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© 2011 Argonauta S:A. - Lugano
© 2011 FBE Edizioni
Via Leonardo da Vinci, 97 - 20090 Trezzano s/N - Mi
Tel. +39 02 48460076 - Fax +39 02 48467691
[email protected] - www.leggieviaggia.it
Prima edizione marzo 2011
Stampato in Italia da Ingraf (Mi)
ISBN 978-88-6398-065-3
INDICE
EDLAND 11
SYNOPS 22
Letto a baldacchino
Coppia ballerine in ottone
IKEA 365+26
Serie di contenitori
STÄLL31
Scarpiera
BRYNE35
Zanzariera
ANEBODA 38
Guardaroba
LEENDE41
Caraffa
PYRA45
Wok
GISLEV48
Tappeto
KLUBBO53
Set tavolini
NORRNÄS59
Sedia
INDIRA63
Copriletto
ORDNING72
Portapane
PJÄTTERYD75
Canvas
VIRSERUM80
Cornice
STORNÄS84
Tavolo
REGOLIT88
Paralume tondo
MINNEN DRAKE93
Peluche drago
BENNO97
Porta DVD
KARLSTAD101
Divano a tre posti
EKTORP JENNYLUND106
Poltrona
STOLMEN109
Scaffalatura
CLAPPAR FOTBOOL112
Pallone
HEMNES116
Cassettiera
PAPAJA 119
Portavaso
KOLJA 123
Specchio
JUBLA126
Candela
SMÅLAND 132
Area giochi
BESTÅ BURS139
Mobile TV
BILLY141
Libreria a ripiani
People from IKEA
STÄLL
Scarpiera
Laccato
Design: Sarah Fager
Io ammorbidisco le scarpe. Posso farlo per molte misure
diverse perché ho un piede abbastanza piccolo: porto il 42
e con qualche strato di calze arrivo bene fino al 45. Lavoro
per due negozi del centro che hanno clienti molto esigenti.
Vendono calzature a persone ricche e famose che proprio
non sopportano le scarpe nuove, sempre troppo rigide, con le
cuciture da allentare e le pelli da rendere amiche dei piedi.
Quei signori hanno dita delicate e, coi loro soldi, della vita
possono comprarsi la parte più morbida.
Non esistono macchine capaci di ammorbidire le scarpe
di cuoio senza sformarle e neppure operai più specializzati
di me. Il cuoio dei miei piedi è più duro delle loro scarpe e
dunque sono perfetto per questo lavoro.
Si tratta di scarpe costose, fatte da artigiani esperti, da
trattare con cura. Per ammorbidirle devo camminare in
posti puliti, meglio se al chiuso. IKEA è l’ideale. Lì nessuno
mi fa domande e l’orario di apertura mi permette di ammorbidire anche tre paia di scarpe al giorno. Poi c’è l’aria
condizionata che d’estate è un vero dono del cielo.
Molti credono che a noi africani piaccia il caldo, che non
sudiamo neanche a cinquanta gradi, che la neve ci spaventi.
Non è così. Io d’estate amo l’ombra, la sera mi prendo una
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People from IKEA
Coca dal frigo e nella mia stanza ho una foto della Svizzera
con gli abeti e i ghiacciai sulle cime.
Questo è un bel lavoro.
Quando sono arrivato in Italia non ho trovato di meglio
che raccogliere pomodori, cinquanta ceste al giorno sotto il
sole. Poi ho battuto tutte le spiagge dell’Adriatico vendendo
occhiali veri con marchi falsi, ho anche distribuito i volantini pubblicitari per un Pizza Express. Poi, per sostituire un
amico dai piedi buoni che è stato rimpatriato in tutta fretta,
ho avuto la fortuna di essere pagato per camminare.
Tra i vantaggi di questo impiego c’è la possibilità di fare
altre cose nello stesso tempo. Camminando riesco a leggere, posso mandare messaggi col mio cellulare, o pensare a
Marina, la mia ragazza. Col tempo, di questo posto sono
diventato anche cliente: a casa mia ho due belle scarpiere
piatte della serie STÄLL dove metto al sicuro il lavoro da
fare nei giorni successivi.
Non credevo fosse possibile essere pagati per camminare,
anche se in fondo lo sognavo fin da bambino. Sono cresciuto
in una campagna polverosa dove tutti giravano scalzi. Le
prime scarpe che ricordo le ho indossate per la prima comunione. Me le aveva prestate Padre Raphael, il missionario. Mi
davano una sensazione strana: ero abituato a sentire la terra
coi piedi e in quel momento così importante ero invece distaccato, forse più vicino a Dio. Lì per lì pensai che fosse effetto
dello Spirito Santo poi capii che era lo spessore delle suole.
Ogni tanto guardo ancora la piccola foto che conservo
nella Bibbia: noi bambini siamo schierati davanti all’altare,
teniamo le punte delle scarpe rivolte all’infuori, per farle vedere meglio. Abbiamo occhi lucidi e pose un po’ impacciate.
Quelle scarpe ci appartengono così poco che a volte penso
servissero solo a impedire che i nostri piedi callosi rovinassero la pietra liscia della chiesa. A quei tempi, il mondo per
me era tutto nelle giornate passate a sorvegliare le capre e
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People from IKEA
nelle corse serali sull’altopiano. Correvo in silenzio, con
alcuni amici, per due o tre ore ogni volta. Superavamo le
carovane che spostavano cibo e sale verso l’interno del paese. Spesso eravamo più veloci di furgoni o fuoristrada che
rimanevano bloccati nella sabbia o nei fossi. L’unica regola
era quella di non fermarsi mai: speravamo di diventare dei
maratoneti famosi.
Tre giovani del nostro villaggio erano stati scelti da allenatori americani per girare il mondo. Erano amici miei,
avevamo corso assieme, erano bravi ma non mi superavano
di molto. Anch’io volevo vedere New York, Roma, Berlino, attraversare di corsa ponti giganteschi in mezzo a migliaia di
persone che ti incitano ad andare più veloce. Sempre scalzo.
Poi, per vivere, mi sono dovuto trasferire qui. In casa non
ce n’era abbastanza per tutti e ho capito che restando in
Etiopia toglievo il cibo a chi era appena nato o era ormai
troppo vecchio per guadagnarselo lavorando.
Alcuni miei cugini erano già partiti. Nelle loro lettere non
raccontavano molto, ma riuscivano a mandare cento euro
a casa tutti i mesi. Cento euro per me erano come il tesoro
scomparso del re dei berberi: la soluzione ai nostri problemi.
Sono venuto.
Molti mi chiedono come ho fatto a passare le frontiere sul
mare. A me non pare così interessante, rispondo: «Come
tutti gli altri.» Interessante invece sarebbe parlare di quello
che succede dopo. Nessuno te lo racconta quando devi partire e nessuno te lo chiede mai quando sei qui.
La prima cosa da fare è inventarti un modo per sopravvivere. È difficile perché di questo mondo non conosci né le
armi, né le prede, né le regole, né gli odori, né i sapori.
Non fa piacere camminare scalzi in questa città: asfalto,
piastrelle, tappeti, scale mobili, ascensori, non c’è nulla di
vero su cui posare i piedi. Tanto vale indossare le scarpe.
Nuove, belle, costose; ogni giorno mi prendo la rivincita su
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People from IKEA
quelle già usate da mille piedi impolverati che calzavo per la
mia prima comunione.
La mattina scelgo da STÄLL le paia che diventeranno
la mia incombenza quotidiana, vengo qui, tolgo le sneaker
senza marca, indosso il primo paio e inizio a camminare.
Trasferisco nelle scarpe di chi comanda questo paese la forma dei miei piedi.
Tutti loro cammineranno nel solco della mia impronta.
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People from IKEA
ANEBODA
Guardaroba
Lamina e plastica
Design: Tord Bjorklund
«Lo hai già detto.»
«È che non mi ascolti.»
«È che ti ho ascoltato pure troppo.»
«Cosa vuoi dire?»
«Che quest’affare è profondo cinquanta centimetri. Secondo
me va bene.»
«Sara, non cambiare discorso. E non scegliere come al solito la prima cosa che vedi. Sei pigra: scegli per non scegliere.
Come tuo padre.»
«Mamma, non sono scema. So scegliere un guardaroba.»
«Se ti dico certe cose è perché ci sono già passata, non
perché penso che sei scema. È inutile discutere con te, non
sai ammettere di aver torto.»
«Abbiamo un’idea diversa di torto.»
«… e quando poi il torto diventa evidente non sei capace a
dare ragione a chi ha ragione. Soprattutto a me.»
«Sì, mamma.»
«Sì, cosa?»
«Quello che vuoi, mamma. Questo affare potrebbe anche
entrarci... la nicchia nell’ingresso è profonda quaranta, ma
anche se sporge un po’ non è un grosso problema. Le cose asimmetriche hanno un loro fascino. Ma perché ti ho portata?»
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People from IKEA
«Perché io ho la carta di credito, cara mia, e quando passiamo per quelle cose che si chiamano “casse” la signorina
con la camicetta gialla è a me che porge lo scontrino con un
bel sorriso.»
«Mi stai facendo un prestito, è questo l’accordo.»
«…»
«… ci metto accanto una pianta.»
«Cara, è che si vede subito che questo dieci anni non dura.»
«Meno male. Se questo dura dieci anni vuol dire che sono
ancora single, zitella disperata, che sono ancora in una casa
in affitto, con un lavoro che è più simile a fare volontariato.
Io questo “affare”, come lo chiami tu, lo voglio buttare prima.
Molto prima. Magari tra un mese, tra un anno. Sarebbe
bellissimo.»
«Mi sembrano soldi sprecati.»
«Ah sì? Vuoi comprarmi un bell’affare fatto su misura,
da falegnami brianzoli, in legno massiccio di pino delle
Dolomiti?»
«Magari non così sofisticato però…»
«… che poi mi rimane lì? Come a te.»
«Cosa vuol dire?»
«Dài, lasciamo perdere.»
«Cosa vuol dire? Non lasciamo perdere.»
«Guarda la tua libreria: preziosa, amata, pesantissima,
spolverata più volte del tesoro della corona. È sopravvissuta
al tuo divorzio, a tre traslochi, a due città, all’allagamento
del salotto, anche ai ladri. Basta ma’: è preistorica.»
«Che c’è di male?»
«C’è che tu non sei più quella libreria. Eravate tu e papà
quando l’avete comprata e scommetto che ci avete messo
due mesi a sceglierla e almeno tre anni a pagarla. Per cosa?
Papà: ha fatto puff. La casa: puff. Tutto: puff. Finito. E ogni
volta che la guardi ti viene su tutta la storia. Conati di storia. Cosa credi, che non ti vedo?»
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People from IKEA
«La storia ha valore.»
«No, se ti impedisce di guardare avanti. Bisogna viaggiare
leggeri nella vita.»
«Occorrono anche dei punti fermi.»
«Non dei monoliti inutili come la tua libreria.»
«Anche.»
«Lo dici tu perché non ammetti di aver torto. Io sono il
punto fermo di me stessa: i mobili non possono sopravvivere
ai motivi che me li fanno comprare, sennò vuol dire che costano troppo, che sono fuori misura. Dopo te li ritrovi lì, che
non ti perdonano, crudeli.»
«Tu sei crudele.»
«Sono realista, mamma. Tieniti pure la tua libreria ma
questo è il mio guardaroba e non deve durare: non glielo
permetterò.»
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People from IKEA
STOLMEN
Scaffalatura
Alluminio e acciaio
rivestito a polvere laccato
Design: Ehlén Johansson
Ho l’affido di Pietro tutti i venerdì sera e per un weekend
al mese. Posso tenerlo con me anche per tre settimane a luglio. Ho poi il bonus di qualche giorno sparpagliato qua e là
nel calendario, ma solo se faccio la brava e mio marito decide
di risparmiare sulla babysitter.
Però non mi lamento: il giudice in fondo è stato giusto.
Io stessa mi sarei data torto. Appartengo alla categoria
delle donne fesse. Quelle come me non possono avere in
affidamento un bambino di sei anni. Sono fessa almeno da
quando ho lasciato un lavoro a tempo indeterminato per
crescere mio figlio. Ora, senza un marito, me la cavo solo
con un puzzle di “collaborazioni” che messe assieme valgono un lavoro sottopagato, generano una pensione virtuale,
azzerano il mio tempo libero e alimentano un permanente
stato d’ansia che mi provoca acidità di stomaco e ogni notte
scatena incubi senza filtro.
Però ero fessa già da prima. Sicuramente almeno da
quando ho festeggiato i miei vent’anni comprando del fumo
per gli amici da un agente in borghese e oggi, mentre mio
marito festeggia i suoi trionfi in borsa con monodosi di coca
che non lasciano odore e non sporcano la fedina penale, io
risulto pregiudicata.
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People from IKEA
Sono definitivamente fessa perché dopo mille contorti ragionamenti sul valore della mia dignità ho accettato la sua
elemosina di questi quarantacinque metri quadrati in un
condominio senz’anima né senso. Ho anche detto grazie al
grand’uomo che mi ha concesso un tetto e un po’ del tempo
di mio figlio.
Soprattutto, sono la più fessa tra le donne, perché ho pensato di domare il tempo e lo spazio comprando questo mostro
di alluminio e acciaio. È stato partorito dalla creatività malata di un designer scandinavo che dal nome potrebbe essere
pure una donna e questa, a parer mio, costituisce la peggior
aggravante.
Mio marito l’appartamento me l’ha lasciato quasi vuoto.
Ha avuto solo la bontà di abbonarmi l’acquisto dei sanitari
del bagno e dei mobili in cucina. I fornelli erano nuovi, nessuno li ha mai usati, il che mi ricorda ogni giorno che lui qui
ci veniva solo per scopare.
Che possedesse questo appartamento l’ho scoperto solo
durante il penoso iter che accompagna il divorzio. L’aveva
da parecchio tempo e lo usava da scannatoio. L’ho ottenuto
facilmente perché, con macabro senso dell’umorismo, me lo
aveva intestato senza dirmelo grazie alla complicità di un
notaio suo amico. Da qualche anno compariva addirittura
nella mia dichiarazione dei redditi che, da fessa, gli avevo
completamente delegato.
Posizionando questa impalcatura postmoderna nel mezzo
ci puoi separare il di qua dal di là, l’area ingresso dalla
zona letto e dalla nicchia per la lavatrice. Articolandola nei
quarantacinque metri quadrati, l’ambiente sembra l’incrocio
tra la fusoliera di un sottomarino e i corridoi ombrosi di un
laboratorio di analisi: del tutto controindicato come nido accogliente per una divorziata e il suo cucciolo part-time.
Componendo a incastro questi tubi, ripiani, viti e bulloni,
sono possibili milioni di combinazioni. Sul catalogo per tale
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People from IKEA
meraviglia si sprecano i sostantivi: guardaroba, libreria,
scaffalatura, separatore d’ambiente, portatutto, riassumicasino. Ogni componente si può montare a qualsiasi altezza,
snodare in ogni posizione. Nelle celebrate illustrazioni per
l’assemblaggio, il manichino montatutto IKEA sfoggia posizioni estreme degne di un kamasutra del fai-da-té.
Una volta completato, questo coso sosterrà una trama di
camicette, gonne, asciugamani, libri, ninnoli senza valore
né storia e, come la parete forata delle monache di clausura,
lascerà solo intravedere gli abitanti. Stando in una qualunque anfratto di questo bilocale verrà naturale pensare che
solo dall’altra parte dello STOLMEN sia possibile una vita
diversa e felice: sempre dall’altra parte.
Io a convivere con questo catafalco non ce la posso fare.
Rivoglio indietro il mio bel sogno falso di una famiglia
felice. Se invece delle otto scatole piatte che mi sono caricata sulle spalle per risparmiare i costi del trasporto, qui ci
fosse mio marito a sbattersi regolarmente la sua segretaria
trilingue, probabilmente saremmo ancora assieme e io a
quest’ora porterei Pietro al parco a tirare le briciole di pane
alle anatre.
Cosa abbiamo guadagnato nel separarci?
Adesso lui ha bisogno di una donna di servizio che gli faccia la spesa (non riesco a immaginare la signorina trilingue
con le unghie laccate mentre smoccola in coda al supermercato) e io dovrò trovare e sedurre un architetto in grado di
erigere questa insulsa struttura per simulare ordine nella
mia vita dove intanto ogni cosa è finita naturalmente al
posto sbagliato.
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“Componendo a incastro questi tubi, ripiani, viti e bulloni, sono possibili milioni
di combinazioni. sul catalogo per tale meraviglia si sprecano i sostantivi: guardaroba, libreria, scaffalatura, separatore d’ambiente, portatutto, riassumicasino. Ogni componente si può montare a qualsiasi altezza, snodare in ogni posizione. nelle celebrate illustrazioni per l’assemblaggio, il manichino montatutto
iKea sfoggia posizioni estreme degne di un kamasutra del fai-da-té.
una volta completato, questo coso sosterrà una trama di camicette, gonne,
asciugamani, libri e ninnoli che, come la parete forata delle monache di clausura, lascerà solo intravedere gli abitanti di questo bilocale.”
andrea pugliese ha passato tre mesi in un punto vendita iKea per scrivere questa raccolta di racconti. lì ha dato vita a personaggi che intorno ai mitizzati
complementi d’arredo costruiscono le loro scenografie per matrimoni, divorzi,
nascite, traslochi, fughe, lutti, convivenze. Tutte discontinuità spesso desiderate, magari a lungo sognate, altre volte temute, inevitabilmente precarie.
LEGGERE FA BENE
isBn 978-88-6398-065-3
€ 13,00
Andrea Pugliese
È nato a genova e vive a roma. Ha pubblicato: Persone
smarrite (Hacca edizioni, 2005), Neo-Conf (Castelvecchi, 2006), 100 pizzini di Bernardo P. prima di andare
a letto (Baldini Castoldi dalai, 2007), Il paradiso non
è più qui (FBe, 2010), Itinerari gastroesistenziali di un
italiano (FBe, 2011).
Dello stesso autore
Itinerari gastroesistenziali
di un italiano
Il paradiso non
è più qui
Autore: AndreaPugliese
Pag. 200
Prezzo: € 12,00
Autore: AndreaPugliese
Pag. 160
Prezzo: € 14,00
ISBN: 978-88-6398-067-7
ISBN: 978-88-6398-031-8
www.fbe-edizioni.it
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Via Leonardo da Vinci, 97 - 20090
Trezzano s/N - MI
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