, dopo il vuoto, l’autostrada solitaria riprende il suo corso. 13 maggio Dibattito con Stefano Benni a Bergamo. Ci sono 250, forse 300 persone. Si parla di guerra e di Missione Arcobaleno. Benni spiega al pubblico perché è meglio dare i soldi al volontariato indipendente che non alla Missione Arcobaleno. Poi prende in giro Veltroni e i Ds. Li invita a cambiare la bandiera del partito mutando lo slogan da: “Veniamo da lontano e andiamo lontano” in: “Che altro potevamo fare?”. Torniamo con Benni a Milano, a notte fonda, a bordo di una fuoristrada che mi ha consegnato Roberto Bertoli (del gruppo di solidarietà locale) perché il giorno dopo deve essere consegnato a Kacanj in Bosnia, dove è attivo da anni un progetto per il rientro dei profughi. In giornata ci ha chiamato ancora Paolo Landi, di Benetton che ci aiuterà. Altra ottima notizia: Goffredo Fofi ha trovato 40 milioni dal vecchio gruppo parlamentare della sinistra Indipendente, fermi su un conto corrente “dormiente”. L’ha contattato Ada Becchi, l’ultima capogruppo della sinistra indipendente e hanno pensato a Ics. 18 maggio Riunione dell’esecutivo dell’Ics. Arriva la notizia della possibile approvazione di una mozione parlamentare della maggioranza dei parlamentari di centro-sinistra che chiede la sospensione dei bombardamenti. C’è un clima di euforia. C’è l’idea che questo sia il risultato anche della nostra mobilitazio81 ne. Tra poche settimane ci sono le elezioni europee; per chi dovremmo votare? Siamo assaliti dal rifiuto della politica e di questi partiti. 19 maggio Parto con Anna Eva per l’Albania. Da molte settimane volevo muovermi per andare sul campo, sempre impedito da riunioni, scrittura di appelli e articoli, incontri istituzionali. Arrivo finalmente a Tirana volando su un piccolo aereo a 12 posti del Wfp (World Food Programme). L’aeroporto è in condizioni addirittura peggiori dell’ultima visita in Albania, un paio di anni fa. Un viavai di militari, operatori umanitari con tanto di fasce bianche: fuori dall’aeroporto sono assalito da bambini che, con dei cartoni in mano, ti vogliono vendere qualcosa e da altri che ti vogliono portare con un taxi in città. Già dall’aeroporto l’immagine è quella del racconto che mi hanno fatto i nostri operatori dal campo: un grande “circo” umanitario con Ong, agenzie internazionali, governi occidentali ad affannarsi a fare qualcosa di utile, a spendere i soldi, o a sperare di prenderli (diverse Ong) dalle agenzie internazionali e dai governi (e ora, dalla Missione Arcobaleno). Molti operatori di Ong e agenzie sono “griffati”: ciascuno con il proprio distintivo, con il giubbetto marchiato e il cappello stemmato. Anche la Nato, mentre bombarda si prende carico dei profughi […]. Monta tende, aiuta le Ong, muove autobotti per i campi. Sono anche qui all’aeroporto. C’è l’allegra brigata dei volontari della Protezione Civile-Missione Arcobaleno: tutti in divisa (come i militari), alcuni sono tronfi burocrati di prefetture e ministeri con tanto di rimborso a piè di lista e indennità di trasferta, altri sono giovani boy scout o di parrocchia molto volenterosi. Andiamo in ufficio. Una casetta a due piani, con sei, sette stanze, ingombre di computer, aiuti sparsi, qualche materassino e zaino appoggiato ai muri. Sulle pareti, cartine dell’Albania e del Kosovo, i luoghi dei nostri campi evidenziati. I telefoni non riescono a prendere la linea. Si prova e si riprova. Si usa anche il Cb per comunicare con i campi, ma non sempre si riesce. Ci sono persone che vanno e vengono: operatori, volontari, giornalisti, albanesi che ci danno una mano. C’è un apparente disordine, ma tutto sembra sotto controllo. In poche decine di minuti in cui mi fermo nell’ufficio arrivano le richieste più varie. Da Gomel chiedono cosa devono fare con la Arna (una macchina dell’Alfa Romeo) che ha di nuovo il carburatore rotto. Poi chiamano dal magazzino: “Che facciamo ne prendiamo uno nuovo, quello vecchio non basta più a contenere la roba?”. Chiama Vinicio Albanesi dalla Comunità di Capodarco. Ci aiutate a trovare un palco a Tirana, dobbiamo fare un concerto con dei gruppi giovanili? Arrivano dei cine-operatori, stanno facendo delle riprese nei nostri campi, per farne un documentario della Rai. Mi dicono che quando vanno nei campi chiedono ai nostri vo82 lontari di “interpretare la parte” per rendere più “vivide” le riprese (a Chiara hanno chiesto di riprenderla al momento della sveglia, quando va a lavarsi, la “giornata” della volontaria). Ne ridiamo. Si va al campo di Gomel, vicino Durazzo. Lo gestisce Chiara, da sola e con varie difficoltà, non ultima la diffidenza degli uomini del campo, restii a farsi “comandare” da una donna. Chiara è riuscita anche a far riunire le donne del campo, guardate a vista dai loro mariti e dai compagni che passeggiano intorno al cerchio di donne in riunione. Il campo è una specie di ex-albergo ristrutturato. Con difficoltà vengono organizzate anche attività di animazione. Il cibo è abbastanza razionato: ci sono delle tabelle con l’indicazione delle pietanze e delle quantità (e c’è il conteggio delle calorie per darne almeno 2200 al giorno). Dall’Acnur abbiamo pochi soldi da spendere (uno-due dollari al giorno per profugo), se non ci fossero gli aiuti dall’Italia e l’invio continuo di derrate non sapremmo come fare. Il campo è vicino alla spiaggia di Durazzo (si scorge, a qualche centinaio di metri una fila di pini, dietro ai quali c’è l’azzurro del mare), ma nessuno ci va. Solo i bambini sono allegri e giocano (e stanno sempre intorno a Chiara), mentre le donne hanno il loro da fare (riassettare le stanze, lavare la biancheria, cucinare qualcosa). Gli uomini vagano assenti; non hanno niente da fare e non si prestano, a causa della mentalità maschilista, alle attività quotidiane. Dal campo di Gomel andiamo al magazzino di Durazzo: un nostro volontario (si è preso l’aspettativa per venire fino a qui) che si chiama Martino (ha un accento del nord, il volto affaticato e la barba lunga: si arrampica sugli scatoloni mentre ci parla) gestisce il magazzino, sepolto da pacchi di pasta (che si accatastano sempre di più: gli albanesi ne hanno fin sopra i capelli) e da pacchi e pacchetti mal confezionati. 20 maggio Insieme ad Andrea vado a prendere all’aeroporto di Tirana Giuliano Pisapia, che mi ha chiamato un paio di settimane per andare a fare il volontario in uno dei nostri campi. Lo manderemo a Rubik: un paesino del centronord dell’Albania di qualche migliaio di anime. A Rubik ospitiamo 4-500 profughi. Pisapia non vuole che sia resa pubblica la sua presenza al campo e non vuole nemmeno incontrare i rappresentanti delle istituzioni albanesi. “Non sono venuto qui per fare incontri politici. La mia presenza è un fatto privato. Voglio solo fare il volontario in un campo”. Vuole andare subito e non ha interesse a fermarsi a Tirana. Ci mettiamo quasi tre ore per arrivare al campo: la strada è dissestata. Per fare 20 chilometri ci mettiamo un’ora. Incontriamo camioncini carichi di ogni tipo di merci, fuoristrada di organizzazioni umanitarie e internazionali. Ci guida Alì, l’autista dell’Ics, con una Mercedes sgangherata che impreca: “strada Berisha”. Di Berisha dice 83 tutto il male possibile: bestemmie e ogni tanto sputa di fuori quando lo nomina. Pisapia ride. A Rubik scopriamo che i profughi sono un migliaio, divisi tra il campo base, composto da alloggi che un tempo erano delle casermette per le forze armate albanesi e il convitto. Responsabile del campo è Marco Bruccoleri, già impegnato a Kakanj in Bosnia. Gli presento Pisapia; forse non ha ben presente chi sia e lo confina in una stanzetta disadorna. Marco ha già preso in mano la situazione del campo. Ci sono però pochi materassi. Molti profughi dormono per terra. “Non ho un cellulare, né una macchina. Se succede qualcosa di notte, non so come fare”. Ne avevamo parlato anche a Roma. I nostri campi profughi mancano delle cose essenziali: macchine, telefoni, materassini. È una situazione difficilmente sostenibile a lungo. Andrea avverte Marco: “Dopodomani ti arrivano cinque tir da Predappio. Sono delle Anpas, i volontari della Croce Rossa e del Comune”. Marco imperturbabile sorride ironico: “Speriamo non portino altra pasta. Se no non sappiamo dove metterla”. Ovunque lo stesso problema: tonnellate di pasta che non riusciamo a smaltire. Nei magazzini siamo pieni di vermicelli, fusilli, rigatoni. I kosovari preferiscono le zuppe di legumi e verdure. Dopo avergli dato pasta per 3-4 giorni di seguito, molti si sono rifiutati di continuare a mangiarla. Nel campo, c’è chi preferisce dormire sul camioncino o sul trattore con il quale è scappato dal proprio villaggio. Ci sarebbero anche i posti (per terra), ma molti preferiscono non allontanarsi dai propri mezzi di trasporti e dai beni che si sono portati con sé. Nel cassone di un camion – simile ai nostri lupetti degli anni ’60 – conto 8 persone: una donna anziana con i capelli raccolti in una crocchia informe mi guarda con un’espressione vuota, in attesa, mentre due bambini che le sono vicini si tengono per mano. Stanno per addormentarsi. Gli uomini, invece anche qui si aggirano per il campo, vagano silenziosi, mentre le donne più giovani lavano i vestiti e accudiscono i figli. Ci sono anche dei volontari, dall’accento inconfondibile padano. Una ragazza ha attorno a sé uno stuolo di ragazzini. Ci saluta velocemente: “Sì, li faccio disegnare, facciamo dei giochi e con una corda ho anche improvvisato una rete di pallavolo”. Pisapia si guarda intorno; vorrebbe già rendersi utile, e chiede cosa fare a Marco, che non ha tempo, ha il suo da farsi per seguire le emergenze del campo. 21 maggio Torno al campo di Chiara, a Golem, dove ci sono ottocento profughi. È in un bel posto, su un poggio. Domina la vallata sottostante e il mare azzurro della costa di Durazzo. Il dormitorio è a ferro di cavallo: con al centro un piazzale delimitato da alti pini marittimi che si stagliano sull’azzurro del cielo e del mare. Entriamo nelle stanze, in cui vivono i profughi. In una di queste c’è una donna con un neonato tra le braccia: “Le ha dato nome Chiara...”, 84 ci dice. “Invece al primo nato gli hanno dato il nome Golem”, aggiunge Chiara. “Il problema più delicato che abbiamo qui è l’acqua; ce l’abbiamo duetre ore al giorno. Ma è così per tutta l’area di Durazzo e di Kavaja. Forse ce la tolgono del tutto e bisognerà provvedere con delle autobotti”. Una soluzione c’è, chiedere aiuto al campo di Kavaja, della Missione Arcobaleno. Andiamo allora a Kavaja, a quattro chilometri da Golem. Al campo della Missione Arcobaleno ci sono 5600 profughi. Dopo aver visitato i nostri campi (dove ci sono uno/due operatori e tre/quattro volontari, a malapena una macchina e un telefonino per campo; tutto il resto è auto-organizzato dai profughi) andare a un campo della Missione Arcobaleno” fa una certa impressione. Ad esempio nel campo di Kavajia ci sono centinaia di volontari in divisa e tuta mimetica, ognuno con il proprio walkie-talkie e cartellino di riconoscimento, decine di mezzi (macchine, jeep, ruspe, autobotti, ecc), tende e tendoni per attività collaterali. Il campo è un cantiere iperattrezzato e molto tecnologico. I volontari hanno persino distrutto alcuni bunker (che in Albania abbondano in ogni dove a migliaia ) per farne le basi di alcuni barbecue, fatti con grate di tondini di ferro. È un’impressione; ma qui i profughi sembrano più tristi di quelli dei nostri “poveri” campi. Più inquadrati, meno attivi e protagonisti, “assistiti” ogni cinque minuti dai volontari. A parte il caldo delle tende, tutto è molto più organizzato, ma anche più anonimo ed eterodiretto, più forzato. I volontari dormono in albergo. Qualcuno ha anche un rimborso spese dalla propria azienda (municipalizzata, eccetera). Li vedi aggirarsi per il campo: molti a vuoto, si inventano cose da fare, cercano profughi da soccorrere. I profughi quando vedono un medico italiano del campo, fuggono per non farsi fare l’ennesima e inutile visita giornaliera. Noi, nei nostri campi, nei primi giorni, non avevamo molta roba da mangiare e, ancora, in alcuni di questi non abbiamo letti e materassi. Qui, a Kavaja, sembra tutto facile. Parliamo con Piero Moscardini, romano verace, che è il capo-campo. Sembra una “spalla” di Alberto Sordi in una commedia all’italiana. È un funzionario della protezione civile. Gioca ad alternarsi con i volontari burbero e bonario, inflessibile e comprensivo. È inspiegabilmente gentile con noi e poi ci porta anche a vedere il campo. Ma lo sa che abbiamo criticato aspramente in Italia la Missione Arcobaleno? A un certo punto nella tenda dove stiamo discutendo con Moscardini entra il medico del campo: “Senti Piero, qui si avvicina il caldo e ho paura che possano scoppiare delle epidemie. Forse sarebbe il caso di dare, almeno ai bambini, una spremuta di arance. Come prevenzione...”. Risponde Moscardini. “Che te serve?”. “Mah – ribatte il medico – facendo i conti, almeno due arance al giorno a testa, fa più o meno: 3.500-4.000 arance al giorno”. Risponde Moscardini: “Compra. Te faccio subito l’autorizzazione. Poi?”. Ancora il medico: “un paio di spremiagrumi”. Risponde Moscardini “e quan85 do affitti? Almeno sei. Compra. Te faccio l’ordine...”. L’impiego di mezzi, risorse e volontari è veramente impressionante. Non è esagerato dire che in Albania ci siano i campi profughi di serie A (Arcobaleno) e di serie B ( tutti gli altri). A Scutari c’è stata anche una mezza rivolta degli albanesi contro i kosovari, cui veniva dato il pane, naturalmente gratis. Lo volevano pure gli albanesi, disoccupati e affamati. Hanno cosi assaltato il camion che portava il pane al campo. Nel pomeriggio arriva la Ministra Turco a visitare i nostri campi. La mandiamo al dormitorio di Golem. Arrivano una quindicina di macchine. Ci sono una cinquantina tra funzionari, giornalisti e ministeriali vari. Ci sono anche un paio di telecamere. I profughi osservano silenziosi e immobili dalle balaustre delle terrazze del campo, come fosse la scena di un film. I bambini smettono di giocare e seguono il codazzo ministeriale. La Ministra chiede a Chiara informazioni sul campo, abbozza una visita nella struttura, ma si ferma prima di addentrarsi all’interno delle stanze. Chiara non si fa condizionare e ogni tanto si distrae dalle sue domande per dare retta e rispondere ai bambini che le si stringono attorno e a cui dà uguale importanza (grande successo di Chiara tra i bambini del campo). Dopo 13 minuti (ho cronometrato il tempo), si riaprono le portiere delle macchine e di corsa vanno tutti (Ministra, scorta, assistenti, segretarie, politici locali, eccetera) all’aeroporto di Tirana, dove c’è l’aereo della Presidenza del Consiglio che li aspetta. 22 maggio Dopo una visita al nostro campo di Burrell (1600 profughi, dove c’è Marco Donati come responsabile) la sera ritorno a Rubik, dove lascio Federico e Raffaella al campo. Di nuovo incontro Pisapia, perfettamente integrato e felice del suo lavoro qui, ma questa volta ha un look diverso: ha la barba lunga e i vestiti inzaccherati, i mocassini da buttare. E forse anche la giacca di lino. 23 maggio Dall’Albania arrivo in Macedonia, sempre a bordo degli aeroplanini di World Food Program, che sembrano gracili. Siamo una decina di persone (di più non ne porta), quasi tutti funzionari delle Nazioni Unite a 15-20 milioni al mese di stipendio. C’è un’americana che non fa che parlare con una sua collega del college migliore dove mandare la figlia una volta finite le scuole; poi passa al suo cottage che si trova in un non-so-quale parco parlando di un tecnologico sistema di riscaldamento; infine parla delle sue vacanze (un mese in Belize) e delle spiagge tropicali. Dopo qualche giorno di Albania (che ha l’aspetto di un paese uscito da una guerra di dieci anni) la Macedonia fa l’effetto di trovarsi in Svizzera. È un bel paese: verde, rigoglioso e dai paesaggi che ispirano serenità e anche un certo benessere (ma forse esagero: ho 86 ancora in mente il disastro dell’Albania. Il pensiero che viene spontaneo è questo: ecco, così era la Jugoslavia dieci anni fa, prima della guerra. Un paese tutto sommato sereno e con maggior benessere rispetto agli altri paesi dell’est. Poi è arrivato il nazionalismo, la lotta per il potere, il ritorno criminale della contrapposizione etnica. Tutto intorno ci sono distruzioni, devastazioni, povertà. In Macedonia c’è un relativo benessere: le strade sono pulite e ordinate. Skopije fa l’impressione di una bella città tranquilla e sonnacchiosa. Qui, finora, sono riusciti a evitare la guerra. Andiamo (in macchina con Alessandro Pieroni, che coordina la missione Ics in Macedonia e Anna Eva, responsabile delle relazioni esterne e della comunicazione nell’Ics) al confine tra la Macedonia e il Kosovo: siamo al campo di Blace, di cui nelle scorse settimane si è tanto parlato per via delle 30-40mila persone che lo affollavano in condizioni disumane. Il silenzio è assoluto, surreale, come in chiesa; lo si percepisce, lo si ascolta. Il ronzio delle cineprese e dei registratori, gli scatti delle macchine fotografiche sono il sottofondo minaccioso di un’attesa sospesa di eventi da carpire. A un centinaio di metri dal confine, ci sono una quarantina di fotografi con giganteschi zoom che sembrano cannoni, cameraman da tutto il mondo in una babele di lingue diverse: inglese, francese, spagnolo, portoghese, slavo, italiano. Sono in attesa dell’arrivo dei profughi dall’altra parte, magari nella speranza di qualche scena drammatica: profughi a piedi, sui cavalli, donne e bambini piangenti. Qualche settimana fa una macchina è scoppiata su una mina, prima di attraversare il confine. Fotografi e cameraman sono stati accontentati: lavoro e voyeurismo di guerra ben miscelati. Di corsa dall’altra parte del confine arrivano degli uomini saltellanti con una barella fatta di due assi metallici e un telo sbrindellato. Sopra c’è sdraiata una donna anziana: è una contadina, ha le rughe profonde sul viso e un fazzoletto che le raccoglie i capelli. È accovacciata sulla barella e ha gli occhi socchiusi e gonfi. Non sta dormendo: sa di avere su di lei macchine fotografiche e cineprese e non vorrebbe mostrarsi. Fa una smorfia come per trattenere il pianto. Due cameraman con una spinta mi fanno da parte. Finite le riprese si presenta un giornalista del Tg 2: “Sono qui da 20 giorni. Avete qualche cosa interessante da far vedere nei vostri campi?”. Con me c’è Alessandro che lo tratta un po’ sbrigativamente. Ne sono sorpreso, anche Anna Eva lo guarda con preoccupazione: tutti noi siamo sempre molto disponibili (qualche volta servili?) con i giornalisti nella speranza di una citazione, un articolo, un servizio. Alessandro lo tratta alla pari, anzi sembra volergli fare capire che abbiamo cose ben più importanti da fare che dedicargli qualche ora di tempo per un servizio “di colore” di tre minuti in televisione. Gli fa la descrizione delle nostre attività, ma non gli dà soddisfazione: “Vieni quando vuoi, ci trovi là”. Alla fine Alessandro gli dà il suo numero di telefono, ma sbagliato. 87 Nel campo di Blace sono ospitate 5-6mila persone; la situazione è drammatica. I soldati macedoni non vogliono farci entrare, ma poi riusciamo a convincerli. Alessandro incontra un suo conoscente di Pristina. Si riconoscono e si abbracciano. È scappato la notte prima, l’hanno portato alla stazione dei pullman da dove li hanno caricati. Hanno lasciato tutto lì. Si sono portati l’indispensabile: qualche vestito, i pochi averi, delle pentole per cucinare. Le donne sono sedute vicino alle tende. Alcune fanno con calma dei primi lavori: risciacquano delle magliette, lavano delle scodelle. I bambini non giocano. Gli uomini si aggirano per il campo in cerca di una notizia, di una conferma, di qualcuno che possa aiutarli. Le varie Ong internazionali si sono divise il lavoro: chi fa l’ambulatorio, chi la mensa, chi i servizi. I militari, dopo aver montato le tende, guardano o sono sulle ruspe e i muletti meccanici a smuovere terra o a portare pacchi. Ci muoviamo dopo un paio di ore da Blace e andiamo al campo di Stenkovac, che è lì vicino, a pochi chilometri sulla strada che porta a Skopije. Il campo è gestito dalla Nato con l’Acnur. È una spianata immensa: centinaia di tende piantate sulla pista di un vecchio aeroporto. Il clima è completamente diverso. Sembra un immenso villaggio, uno strapaese balcanico. Ci sono baracche all’interno dove si vendono sigarette, caramelle, si fanno caffè. I militari delle Nato e i funzionari delle Nazioni Unite hanno autorizzato l’apertura di piccoli negozi e c’è un via vai di uomini, attrezzi, macchine, biciclette. Il campo è spazioso: tra una tenda e l’altra c’è sufficiente distanza. Non c’è l’ammasso di altre tendopoli. Il campo è diviso in settori: ciascuno è subappaltato ad altrettante organizzazioni non governative internazionali. Sciami di persone ci vengono incontro. Ci dirigiamo verso un punto dove trasmettono con un mixer dell’assordante musica da discoteca. Vediamo delle bandiere israeliane. Sono quelle di una organizzazione umanitaria di Tel Aviv che gestisce una sorta di villaggio di teenager e parco giochi per bambini. Dentro c’è proprio una discoteca: volontari che ballano con i profughi. In ogni angolo di questo “parco giochi” ci sono animatori che organizzano esibizioni, giochi a premi, lotterie. Gli animatori hanno tutti la faccia incredibilmente sorridente e gioiosa, un po’ forzata, esagerata come quella degli animatori dei villaggi Valtur. I bambini e i ragazzi profughi in effetti si divertono tanto: saranno due-trecento. E gli altri? Uscendo da lì ne vediamo tanti con umore diverso: chi s’aggira con le mani in tasca, chi consola i propri vecchi, chi è steso sulla stuoia a fissare il vuoto o ha l’orecchio incollato a una radiolina che dà le notizie. Anche da qui i soldati macedoni, i profughi non li fanno uscire; solo quando troveranno un posto in Europa. 88 24 maggio Finalmente vado – sempre insieme ad Alessandro e ad Anna Eva – a visitare il campo di Senokos, dove l’Ics svolge delle attività di animazione per i bambini. Ci sono 6-7mila persone. Le condizioni qui sono terribili: le tende sono ammassate l’una sull’altra. I servizi igienici sono insufficienti, i bagni sono delle buche in gabbiotti appena tirati su. Ogni tanto arriva un trattore e con un tubo aspirante porta fuori dalle fosse la merda. Il lezzo è insopportabile. I bambini piccoli vanno, a piedi nudi, a fare i loro bisogni in questi bagni dalle buche enormi. Giocano in mezzo al fango. È pieno di mosche. Tra un po’ qui farà caldo e le malattie saranno inevitabili. Nelle tende ci sono dieci-dodici gradi in più. E siamo a ventisei-ventisette gradi all’ombra. Anche qui i profughi dal campo non vengono fatti uscire. Sono dei reclusi. Alessandro mi dice che una delle prossime iniziative sarà con gli anziani del campo: li porteranno a fare una passeggiata nel bosco adiacente e a fare una “merenda”, una sorta di scampagnata. Nutro qualche dubbio; molti di loro hanno fatto decine di chilometri a piedi per scappare dai serbi, e noi li portiamo a fare una passeggiata? Mi sbaglio. L’iniziativa ha una grande successo: uscire dalla prigione del campo e respirare dell’aria buona tra gli alberi (e anche mangiare qualcosa di diverso dalla solita razione) sono buoni motivi per iscriversi all’iniziativa. Devo dire che Alessandro – che pure è un po’ ansioso: si preoccupa sempre eccessivamente di tutto – ci sa fare: ha un buon rapporto con gli operatori e stabilisce un rapporto diretto con tutti, è sempre sorridente, infonde fiducia e sicurezza: bambini e profughi, come ai funzionari delle Nazioni Unite. 25 maggio In ufficio a Skopije sono oggi al lavoro quasi tutti. Ci sono quattro impiegati locali. Sono tutti molto bravi. C’è Guglielmo, che segue le attività di animazione – è un napoletano che vive a Milano, lavora nel teatro, s’è preso un’aspettativa fino alla fine dell’anno – ed è molto bravo; si inventa sempre nuovi giochi e attività da fare. È molto attivo con i bambini e ha molta fantasia. È arrivata oggi anche Susanna, che è la ragazza di Maurizio (che adesso sta con noi a Podgorica, in Montenegro), si occuperà di contabilità. Anna Eva e Alessandro lavorano alla stesura della continuazione del programma dei campi: parlano di cose da fare, di tempi da rispettare, di soldi da richiedere. L’Acnur è in ritardo sui pagamenti. 6 giugno La trattativa per porre fine alla guerra avanza. Alla cessazione dei bombardamenti della Nato, inizierebbe il ritiro delle forze armate serbe in 48-72 ore. 89 La Russia fa resistenza sull’ipotesi che a guidare la forza multinazionale sul campo sia la Nato. Manifestazione ad Aviano in Friuli, da dove partono i caccia della Nato per bombardare la Serbia. La tensione è alle stelle: si temoni incidenti. Le conseguenze dell’assassinio di D’Antona si fanno ancora sentire: c’è aria di una nuova caccia alle streghe. Non tutti si fidano di quello che possono combinare i centri sociali: tenteranno di entrare nella base, di scavalcare le reti? Per arrivare nel paese, bisogna fare dei complicati giri. Dei posti di blocco di carabinieri impediscono di costeggiare il perimetro della base. I bar di Aviano stanno abbassando le saracinesche. In passato più volte ci sono stati incidenti in paese. Dopo un panino nell’unico bar trovato aperto, facciamo una riunione sotto un tiglio. I Cobas non vogliono stare in fondo al corteo. Verranno con caschi e bastoni, ma non li utilizzeranno se non per difendersi dalla polizia: mi sembra di essere tornato indietro di vent’ anni. Si fronteggiano a muso duro (e volano parole grosse) con Vilma e Casarini di Padova. I centri sociali duri (Firenze, Torino, Napoli) accusano più o meno Vilma e Casarini di essere filogovernativi e revisionisti, mentre i centri sociali del nord-est stigmatizzano questi “duri e puri” come “residuati”. Parte con difficoltà il corteo: prima le associazioni, poi i centri sociali del nord-est, poi Rifondazione. Alla fine, gli autonomi. Molta tensione, ma fortunatamente non succede niente. I militanti dei centri sociali del nord-est si comportano bene, evitano provocazioni e non fanno niente che non fosse già stato concordato tra di noi. Migliaia di poliziotti e carabinieri difendono il perimetro della base. All’interno ci sono altre forze schierate: poliziotti (o anche americani?). In effetti gli aerei per due ore non volano. C’è chi la rivendica come una “grande vittoria politica”, giudizio eclatante, che lascia il tempo che trova. Finita la manifestazione gli aerei riprendono a volare. La guerra però sta finendo, i serbi hanno già dichiarato di voler accettare le condizioni della pace. 9 giugno Ieri riunione del G8 a Colonia. I ministri degli Esteri del G8 mettono a punto il testo di una risoluzione da sottoporre al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La pace arriva. Sono in ufficio. Anna Eva ha parlato con l’Acnur. Dice che quando rientreranno in Kosovo ci daranno la leadership della gestione di tutte le attività con i bambini e gli anziani nei centri dove sono ospitati i rifugiati. Ci aspetta un lavoro tremendo. Bisogna prevedere di mandare altre persone anche in Macedonia. Mi chiama Bruno dall’Albania: “L’Acnur ci vuole affidare altri cinque campi, e qui i coordinatori sono stanchi, bisogna prevedere un ricambio. Ci sono problemi al campo di Golem. Il Sindaco ha avuto molti screzi con Carlo, che sta coordinando il dormito90 rio. L’hanno anche minacciato. Che facciamo?”. La sera – dopo due mesi e mezzo – vado al cinema con Paolo e Maria Silvia. Sono le dieci di sera, prima di entrare allo spettacolo. Anna Eva chiama Paolo: “Hanno fatto la pace, hanno annunciato la sospensione dei bombardamenti”. Dopo il film sento i messaggi sulla segreteria del telefonino cellulare. C’è quello di Raffaella, e quello di Vilma: “Un abbraccio da Padova. È finita!”. 91 Iraq. La guerra infinita Bagdad, febbraio 2003 La preparazione è stata tortuosa: vari incontri al consolato iracheno a chiacchierare con il console per cercare di convincerlo a concederci il visto: si tratta di una procedura complessa, lunga e non è detto che vada a buon fine. I colloqui con il console sono anomali: ti fa accomodare su una poltroncina, ti offre gentilmente un caffè, si parla per un’ora della situazione internazionale e di quello che dicono e pensano i politici italiani sull’Iraq (ovviamente la prudenza regna sovrana e le parole misurate e controllate al millimetro). Solo negli ultimi due minuti si parla in modo piuttosto sbrigativo delle procedure per il visto. “Faremo quello che è possibile, è difficile, sa... la situazione complessa...”. Da soli è praticamente impossibile andare in Iraq. Aggregandosi ai viaggi di Un ponte per... c’è qualche speranza. Il visto comunque arriva, due giorni prima della partenza. Ho dovuto rifare il passaporto perché sopra c’era il visto israeliano. Di Iraq so poco. Fino a oggi ho frequentato soprattutto Balcani e Palestina. Le differenze sono sostanziali, ma una è quella che mi pesa di più. Fino a oggi – dove sono andato in missione umanitaria – è sempre stato possibile avere rapporti con gruppi di “società civile” e parlare con l’opposizione; qui in Iraq siamo in presenza di un regime, una dittatura, e l’unico interlocutore è il governo di Saddam Hussein. Il dubbio, allora, ci prende: è possibile fare azione umanitaria sotto una dittatura? È possibile aiutare i bambini negli ospedali consegnandosi nello stesso tempo al silenzio di fronte ai massacratori dei curdi? È possibile fare qualcosa per alcuni che soffrono, sapendo che il prezzo da pagare è quello di disinteressarti ad un’altra categoria di vittime? È certo: se parli male di Saddam Hussein vieni ricacciato indietro e qui non ci torni più. Ognuno ha le sue soluzioni: ad esempio quando Medici senza frontiere ha scoperto di essere utilizzata in Burundi come paravento per la creazione –attraverso la pulizia etnica – di nuovi campi profughi (fonte di aiuti internazionali per la dittatura), ha lasciato tutto (anche i malati che stava curando) e se ne è tornata a casa. L’aiuto umanitario senza i diritti umani (senza la denuncia della loro violazione) è possibile? E a quale prezzo? È questo il “dilemma umanitario” in cui molti si trovano, senza trovare una definitiva risposta. Ne parlo al ritorno del viaggio con David Rieff, figlio di Susan Sontag, e autore di un bel saggio Un giaciglio per la notte, in cui mette sotto tiro le ambiguità dell’azione umanitaria: “L’azione umanitaria – mi dice – è talvolta solo un alibi per la carenza dell’iniziativa politica. Si mandano aiuti perché non si fa quello che si dovrebbe fare per rimuovere le cause delle emergenze e dei conflitti. E i diritti umani vengono sacrificati sull’altare di questo alibi che serve solo alla politica”. 92 Quando parto per Bagdad (è il 12 febbraio del 2003), il mio libro per Feltrinelli: Le ambiguità degli aiuti umanitari è uscito da cinque mesi: metà della comunità delle Ong mi ha tolto la parola, il direttore di una rivista non profit mi ha scritto una lettera di quattro pagine accusandomi di essere vanitoso, arrivista, ambizioso. Un’ importante dirigente dell’Associazione delle Ong mi lancia messaggi di tipo mafioso: “Guarda, smettila, altrimenti dico tutte le cose che so di Ics”. Che sa? Cerco di farmelo dire. “Non insistere, altrimenti finite male”. Avvertimenti paramafiosi. Un ex funzionario delle Nazioni Unite, che ora fa il volontario con Ics, rompe i rapporti e mi dice che sono diseducativo verso i giovani. In effetti sono stato impietoso verso i funzionari delle Nazioni Unite. Ma sono più diseducativi loro con i loro stipendi, i loro privilegi, il loro arrivismo. Da qualche mese il mondo umanitario è attraversato da una fibrillazione continua: si sente messo in discussione, i panni sporchi vengono lavati all’aperto e ci sono degli “infiltrati” che rompono l’omertà corporativa della “categoria” di quegli operatori umanitari piegati o al business dell’aiuto o alla logica della guerra umanitaria. Al posto di blocco tra la Giordania e l’Iraq, il controllo dei passaporti e della dogana è quello solito dei regimi dittatoriali o in guerra: lunghe attese, controlli minuziosi, trafile burocratiche senza senso, tra timbri, moduli da riempire, registri da compilare, visti da ricopiare. Inclusi gli sguardi accigliati e per niente socievoli dei funzionari e dei soldati su cui incombono – in stanze disadorne e sciatte come tutte quelle dei posti di frontiera – vari ritratti di Saddam raffigurato in tutti i modi: solenne e sportivo, cacciatore e animatore di bambini, sorridente e severo, eccetera. Siamo nel mezzo della notte – infreddoliti nella landa desertica che separa i due paesi – e dobbiamo aspettare l’alba – quando riaprirà la frontiera – per poter passare. Il viaggio è stato sino a ora lungo (quattro ore di aereo e un paio di macchina) e lo sarà ancora molto (altre otto ore di viaggio in mezzo al deserto). Aerei da Amman a Bagdad – da tempo – non ce ne sono più, ormai. È l’embargo. Superiamo finalmente la frontiera. Siamo in Iraq. Attraverso una lunga autostrada corriamo per sei-sette ore incontrando al massimo una decina di macchine. Di militari iracheni, nessuna traccia. Bagdad è città ordinata, ritratti di Saddam sui palazzi e pochi soldati per le strade. Siamo in un grande e vecchio albergo statale mal messo. Il nostro gruppo – una quarantina di persone – si riunisce per organizzare le iniziative progettate: incontri e visite, fino a una manifestazione per la pace – il 15 febbraio – in contemporanea a quelle che si svolgono in tutto il mondo (e a Roma) contro l’intervento militare in Iraq. Mi svincolo un po’ dal gruppo per seguire un mio personale programma di appuntamenti e visite. Il primo che chiamo – dopo numerose telefonate improvvisamente interrotte: ovviamente il numero è sotto controllo – è David Bellamy, il re93 sponsabile dell’Unhcr (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) a Bagdad. Non lo conosco, ma è affabile e mi invita subito ad andarlo a trovare. Mi accoglie nella sua sede, tutto sommato semplice e sobria. Ha i baffi, è alto e sembra un attore di soap della Bbc: una specie di Peter Sellers meno trasandato. Chiacchieriamo della situazione in Iraq, è giovale e mi invita a cena per l’indomani. Scopro dopo pochi minuti di conoscenza la ragione di questa affabilità. A Bagdad è solo: le Nazioni Unite hanno fatto sloggiare la sua famiglia e anche di funzionari internazionali ne sono rimasti pochi. Un po’ il cameratismo tra operatori umanitari (governativi e non), un po’ la solitudine, un po’ la rarità delle visite degli occidentali fanno di Bellamy un interlocutore disponibile. Parla molto, mi spiega molte cose dell’Iraq. Ascolto, imparo. È la mia prima volta. Quando siamo nella sede delle Nazioni Unite, non nomina mai Saddam Hussein, ma si passa la mano sui baffi per farmi capire che sta parlando di lui. Anche la sede delle Nazioni Unite è infestata di microfoni del regime. Ha un modo tutto suo di farsi volere bene dagli iracheni: stringe la mano a tutti in modo particolare, non caloroso, ma con grande rispetto e dignità. Ogni stretta di mano sembra un evento importante. Stringe la mano all’autista che ci porta al ristorante, al cameriere che ci accoglie sulla porta, all’edicolante quando compra il giornale, al venditore di quadri nella galleria d’arte, al giardiniere che annaffia le piante di casa. Per ognuno ha un sorriso e un saluto dignitoso. La sua casa, una grande villa da diplomatici, nel quartiere residenziale di Mansur è vuota, triste e un po’ angosciante. Ha due piani e una scala paraboloide che sembra quella delle ville old fashioned del profondo sud degli Stati Uniti. Seguiamo insieme al notiziario della Cnn il servizio su una seduta del consiglio di sicurezza in cui si parla di Iraq. Spiega le dinamiche, i contrasti e le alleanze nelle Nazioni Unite. È a un anno dalla pensione: racconta dei paesi che ha girato, delle missioni che ha avuto. È comprensivo verso gli iracheni e critica – in modo diplomatico, ovviamente – gli americani per l’atteggiamento arrogante e aggressivo verso il paese. Non riesce a capire le ragioni di questo comportamento. Poi passiamo agli argomenti di carattere umanitario e al ruolo dell’agenzia delle Nazioni Unite: “Delle agenzie internazionali l’Unhcr è quello che ha il ruolo minore. Attualmente l’agenzia ha il mandato sui profughi stranieri residenti in Iraq (iraniani, curdi-turchi, palestinesi), in sostanza circa 30mila profughi e lavora direttamente con il governo (che è molto generoso con i profughi) e prioritariamente con le organizzazioni locali”. Mi racconta che hanno un budget modestissimo, un milione di dollari. In caso di emergenza umanitaria non avranno mandato sull’assistenza agli sfollati interni (sarà delle altre agenzie, in particolare di Unochi, l’agenzia umanitaria dell’Onu per l’Iraq), ne prevedono 600mila (al massimo faranno solo la protection) mentre il grosso dei 94 rifugiati previsti (800mila) secondo loro andrà in Iran e in Siria; la Giordania ha annunciato di chiudere le frontiere. Racconta tutto ciò a cena in ristorante con una bottiglia di vino che ci siamo portati da casa e che sta sotto il tavolo avvolta in un foglio di giornale (per rispetto verso i costumi religiosi locali) accanto a un sacchetto di carta con centinaia di biglietti di dinari iracheni (l’inflazione è a livelli stratosferici), che serviranno a pagare il conto. Il giorno successivo, mi inoltro vicino all’Hotel Palestine, dove c’è il capo missione dell’Unicef, Carel De Rooy, un olandese, determinato e motivato, abituato a trattare con le Ong in cerca di finanziamenti. È smaliziato, ma serio. L’Unicef ha un programma più consistente, 10 milioni di dollari (bilancio proprio), più i fondi che utilizza attraverso l’Unochi (programma Oil for Food – vendita di petrolio iracheno solo per acquisto di cibo –, non ho capito quanti soldi sono, ma devono essere tanti). I loro interventi – tenuto conto che la malnutrizione infantile non è solo la mancanza di cibo, ma una dieta povera (60% delle donne sono anemiche), la situazione sanitaria (le acque inquinate al sud sono un fatto generalizzato), la povertà, la descolarizzazione per cui il 25% dei bambini e 1/3 delle bambine non vanno a scuola – sono: a) monitoraggio sulla situazione sanitaria dei bimbi (più o meno un milione), b) interventi di supplementary feeding per i bimbi, c) ristrutturazione di scuole (500) e ospedali (63) pediatrici, d) interventi sulla potabilizzazione delle acque, e) interventi di educazione informale, eccetera. Lavorano con Ong internazionali (tra cui Care ). Insieme al governo hanno creato 2.800 centri di monitoraggio e di distribuzione di cibo per i bambini (Community Child Care Units) che coinvolgono ben 13mila volontari locali. Ho cercato di capire cosa possiamo fare noi e lui mi ha chiesto qual è il nostro comparative advantage, rispetto alle altre Ong. Mi dice che se facessimo qualcosa che ha a che fare con l’educazione di quel 1/3 di bambine che non vanno più a scuola, loro sarebbero molto contenti. De Rooy ci consiglia di non disperderci e di concentrarci su un’unica area (in questo senso Bassora, va molto bene). L’impressione è che si può fare qualcosa – un progetto, una proposta – con l’Unicef; ma dobbiamo fargli noi una proposta, una volta fatto l’assessment, rimanendo nell’area di Bassora. Continuo il pellegrinaggio tra le organizzazioni umanitarie. Il terzo incontro è quello con il World Food Programme. Vedo il capo missione Torben Due e il suo collaboratore Tarek Elguindi (cordinator/food observation). L’incontro è nella sede delle Nazioni Unite: solo sei mesi dopo (in agosto) verrà distrutta da un attacco terroristico dove perderà la vita il vicesegretario dell’Onu Sergio Viera de Mello. Sono entrambi molto disponibili, l’atmosfera è buona. Siamo stati preceduti da una telefonata di un vecchio amico del Wfp di Roma, Francesco Strippoli, che ci ha presentato. Il loro è un intervento enorme (da quello che ho capito sono inseriti nella la cornice del 95 programma “Oil for Food”(Off ) in base al quale il 70% dei ricavi dalla vendita del petrolio va nell’acquisto di beni alimentari) dato che di fatto viene data assistenza alimentare a tutto il paese: tutte le famiglie hanno una tessera con la quale prelevare la razione di base mensile presso magazzini governativi. Saddam, per motivi di propaganda, ha già distribuito i buoni-razione fino a giugno (razioni che poi magari vengono vendute sul mercato). La dinamica delle relazioni tra la distribuzione gestita direttamente dal governo e quella che fa il Wfp (World Food Programme) è molto stretta. Andando all’Hotel Palestine – dove è in funzione l’unico internet point cui hanno accesso gli occidentali – incontro alcuni rappresentanti delle Ong internazionali, tra cui Care, Enfants du Monde, Premiere D’Urgence, Norwegian Aid, eccetera. Medici Senza Frontiere sta aprendo adesso (ancora in attesa del permesso) un ufficio con sette espatriati. La sede delle Ong sono praticamente tutte nell’albergo Al Fanar (in Iraq non si possono affittare case per sedi e alloggio). Delle italiane quelle che si stanno dando da fare per entrare sono Gvc, Intersos, Cosv e Terres des Hommes. Le Ong in Iraq non sono molte e rigorosamente sotto controllo: se criticano Saddam vengono espulse. Tre giorni passano in fretta ed è ora di ripartire. Notizie dall’Italia: grande manifestazione di tre milioni di persone a Roma (è il 15 febbraio) contro la guerra. Speriamo che serva a fermarla. Altre decine di manifestazioni in giro per il mondo e anche qui abbiamo fatto la nostra in un centinaio di persone (rappresentanti delle Ong internazionali presenti a Bagdad). Conferenza stampa e ultimi incontri con gli operatori locali. Poi, ultima cena con il gruppo dei volontari italiani presenti a Bagdad, che rimarrà nella città ancora un paio di giorni. Parto a mezzanotte con la jeep. Ho l’aereo ad Amman in mattinata. I pesci di fiume messi a cucinare sulla brace, dopo due ore non sono ancora cotti. Mangiamo solo pane. Con Giuliana Sgrena (che è qui per conto de “il manifesto”) prendiamo un taxi, ci scambiamo le impressioni su quello che può succedere da qui a breve (anche lei rimane a Bagdad ancora per alcuni giorni) e ce ne ritorniamo nei nostri alberghi. Mi aspettano il fuoristrada e molte ore di viaggio verso Amman. Bagdad e Bassora, luglio 2003 È l’alba quando passiamo il confine giordano-iracheno. Come quattro mesi fa, poco prima dell’inizio della guerra. Qualche differenza è evidente: un campo di profughi palestinesi e sudanesi (saranno un migliaio) è spuntato nella terra di nessuno: scappavano dall’Iraq, ma in Giordania non li fanno entrare. E indietro non ci vogliono tornare. Non si possono fotografare o riprendere: i poliziotti giordani ti sequestrano le macchine da presa. Non ci si può avvicinare. Le tende sono dei lenzuoli leggeri appena appoggiati a del96 le strutture traballanti. Una spianata sorda e polverosa di centinaia di tende nel deserto, senza coperture e teloni, al sole dei cinquanta gradi di questo periodo. Qualche profugo tenta di avvicinarsi alle macchine di passaggio, ma viene ricacciato indietro dal pronto intervento del guardiano giordano. Altra differenza: tutti i ritratti di Saddam distrutti o cancellati; in una stanzetta, di venti metri quadri ce n’era (allora) una quindicina di diverse fattezze e colori: foto e dipinti, primi piani e scene di caccia con sempre il dittatore protagonista. Non ne è rimasta più nessuna. E poi – terza novità – gli americani, i soldati americani: giovani, giovanissimi, per niente affatto spavaldi, impauriti, molti sbarbatelli. Guardano sonnacchiosi dai loro blindo impolverati e da quegli orrendi Humvee (le blindo-jeep piatte e larghissime con delle mitragliatrici appostate in alto); lasciano fare il personale iracheno che controlla passaporti e macchine. Per noi, nessun sorriso. Sembrano non avere parole, sono stanchi; più che “rambo muscoli gonfiati” – sono gracili nelle divise più grandi, alcuni con gli occhialoni da secchioni e faccette impaurite – sono dei ragazzi ventenni dalla provincia americana che magari hanno bisogno di soldi: per avviare un negozio o per pagarsi gli studi. Dal confine a Bagdad ci sono ancora sei-sette ore di viaggio. Dipende dalla velocità (folle) con la quale gli autisti delle potenti jeep che ci accompagnano, guidano. Siamo con una delegazione di organizzazioni umanitarie: in tutto una quindicina. L’autostrada fino a Baghdad è a quattro corsie e scarsamente frequentata (e solo un paio di volte incontreremo qualche colonna di soldati americani); bisogna proteggersi da eventuali assalti di banditi e predoni; è già successo a un convoglio di Medecins du Monde che solo un paio di giorni prima è stato completamente saccheggiato. Soprattutto nelle vicinanze di Baghdad, intorno a Chaladi e Falluja, i rischi sono seri: lì ancora si combatte. Ci sono giornalieri attentati e imboscate. Non incontriamo praticamente nessun mezzo militare (iracheno) distrutto o abbandonato. Dov’è stata la guerra? Non ci succede niente né a Chaladi, né a Falluja ed entriamo tranquillamente a Bagdad. La città è più caotica della volta precedente. Il traffico impazzito, le macchine contro mano. Tanta gente per strada. Di pattuglie americane non così tante; ovviamente il grosso dell’esercito americano se ne sta ben rinchiuso nella “zona verde”, inaccessibile dall’esterno. Un modo per evitare di fare troppo da bersaglio agli attentati che in questi giorni stanno crescendo. Ministeri e sedi del governo sono state più o meno tutte colpite; con una certa precisione. Anche perché generalmente queste si trovano lontano dai quartieri abitati. Passiamo davanti al ministero del Petrolio; è intatto e controllato massicciamente dai soldati americani. Qui sembrano più aggressivi, nervosi, pronti a sparare, con il dito già sul grilletto delle loro mitragliatrici enormi. Lungo il Tigri la strada impazzisce: vanno tutti contro mano e l’ingorgo è inevitabile. Gli ameri97 cani hanno bloccato una direzione della strada all’altezza dell’Hotel Palestine (dove il regime aveva confinato i giornalisti): hanno paura di attentati ed evitano il passaggio di macchine nelle vicinanze. In alto il muro scheggiato del balcone dell’Hotel colpito da un carro armato americano, che ha ucciso un giornalista spagnolo. Avevano detto che il carrista si era sbagliato, scambiando la macchina da presa per un fucile. Lo sapevano tutti che al Palestine c’erano solo giornalisti, ma facciamo la prova a occhio nudo: si riconoscerebbe facilmente la differenza tra un fucile e una macchina da presa. A maggior ragione con un mirino di precisione di un cannoncino di carro armato. Iniziano gli incontri politici. Siamo qui per capire cosa sta succedendo, come la pensano gli iracheni, per vedere cosa possiamo fare. Il primo incontro è con il responsabile esteri dei comunisti iracheni. Un politico di professione. Ragionevole, intelligente, moderato: contento di essere stato invitato dalla Madeleine Albraight in Giordania per un convegno di un istituto di studi americano contrario alla linea di Bush. È per l’economia di mercato e non è contrario alle privatizzazioni (per lo meno non a tutte). Sarà il politico più sano e intelligente che incontriamo. I comunisti hanno creato le loro Ong (come hanno fatto con ben più diffusione gli islamisti) e anche associazioni di donne come la Women League, che temono di essere discriminate ed emarginate dalla presa del potere degli islamisti. Incontriamo esponenti degli altri partiti (islamici, progressisti, eccetera) del sindacato, delle organizzazioni delle donne (Iraqi Women League), delle istituzioni religiose sunnite, sciite e cristiano-caldea (il Vescovo della città), delle Ong locali (Tammuz, vicine al partito comunista iracheno), dei media indipendenti (Al-Muajaha, un nuovo settimanale finanziato dai pacifisti americani), le organizzazioni culturali (il Circolo degli Artisti, presenti pittori, teatranti, scrittori), eccetera. Ci riuniamo anche con gli operatori delle Ong (Ics, Un Ponte per… Terres des Hommes, Intersos) con le quali Ics condivide l’ufficio a Baghdad, incontro nel quale facciamo il punto della situazione umanitaria della città dei progetti in corso, delle difficoltà che si incontrano sul campo, dei rapporti con le autorità e le istituzioni internazionali. Ci sono Simona Torretta (che fino a poco tempo prima ci ha aiutato a coordinare il Tavolo per gli aiuti con il popolo iracheno), Ernesto Bafile e altri. Simona fino a gennaio, ci aiutava a coordinare – dalla sede romana del Ponte – il Tavolo di coordinamento per l’Iraq: era un po’ la segretaria della struttura e si occupava di tenere le comunicazioni e i contatti. Ma è sempre voluta andare e stare in Iraq; e così a fine febbraio – prima dell’inizio della guerra – è andata a Bagdad e ci è rimasta sotto le bombe; da allora non è più tornata in Italia. Dopo la fine della guerra noi abbiamo mandato Stefano e Marco Bertotto, per fare il primo convoglio di aiuti e poi a operare sul campo Ernesto e Annalisa. L’Ics continua a co-promuovere (con Un 98 Ponte per… e Terres des Hommes) il progetto Echo di fornitura di ossigeno agli ospedali della città ed è in contatto con Unicef per la realizzazione di un progetto per la formazione di operatori sociali a Baghdad e in altre città del paese. A Bassora l’Ics sostiene con un programma specifico di integrazione alimentare ai bambini malnutriti le attività del dispensario Sindbad, istituito nel 1997 da Un Ponte per… e ha rifornito l’ospedale pediatrico della città di condizionatori d’aria per le stanze dei bambini ricoverati, frigoriferi per le medicine e altre attrezzature. Il tutto grazie ai fondi raccolti dalla campagna Nuove Basi in Iraq e al sostegno di gruppi (hanno raccolto molte migliaia di euro) come Insieme-Zajedno di Roma e Assieme di Calenzano. Sono in corso contatti per altre possibili attività, ancora da avviare: da un programma con Unhcr per attività di accompagnamento (microcredito, integrazione sociale) al rientro dei profughi dall’Iran e un progetto con Undp per la creazione di un centro giovanile in un’area particolarmente degradata della città. Da Bagdad partiamo per Bassora. Arriviamo in città dopo otto ore di fuori strada costeggiando nell’ultimo tratto il Tigri. Anche a Bassora abbiamo progetti e attività in corso. Con Un ponte per... seguiamo l’ambulatorio di Sindbad, che dà assistenza a ad alcune centinaia di bambini. Si affaccia sul Tigri in una zona tranquilla e silenziosa della città, lungo un viale alberato: sembrano dei grandi tigli – ma dalle foglie più grandi – quelli che ci portano un po’ di fresco nella calura di luglio. C’è silenzio, una sensazione surreale di pace. Non è una zona di traffico, macchine non ne passano. L’ambulatorio è pulitissimo. Il medico che lo dirige ci spiega i problemi e le esigenze: le medicine che mancano, le attrezzature ormai inutilizzabili, eccetera. Prendiamo nota di tutto quello che serve; gli spieghiamo perché ci troviamo lì, giochiamo con dei bambini in attesa di farsi visitare. Nel pomeriggio andiamo all’ospedale pediatrico di Bassora, dove ci sono i bambini ricoverati. L’ospedale è pulito, i medici con camici lindi e sorridenti che ci spiegano pazientemente tutti i problemi sanitari della zona, le madri silenziose e meste, i bimbi incuriositi dalla nostra presenza insolita che ci seguono in pigiama. L’emergenza più grande è quella delle incubatrici: ce ne sono solo quattro-cinque e ce le fanno vedere: vecchie, incrostate ossidate e consumate dal tempo, mal messe. “Ne servirebbero almeno cinquanta”, dicono. L’Ics sta continuando in questi mesi a rifornire l’ospedale di medicinali e altre attrezzature, ma le incubatrici non sono state ancora mandate. Gli aiuti delle istituzioni internazionali non arrivano. Da qui parte l’idea di un progetto per acquistare quelle trenta incubatrici (costano due-trecento dollari l’una) attraverso una sottoscrizione popolare in Italia (in poche settimane raggiungeremo l’obiettivo); intanto diamo indicazione agli operatori locali di Ics di farne arrivare qualcuna dal Kuwait. Hanno anche il problema delle 99 bombole d’ossigeno: li manderemo da Bagdad dove – dalla fine della guerra – abbiamo iniziato a un progetto per riattivare una fabbrica che riforniva di ossigeno tutti gli ospedali della città. Altra emergenza: mancano i condizionatori d’aria. Nell’ospedale fa molto caldo: ci sono un po’ di ventilatori che sono insufficienti. Anche in questo caso ne faremo arrivare un po’ dal Kuwait (a Bassora si trova ben poco); Annalisa si sta scrivendo su un piccolo quaderno tutte le cose da fare. Un po’ di soldi li abbiamo raccolti e siamo in grado si spenderli subito. C’è con noi anche Daniele della Uisp che ha deciso di allestire una o due “ludoteche” per i bambini malati: manderà giocattoli, tavolini, sedie, lavagne per farli giocare. Il sistema sanitario iracheno è vicino al collasso: privo di medicine, ossigeno, attrezzature, con il personale senza stipendi. Ugualmente disastrosa è la situazione dell’acqua, inquinata e non potabile, problema crescente in diverse aree del paese e all’origine di tante malattie. Va ricordato che tutto ciò non è solo il risultato della guerra, ma di oltre dieci anni di embargo occidentale che ha colpito anche gli ospedali. Ci si sente male a girare in quell’ospedale con le nostre macchinette fotografiche e telecamere, vestiti casual da occidentali, un po’ voyeuristi, anche se le donne del nostro gruppo (una è Simona, una pediatra che lavora ad Insieme Zajedno, e che con i bambini ha a che fare tutti i giorni) rompono l’imbarazzo con una spontanea familiarità, per nulla forzata – fatta di gesti, sorrisi, contatti con le mani – con le madri e i bambini che le girano intorno. Tra donne le barriere si rompono. Giocano, scherzano. Mi sento un po’ meglio. La sera, parliamo di altri progetti e attività. A Bassora è pieno di soldati inglesi. La sera quando andiamo alla palazzina delle organizzazioni umanitarie internazionali (dove ci sono computer e telefoni) sentiamo in vicinanza spari e mitragliate, ma Ernesto e Annalisa (che prima di qui si sono fatti tutta l’emergenza in Kosovo) dicono di non preoccuparci: sono colpi di avvertimento, non ci sono combattimenti in giro. In ogni caso alle 21 c’è il coprifuoco e tutti gli alberghi di Bassora sono murati alle finestre e alle entrate, con le guardie armate la notte. Facciamo brevi riunioni nella hall, ci scambiamo idee e impressioni, pensiamo alle cose da fare al ritorno in Italia. Nel nostro albergo ci sono alcuni cinesi, che non sono operatori umanitari: hanno con sé decine di scatoloni e casse di hi-fi, televisori, computer. Il business inizia. La mattina ripartiamo per Bagdad e poi per Amman, quasi venti ore di viaggio a velocità sempre folle in fuori strada. Nel frattempo cerco di fare mente locale e mettere ordine sui punti politici e operativi emersi da questo viaggio. Tra le tante priorità che abbiamo potuto registrare nelle nostre visite ne emergono tre. La prima: la necessità di arrivare rapidamente a una transizione politica che riconsegni l’Iraq agli iracheni, attraverso il trasferimento 100 di veri poteri di intervento al nuovo (anche con molti limiti) “consiglio legislativo” (trasformandolo in un vero governo provvisorio), l’indizione di elezioni politiche entro pochi mesi e il ritiro delle forze occupanti e la consegna all’Onu di un mandato che permetta all’organizzazione del Palazzo di Vetro di essere l’unico garante di questo processo, inclusa la sicurezza e il “mantenimento della pace” nel paese. Tutte le forze politiche che abbiamo incontrato ci hanno manifestato questa preoccupazione: in assenza di un’investitura democratica (piena) a un governo provvisorio degli iracheni le reazioni violente e gli attentati agli americani non potranno che aumentare. Questi non sono semplicemente il frutto delle azioni di “sbandati” o di “saddamisti”, ma l’espressione crescente di un’opposizione all’occupazione anglo-americana del paese. L’atteggiamento anti-americano sta crescendo e un gruppo di organizzazioni americane che abbiamo incontrato ci hanno informato di voler costituire un “osservatorio sull’occupazione” per documentare misfatti e danni degli occupanti. Davanti all’Hotel Palestine (dove durante la guerra erano ospitati i giornalisti) c’è la piazza simbolo della caduta del regime, ripresa dai canali internazionali quando fu divelta e buttata giù la statua di Saddam Hussein. Adesso al posto di quella del dittatore ce n’è un’altra più neutra sulla quale qualcuno ha scritto con uno spray in grandi caratteri proprio di fronte ai carri armati americani che la controllano: “All done. Go home” (tutto fatto, andatevene a casa). Tutti ci hanno detto che un’occupazione di lungo periodo (oltre l’anno) degli anglo-americani è insostenibile per il paese e scatenerebbe una reazione sempre di più di massa. Tra l’altro le azioni militari degli oppositori si vanno via via facendo sempre di più mirate, organizzate e coordinate. La seconda: l’impegno a sostenere rapidamente la nascita e lo sviluppo di organizzazioni della società civile in grado di costruire un tessuto democratico e laico del paese. Gli americani sono al lavoro per clonare con i dollari le Ong e le organizzazioni sociali secondo un’idea di “società civile” molto profit e business oriented. Noi dovremmo cercare di fare esattamente l’opposto: aiutare a costruire dal basso una “democrazia che si organizza” con corpi sociali autonomi (associazioni, sindacati, media liberi, gruppi di donne, eccetera) che possano influire sulla transizione ed essere un’alternativa laica e civile (o per lo meno un contrappeso) ai nuovi raggruppamenti fondamentalisti, clanici o affaristi che si sono già formati. In questo contesto la missione è anche servita per verificare la disponibilità di alcuni interlocutori a partecipare al forum sul dopoguerra in Iraq che si terrà a Salerno agli inizi di ottobre, nell’ambito delle iniziative legate alla marcia Perugia-Assisi. Nel nuovo contesto politico-sociale iracheno a prendere piede sono le organizzazioni islamiche o legate alle istituzioni religiose. Nell’incontro che abbiamo avuto con un Imam di un quartiere di Baghdad (noi uomini in una 101 stanza, le donne in un’altra) e con il Partito Islamico (progressista) ci siamo resi conto dei rischi che corre una visione laica, democratica e di mantenimento dei diritti delle donne del futuro stato iracheno. E nello stesso tempo, l’influenza americana sulla vita politica rischia di condizionare e marcare le caratteristiche di alcune nuove forze politiche, anche se la maggioranza di queste (tra loro molto litigiose e gelose) è ancora fortemente anti-americana. Insieme al rischio fondamentalista, vi è quello politico-affaristico (dei nuovi partiti: tra tutti il Congresso Nazionale Iracheno di Chalabi) legato alla gestione del business della ricostruzione e dell’aiuto umanitario (e qui si danno da fare le nuove Ong irachene filo-americane che si vanno formando per gestire i soldi degli aiuti). La terza: dare risposta agli immediati bisogni sociali della salute, della sopravvivenza economica, dell’istruzione ricercando una propria via alla transizione economica che non sia la predisposizione (come ci si appresta a fare) di quelle ricette neoliberiste (privatizzazioni, mercato selvaggio, deregulation del settore pubblico) che già tanti danni ha fatto nei paesi in via di sviluppo e nell’est europeo. I bisogni, come già ricordato, sono drammatici. Tutti sono consapevoli (ce l’hanno detto anche i comunisti iracheni che prima del regime di Saddam erano una delle forze principali del paese: il dittatore iracheno ne sterminò diverse centinaia di migliaia di comunisti negli anni ’70) che è necessaria una transizione a un’economia mista di mercato: ma le privatizzazioni di cui si parla qui sono altro, sostanzialmente la spartizione del bottino (cioè il petrolio) da parte degli occupanti. In questo quadro la situazione sociale e umanitaria della popolazione irachena sembra peggiorata e tutto sembra alimentare – come è avvenuto in situazioni analoghe – un’economia “grigia” fatta di traffici illeciti e criminalità. A pagare il prezzo è la gran parte della società irachena e in particolare le categorie più esposte: bambini, anziani, disabili, donne. Nel frattempo anche i fenomeni di aids e tossicodipendenza (come i bambini di strada che abbiamo visto sniffare colla) stanno crescendo. Gli americani pensano alla propria sicurezza, non a quella delle popolazioni e quasi niente fanno per ristabilire il minimo di infrastrutture civili che permetterebbero di vivere un po’ meglio in questa fase. Prioritario è dunque inviare aiuti e rispondere a questi bisogni primari; a maggior ragione se si riesce unire a questo impegno l’iniziativa a sostegno di gruppi democratici iracheni della società civile in nascita. 102 Indice 3 Prefazione Parte prima 7 Le culture politiche del pacifismo Parte seconda 23 I pacifisti e Gorbaciov. Il giorno del golpe 29 Time for peace 43 Guerre fratricide 66 La guerra umanitaria e il Kosovo 92 Iraq, la guerra infinita Nella stessa collana Quaderni 1 AA.VV. Terzo settore: la fine di un ciclo 2 Alexander Langer Pacifismo concreto. La guerra in ex Jugoslavia e i conflitti etnici 3 Bianca Giudetti Serra Contro L’ergastolo. Il processo alla banda Cavallero 4 Paul Goodman Educazione e Rivoluzione. Per diventare persone a cura di Vittorio Giacopini 5 AA.VV. Rapporto sull’editoria sociale. Numeri e tendenze di case editrici, riviste e siti web 6 Claudio Pavone Dal Risorgimento alla Resistenza 7 AA.VV. Necessità e servitù della critica. Cosa cerca l’arte? A che serve la critica? 8 AA.VV. Quel che gli studenti non sanno e non fanno. Idee per un movimento 9 Aldo Capitini Agli amici. Lettere 1947-1968 a cura di Goffredo Fofi e Piergiorgio Giacchè 10 Norberto Bobbio Il pensiero di Aldo Capitini 11 Edmondo Marcucci Che cos’è il vegetarismo? 12 Adriano Olivetti Fabbrica e comunità. Scritti autobiografici a cura di Alberto Saibene 13 Francesco Ciafaloni Destino della classe operaia Finito di stampare nel mese di settembre 2011 15/09/2011 14.50 Pagina 1 Fare pace Jugoslavia, Iraq, Medio Oriente: culture politiche e pratiche del pacifismo dopo il 1989 Giulio Marcon 14 I LIBRI DE LO STRANIERO 9 788863 570687 I QUADERNI I QUADERNI Un saggio sulla storia del pacifismo italiano dal 1945 a oggi introduce in questo quaderno ad alcuni drammatici reportage, interventi e racconti delle esperienze del movimento pacifista italiano ed europeo dai principali luoghi dei conflitti del dopo 1989: le guerre in Jugoslavia, i conflitti in Palestina e in Medio Oriente, la guerra in Iraq, i conflitti nella ex Unione Sovietica. Un viaggio “dal di dentro” nella cultura e nelle pratiche del pacifismo italiano tra interventi di solidarietà, aiuto umanitario, nonviolenza e disobbedienza civile nei maggiori conflitti degli ultimi venti anni, raccontato da uno dei suoi protagonisti e testimoni, senza tacerne le difficoltà e contraddizioni. € 5,00 COVER.qxp