SottoVoce n.09 (Aprile 2010)
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SottoVoce n.09 (Aprile 2010)
Questa è la notte in cui Cristo ha distrutto la morte! “ Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello l’autore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa.” Pasqua è la solennità più importante per i cristiani, perché nel Cristo risorto è radicata la nostra fede, si concretizza la nostra speranza e veniamo proiettati nella carità. Chi crede che Gesù è morto e risorto per la nostra salvezza avrà la vita eterna, così annunciano gli apostoli. Su questo annuncio e sulla sua verità si fonda anche l’annuncio pasquale della Chiesa di oggi, annuncio che dona incessantemente una speranza al mondo ferito da tante manifestazioni del male. Gesù Risorto è la nostra gioia e la nostra certezza di una vita che è aperta per sempre alla comunione con Dio qui e nell’eternità, sapendo che risorgeremo anche con il corpo trasformato da Colui che è la primizia della nuova umanità. Dal sepolcro vuoto bisogna ripartire per andare incontro a Gesù , per poterlo riconoscere nelle varie situazioni della nostra vita. Per poterlo riconoscere nell’Eucarestia, nella Chiesa, nei poveri, nei sofferenti. Riconoscerlo per annunciarlo senza timore anzi, mossi dal Suo Spirito proclamare con coraggio che al di fuori di Cristo non c’è salvezza. Risuoni oggi l’Alleluja pasquale, nei nostri cuori e in quanti soffrono e sono tristi. Si faccia spazio alla gioia vera quella che viene dalla certezza della fede: che Gesù ci ha liberato dalla morte del peccato e dalla morte corporale e che la nostra vita ha un futuro di gioia che non avrà mai fine. E’ anche questo l’augurio sincero che ci scambiamo nel giorno di Pasqua: rinascere tutti nella luce del Signore Risorto. Il che significa verità, rettitudine, fedeltà, bontà, solidarietà verso ogni fratello, misericordia e perdono. La Pasqua è questo e molto più di questo, ma soprattutto passaggio da una vita di peccato ad una vita di grazia secondo il modello di Cristo morto e risorto per noi. Gino Raso pagina 2 Appuntamenti della SETTIMANA SANTA 28 Marzo - Domenica delle Palme ore 9.30 Benedizione delle Palme a Largo Favino, Processione ore 11.30 Benedizione delle Palme davanti alla Croce, processione e S. Messa 1 Aprile – Giovedì Santo ore 9.00 S. Messa Crismale in S. Pietro ore 18.00 Santo Rosario ore 18.30 MESSA IN COENA DOMINI dalle ore 21.30, per tutta la notte Adorazione Eucaristica 2 Aprile – Venerdì Santo ore 7.30 Preghiera Comunitaria ore 15.00 Via Crucis con i bambini e i ragazzi del Catechismo ore 18.00 ADORAZIONE DELLA CROCE ore 20.30 Via Crucis Vivente – Sacra rappresentazione in parrocchia 3 Aprile – Sabato Santo ore 7.30 Preghiera Comunitaria ore 22.30 VEGLIA PASQUALE PASQUA DI RESURREZIONE (Domenica 4 Aprile) SS. Messe ore 8.00 – 10.00 – 11.30 – 18.00 Pellegrinaggio alla Madonna del Divino Amore Lunedì 3 Maggio 2010, si svolgerà l’ormai consueto Pellegrinaggio al Santuario della Madonna del Divino Amore, per inaugurare il mese mariano. La partenza dalla parrocchia è prevista per le ore 18.00 con un pulman per chi si è prenotato oppure con mezzi propri. La Madonna Pellegrina Come nella tradizione consolidata della nostra parrocchia, in tutto il mese di maggio, dedicato alla Madre di Gesù, si reciterà il S. Rosario presso le case che a turno ospiteranno la piccola statua della Vergine, la Madonna Pellegrina. Orari e calendario verranno predisposti quanto prima. pagina 3 Vieni a fare Pasqua con noi ! Oggi pensiamo a torto di essercene un po’ affrancati, ma dalla notte dei tempi, la vita degli uomini è stata appesa al ciclo vitale della natura. D’inverno i greggi riposavano negli stazzi a valle e i pastori si nutrivano del latte delle pecore e si coprivano della loro lana. Ma il fieno, prolungandosi la cattiva stagione, sarebbe venuto a mancare, se, come d’improvviso, la vita non fosse tornata a rifiorire; i prati ubertosi di nuovi pascoli e le pecore madri a partorire, come un passa parola, agnellini in quantità ad allietare l’aria di nuovi canti e il cuore degli uomini di grande festa. È la Pasqua che trionfa dopo il gelo, il buio e la fame. La primavera dispone i suoi colori sulla tavolozza della vita. Anche i contadini hanno sempre salutato la pasqua primaverile con gioia e grande attesa, perché le sementi cominciano a fiorire e la speranza riscalda i cuori e i progetti dei figli dell’uomo. Accadeva così anche ai tempi della lunga schiavitù degli Ebrei in terra d’Egitto. La vita era dura sotto i colpi degli aguzzini, ma almeno ci si poteva nutrire del buon frumento e delle cipolle, che a primavera verdeggiavano nelle piane bagnate dal Nilo. Mosè, l’inviato di Dio, fece loro assaporare il nuovo cibo della libertà, guidandoli dalla schiavitù fino alla Terra promessa, dove scorre latte e miele. conduttore, il principio del loro agire, educando anche i loro figli a questo. Gesù era ebreo e ogni anno festeggiava la Pasqua. Quell’anno era una Pasqua particolare per Lui. Sentiva la sua ora avvicinarsi per portare gli uomini, novello Mosè, ad una nuova meta, in una nuova Terra: la libertà dalla morte, il più potente dei Faraoni che ha il potere di piegarci il collo e farci impastare, umiliandoci, i mattoni per il suo superbo dominio. Quel giorno i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: “Dove vuoi che ti prepariamo, per mangiare la Pasqua?” Quindi nella cosiddetta ultima cena Gesù e i suoi non si erano radunati lì per caso, ma stavano celebrando la Pasqua. Cosa bisognava dunque preparare? Questo non ci viene detto nei vangeli perché i primi destinatari degli evangelisti erano tutti ben a conoscenza di come si svolgesse il rito pasquale e quello che hanno scritto si riferisce solo alle novità apportate dal Maestro. È come se qualcuno, scrivendoci dal Malawi, ci volesse descrivere una loro Eucarestia. Ci direbbe delle particolarità, per esempio che loro cantano, ballano e battono le mani per fare festa, a differenza nostra che sembriamo stare ad un funerale, ma non ci parlerebbero delle letture o del modo di consacrare, perché già lo sappiamo. Per prima cosa si distruggono tutti i pezzi di pane lievitato per poter entrare nella pasqua rinnovati e senza la vecchia mentalità ( da qui deriva l’usanza delle pulizie pasquali; sacramentalmente la Confessione, un precetto della Chiesa è quello infatti di confessarsi almeno una volta a Pasqua). Li fece uscire in una notte di primavera, facendo intingere gli stipiti degli ingressi delle loro misere case con il sangue degli agnelli, sacrificati per la Pasqua. L’angelo sterminatore colpì i primogeniti d’Egitto, che sono i frutti degeneri del nostro orgoglio e delle nostre dipendenze, e passò oltre le case degli ebrei, permettendo loro l’esodo, l’uscita da un mondo di schiavitù e progettare la loro nuova vita nell’abbandono a Dio e nella libertà. È da quella notte, da millenni, che i nostri fratelli Ebrei, celebrano la Pasqua, e di pasqua in pasqua inneggiano al Liberatore: oggi schiavi in Egitto, ma domani liberi a Gerusalemme. Questo è il loro programma di vita, Il filo Poi si apparecchia una ricca mensa con i pani azzimi, con abbondante vino e coppe, con l’agnello e le erbe amare,con le uova sode (antesignane delle uova di Pasqua) con un dolce il cui colore e impasto richiamano i mattoni che gli schiavi erano costretti a confezionare. ma di accomodarsi il più piccolo della famiglia lava le mani al padre di famiglia o a chi presiede l’assemblea. Per questo i vangeli ci parlano di una discussione fra i discepoli su chi era il più grande, per stabilire il ruolo. Gesù sovverte lo schema e lava i piedi a tutti, come colui che serve. Poi c’ è un lungo racconto che il padre inneggia ai prodigi compiuti dal Signore per liberare Israele e risponde alle pagina 4 domande curiose dei bambini. Durante il racconto c’è la distribuzione di un pane azzimo. È a questo punto che Gesù innesta una novità, dopo la benedizione prevista dice:” Prendete e mangiate, questo è il mio corpo (Lui è il nuovo agnello), offerto per voi, fate questo in memoria di me”. L’uovo di Pasqua e Maria Maddalena E verso la fine del pasto, sotto la tremula attenzione dei suoi discepoli, già impressionati dalla fuga di Giuda, dal terribile progetto che ha loro appena delineato e dalle sue accorate parole di commiato, Gesù prende un calice di vino, rende grazie al Padre e dice:” Prendete e bevete, questo è il calice della nuova alleanza sul mio sangue”. Non più un patto fondato sulla Legge, ma sul sangue di Cristo, che ci trasporta verso la nuova terra della vita e dell’amore: vi do un comandamento nuovo (una nuova meta), che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Poi quella notte stessa Gesù viene arrestato, massacrato e crocifisso per dare compimento alle sue parole. Aprendoci una strada, dopo aver annientato il faraone, perché noi lo potessimo seguire e gustare la gloria di una quotidiana resurrezione. Come se dicesse, così dice ogni Israelita al suo prossimo: vieni a fare Pasqua con noi. Non un rito scialbo e sterile, senza una esplosione di gioia e senza voglia di mettersi in cammino. “Guardatevi dal lievito dei farisei”, dovrebbe risuonare come un mantra alle nostre orecchie. Il pane che mangiamo per la pasqua è azzimo, perché senza il lievito dell’ipocrisia. Ma noi proclamiamo con enfasi: prendete e mangiate, ma nessuno mangia il Suo corpo…vuole solo garantire il proprio corpo. Prendete e bevete… ma nessuno beve. Fate questo in memoria di me… cioè fate anche voi la vostra pasqua, appoggiandovi a me. Ma noi facciamo solo gesti, simboli e basta. “ Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo - Questo è il succo del fare memoria - Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna.” Livio Bottone Secondo la leggenda, santa Maria Maddalena donò il primo uovo pasquale all’imperatore romano Tiberio. Poco dopo l'Ascensione di Cristo, Maria Maddalena andò a Roma a predicare il vangelo. Si supponeva che le persone che andavano a far visita all'imperatore gli portassero un dono. Le persone ricche portavano gioielli mentre quelle povere, ciò che potevano permettersi; perciò, Maria Maddalena, una volta donna nobile e ricca, che rifiutò tutto per la sua fede in Gesù, offrì all’imperatore Tiberio un uovo esclamando: «Cristo è risorto!». L'imperatore, mise in dubbio le sue parole, che nessuno poteva risorgere dai morti così come un uovo bianco non poteva diventare rosso. Tiberio stava ancora dicendo queste parole quando l'uovo cominciò a cambiare il suo colore e diventò scarlatto. Così, dal primo secolo del Cristianesimo, le uova colorate sono sempre state il simbolo della risurrezione di Gesù. Le uova di colore rosso simboleggiano il sangue di Cristo e nello stesso tempo la sua Risurrezione. Donando un uovo pasquale ad un altro, il cristiano professa la sua fede nella Risurrezione. Se la Risurrezione di Cristo non fosse avvenuta, secondo l'Apostolo Paolo, vana sarebbe la nostra fede, non donando la salvezza; ma Cristo è risuscitato, il primo fra tutti coloro che sono nati sulla terra, dimostrando la sua divinità. pagina 5 Magistero Il cristianesimo non è un moralismo LECTIO DIVINA del Santo Padre ai seminaristi di Roma del 22.2.2010 Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri. Gv. 15, 9-17 Rimanete in me, nel mio amore Il rimanere nel Signore è fondamentale come primo tema di questo brano. Rimanere: dove? Nell’amore, nell’amore di Cristo, nell’essere amati e nell’amare il Signore. Il capitolo 15 inizia con la parabola della vite: "Io sono la vite e voi i rami". La vite ha un duplice significato: 1. Il popolo di Dio è la sua vigna. Egli ha piantato una vite in questo mondo, ha coltivato questa vite, ha coltivato e protetto questa sua vigna, e con quale intento? Naturalmente, con l’intento di trovare frutto, di trovare il dono prezioso dell’uva, del vino buono. 2. Il vino è simbolo, è espressione della gioia dell’amore. Il Signore ha creato il suo popolo per trovare la risposta del suo amore e così questa immagine della vite, della vigna, ha un significato sponsale, è espressione del fatto che Dio cerca l’amore della sua creatura, vuole entrare in una relazione d’amore. Ma poi la storia concreta è una storia di infedeltà: invece di uva preziosa, vengono prodotte solo piccole "cose immangiabili", non giunge la risposta di questo grande amore. L’uomo si ritira in se stesso, vuole avere se stesso solo per sé, vuole avere Dio per sé, vuole avere il mondo per sé. E così, la vigna viene devastata, il cinghiale del bosco, tutti i nemici vengono, e la vigna diventa un deserto. Ma Dio non si arrende: Dio trova un nuovo modo per arrivare ad un amore libero, irrevocabile, al frutto di tale amore, alla vera uva: Dio si fa uomo, e così diventa Egli stesso radice della vite, diventa Egli stesso la vite, e così la vite diviene indistruttibile. Questo popolo di Dio non può essere distrutto, perché Dio stesso vi è entrato, si è impiantato in questa terra. Nel discorso sul vino il Signore non parla esplicitamente dell’Eucaristia, ma, naturalmente, dietro il mistero del vino sta la realtà che Egli si è fatto frutto e vino per noi, che il suo sangue è il frutto dell’amore che nasce dalla terra per sempre e, nell’Eucaristia, il suo sangue diventa il nostro sangue, noi diventiamo nuovi, riceviamo una nuova identità, perché il sangue di Cristo diventa il nostro sangue. Noi siamo rami uniti con il Figlio. Osservate i miei comandamenti Se continuiamo a leggere troviamo anche un secondo imperativo: "Osservate i miei comandamenti". "Osservate" è solo il secondo livello; il primo è quello del "rimanere", il livello ontologico, cioé che siamo uniti con Lui, che ci ha dato in anticipo se stesso, ci ha già dato il suo amore, il frutto. Non siamo noi che dobbiamo produrre il grande frutto; il cristianesimo non è un moralismo, non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo, ma dobbiamo innanzitutto entrare in questo mistero ontologico: Dio si dà Egli stesso. Il suo essere, il suo amare, precede il nostro agire e, nel contesto del suo Corpo, nel contesto dello stare in Lui, identificati con Lui, nobilitati con il suo Sangue, possiamo anche noi agire con Cristo. L’etica è conseguenza dell’essere: prima il Signore ci dà un nuovo essere, questo è il grande dono; l’essere precede l’agire e da questo essere poi segue l’agire, come una realtà organica, perché ciò che siamo, possiamo esserlo anche nella nostra attività. E così ringraziamo il Signore perché ci ha tolto dal puro moralismo; non possiamo obbedire ad una legge che sta di fonte a noi, ma dobbiamo solo agire secondo la nostra nuova identità. Quindi non è più un’obbedienza, una cosa esteriore, ma una realizzazione del dono del nuovo essere. Amatevi come io vi ho amato Nessun amore è più grande di questo: "dare la vita per i propri amici". Che cosa vuol dire? Anche qui non si tratta di un moralismo. Si potrebbe dire: "Non è un nuovo comandamento; il comandamento di amare il prossimo come se stessi esiste già nell’Antico Testamento". Alcuni affermano: "Tale amore va ancora più radicalizzato; questo amare l’altro deve imitare Cristo, che si è dato per noi; deve essere un amare eroico, fino al dono di se stessi". In questo caso, però, il cristianesimo sarebbe un moralismo eroico. La vera novità non è quanto facciamo noi, la vera novità è quanto ha fatto Lui: il Signore ci ha dato se stesso, e il Signore ci ha donato la vera novità di essere membri suoi nel suo corpo, di essere rami della vite che è Lui. Quindi, la novità è il dono, il grande dono, e dal dono, dalla novità del dono, segue anche, come ho detto, il nuovo agire. Non vi chiamo più servi, il servo non sa quello che fa il suo padrone. Vi ho chiamato amici perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi Non più servi, che obbediscono al comando, ma amici che conoscono, che sono uniti nella stessa volontà, nello stesso amore. Dio non è più un Dio ignoto. Dio si è fatto vedere: nel volto di Cristo, e così ci ha fatto amici. Pensiamo come nella storia dell’umanità, in tutte le religioni arcaiche, si sa che c’è un Dio. Ma questo Dio rimane molto lontano, sembra che non si faccia conoscere, non si faccia amare. Perciò le religioni si occupano poco di questo Dio, la vita concreta si occupa degli spiriti, delle realtà concrete che incontriamo ogni giorno e con le quali dobbiamo fare i calcoli quotidianamente. Ed ecco, in pagina 6 Cristo, Dio si è mostrato nella sua totale verità, ha mostrato che è ragione e amore. Purtroppo anche oggi molti vivono lontani da Cristo, non conoscono il suo volto e così l’eterna tentazione del dualismo, si rinnova sempre, cioè che forse non c’è solo un principio buono, ma anche un principio cattivo, un principio del male; che il mondo è diviso e sono due realtà ugualmente forti: e che il Dio buono è solo una parte della realtà. Anche nella teologia, compresa quella cattolica, si diffonde attualmente questa tesi: Dio non sarebbe onnipotente. In questo modo si cerca un’apologia di Dio, che così non sarebbe responsabile del male che troviamo ampiamente nel mondo. Ma che povera apologia! Un Dio non onnipotente! Il male non sta nelle sue mani! E come potremmo affidarci a questo Dio? Come potremmo essere sicuri nel suo amore se questo amore finisce dove comincia il potere del male? Ma Dio non è più sconosciuto: nel volto del Cristo Crocifisso vediamo Dio e vediamo la vera onnipotenza, non il mito dell’onnipotenza. Per noi uomini potenza, potere è sempre identico alla capacità di distruggere, di far il male. Ma il vero concetto di onnipotenza che appare in Cristo è proprio il contrario: in Lui la vera onnipotenza è amare fino al punto che Dio può soffrire: qui si mostra la sua vera onnipotenza, che può giungere fino al punto di un amore che soffre per noi. E così vediamo che Lui è il vero Dio e il vero Dio, che è amore, é potere: il potere dell’amore. E noi possiamo affidarci al suo amore onnipotente e vivere in questo, con questo amore onnipotente. Dio ha mostrato con Cristo la sua faccia, il suo volto. Il velo del tempio è squarciato, è aperto, il mistero di Dio è visibile. Il primo comandamento che esclude immagini di Dio, perché esse potrebbero solo sminuirne la realtà, è cambiato, rinnovato, ha un’altra forma. Possiamo adesso, nell’uomo Cristo, vedere il volto di Dio, possiamo avere icone di Cristo e così vedere chi è Dio. Io penso che chi ha capito questo, chi si è fatto toccare da questo mistero, che Dio si è svelato, si è squarciato il velo del tempio, mostrato il suo volto, trova una fonte di gioia permanente. Possiamo solo dire: "Grazie. Sì, adesso sappiamo chi tu sei, chi è Dio e come rispondere a Lui". E penso che questa gioia di conoscere Dio che si è mostrato, mostrato fino all’intimo del suo essere, implica anche la gioia del comunicare: chi ha capito questo, vive toccato da questa realtà, deve fare come hanno fatto i primi discepoli che vanno dai loro amici e fratelli dicendo: "Abbiamo trovato colui del quale parlano i Profeti. Adesso è presente". La missionarietà non è una cosa esteriormente aggiunta alla fede, ma è il dinamismo della fede stessa. Chi ha visto, chi ha incontrato Gesù, deve andare dagli amici e deve dire agli amici: "Lo abbiamo trovato, è Gesù, il Crocifisso per noi". Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il frutto vostro rimanga Con questo ritorniamo alla parabola della vite: essa è creata per portare frutto. E qual è il frutto? Come abbiamo detto, il frutto è l’amore. Nell’Antico Testamento, il frutto era compreso come giustizia, cioè vivere secondo la Parola di Dio, vivere nella volontà di Dio, e così vivere bene. La vera giustizia non consiste in un’obbedienza ad alcune norme, ma è amore, amore creativo, che trova da sé la ricchezza, l’abbondanza del bene. E chi è unito con Cristo, chi è ramo nella vite, vive di questa legge, non chiede: "Posso ancora fare questo o no?", "Devo fare questo o no?", ma vive nell’entusiasmo dell’amore che non domanda: "questo è ancora necessario oppure proibito", ma semplicemente, nella creatività dell’amore, vuole vivere con Cristo e per Cristo e dare tutto se stesso per Lui e così entrare nella gioia del portare frutto. Questo vi dico: Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome ve lo conceda Più volte il Signore dice "Quanto chiederete vi do" .Ma noi vorremmo dire: "Ma no, Signore, non è vero". Tante preghiere buone e profonde di mamme che pregano per il figlio che sta morendo e non sono esaudite, tante preghiere perché succeda una cosa buona e il Signore non esaudisce. Che cosa vuol dire questa promessa? Nel capitolo 16 il Signore ci offre la chiave per comprendere: ci dice quanto ci dà, che cosa è questo tutto, la charà, la gioia: se uno ha trovato la gioia ha trovato tutto e vede tutto nella luce dell’amore divino. Come San Francesco, il quale ha composto la grande poesia sul creato in una situazione desolata, eppure proprio lì, vicino al Signore sofferente, ha riscoperto la bellezza dell’essere, la bontà di Dio, e ha composto questa grande poesia. È utile ricordare dal Vangelo di Luca: "Se già voi che siete cattivi date cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre nel cielo darà a voi suoi figli lo Spirito Santo". Lo Spirito Santo è gioia: la gioia è lo Spirito Santo e lo Spirito Santo è la gioia, o, in altre parole, da Dio non chiediamo una qualsiasi cosa, da Dio invochiamo il dono divino; questo è il grande dono che Dio ci dà: Dio stesso. In questo senso dobbiamo imparare a pregare, perché Egli ci dia se stesso, ci dia il suo Spirito e così possiamo rispondere alle esigenze della vita e aiutare gli altri nelle loro sofferenze. Naturalmente, il Padre Nostro ce lo insegna, possiamo pregare per tante cose, in tutti i nostri bisogni possiamo pregare: "Aiutami!". Questo è molto umano e Dio è umano. Ma, nello stesso tempo, il pregare è un cammino, direi una scala: dobbiamo imparare sempre più per quali cose possiamo pregare e per quali cose non possiamo pregare, perché sono espressioni del mio egoismo. Non posso pregare per cose che sono nocive per gli altri, non posso pregare per cose che aiutano il mio egoismo, la mia superbia. Così il pregare, davanti agli occhi di Dio, diventa un processo di purificazione dei nostri pensieri, dei nostri desideri. Come dice il Signore nella parabola della vite: dobbiamo essere potati, purificati, ogni giorno; vivere con Cristo, in Cristo, rimanere in Cristo, è un processo di purificazione, e solo in questo processo di lenta purificazione, di liberazione da noi stessi e dalla volontà di avere solo noi stessi, sta il cammino vero della vita, si apre il cammino della gioia. Parola e Sacramenti Tutte queste parole del Signore hanno un sottofondo sacramentale. Il sottofondo fondamentale per la parabola della vite è il Battesimo: siamo impiantati in Cristo; e l’Eucaristia: siamo un pane, un corpo, un sangue, una vita con Cristo. E così anche questo processo di purificazione ha un sottofondo sacramentale: il sacramento della Penitenza, della Riconciliazione nel quale accettiamo questa pedagogia divina che giorno per giorno, lungo una vita, ci purifica e ci fa sempre più veri membri del suo corpo. In questo modo possiamo imparare che Dio risponde alle nostre preghiere, risponde spesso con la sua bontà anche alle preghiere piccole, ma spesso anche le corregge, le trasforma e le guida perché possiamo essere finalmente e realmente rami del suo Figlio, della vite vera, membri del suo Corpo. Papa Benedetto XVI pagina 7 Fede e Carità Di tutte più grande è la Carità Alla fine guardare gli altri, se stessi e la realtà con gli occhi di Dio, questo è la carità. Non può esserci carità finché la mia mente è presa dall’amor proprio e dall’autoaffermazione. Quando nasce la carità? Quando comincio ad avvertire qualcosa di simile a quello che commosse Gesù davanti alla gente: ne ebbe compassione perché erano come pecore senza pastore. Il termine greco Chàris significa benevolenza. Quando si vuol bene a qualcuno si dice che ci è caro (dal latino carus). È un moto dell’anima, un principio di azione. È la carità che fa di un genitore o di un insegnante un educatore. È la carità che spinge un medico a sentire il suo mestiere una missione, non solo una fonte di guadagno o di potere. La molla dell’evangelizzazione è la carità. Occuparsi di situazioni difficili e dolorose, a livello familiare, sociale o politico, è carità. Dire la verità, esporsi affinché la mentalità corrente, culturale e nei rapporti sociali diventino sempre più autentiche, è carità. Una visione riduttiva e a volte meschina della carità, che il demonio ha saputo sedimentare nella percezione comune, è quella che la identifica con una pelosa elemosina verso chi si trova in difficoltà, previo processo sommario dei meriti e demeriti di chi porge la mano. La carità per quanto la possiamo conoscere e definirla non è tuttavia nostra; non viene dalla nostra intelligenza o capacità. Lo prova anche il fatto che oggi, pur in presenza di più risorse e più intelligenza, è andata in crisi la famiglia, si afferma l’individualismo e il disagio giovanile. Cioè prevale l’approccio egoistico alla vita. In realtà è in crisi la carità. La carità è Dio e solo Lui ce la può donare. È una virtù teologale. Fintanto che la nostra ricerca di senso non volgerà l’attenzione a Dio, la carità non può fiorire. Se devi costruire una casa, riparare qualcosa, hai bisogno del muratore, devi avvalerti di un tecnico. Non pretendi di essere tutto tu. Invece in campo morale ed esistenziale vogliamo restare soli con i nostri “punti di vista” finché Qualcuno non ti chiama per nome e ti apre un orizzonte. Spesso con timore e tremore. Questa è la carità, portare la Parola nel silenzio delle angosce del fratello. L’amore, che è il carattere distintivo della carità, volge al bene di chi si ama. Il padre e la madre amano i figli quando partoriscono con loro obbiettivi: l’ autonomia, la responsabilità, una visione della vita, la fede. Quando non c’è una mèta l’amore è possessività, egoistica felicità, proiezione di propri desideri o paure. Così nel matrimonio l’amore è “portare frutto” non tanto palpiti di cuore. È progetto, poter sperimentare la possibilità di amare come Dio. E’ un falso che l’amore fra due coniugi può resistere soltanto finche dura quella eccitazione che chiamiamo “innamorarsi”. La carità verso situazioni difficili: malviventi, handicap, immigrati scomodi, ribellismi giovanili, non attecchisce finché non scopriamo di essere stati amati “quando eravamo malvagi e peccatori”. È una luce che si accende, a volte improvvisa, spesso dopo aver raccolto i cocci dei nostri moralismi e dopo il fastidio di sentire il “fango negli occhi”. La carità è anche fantasia, creatività, perché Dio è Amore creativo. La carità è la capacità divina di inventare, di fare cose nuove, di trovare risposte al grido di aiuto dei fratelli. Dio è amore. Se, tanto per fare un solo esempio, don Carlo Gnocchi avesse fatto prevalere gli innumerevoli ostacoli e opposizioni al suo progetto di aiuto all’infanzia mutilata, noi non staremmo qui, ma a mendicare chissà dove. Se non hai sperimentato che almeno una volta la tua vita ha svoltato a seguito di un atto d’amore coraggioso, non conosci l’amore. Si dice spesso: preghiamo per queste situazioni, ma la preghiera non è un surrogato o un facile sostituto dell’azione e della responsabilità, anzi ne è l’alimento. Tuttavia tutti abbiamo dentro il germe della carità perché siamo stati tutti pensati e creati a immagine di Dio, che è amore. Infatti ci sentiamo soddisfatti quando siamo stati utili a qualcuno e teneramente grati quando qualcuno ci dà il suo cuore. L’amore è dentro di noi! Come liberare l’amore che è in noi? Che non è un semplice sentimento da soap opera, una canzonetta, una fiction commovente. N0! Ma una passione che viene dal Signore. Sono le passioni che muovono le persone. La misericordia è la passione del cuore, che chiamiamo carità. Il termine misericordia in ebraico, rehamim, richiama l’utero materno che partorisce una nuova vita, non è pietismo sterile. Le passioni di Dio si contrappongono alle passioni ingannatrici di cui parla san Paolo. La carità è una passione divina perché senti amore per il diverso, il difficile, per chi ti scomoda, per le situazioni impossibili. E’ in questo contesto che va letto l’inno alla carità di san Paolo che non è certo un inno alla buona educazione e al non disturbarci: Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine (1Cor.13, 1-8) Giovanni Fani e Livio Bottone pagina 8 Fede e Società pagina 9 Sazi, disperati e senza figli L’Italia, di destra e di sinistra, è corrotta? Sì. E’ al tappeto. Questa la risposta di Galli della Loggia sul Corriere del 17 febbraio. Andando a cercare il perché di tanto disastro “nella nostra storia profonda” Galli enumera fra le varie cause, anche quella della «troppa famiglia». I dati Istat comparsi l'altro giorno raccontano di un disastro annunciato: il saldo fra nati e morti è negativo. Da decenni nasce un numero irrisorio di bambini. La classe politica se ne preoccupa? La cultura se ne occupa? Analizza e divulga le conseguenze economiche e sociali del suicidio della nostra plurimillenaria civiltà? Gli immigrati ci sono indispensabili perché noi non abbiamo giovani a sufficienza, ma qualcuno ha pensato nel corso dei decenni ad educarli al nostro patrimonio religioso, culturale e artistico? No. Noi ci siamo limitati a ripetere supinamente la leggenda del «familismo amorale» diffusa negli anni cinquanta dalla "scientifica" e protestante sociologia americana. Secondo questa vulgata la scarsa socialità che contraddistinguerebbe noi italiani sarebbe imputabile ad un eccesso di famiglia. Per rimediare sarebbe sufficiente prendere qualche lezione dalla "civile" cultura protestante. Di fronte a tanta scienza ci siamo fatti una risata? Macché! Abbiamo appena ristampato quella vecchia cariatide (Edward Banfield, Le basi morali di una società arretrata) e continuiamo a divulgarne le tesi. Cattolici? No. Meglio protestanti. A noi cattolici conviene sparire. Conviene non fare figli. Siamo stati così arretrati nel passato, così pateticamente attaccati alla famiglia! Meglio crescere, maturare, emanciparci. Arrivare alla vita adulta. Vivere soli. Senza famiglia. Senza famiglia, ma con tanti diritti: quello all'aborto (definito diritto di civiltà), quello alla sessualità libera da qualsiasi limite, quello all'eugenetica, quello alla compassione dell'altro. Leggi eliminazione del dolore dell'altro. Leggi eliminazione del dolore mio. Leggi soppressione fisica dell'altro. È vero che la cultura cattolica abbia qualcosa da invidiare a quella protestante? No. E, per capirlo bene, basta studiare un po' di storia. Altro che asociale! La civiltà cattolica, attraverso la creazione di una miriade di confraternite e di ordini religiosi, si è da sempre curata delle ricadute sociali del proprio credo. Si è fatta carico dei bisogni di ogni tipo di povertà. In una parola: la nostra cultura si è fatta carico della vita. Che, spesso, comporta sacrificio e sofferenza. La nostra civiltà ha sempre saputo che la famiglia è un bastione fondamentale per difendere la vita. Disprezzando noi stessi, abbiamo accettato la cultura relativista ed anticattolica che ci veniva proposta, non prestandoci caso. Come sovrappensiero. Abbiamo fatto finta che tutto fosse uguale, che bene e male dipendessero dai nostri desideri, che peccato fosse una parola senza senso. Il cardinale Biffi aveva un'espressione significativa per descrivere la grassa e rossa Bologna: sazia e disperata. Ma sazi e disperati siamo diventati tutti. La mancanza di figli è il segnale del degrado culturale, economico, religioso e sociale, in cui siamo precipitati. Il nostro male, parafrasando Pavese, è che abbiamo rinunciato a vivere. Perché la politica (e la cultura) continuano a far finta di niente? Angela Pellicciari Il fabbro (dal sito www.missioninweb.it) Si racconta di un fabbro che, dopo una gioventù piena di vizi, decise di dare una svolta alla sua inutile esistenza: Dio divenne l'unico punto di riferimento della sua vita. Durante molti anni lavorò con onesta, correttezza, praticò il bene e il senso del dovere, però, malgrado tutta questa sua dedizione, sembrava che nulla andasse bene nella sua vita, al contrario, i suoi problemi e i suoi debiti crescevano di giorno in giorno. Una bellissima sera, un amico che era andato a trovarlo, e che provava compassione per questa sua situazione difficile, gli disse: "E' realmente una cosa molto strana che, dopo aver deciso di cambiare la tua vita e diventare un uomo timoroso di Dio, la tua vita abbia cominciato a peggiorare. Non voglio diminuire la tua speranza, però, nonostante la tua fede in Dio, non hai migliorato in niente la tua vita". Il fabbro non rispose subito, aveva riflettuto queste cose parecchie volte, senza capire quello che stava succedendo nella sua vita, però, siccome voleva dare una risposta al suo amico, cominciò a parlare, e finì per trovare la spiegazione che cercava. Ecco cosa disse il fabbro: "In questa officina io ricevo il ferro prima di essere lavorato e devo trasformarlo in spade. Sai tu come si fanno le spade? Prima si scalda il ferro ad una caloria infernale fin che non diventa di un rosso vivo, subito dopo, senza nessuna pietà, prendo la mazza più pesante che ho e comincio a martellarlo parecchie volte finché il pezzo non prende la forma desiderata subito dopo lo immergo dentro un secchio pieno di acqua fredda, e tutta l'officina si riempie di rumore e di vapore, perché il pezzo molto caldo immerso nell'acqua fredda scoppietta a causa del violento cambiamento di temperatura. E devo ripetere questa operazione parecchie volte se voglio ottenere una spada perfetta, una sola volta non è sufficiente!" Il fabbro fece una lunga pausa e poi proseguì: "A volte il ferro che ho tra le mie mani non sopporta questo trattamento. Il calore, le martellate e l'acqua fredda lo riempiono di screpolature. Ed è in questo momento che mi rendo conto chemai si trasformerà in una bella lama di spada ed è allora che lo butto in una montagna di ferri vecchi che tu vedi all'ingresso della mia officina". Fece un'altra pausa e il fabbro così terminò: "So che Dio mi sta mettendo nel fuoco della sofferenza. Accetto le martellate che la vita mi dà, e a volte mi sento tanto freddo e insensibile come l'acqua che fa soffrire l'acciaio. Però, l'unica cosa che penso è: Dio mio, non smettere, fintanto che non riesco a prendere la forma che ti aspetti da me. Fammela prendere nella maniera che ti sembra migliore, impiegaci tutto il tempo che vuoi, però per favore, non mi buttare mai nel mucchio dei ferri vecchi che non servono a niente!" "Accetta quanto ti capita, sii paziente nelle vicende dolorose, perché con il fuoco si prova l´oro, e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore." Persone e storie pagina 10 Le carezze strappate Ho conosciuto Fernando a metà di febbraio accompagnato da amici che gli portavano la Comunione, in qualità di Ministri straordinari dell’Eucarestia. La casa è di quelle storiche: i muri, i pavimenti e gli infissi che si usavano a cavallo degli anni cinquanta/sessanta; il periodo in cui la Romanina si stava delineando come una delle tante borgate della periferia romana. Abusive le case, “abusivi” gli abitanti con le loro storie abusive, come quelle raccontate da Pier Paolo Pasolini. Quella di Fernando è una di queste storie, che scivolano in una scarpata e restano ai margini. Ha conosciuto la violenza sin dalla tenera età, la più odiosa delle violenze, che ti straccia a brandelli il bisogno di essere amato e trasforma l’affettività in una malattia dell’anima. Fernando mi ha subito fatto tanta tenerezza. È una persona gentile, composta. Parla con un fare signorile che ti cattura. E’ ospitale come lo sanno essere i romani dei quartieri popolari. La sua casa è trasparente, i mobili e soprattutto i soprammobili sono icone di una spiritualità incantata. Ci ha fatto accomodare nella camera da letto. Sembra un santuario di rosari, immagini, candele accese. Io lo capisco, queste sono le carezze, cha gli hanno strappato nella sua infanzia. Non è stato sempre così. Fino a 19 anni – ci racconta – ha vissuto come uno spaesato, che non sapeva cosa fare della sua vita. Gli muore anche la madre e comincia così la sua vita disordinata, di locale in locale, in cerca di avventure. Ma ben presto contrae il virus HIV, per 15 anni sieropositivo, fino alla implacabile realtà dell’AIDS. La sua vita è una spola tra casa e l’Ospedale Spallanzani, da circa 10 anni, la sua salute è appesa a un filo e…a 30 pillole al giorno. L’inferno esiste, eccome, ne sa qualcosa il nostro amico, ma anche lì aleggia leggera la brezza soave di Dio. Misteriosa e inaspettata. Per via della sua malattia, Fernando cade in coma; sembra irreversibile. Una condanna inappellabile. Si sente come disteso fra le braccia amorose di una madre; vede Madre Teresa di Calcutta china su di lui, che gli accarezza teneramente il viso. E gli sorride; sembra dirgli: Coraggio, figlio, non temere, abbi fiducia. Si risveglia dal coma con le sue mani strette nelle mani di due sorelle di Madre Teresa, a destra e a sinistra del capezzale. Non è più una visione, sono vere e gli danno il benvenuto. Da allora Fernando vive del calore di quelle carezze ed è diventato molto religioso. Ottempera costante ad alcuni voti e fa la comunione tutte le domeniche. Qualche suo parente lo va a trovare, anche la Comunità di S. Egidio lo sostiene un po’. Vediamo se potrà iscriversi al Centro Sociale Anziani per scambiare qualche parola. Ma Fernando, che prima o poi tornerà ad abbracciare la sua Madre Teresa in cielo, vive ora quasi sempre solo con le sue tre fedeli compagne: la solitudine, la malattia e la preghiera. Quel giorno, dopo aver consumato compunto e assorto la Santa Comunione, ha voluto che ascoltassimo la preghiera del malato, che è – ci assicura – la sua medicina più efficace. L’ha letta lui, con tono solenne, come fosse un giuramento di un soldato che andava alla guerra: O Gesù, che hai accettato di soffrire per amore nostro e ti sei sacrificato per la nostra salvezza, mi rivolgo a te ora che sono ammalato per aprirti il mio animo e chiedere il tuo aiuto. Io soffro, sono abbattuto e non più coraggio. In questo momento mi è difficile ripetere: ”Sia fatta la tua volontà.” Ma anche nello scoraggiamento, Signore, voglio provare a dire di sì alla mia situazione, ai miei dolori, alla mia debolezza. Non permettere che la mia sofferenza sia vana, ma giovi a chi non ti conosce e non ti ama, oppure a chi lavora e soffre per te. O Signore, benedici tutte le persone che mi assistono e mi fanno del bene; benedici quelli che soffrono come me. Ti prego anche di darmi il sollievo e la guarigione affinché, nella serenità e nella gioia, possa lodare te che sei il datore della vita. Amen Livio Bottone pagina 11 Rose fresche e fresche viole La signora Palma Miconi compirà nella domenica delle Palme la bella età di 89 anni. Quante primavere, tanti Natali, tante Pasque. Lei è visitata di tanto in tanto da una nostra ministra straordinaria dell’Eucarestia. Palma ne è contenta e ricambia con questi doni. Sono due poesie della sua infanzia (parliamo di prima ancora della 2° guerra mondiale); composte non si sa da chi, che esprimono suggestioni e atmosfere per molti di noi ormai del tutto tramontate. Parlano di due stagioni, simili, per molti aspetti, alle stagioni della vita. Alla fine della quale canterà soave la preghiera dell’amore. Alla signora Palma, grazie e buon compleanno. A tutte le nostre nonne e nonni, auguri di una Santa Pasqua. AUTUNNO Cadono giù le foglie e sono stanche, hanno visto tanta acqua e tanto sole, sbocciate come tenere viole cadono prima delle nevi candide. La loro vita dura una stagione, cadono a sciami a sciami frusciando. I bimbi le sparpagliano passando e le colgono per farsene corone. Là nella macchia il vecchio boscaiolo con un rastrello lieto le raduna ; saranno fiamma sotto il suo paiolo, saranno il letto della mucca bruna. SAN GIUSEPPE San Giuseppe vecchierello cosa avete nel cestello ? Rose fresche e fresche viole, nidi uccelli e lieto sole. Nel cantuccio più piccino ho di neve un fiocchettino. Ho un piattino di frittelle e poi altre cose belle. Quando arriva primavera canta a tutti una preghiera la preghiera dell’amore di Gesù Nostro Signore Riflessi di vita dentro una vetrata Mi sono sempre piaciute le due vetrate colorate poste in alto ai due lati dell’altare e sono stata contenta di rivederle al loro posto dopo la ricostruzione seguita all’incendio. Tutte le domeniche, dal mio solito posto durante la messa, mi ritrovo a osservare la vetrata a destra dell’altare e un giorno, quasi per caso, ho trovato che alcune scene rappresentate erano parte della mia vita. Mi sono rivista in quella donna in basso a sinistra che nuota con le braccia alzate in cerca di aiuto guardando verso la barca e ho ripensato ad un periodo molto lontano della mia vita quando mi sentivo sola, lontana dalla Chiesa, da quella barca accogliente e sicura. Io nuotavo e mi sembrava di affogare in un mare di tenebre e ricordo perfettamente che guardavo con nostalgia ai ragazzi che stavano nella Chiesa, li chiamavo dentro di me i “figli della luce” e mi sembrava impossibile salire, insieme a loro, in quella zattera di salvezza. Poi il Signore, nella sua grande misericordia, ha permesso per vie misteriose che ritornassi nella Chiesa, da cui non mi sono più allontanata e che ancora mi dà sostegno e sicurezza. Mi rivedo poi in quella donna che, ai bordi della barca, abbraccia e protegge un bambino nascondendolo sotto il mantello e ripenso a quando ho abbracciato un bambino non mio e l’ ho fatto entrare, insieme a mio marito, nella nostra famiglia e nella Chiesa. In quell’abbraccio è racchiusa una lunga storia, una storia di salvezza reciproca, di fatica, di crescita e di testimonianza. Infine, a destra della vetrata, mi rivedo nella donna che con le mani giunte tocca insieme ad un uomo il suolo, come dopo un naufragio, e mi rivedo nella vita di ogni giorno che, insieme a mio marito, grazie ad un lungo cammino di fede, tocco con gioia e trepidazione la terra promessa, che è la vita in Cristo, fatta di combattimenti quotidiani, ma anche di gioia e di lode. La vita di un cristiano è sempre vicina ai flutti e so che il primo quadro, quello della donna che chiede aiuto e sta per affogare, può essere rivissuto in un momento qualsiasi della vita; la mia storia e quella dei miei fratelli mi ha insegnato, però, che il Signore è sempre pronto a salvarti, non ti abbandona e ti porta sempre in salvo fino a farti alzare le braccia in segno di benedizione, come fa l’ultima figura della vetrata, in basso a destra. Anna Maria Scorcu pagina 12 V ita di Com u nità Cammino di Conversione Il 2, 9 e 16 marzo 2010, don Pietro Strappa, presbitero della Parrocchia di San Policarpo, ha condotto la meditazione sul Salmo 51 (50): Miserere, con tre catechesi , rispettivamente sulla nostra condizione di peccato, sul perdono e la rigenerazione in Cristo e sulla testimonianza della vita cristiana. A coronamento della predicazione la giornata del martedì successivo, 23 marzo 2010, è stata dedicata al Sacramento della Riconciliazione. La redazione di questo giornale ha raccolto le catechesi in un libretto dal titolo: Ritornate a me con tutto il cuore! Chiunque è interessato ad averne una copia lo può richiedere in parrocchia. Appello del Centro Caritas Nel ricordare che la distribuzione dei viveri avviene dalle ore 16.00 dei martedì pari, mentre la distribuzione degli indumenti è prevista nei martedì dispari, alla medesima ora, la signora Antonietta lancia un appello a tutti i parrocchiani, affinché riforniscano il Centro Caritas delle buste di plastica, per facilitare il carico e il trasporto dei viveri e degli indumenti stessi. Sono stati battezzati Il 7 febbraio 2010 DAVIDE Patrizi, LORENZO Fiore, LUCA Ruslan Rami Il 14 febbraio 2010 AURORA Costantini, GABRIELE Ippoliti, TIZIANO Falciglia “In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto”. (Mc 1, 911) Sono tornati al Padre Il 10 febbraio 2010 la signora Maria Venuto di anni 79 Il 16 marzo 2010 il signor Francesco Pellicciotta di anni 71 “Corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.” (Fil 3,14) pagina 13 LA PAROLA DEL PARROCO CRISTO E’ RISORTO ! Carissimi parrocchiani, “Gesù è davvero risorto”! Questo è l’annuncio sconvolgente di “quel giorno Santo” che ha cambiato per sempre la storia. Sì, Gesù è vivo e da qui parte ogni fede, la fede della Chiesa, la fede di ogni uomo, la fede di tutti noi. Tutto è superato, tutto è oltre, tutto è al di là. Giovanni e Pietro corrono al sepolcro, trovano delle bende: non un segno esplicito, non una manifestazione sfolgorante, non un gesto evidente, eclatante: la fede obbliga a sbilanciarsi, non s'impone, Gesù chiede di schierarsi, di cogliere i segni talora impalpabili, con cui si rende presente. Il Signore risorto anche a noi, come ai suoi discepoli, dice ancora oggi, non abbiate paura! Viviamo in un periodo storico in cui sembra che la paura, il timore prevalga su tutto. Abbiamo spesso paura di chi ci vive accanto, abbiamo paura del futuro che apparentemente vediamo con colori sempre più scuri, abbiamo paura di fare scelte coraggiose ed impegnative. Non abbiate paura ci dice Gesù, allora ripartiamo in questa Santa Pasqua proprio da questa consapevolezza, la luce del Risorto possa illuminare il buio delle nostre tante paure. Gesù è risorto, e noi? Siamo come le donne, intenti ad imbalsamare un crocifisso? Ascolteremo l'angelo che ci dice: "perché cercate tra i morti uno che è vivo?" Perché la nostra fede ci spinge ancora a cercare un morto, magari da portarci dietro ognuno secondo le sue esigenze, i suoi bisogni del momento: Gesù è davvero risorto! Oggi siamo sempre più distratti dalle tante opportunità che ci vengono offerte dal mondo e dalla società, che sempre più spesso subiamo più che vivere. Gesù non è un soprammobile da poter mostrare orgogliosi nella illusione che noi lo possediamo a differenza di altri, Gesù è vivo, Lui è la vita, perciò dobbiamo riscoprire la nostra vocazione cristiana, il nostro impegno ad essere testimoni credibili in un periodo in cui tutti cerchiamo disperatamente un po’ di luce; come ci ricorda Lui stesso nel vangelo, noi siamo la luce del mondo, e non possiamo restare nascosti, ma dobbiamo fare luce. Questa è resurrezione: amare … amare senza misura. Amare la gente, i poveri soprattutto, e amare Gesù Cristo. La nostra diocesi, come ho avuto modo più volte di ricordarvi, sta riflettendo in questo anno pastorale sulla carità che non vuole essere uno dei tanti temi sui quali ci soffermiamo per riflettere, ma un ricordare quello che è il fondamento della fede e del nostro essere cristiani: l’amore-carità. Allora domandiamoci in questi giorni di festa, che Pasqua io posso celebrare se non mi accorgo del Cristo sofferente che mi è accanto in quelle tante persone che quotidianamente la vita mi fa incontrare? Dio per amore ha dato la vita, educhiamoci quindi alla carità, quella che, come ci ricorda l’apostolo Paolo, delle tre virtù teologali è la più grande di tutte. Auguro, quindi, a tutti voi carissimi parrocchiani, una Buona e Santa Pasqua, ripetendovi con umiltà il primo saluto di Gesù Risorto ai discepoli: «Pace a voi». Pace alle famiglie e quindi solidità di affetti e di appartenenza reciproca. Pace specialmente ai giovani che sono tutti protesi alla vita, alla gioia, alla speranza. Pace a voi da Colui che è «il Primo e l’Ultimo, che era morto ed è tornato alla vita» (Ap 2,8). La Santa Pasqua che celebriamo ci aiuti a vivere una esperienza nuova di Cristo, le cose vecchie sono passate; coraggio andiamo sempre avanti perché, credetemi, proprio come con i discepoli di Emmaus Lui ci cammina accanto; quando ci sentiamo soli, delusi amareggiati quando pensiamo che Dio non si rivela nelle tante difficoltà che ci schiacciano, proprio allora come ci ricorda una preghiera Lui c’è, non solo è presente ma ci porta in braccio. Questa certezza vi accompagni sempre, Dio ci ama! per amore è venuto ad abitare in mezzo a noi, per amore ci ha rivelato il volto del Padre, per amore è morto sulla croce e nel suo infinito amore è risuscitato dai morti. Coraggio, sempre avanti, abbiate fede, non abbiate paura: il Signore è Risorto. Auguri – Alleluia Don Antonio