Lo sviluppo locale sostenibile come equilibrio tra

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Lo sviluppo locale sostenibile come equilibrio tra
Lo
sviluppo
locale
sostenibile come equilibrio
tra natura e sviluppo socioeconomico
Lo ‘stato dell’arte’ della sostenibilità e dell’efficienza
energetica nelle parole di Gianni Scudo, raccolte da Gian Luca
Brunetti
Come è cambiato
sostenibilità?
negli
ultimi
decenni
l’approccio
alla
Lo scenario della sostenibilità negli ultimi anni, prendendo
come data di riferimento la pubblicazione del cosiddetto
rapporto Brundtland del 1987, è cambiato molto, nel senso che
si è passati da scenari, strategie e politiche sovralocali di
tipo top down (dall’IPPC a Kyoto alle norme europee sul
risparmio, l’uso razionale dell’energia e la diffusione
dell’uso di fonti energetiche rinnovabili), promosse da
organizzazioni internazionali, governi sovranazionali e
nazionali (in particolare nell’Unione Europea che è leader nel
mondo nel settore energetico – ambientale ), a politiche e
strategie locali (di tipo bottom-up), costruite dal basso, che
hanno coinvolto i reali attori della sostenibilità intesa in
senso molto concreto, cioè mirato al cambiamento dei nostri
stili di vita individuali e collettivi con processi di
sensibilizzazione all’utilizzo ambientalmente consapevole
delle risorse energetiche ed ambientali, che hanno portato a
una riduzione dei consumi energetici, di suolo, e dei beni di
consumo e di conseguenza alla riduzione dell’ impronta
ecologica.
Cosa si intende per sviluppo locale sostenibile? Quali sono,
attualmente, i principali strumenti di questo processo a
disposizione degli enti locali?
Lo sviluppo locale sostenibile è un processo molto importante
che è emerso negli ultimi due decenni ed è inteso come
equilibrio dinamico tra natura e sviluppo socio economico: in
poche parole significa che dobbiamo imparare a vivere con gli
interessi del capitale naturale (intesi come servizio degli
ecosistemi) senza intaccarlo come è capitato negli ultimi 40
anni, cioè da quando il consumo di risorse ha superato la
capacità di rigenerazione degli ecosistemi. Questa concezione
di sostenibilità si definisce “forte” per distinguerla
da
quella “debole” che non si pone il problema del riequilibrio
strutturale tra natura e sviluppo.
L’Unione Europea si sta muovendo anche in questa direzione,
con politiche, norme e incentivi che accompagnano e rafforzano
processi già avviati di sviluppo locale sostenibile e che
inducono gli attori locali ( associazioni, comunità, enti)ad
agire in modo strutturale. Uno di questi strumenti è il Paes
(Piano d’azione per le energie sostenibili), che comporta
piani di azione locali promossi dai comuni che prevedono
entro il 2020 la riduzione delle emissione all’interno la
politica 20/20/20 dell’Unione Europea: ridurre il consumo di
ogni forma di energia del 20%; ad aumentare del 20%
l’efficienza dei diversi dispositivi energetici; a coprire per
il 20% la residua domanda con energie rinnovabili. Molti piani
di azione per le energie sostenibili sono andati anche oltre a
questa riduzione 20/20/20% a livello di programma pluriennale.
L’aspetto più interessante dei Paes è che hanno coinvolto enti
di varia dimensione. E’ un impegno che viene controllato
attraverso un monitoraggio che garantisce il controllo delle
azioni svolto dall’ente locale nei vari settori: trasporti,
riscaldamento e raffrescamento degli edifici, e produzione di
energia per altri usi
Accanto ai Paes esistono tanti altri programmi sempre partiti
dal basso, riguardanti gli aspetti ambientali e di mitigazione
del clima urbano, come, ad esempio, le azioni promosse da
Alleanza per il Clima. L’aspetto più importante è che questi
programmi per la prima volta partono da esigenze specifiche
delle Comunità l ed enti locali e quindi includono la
differenziazione di caratteristiche che riguardano sia lo
stile di vita, sia la disponibilità di risorse, che variano
molto da luogo a luogo e da comunità e comunità. I precedenti
programmi di carattere energetico, avendo carattere nazionale
e sovranazionale, non entravano nel merito della grande
ricchezza
e
differenziazione
di risorse materiali ed
immateriali che esiste da contesto a contesto e che rende
possibile un loro utilizzo livelli di utilizzo in termini
socialmente ed ambientalmente sostenibile. Faccio un esempio
molto semplice: la Lombardia è divisa sostanzialmente in tre
aree climatiche: l’area sempre soleggiata che è
sostanzialmente costituita dalla fascia alpina e pedemontana;
l’area pedecollinare corrispondente alla cosiddetta pianura
asciutta; e la pianura irrigua, che per la cospicua presenza
di acqua è caratterizzata da livelli di radiazione solare
inferiori. E’ chiaro che una normativa locale deve collocarsi
all’interno di questo vincolo climatico regionale, prevedendo
una differenziazione sia sulle tecnologie, sia sui meccanismi
di attuazione, sia sugli incentivi, eccetera.
Sostenibilità negli ultimi anni ha quindi significato capacità
di cambiare, attraverso le Comunità locali, il modo di
utilizzare le risorse. Non solo energetiche, ma anche
materiali inducendo una consapevolezza che si sta diffondendo
sul valore intrinseco delle risorse limitate – come l’acqua e
il suolo – che vanno risparmiate e del valore d’uso dei beni
di consumo che può essere facilmente prolungato attraverso
processi al riuso e al riciclo, di produzione locale.
Ai fini della riduzione degli impatti ambientali, come si può,
a suo giudizio, raggiungere un punto di equilibrio tra
strategie di riduzione dei fabbisogni energetici e utilizzo
delle energie da fonte rinnovabile?
Il problema dell’energia è essenzialmente legato
all’organizzazione dei territori che sostengono stili di vita
dissipativi, che abbiamo ereditato dall’epoca del carbonio
(petrolio, metano, carbone) e che continuiamo a portare avanti
in questo periodo di transizione verso un’economia del solare,
basata sulle rinnovabili. Il cambiamento di organizzazione
territoriale e di stili di vita comporta una forte
accentuazione delle esigenze risparmio energetico o
efficientamento energetico e l’utilizzo di fonti energetiche
rinnovabili
Il riequilibrio tra domanda di energia e cambiamento di stili
di vita è legato a una tradizione che risale agli anni ’60 /
metà degli anni ’70 che aveva introdotto nella consapevolezza
comune, ma anche nelle politiche locali e sovralocali, una
serie di programmi che erano stati definiti attraverso alcuni
slogan.
Uno degli slogan più diffusi era quello delle “3 R”:
Risparmio, Riuso e Riciclaggio. E’ chiaro che il risparmio non
può essere visto solo come riduzione dell’uso di energia
diretta (un esempio: il risparmio di energia elettrica
attraverso l’utilizzo di dispositivi d’uso che consumano via
via meno: dalla lampadina ad incandescenza apparecchio a
fluorescenza, al LED) ma è anche legato a un utilizzo più
prolungato nel tempo delle risorse, dei beni di uso comune,
attraverso processo di riuso e riciclo. La “R” di risparmio
richiede quindi anche processi che allunghino le catene d’uso
e la vita dei beni di consumo attraverso il riciclo. A queste
tre “R” si è poi aggiunto alla fine degli anni ’70 una quarta
“R”, che è quella delle fonti Rinnovabili. Il termine
rinnovabile riguarda l’energia, ma anche l’uso di beni di
consumo rinnovabili, caratterizzati da un ciclo di
rigenerazione breve.
Faccio un esempio banale. Noi utilizziamo una larga quantità
di materiali isolanti di diversa natura: da un lato materiali
polimerici (come il polistirene ) provenienti da sintesi di
idrocarburi. Dall’altro materiali isolanti che provengono da
scarti di tipo agricolo, forestale, industriale, che invece
hanno tempi di rigenerazione molto brevi. Il polistirene non è
rinnovabile, o è rinnovabile in tempi geologici, in milioni di
anni; perché in milioni di anni si sono formati i giacimenti
di idrocarburi – soprattutto metano e petrolio – che
permettono di sintetizzare i polimeri. I materiali isolanti
che provengono da filiere agricole
sono rinnovabili (nel
senso che vengono rinnovati a cicli annuali) e possono fornire
prestazioni dello stesso ordine e pari durata nel tempo.
Esempi di questi materiali sono la paglia, il canapulo, e una
serie di fibre coltivate per usi agricoli o industriali. Della
canapa e del kenaf , ad esempio, si utilizza la piccola parte
più pregiata come fibra per il settore tessile, mentre la
maggior
parte può essere utilizzata per la produzione di
materiale isolante.
Un altro slogan molto diffuso negli anni ’70 era quello delle
tre “L”, che significavano “Low Energy”, “Long life” e Loose
fit”. L’aspetto di risparmio, “Low Energy”, includeva anche
l’utilizzo di fonti di energia non rinnovabili. “Loose fit”
indicava prodotti ( in senso lato) che
avessero una grande
capacità di adattamento al cambiamento d’uso e che quindi
fossero realizzati per un periodo d’uso o vita molto lunga
– “Long life” – mentre gran parte dei beni che noi progettiamo
sono concepite per tempi di vita relativamente brevi. Questo
insieme di “parole d’ordine” era indicatore di
molte
esperienze di carattere di avanguardia negli anni ’60 e ’70,
poi sfociati in politiche di carattere nazionale,
sovranazionale e regionale.
Quale ritiene possa essere la linea strategica essenziale per
la riduzione dell’impatto ambientale delle città?
L’impatto ambientale delle città è determinato dal loro
metabolismo.“Metabolismo” è un concetto che si è sviluppato in
campo medico e che sta a indicare una relazione tra il
funzionamento dei diversi organi e come essi sono regolati
nell’organismo attraverso sistemi di tipo endocrino o di altra
natura che mantengono il nostro tasso metabolico all’interno
di certi livelli fisiologici. Se usciamo da alcuni range,
esiste una serie di indicatori fisiologici che segnalano che
il nostro metabolismo non funziona. Vuol dire che il nostro
corpo entra in qualche modo in crisi rispetto agli scambi con
l’esterno.
Questo concetto di metabolismo è stato adottato e sviluppato
negli anni’60 per misurare la “salute” delle città viste per
certi versi come organismi. Sulla base del concetto di
metabolismo si sono sviluppate molte metodologie, teorie ecc.
L’aspetto interessante è soprattutto che l’impatto ambientale
del metabolismo è stato calcolato per città grandi, medie e
piccole ed è stato assunto come indicatore di uno sviluppo
urbano di natura diversa da quello che abbiamo oggi. Uno dei
casi più eclatanti è stato quello di Londra, che dalla fine
degli anni ’90 fino all’inizio di questo millennio ha basato
molti dei suoi piani di sviluppo, per la Grande Londra,
appunto sulla valutazione del metabolismo. A questo fine,
tutti gli aspetti che riguardano la mobilità,
l’alimentazione, il modo con cui si riscaldano gli ambienti,
il modo in cui si produce l’energia con cui si alimentano le
attività di carattere industriale e anche domestico, il modo
in cui si usa l’acqua ecc. sono stati messi in stretta
osservazione, per mettere a confronto quanta materia/energia
entra nella città e quanta viene dissipata sotto varie forme e
quanto il flusso di materia energia utilizzata determina gli
stati di squilibrio dell’organismo urbano che si manifestano
sotto forma di “malessere ” urbano ( inquinamento, isola di
calore, bassa vitalità eccetera) La diagnosi metabolica della
città è quindi molto importante perché è proprio modificando
il metabolismo
si può passare da città “malate” a città
“sane” (“healty cities)..
Rammento che l’impatto ambientale nel metabolismo di una città
all’incirca è in genere funzione del consumo energetico e che
sostanzialmente i consumi energetici si dividono secondo la
regola del 30/30/30: 30-35% energia per usi domestici e
terziari (edifici), circa 30% per la mobilità; e circa il 30%
per il resto delle
agricoltura ecc.).
attività
(produttive
industriali,
Cambiare il metabolismo urbano ridurre drasticamente l’impatto
ambientale delle città richiede una riduzione drastica dei
flussi di energia che entrano e di conseguenza delle
dissipazioni termiche che hanno luogo una volta che l’energia
è utilizzata. Questo
precedentemente
richiama
in
alcuni
concetti
tema
esposti
di
risparmio/razionalizzazione/rinnovabilità.
E’
possibile
ridurre consistentemente il consumo di energia nei diversi
settori facendo una politica di risparmio per il riscaldamento
e in raffrescamento degli edifici, di risparmio per la
mobilità, di risparmio nei settori industriali. Una volta che
si è ridotta molto la domanda di energia in questi settori, è
possibile fare fronte alla rimanente domanda energetica
esclusivamente o quasi con fonti di energia rinnovabili,
passando da un’economia del carbonio a un’economia basata
prevalentemente sull’energia solare come dimostrano i diversi
esempi di “solar cities” realizzati in Europa e nel mondo. Se
si lascia che i consumi si stabilizzino o anche crescano nel
tempo, difficilmente si riesce a rispondere ai fabbisogni per
mezzo di una produzione energetica completamente basata sulle
rinnovabili.
Pensa che il riorientamento verso le tecnologie sostenibili
possa dare luogo a ricadute positive sull’economia e
l’occupazione?
Il passaggio dall’economia del carbonio all’economia del sole
viene definito in tanti modi. Uno dei più ricorrenti è quello
di green economy, che è un termine “ombrello” sotto al quale
si definiscono molti processi. Green economy può significare
passaggio dalla grey energy alla green energy, cioè dalle
fonti convenzionali alle rinnovabili. Questo passaggio è molto
importante perché la diffusione dell’uso di fonti energetiche
rinnovabili incentiva un’economia locale e disincentiva
sistemi di generazione concentrata, che hanno un’intensità di
produzione energetica molto più elevata ed un rapporto
produzione/addetti molto più basso rispetto alla produzione
energetica decentrata da fonti rinnovabili.
Questo è un aspetto importante. Per averne un’idea si può
citare l’esempio della Germania, che è leader in Europa nell’
utilizzo delle energie rinnovabili. La Germania negli ultimi
20 anni è arrivata a creare una quantità di posti di lavoro a
ridosso delle green energy che sono intorno alle 500.000
unità, che corrisponde grosso modo a tutta l’occupazione del
settore automobilistico tedesco (comprendente grandi industrie
quali BMW, Volkswagen, Mercedes Benz). La green energy induce,
proprio per la sua caratteristica strutturale di essere
prodotta in un contesto molto decentrato, uno alto sviluppo
dell’occupazione come si può leggere nell’ultimo rapporto
2012 “ Green Economy “della Fondazione per lo Sviluppo
Sostenibile.
I termini green economy o green development sono però assai
più ampi del solo aspetto relativo alla produzione di energia.
Come green economy si intende un’economia e uno sviluppo che è
basato sull’utilizzo degli ecosistemi in modo tale da non
comprometterne la capacità di rigenerazione, verso uno
sviluppo sostenibile “forte” come già accennato.
In altri
termini, come green economy o green development si intende un
tipo di sviluppo che si basa sull’utilizzo delle risorse
naturali solo relativamente alla quota di esse che è
rigenerabile, che non intacca il capitale naturale costituito
dalla struttura stessa degli ecosistemi. Questo concetto di
carattere generale, più volte definito da molti studiosi e da
molte strategie di carattere nazionale e sovranazionale,
genera conseguenze su quasi tutti gli aspetti della nostra
vita.
Faccio un esempio che non riguarda direttamente l’ambiente
costruito. E’ quello del green food, del cibo “verde”. La
green economy del green food significa produrre alimenti con
una agricoltura a basso inquinamento, ma soprattutto attivare
una produzione e un consumo che non richiedano le lunghe
catene di intermediazione e di spostamenti che caratterizzano
gli attuali sistemi agroalimentari industrializzati che
praticamente
sono in mano ti poche
multinazionali.
Se noi ad esempio analizziamo l’impronta ambientale della
nostra alimentazione, ci troveremmo di fronte a un’impronta
ecologica molto elevata, perché anche nel nostro paese molti
alimenti provengono da paesi terzi, distanti, e quindi hanno
un notevole impronta ambientale. Tanto per fare un esempio, i
grandi allevamenti bovini della fertile pianura irrigua
lombarda si basano molto sulla soia proveniente da molto
distante ( parte dall’Argentina). Di questi esempi possono
esserne fatti molti. L’essenza di questo discorso è che anche
in questo ambito stiamo andando sempre più verso forme di
organizzazione che avvicinino il produttore e il consumatore,
cioè che accorcino le catene e rendano quindi i cicli
alimentazione/produzione/consumo molto più ambientalmente
consapevoli.
Il concetto di impronta ambientale è molto interessante perché
riguarda tutti i settori della nostra economia. Se ci
spostiamo al settore delle costruzioni e all’ambiente
costruito, vediamo che l’impronta ecologica di molti dei
materiali e delle tecnologie che noi utilizziamo è molto
elevata non solo per l’energia contenuta nei materiali, ma
anche per il fatto che i materiali provengono da aree
geografiche molto distanti dai luoghi di utilizzo. Questo
aspetto va sottolineato ed è molto interessante, perché si sta
sviluppando un’economia che non è semplicemente green, ma, in
modo più compolessivo, tende a ridurre le intermediazioni e le
distanze produzione-consumo e quindi i i costi ambientali
edeconomici. (Si tratta del cosiddetto” kilometro 0”,
requisito sempre più richiesto nei bandi di progettazione e
nei capitolati d’ appalto in molti settori.)
Gianni Scudo
Professore ordinario di Tecnologia, svolge attività ricerca e
didattica nei campi dell’integrazione di tecnologie da fonte
energetica rinnovabile nell’architettura, della progettazione
ambientale e della valutazione della sostenibilità presso il
Dastu – Dipartimento di architettura e di studi urbani – del
Politecnico di Milano ed è stato “visiting professor” in
Università europee. Gianni Scudo ha fondato il Corso di Laurea
in Architettura Ambientale del quale è stato presidente per
due mandati. E’ stato vicepreside della scuola di
Architettura e Società. membro della Commissione Scietifica di
Dastu e della Commissione Scientifica dei Società dei
territorialisti. Ha fondato e diretto riviste scientifiche e
ha diretto collane editoriali nel settore della sostenibilità.
Attualmente è curatore con Alessandro Rogora della collana
Progettazione Ambientale Sostenibile dell’editore Wolters
Kluwer Italia.
Gian Luca Brunetti
Architetto (1991), PhD (1999) e ricercatore di Tecnologia
dell’Architettura presso il Politecnico di Milano,
Dipartimento di architettura e studi urbani (Dastu), Brunetti
lavora dal 1998 attorno al temi delle scelte tecnologiche e
costruttive per il risparmio energetico e il comfort
ambientale
in progetti di ricerca e consulenza. I suoi
principali campi di interesse sono quelli della
climatizzazione naturale e delle tecnologie di costruzione a
basso costo economico e ambientale. Ha inoltre prodotto e
pubblicato studi relativi all’appropriatezza climatica e
costruttiva. E’ inoltre autore di software per l’esplorazione
di opzioni progettuali. Tra le principali pubblicazioni
recenti vi sono i seguenti volumi: Coperture e Serramenti e
vetrazioni, entrambi per Wolters Kluwer Italia, Milano 2012.
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