Stagione e teorie della società internazionale - LED
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Stagione e teorie della società internazionale - LED
Bazzoli-stagioni-fronte 11-11-2005 15:00 Pagina 1 Maurizio Bazzoli Stagioni e teorie della società internazionale 5 SOMMARIO Premessa (di Marco Geuna) 7 PARTE PRIMA Le stagioni della società internazionale I. I presupposti storici 11 1. Ordine interno e ordine internazionale (p. 11) – 2. Erasmo e la Respublica christiana (p. 17) – 3. Sovranità interna e sovranità esterna (p. 20) II. I presupposti di metodo 27 1. La prospettiva internazionale e le sue valenze (p. 27) – 2. Ordine internazionale e società internazionale (p. 29) III. La stagione westfaliana della società internazionale 35 1. Interessi degli Stati e società internazionale (p. 35) – 2. Architettura concettuale dell’‘equilibrio di potenza’ (p. 37) – 3. Valenze dello jus gentium come concetto internazionalistico (p. 42) – 4. Sviluppi dello jus gentium e il ‘diritto di guerra’ (p. 46) – 5. Dallo jus gentium allo jus publicum europaeum (p. 57) – 6. Le origini moderne della diplomazia (p. 61) IV. La stagione illuministica della società internazionale 67 1. Continuità e discontinuità tra l’età di Westfalia e l’età dei Lumi (p. 67) – 2. La République des Lettres (p. 69) – 3. Dalle relazioni diplomatiche al ‘sistema diplomatico’ (p. 71) – 4. Progetti di pace internazionale (p. 74) – 5. Il progetto kantiano di società internazionale (p. 82) V. La stagione concertativa della società internazionale 89 VI. Aspetti attuali della società internazionale 93 1. Fattori di mutamento nelle relazioni internazionali del mondo contemporaneo (p. 93) – 2. La crisi della sovranità nazionale e della ‘politica 6 SOMMARIO estera’ (p. 95) – 3. Aspirazioni istituzionali della società internazionale: esigenze e resistenze (p. 98) – 4. Il problema della pluralità dei soggetti internazionali (p. 99) VII. Antinomie della società internazionale post-moderna 101 1. Antinomie giuridiche, istituzionali e politiche della società internazionale (p. 101) – 2. La società internazionale tra grandi potenze e piccoli Stati (p. 107) – 3. La società internazionale e le aporie della pace internazionale (p. 110) – 4. La fisionomia politica della società internazionale (p. 111) Bibliografia di riferimento 117 PARTE SECONDA Teorie dell’ordine e della società internazionale Avvertenza 125 I. Pensiero politico e prospettiva internazionale nell’età moderna 127 II. La concezione pufendorfiana della politica internazionale 139 III. L’idea di ordine internazionale nell’Europa di Montesquieu 173 IV. L’ordine internazionale secondo Mably: dal Droit public de l’Europe ai Principes des négotiations 199 Doveri dell’ambasciatore e ordine internazionale nell’Enbaxador (1620) di Juan Antonio de Vera 215 L’ideologia dell’ambasciatore nel tardo Seicento: L’Ambassadeur et ses fonctions di Abraham de Wicquefort 245 V. VI. VII. Ragion di Stato e interessi degli Stati. La trattatistica sull’ambasciatore dal XV al XVIII secolo 267 VIII. Un concetto di lunga durata: la ‘monarchia universale’ 313 IX. L’equilibrio di potenza nell’età moderna. Dal Cinquecento al Congresso di Vienna 323 1. Fortuna e ambiguità dell’idea di equilibrio (p. 323) – 2. L’equilibrio come principio d’ordine (p. 334) – 3. Il carattere moderno del concetto di equilibrio (p. 344) – 4. La natura del concetto di equilibrio (p. 354) – 5. La funzione del concetto di equilibrio (p. 371) X. Piccolo stato e teoria dell’ordine internazionale nell’età moderna 387 TESTATINA DESTRA 7 PREMESSA Maurizio Bazzoli non è stato soltanto uno studioso di vasti interessi e di straordinaria cultura, ma anche un docente appassionato ed esigente. Fino a pochi giorni prima della morte, avvenuta il 16 ottobre 2004, aveva lavorato per rivedere e correggere il testo de Le stagioni della società internazionale, le pagine di quella che troppo modestamente chiamava ‘la dispensa’. Se è vero che erano nate dagli appunti di un suo corso di Storia delle dottrine politiche, ed erano destinate in primo luogo agli studenti, quelle pagine rappresentano in realtà molto di più. Maurizio Bazzoli vi ricostruisce, per grandi modelli, i diversi modi in cui la società internazionale è stata concettualizzata in età moderna e contemporanea dalla cultura europea. Per un verso, esse costituiscono dunque una sintesi eccellente dei suoi studi degli ultimi quindici anni sui concetti e le teorie moderne della politica internazionale, per l’altro, lasciano intravedere, in particolare nei capitoli finali sulla società internazionale contemporanea e le sue antinomie, quali sarebbero stati o avrebbero potuto essere i suoi nuovi terreni di ricerca. Quelle pagine vengono ora pubblicate, nella prima parte di questo volume, nella convinzione che, per l’ammirevole equilibrio conseguito tra sintesi concettuale e indicazione di nodi problematici ancora da esplorare, possano costituire per tutti, studenti e studiosi affermati, una pregevole introduzione alla storia del pensiero politico internazionalistico. Se la prima parte del libro testimonia quanto fosse di largo respiro, impegnativa ed esigente, l’attività didattica di Maurizio Bazzoli, la seconda parte consente di apprezzare ancora una volta, e con grande rimpianto, la qualità del suo lavoro strettamente scientifico. Amici e colleghi della Facoltà di Lettere e filosofia, dove aveva insegnato per più di due decenni, hanno voluto raccogliere e ripubblicare dieci suoi saggi, apparsi 8 PREMESSA nel corso degli anni in sedi diverse, che consentono di seguire le tappe del suo percorso di ricerca e apprezzarne a pieno l’originalità. Maurizio Bazzoli aveva via via individuato come suo ambito di studi specifico, o per lo meno prevalente, le teorie dell’ordine e della società internazionale. Se i lavori di storia del pensiero politico sono ancora in gran parte dedicati alle dottrine o alle teorizzazioni, descrittive o prescrittive che siano, dell’ordine politico interno, Maurizio Bazzoli aveva rivendicato con forza la necessità di studiare le teorie dell’ordine e della società internazionale, formulate in età moderna e contemporanea, e di approfondire poi le relazioni da esse tematizzate tra ordine interno e ordine internazionale. I saggi qui raccolti, originariamente apparsi in atti di convegni e in riviste, restituiscono la trama problematica e l’unitarietà della sua ricerca. Accanto a studi sulle concezioni della politica internazionale elaborate da importanti pensatori sei-settecenteschi, da Pufendorf a Montesquieu, e a lavori su alcuni concetti-chiave della politica internazionale moderna, da quello di ‘monarchia universale’ a quello decisivo di ‘equilibrio di potenza’, vengono ripubblicati suoi saggi su un genere letterario a lungo trascurato, la trattatistica sull’ambasciatore fiorita tra XV e XVIII secolo. Pubblicare Le stagioni della società internazionale e raccogliere i suoi studi più recenti di argomento internazionalistico vuol dire, per tutti noi, continuare in qualche modo il dialogo con Maurizio Bazzoli. La sua presenza, il suo rigore e il suo sorriso, le sue osservazioni critiche e i suoi suggerimenti di lettura, continueranno a mancare a noi, suoi colleghi e amici. Siamo convinti, però, che i suoi lavori rimarranno a lungo uno strumento importante per la comprensione della tragica serietà e dei drammatici vincoli della politica. Marco Geuna I PRESUPPOSTI STORICI 9 Parte Prima LE STAGIONI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE 10 LE STAGIONI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE Queste pagine hanno la loro lontana origine nel corso di lezioni di Storia delle dottrine politiche per l’anno accademico 1998-1999 e ne sono in certe parti uno sviluppo. Presuppongono quindi in larga misura (salvo quanto figura nelle note a pie’ di pagina) i numerosi riferimenti che vengono di solito forniti nelle lezioni di un corso di questa disciplina, specialmente quando sia dedicato a un tema così ‘trasversale’ come quello della ‘società internazionale’. I PRESUPPOSTI STORICI 11 I I PRESUPPOSTI STORICI 1. ORDINE INTERNO E ORDINE INTERNAZIONALE La distinzione tra ordine interno e ordine internazionale è un prodotto tipicamente moderno. Non che l’‘altro da sé’ in senso politico (o in qualunque altro modo inteso, in termini di distinzione e/o di avversione) non fosse noto alle civiltà antiche, ma esso era piuttosto percepito in termini che definiremmo, con espressione contemporanea, di ‘politica estera’. La differenza è notevole: nel primo caso essa non è solo empirica ma anche concettuale, nel secondo è meramente empirica e pratica. Sussiste del resto una profonda analogia tra questa considerazione e ciò che avrebbe osservato, nel XVIII secolo, il filosofo e politico inglese David Hume a proposito della nozione di equilibrio di potenza. Egli notava che essa non era affatto sconosciuta e praticata anche nel mondo antico, ma che solo l’età moderna ne avrebbe ricavato un principio concettuale, ossia un consapevole criterio teorico di condotta politica 1. Sicché solo l’età moderna giunge a una distinzione perché, a una prassi che era stata propria anche dell’età classica e medioevale, unisce anche una riflessione concettuale su tale prassi, in una delle molteplici forme di cui il pensiero moderno è capace (filosofica, utopica, letteraria, etico-religiosa, giuridica, ecc.). Un apporto significativo a questo processo di modernizzazione non poteva venire (volendo seguire le tradizionali scansioni storico-cronologiche) dall’età medioevale, la quale non poteva concepire la distinzione tra i due ordini per molteplici ragioni. Non solo perché la sua intellet1 D. Hume, Of the balance of power, in Political discourses, Edinburgh 1752, trad. it. Sull’equilibrio di potenza, in Discorsi politici, Torino 1959, p. 104 ss. 12 LE STAGIONI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE tualità e le sue stesse forme di cultura civile si inscrivevano nel quadro generale di quell’universalismo cristiano che è il riferimento comune alle genti più diverse al di là di ogni genere, differenza, limite o confine. Ma anche perché quell’universo adombrava sì una straordinaria varietà e complessità di concrete realtà locali, ma si rivelava sostanzialmente incapace di trovare la propria ragion d’essere al di fuori della propria peculiarità locale, comunale, cittadina, oppure al di fuori della dialettica storico-politica (in un certo senso ‘epocale’) tra le due autorità dell’Impero e del Papato. Il rapporto tra autorità e potere, quale vige in tutto il quadro dell’universalismo cristiano, si configura come la condizione storica che impedisce le condizioni contestuali entro le quali i rapporti tra i poteri possono assurgere all’esclusività delle loro relazioni interne ed esterne. Quel peculiare rapporto, allo stesso modo in cui nega l’essenzialità della politica come dimensione autonoma, nega di conseguenza la possibilità delle relazioni tra l’interno e l’esterno degli Stati come centri autonomi di decisione politica. Questa concezione svalutativa della politica, di così lungo periodo da collegare tra loro il pensiero della Patristica e quello di Lutero, poggiava su un fondamentale presupposto: negare che il potere politico, in qualunque forma storica si presentasse, potesse essere autorizzato a rappresentare ciò che contraddistingue l’auctoritas, ossia il principio etico-religioso di giustizia. Basta leggere il De civitate Dei di Agostino, vescovo di Ippona (IV-V secolo) per scoprire che i rapporti fra le varie potestà politiche sono fondamentalmente assimilabili a quelli tra «bande di ladroni» 2. Nessuno spazio, all’interno di questa concezione, per immaginare, e soprattutto giustificare, un possibile rapporto tra ordine interno e ordine internazionale. Questa concezione dell’universo, del mondo e della vita pubblica non potrà dirsi del tutto dissolta nemmeno nell’età del Rinascimento, nel cui contesto intellettuale il Cinquecento rappresenta bene, con la sua straordinaria ricchezza, il travagliato passaggio tra una concezione (quella della Respublica christiana) che tende a privilegiare ancora la visione apolitica dell’auctoritas (autorità), rispetto a quella politica della potestas (potere 3), luogo concettuale ormai privilegiato delle varie forme della 2 Agostino, De civitate Dei, IV, 4: se si prescinde dall’imperativo cristiano di giustizia, «che cosa sarebbero mai i regni se non bande di ladroni? E che cosa sono le bande di ladroni se non piccoli regni?». Diventa così addirittura plausibile che all’imperatore Alessandro il Grande un pirata dica che infesta il mare «per lo stesso motivo per il quale tu infesti il mondo; ma poiché io lo faccio con una piccola nave sono chiamato pirata, mentre tu, che lo fai con una grande flotta, sei chiamato imperatore». 3 Naturalmente non si può fare a meno di semplificazioni concettuali. In realtà né l’auctoritas è coestensibile con l’‘autorità’, né la potestas lo è con il ‘potere’. Non sempre il linguaggio della politica è in grado di registrare i mutamenti, talvolta assai profondi, I PRESUPPOSTI STORICI 13 politica interna e internazionale. Negava, l’idea stessa della Respublica christiana, la plausibilità di confini o limiti: lo affermava espressamente il grande umanista fiammingo Erasmo da Rotterdam tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, quando diceva che «il Reno un tempo separava i Galli dai Germani, ma non separa oggi un cristiano da un altro cristiano»; e, ancora, che «i Pirenei levano una barriera tra Spagnuoli e Francesi, ma non spezzano la comunità della Chiesa; il mare divide gl’Inglesi dai Francesi, ma non intacca la comunanza di religione» 4. E questo affermava Erasmo proprio quando l’erompere vitale e disordinato dei nascenti Stati nazionali poneva invece quei limiti e confini come condizione del loro diritto di esistenza. Persino nella letteratura utopica, che, conformemente agli ideali umanistico-rinascimentali, produce modelli di città e di comunità ideali, che ambiscono a essere ‘perfette’ nella loro architettura strutturale e nella loro interna disciplina civile e sociale 5, il valore coesivo della convivenza pacifica e autosufficiente può venire contraddetto dalla necessità delle relazioni con l’esterno, e non solo per esigenze difensive. L’urgenza realistica dei nuovi canoni della politica internazionale si insinua tra le pieghe dell’irenismo umanistico del pensiero utopico: si nota ad esempio in un amico e corrispondente di Erasmo, l’umanista inglese Thomas More 6, autore di un’opera assai celebre come l’Utopia (1516). In una sezione dell’opera, dedicata alla guerra e alle milizie, si palesa già un certo modo di pensare la politica anche nella sua dimensione internazionale, come dimostra la necessità per gli utopiani (per quanto abbiano in «sommo orrore la guerra») di predisporre tutto ciò che serve non solo per misure di difesa, ma anche di offesa verso l’esterno, secondo canoni che sembrano persino prefigurare una visione delle relazioni fra gli Stati tipica della teoria della ‘ragion di Stato’ e degli ‘interessi degli Stati’ 7. che caratterizzano la dinamica categoriale nel suo sviluppo storico. Però è vero che il concetto politico di potere e quello correlativo di potenza contrassegneranno in modo tendenzialmente esclusivo le forme della politica, interna e internazionale, già all’inizio del XVII secolo. 4 Erasmo da Rotterdam, Querela pacis (1517), trad. it. Il lamento della pace, a cura di L. Firpo, Torino 1967, pp. 71-72. Sulla concezione di Erasmo si veda, qui, il paragrafo successivo. 5 Cfr. L. Firpo, Lo Stato ideale della Controriforma. Ludovico Agostini, Bari 1957; L. Firpo, L’utopismo, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, dir. da L. Firpo, Torino 1987, vol. III, pp. 811-888; M. Eliav-Feldon, Realistic utopias. The imaginary societies of the Renaissance (1515-1630), Oxford 1982. 6 Lord Cancelliere d’Inghilterra dal 1529, Thomas More viene imprigionato nel 1534 e messo a morte da Enrico VIII per non aver voluto sottoscrivere l’‘Atto di successione’, che implicava la supremazia del re in materia ecclesiastica. 7 Cfr. T. Moro, Dell’ottima forma di Stato e della nuova isola di Utopia, a cura di L. Firpo, Napoli 1979, l. II, pp. 265-281. 14 LE STAGIONI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE Le necessità del rapporto tra ordine interno e ordine internazionale, cioè la nuova prospettiva internazionale, non trascurano nemmeno la figura del consigliere della corte principesca del Rinascimento, come mostra soprattutto Il Cortegiano (1528) di Baldassar Castiglione, che suggerisce l’immagine emblematica dell’intellettuale colto e raffinato, il cui altissimo compito è di tenere lontano il principe dall’ignoranza, dalla presunzione e dalle passioni del volgo, sempre «fiera selvaggia e infida». Non ha poi molta importanza, per ciò che interessa qui, che la sua figura sia, di fatto, molto lontana dalla concreta realtà dei personaggi delle corti italiane. Quel che importa è che il cortegiano sia versato nelle virtù pratiche, nella pratica di governo e nelle sue difficili arti; e che quindi sia chiamato a consigliare non solo su questioni intellettuali, di gusto, di stile e di opportunità relative all’ordine interno, ma anche su scelte di ordine internazionale, di relazioni tra gli Stati, non importa se minori. Del resto, non andava nascendo all’insegna del Cortegiano la figura (ossia l’immagine mai utopica, nonostante il velo delle forme umanistiche) del ‘perfetto ambasciatore’, cioè di colui che rappresenta per eccellenza le ragioni (e meglio diremmo gli interessi) del principe verso l’esterno? Certo tutto questo accadeva quando ormai la Riforma protestante aveva lavorato a frammentare ciò che la Respublica christiana pretendeva ancora di coniugare in termini universalistici. Valori ormai troppo antichi o almeno desueti (come la pax christiana di Erasmo da Rotterdam), o formule troppo nuove (come l’idea e la pratica della tolleranza civile e politica) non servivano più ad attenuare il concetto e il significato spesso tragico di ‘confine’ (non importa se religioso o politico, o l’uno e l’altro insieme). E del tutto anacronistico, a questo punto, appare anche il ‘grande progetto’ di Guillaume Postel 8 di ripristinare i fasti antichi della ‘monarchia universale’. Il suo De orbis terrae concordia esce quando la prima metà del Cinquecento è ormai abbondantemente consumata, e improponibile oramai è anche l’idea tutt’affatto medioevale che vi viene proposta. L’intento di Postel (che sembra animato da una sorta di cosmopolitismo ante litteram, ma che rivela invece il riecheggiamento di idealità umanistiche sempre più contrastanti con la realtà anche religiosa del tardo Rinascimento) è di ripristinare un mondo politico universalistico reso solidale da un cattolicesimo come espressione istituzionalizzata di un cristianesimo ragionevole, ossia ricondotto ai suoi valori universali. Ma sotto il velo dell’universalismo, o dell’internazionalismo ‘cosmopoli- 8 Sull’interessante figura del francese Postel (1510-1581) si veda il capitolo che gli dedica P. Mesnard, L’essor de la philosophie politique au XVIe siècle, Paris 1952², trad. it. Il pensiero politico rinascimentale, a cura di L. Firpo, Bari 1964, vol. II, pp. 67-101. I PRESUPPOSTI STORICI 15 tico’ di Postel, si cela alla fine, addirittura dichiaratamente 9, il disegno imperialistico della Corona di Francia con la sua legge salica come legge universale del ‘re cristianissimo’, destinata a unificare l’intero mondo. L’internazionalismo si converte così in imperialismo, sotto l’urgenza degli interessi dinastici della monarchia cattolica di Francia che ha già largamente avviato al proprio interno l’opera di ‘pacificazione’ politico-religiosa e che, al suo esterno, contende ormai all’impero di Spagna il primato di potenza internazionale. Non che fosse mancata, già all’inizio del Cinquecento, una potente lezione realistica della politica, che per decretare la crisi della Respublica christiana non aveva nemmeno bisogno di nominarla. Non è solo il Machiavelli del Principe (1513) o dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1517) a dare il segno del mutamento profondo della politica come espressione del mutato contesto storico europeo nei rapporti di forza, potenza e mentalità. Del resto già nei Discorsi non mancano importanti riflessioni circa il rapporto tra ordine interno e ordine internazionale: non altrimenti potrebbe intendersi la stessa articolazione in tre «libri», il primo dei quali è centrato sul tema del «conservare» uno Stato, il secondo sul tema dell’«ampliare» (cioè dell’ingrandimento di uno Stato) e il terzo sul tema delle trasformazioni di Stati e principati politici, delle «rivoluzioni» (cioè dei mutamenti radicali) e della decadenza delle repubbliche 10. E il fatto stesso che Machiavelli ponga i due ordini interno ed esterno in stretto rapporto «effettuale» tra loro seguendone la dinamica storico-politica, dimostra che la loro distinzione era per lui un dato concettualmente acquisito, ancorché dimostrato secondo il suo caratteristico metodo ‘scientifico’ e soprattutto le sue principali fonti: l’esperienza diretta e la storia antica. Ma è soprattutto il (non meno importante) Machiavelli delle relazioni diplomatiche presso vari paesi fuori d’Italia a far comprendere quanto il Segretario fiorentino, nei primi decenni del Cinquecento, fosse in anticipo rispetto ai suoi contemporanei. Perché nelle corti e nelle città libere d’Europa la distinzione tra ordine interno e ordine internazionale era già una dimensione praticata giacché in varia misura imposta da quelle circostanze che gli stati italiani, invece, ancora trascuravano nel loro significato più profondo, culturale e politico. Ce ne danno conferma vari scritti ‘diplomatici’ machiavelliani, quali soprattutto il Rapporto di cose della Magna (1508, poi rielaborato nel Ri9 Cfr. G. Postel, De la république des Turcs, p. 2, cit. in Mesnard, Il pensiero politico rinascimentale cit., p. 100: «la concordia del mondo per la pace universale; di esso io mi dichiaro cosmopolita, desiderando vederlo concorde sotto la Corona di Francia». 10 I più significativi riferimenti sono a N. Machiavelli, Discorsi, l. I, capp. 4 e 5; l. II, capp. 3 e 4; l. III, cap. 1. 16 LE STAGIONI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE tracto delle cose della Magna 11), composto in occasione della missione compiuta in Tirolo, con Francesco Vettori, presso l’imperatore Massimiliano d’Asburgo; e ulteriore conferma la dà anche il Ritracto di cose di Francia (1510-1512), frutto anch’esso delle riflessioni sulle nuove forme della politica internazionale, quali i negoziati per i trattati di alleanza politico-militare (ad esempio quella, appunto, del 1504, tra Firenze e il re di Francia Luigi XII di Valois-Orléans). Nemmeno la forte e ‘accomodante’ influenza di Francesco Guicciardini riuscì a stemperare la forte lezione realistica di Machiavelli, magari celata, in Italia e in Europa, sotto il velo della storiografia di Tacito, o altrimenti dissimulata. E fu quindi, nel corso del Cinquecento, la trasformazione di quella lezione nella dottrina e nella pratica politica della ‘ragion di Stato’ a dislocare in termini nuovi e diversi il rapporto tra auctoritas e potestas. Quando Giovanni Botero, ormai verso la fine del secolo (1589), distingue tra «fondare», «conservare» e «ampliare» un dominio politico, svalutando oramai apertamente la prima delle tre accezioni, non fa altro che configurare la distinzione tra ordine interno e ordine internazionale secondo le apparenti contrapposizioni tra le esigenze continuistiche di un’etica religiosamente connotata e quelle innovative di una dinamica storica che tende a omologare le ragioni della politica al di là delle diversità confessionali. Stato è dominio fermo sopra popoli e Ragione di Stato è notizia di mezzi atti a fondare, conservare ed ampliare un dominio così fatto. Egli è vero che, sebbene assolutamente parlando ella [la Ragion di Stato] si stende alle tre parti suddette, nondimeno pare che più strettamente abbracci la conservazione [ordine interno] che l’altre, e dell’altre più l’ampliazione [ordine internazionale] che la la fondazione. […] E sebbene tutto ciò che si fa per le suddette cagioni si dice farsi per Ragione di Stato, nondimeno ciò si dice più di quelle cose che non si possono ridurre a ragione ordinaria e commune. 12 Esauritosi ormai ogni rapporto con un’auctoritas etico-religiosa, protagonista del potere di decisione politica non è più nemmeno il principe, ma 11 Un breve compendio del Ritracto, ossia il Discorso sopra le cose d’Alamagna e sopra l’Imperatore, sarà composto da Machiavelli, a mo’ d’‘istruzione’, per Giovanni Soderini e Piero Guicciardini, inviati dalla Repubblica fiorentina presso l’imperatore Massimiliano d’Asburgo. 12 G. Botero, Della ragione di Stato, Venezia 1589, l. I, cap. 1 (cfr. G. Botero, Della ragion di Stato e delle cause della grandezza delle città, Bologna 1990, rist. dell’ed. veneziana). Quando Botero parla di «notizia di mezzi», sottintende ormai che la politica debba avere il compito scientifico di studiare le condizioni di vita materiale dello Stato, sia nella sua struttura interna, sia nei suoi rapporti con gli altri Stati. I PRESUPPOSTI STORICI 17 ormai l’oggettività impersonale dello Stato. La definizione di ‘ragion di Stato’, data dal cattolico Botero, poteva essere condivisa (ed effettivamente lo fu, sul piano storico) a tutte le latitudini europee, confessionali e politiche. Alla fine del Cinquecento, sul piano della cultura politica, la distinzione tra ordine interno e ordine internazionale è ormai una realtà nuova e imprescindibile. ‘Nuova’ perché i nuovi soggetti della vita internazionale non sono più l’auctoritas, il Papato e l’Impero (del resto inizia qui la lunghissima crisi dell’idea stessa di ‘monarchia universalis’, destinata alla fine a convertirsi nell’idea di ‘dispotismo internazionale’), bensì gli Stati nazionali in via di formazione, le grandi repubbliche in cerca di affermazione e i potentati minori che in varia maniera (e con tutti i mezzi) aspirano al riconoscimento del loro potere. Ma realtà anche ‘imprescindibile’, come si è detto, perché in tutti questi nuovi soggetti la logica della politica impone realisticamente di riconoscere che la salvaguardia del benessere (ossia dell’interesse) dell’ordine interno postula una crescente preoccupazione per i propri interessi nell’ordine internazionale (interessi degli Stati). A sancire questo processo di profonda trasformazione mancava uno strumento concettuale che agisse contemporaneamente sul piano del diritto e della politica coniugandole intimamente e indissolubilmente, sulla base di una teoria giustificativa che, sfruttando i canoni della tradizione dell’umanesimo giuridico, risolvesse le esigenze private e civili di una confessione particolare in un’etica pubblica e politica. A tutto questo provvide la teoria della sovranità di Jean Bodin (solida nei presupposti e ricca nelle sue implicazioni) quando il secolo non si era ancora compiuto, né era cessata ancora in Francia e in Europa la tragica stagione delle guerre civili di religione. (SEGUE) LA STAGIONE WESTFALIANA 35 III LA STAGIONE WESTFALIANA DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE 1. INTERESSI DEGLI STATI E SOCIETÀ INTERNAZIONALE Il quadro storico complessivo dell’età moderna fino alla fine del Settecento è contrassegnato dalla persistenza del primato europeo nelle relazioni internazionali nonostante l’allargamento degli orizzonti geografici, economici e politici e, in questo quadro, dai progressi delle relazioni economiche e diplomatiche tra gli Stati d’Europa. Di pari passo con il processo di perfezionamento dello ‘Stato moderno’, con i relativi programmi di organizzazione burocratica e amministrativa, si consolida il processo di affermazione degli Stati nazionali territoriali, in uno scenario internazionale caratterizzato dal moltiplicarsi dei soggetti di potenza (Stati piccoli, medi e grandi), ai quali verranno aggiungendosi, in particolare nel corso del Settecento, la Russia e la Prussia. Il ‘sistema europeo degli Stati’, quale consegue dai trattati di Westfalia del 1648, diviene un fattore decisivo nella riflessione politica proprio perché è, in primo luogo, un imprescindibile e concreto dato storico. La crisi della potenza degli Asburgo, nel corso del Seicento, lascia sempre più spazio all’affermazione della potenza della Francia; ma dopo almeno la pace di Utrecht del 1713, e per tutto il XVIII secolo, il quadro internazionale sarà caratterizzato soprattutto dal confronto tra la Francia e l’Inghilterra, ossia tra le due maggiori potenze in lotta per l’egemonia non solo in Europa ma anche nelle colonie. Il modello di ordine internazionale dominante nel corso dell’intera età moderna segna la definitiva riduzione della concezione unitaria e universalistica dell’‘autorità’ (etico-religiosa) a una concezione del ‘potere’ (giuridico-politico) per sua natura configurabile in soggetti moltepli- 36 LE STAGIONI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE ci, nonché la progressiva affermazione del potere sovrano come unica, esclusiva e incondizionata fonte di legittimazione delle decisioni di politica estera, indipendentemente dal tipo di regime interno. Con la definitiva cessazione dei conflitti civili di religione dopo il 1648, è esplicita la tendenza ad avvalorare il principio del non-intervento negli affari interni di ogni singolo Stato. L’ordine internazionale è determinato dal ‘sistema Westfalia’, ossia da una struttura dei rapporti internazionali incardinata su un duplice principio: l’assoluta sovranità esterna degli Stati e l’inderogabilità delle ‘ragioni di Stato’ e degli ‘interessi di Stato’ nelle relazioni reciproche. A questi due princìpi corrispondono, in modo conseguente, sia la teoria sia la prassi relative a vari ambiti dell’attività internazionale: economico (politica economica protezionistica del mercantilismo), amministrativo (organizzazione delle scienze camerali nel quadro del processo di burocratizzazione dello Stato moderno), diplomatico (organizzazione istituzionale della diplomazia residente e sempre maggiore articolazione delle funzioni diplomatiche). In particolare, sul piano della teoria, il modello dominante di ordine internazionale si fonda su due fattori fondamentali: sulla sostanziale convergenza giuridico-politica fra la teoria giusnaturalistica e la teoria della ‘ragion di Stato’ o degli ‘interessi degli Stati’, tramite il comune riferimento all’elemento concettuale della ‘sovranità esterna’ e alle sue prerogative; e, conseguentemente, sulla riduzione dei criteri di rappresentazione e di giustificazione dell’ordine internazionale alla logica del ‘sistema di Stati’. A conferma di ciò, si può constatare come il concetto di equilibrio di potenza 1 sia una rappresentazione talmente ‘forte’ dell’ordine internazionale corrispondente al ‘sistema Westfalia’, da prolungare la sua fortuna ben oltre questo periodo, dominando il campo anche in pieno Settecento. A un tempo principio teorico e pragmatico, criterio politico e strumento di propaganda, esso risponde contemporaneamente alle esigenze postulate sia da un criterio descrittivo della politica internazionale, sia dalla prassi storica della politica di potenza. Infatti, a rendere più mediato il confronto e il conflitto per l’egemonia tra grandi potenze nazionali, questo principio interviene non solo in maniera pressoché esclusiva sul piano teorico (in sostanziale assenza di alternative), ma anche con larga diffusione delle sue applica1 Sull’argomento, si veda più estesamente al paragrafo successivo. È da notare che il principio dell’equilibrio di potenza, geneticamente riferibile alla cultura politica che sostanzia la trattatistica della ‘ragion di Stato’ e degli ‘interessi degli Stati’, è tuttavia accolto e incorporato (per così dire) nelle teorie giusnaturalistiche dello jus gentium. Accade quindi che anch’esso, al pari delle prerogative del concetto di ‘sovranità esterna’, operi come strumento concettuale e pratico di relazione e collegamento tra la dottrina degli ‘interessi degli Stati’ e le teorie giusnaturalistiche (nonostante l’impianto sistematico etico-giuridico-politico di queste ultime). LA STAGIONE WESTFALIANA 37 zioni pratiche, se non altro per il necessario coinvolgimento delle potenze minori negli equilibri regionali, nei quali si va sempre più articolando complessivamente il quadro europeo. Rispetto a questi dati strutturali della realtà storico-politica internazionale, l’immagine di società internazionale tende a divergere da quella dell’ordine internazionale per ragioni molteplici e tra loro differenti o per la specifica natura, o per il tipo di esigenza e di motivazione delle sue formulazioni. Gli sviluppi dell’idea di società internazionale nel XVII secolo si articolano, e a un tempo si compendiano, in due principali accezioni: le forme giuridiche (valenze e sviluppi dello jus gentium) e le forme diplomatiche (la diffusione delle relazioni diplomatiche). Benché sicuramente riferibile, almeno per qualche aspetto, all’idea di società internazionale, ognuna delle due accezioni indicate non la rappresenta però in maniera esclusiva e soprattutto esaustiva: o perché presuppone almeno in parte il modello di ordine internazionale dominante, o perché contribuisce in varia maniera, e al di là della sua intenzionalità, a perpetuarne la logica e i caratteri. Sicché, non solo a livello teorico, ma anche sul piano delle opinioni e delle sensibilità diffuse, nessuna di queste espressioni produce un modello efficacemente alternativo a quello dell’ordine internazionale come sistema internazionale di Stati-potenze e tale da condizionare una prassi di tipo realistico largamente consolidata. (SEGUE) LA STAGIONE CONCERTATIVA 89 V LA STAGIONE CONCERTATIVA DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE Il quadro storico nel primo ventennio del XIX secolo è contrassegnato dall’allargamento della scena internazionale sui versanti atlantico, mediterraneo ed europeo-orientale, ma il centro della politica internazionale rimane ancora il continente europeo. Gli equilibri del ‘sistema degli Stati’ d’Ancien Régime, messi in crisi dalla Rivoluzione francese e dall’espansionismo politico-militare napoleonico, vengono sostituiti dall’alleanza concordata al Congresso di Vienna del 1814-1815 tra Austria, Russia, Prussia e Inghilterra, ossia tra le maggiori potenze vittoriose sul tentativo di ‘impero universale’ di Napoleone 1. La ‘Santa Alleanza’ tra Austria, Russia e Prussia, a cui aderiscono l’Inghilterra, le potenze minori e gli altri Stati del Continente, consente così una sorta di stabilità egemonica voluta, garantita e mantenuta dalle grandi potenze europee. Questo nuovo equilibrio politico-militare entra in crisi a causa soprattutto di due fattori, uno interno, l’altro esterno a tale disegno egemonico: il conflitto di interessi tra Inghilterra e Russia e l’affacciarsi sulla scena internazionale del contrasto storico tra il legittimismo dinastico di Austria, Russia e Prussia e i movimenti nazionali e liberali europei. 1 È da notare che l’impero napoleonico offre occasione all’ultimo esempio storico di accusa di ‘monarchia universale’ da parte della pubblicistica e della propaganda avversarie. Dopo di allora tale formula accusatoria, peraltro largamente usata nel corso dell’età moderna, non ricorrerà più. Sul concetto di ‘monarchia universale’ dal Medioevo al XVII secolo cfr. F. Bosbach, Monarchia Universalis. Ein politischer Leitbegriff der frühen Neuzeit, Göttingen 1988, trad. it. Monarchia universalis: storia di un concetto della politica europea, secoli 16-18, Milano 1998, nonché, per il progressivo mutamento del suo significato, M. Bazzoli, Un concetto di lunga durata: la ‘monarchia universale’, «Il Pensiero Politico» 24 (1991), 1, pp. 67-74 [infra, pp. 313-321]. 90 LE STAGIONI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE In questo periodo l’ordine internazionale è garantito da una sorta di ‘governo internazionale’ delle potenze maggiori, che svolgono sul piano politico-militare un’azione di controllo sulla pluralità degli Stati del Continente. Il ruolo della diplomazia è rivolto contemporaneamente a due obiettivi: il mantenimento dell’equilibrio tra le potenze maggiori e il coordinamento degli interventi politico-militari sugli Stati minori o marginali. La struttura gerarchica di questo modello di ordine internazionale (storicamente corrispondente al periodo della ‘Restaurazione’) poggia su un assunto ed evidenzia, a un tempo, una contraddizione: l’assunto consiste nella intangibilità dei regimi interni legittimati dalla Restaurazione come condizione per la stabilizzazione del sistema europeo; la contraddizione sta nel fatto che mentre il principio del non-intervento negli affari interni viene rigorosamente rispettato tra le potenze maggiori, viene invece sostanzialmente negato nei rapporti tra queste e gli Stati subordinati, rispetto ai quali il cancelliere austriaco Metternich afferma, anzi, il diritto di intervento armato. Questo modello di ordine internazionale è l’ultimo, nel corso storico, a presupporre l’identità Europa-mondo; e infatti entrerà in crisi con l’affacciarsi sulla scena politica internazionale, già a partire dagli anni Venti e Trenta del secolo XIX, degli Stati Uniti d’America, degli Stati dell’America latina e di quelli dell’Oriente mediterraneo. L’immagine di società internazionale corrispondente a questo quadro emerge sia dalle petizioni di principio contenute nelle risoluzioni del Congresso di Vienna e nel documento costitutivo della ‘Santa Alleanza’, sia dalla sostanziale ‘universalità’ dell’assemblea di Stati coinvolti nell’Alleanza, sia infine dalla procedura dei ‘congressi internazionali’ originariamente concordata tra le potenze vincitrici sull’Europa napoleonica. Circa il primo punto, il fine dell’alleanza era certamente quello di garantire la pace internazionale, come appare chiaro dal Patto costitutivo, ispirato dallo zar Alessandro I e firmato il 26 settembre 1815 2. La pace, concepita secondo i canoni del pensiero romantico, è il valore ricorrente nella caratteristica fraseologia paternalistica e mistico-religiosa di questo documento, che identifica il «bene del mondo» nel mantenimento della pace tra gli Stati europei. La condizione della pace è posta nella consapevolezza dei sovrani di essere «membri di una medesima nazione cristiana» guidata dalla Provvidenza divina, a cui spetta di regolare 2 Il documento del Patto della Santa Alleanza (pubblicato nel 1816) venne firmato dallo czar Alessandro I di Russia, dal re di Prussia Federico Guglielmo III e dall’imperatore d’Austria Francesco I d’Asburgo. Aderirono al Patto la Francia, il regno di Sardegna, i Paesi Bassi e la Svezia; non vi aderirono l’Inghilterra, per motivi di prudenza politica, e la Santa Sede, per motivi politici e religiosi. LA STAGIONE CONCERTATIVA 91 gli obblighi reciproci tra i sovrani, i loro popoli e i prìncipi alleati 3. Ma al di là della retorica solidaristico-cristiana di cui ridonda l’intenzionalità pacifista, l’aspetto di valore che caratterizza questa immagine di società internazionale va tuttavia ricercato anche nella disponibilità, verificatasi nel corso del Congresso di Vienna, a sottoscrivere impegni che assumono un significato filantropico, come ad esempio la dichiarazione di principio circa l’abolizione della tratta degli schiavi, «perché repugnante ai principi di umanità e della morale universale» 4. Circa il secondo punto, va osservato che in effetti alla Santa Alleanza finirono col partecipare, sia pure in tempi diversi e con differenti motivazioni e intenzioni, quasi tutti gli Stati europei del tempo (ad eccezione dello Stato pontificio, che non vi partecipò al pari dell’Impero ottomano). Il governo congressuale dell’Europa della Santa Alleanza appare perciò, in questo senso, ‘universalmente’ rappresentativo, tanto quanto potrebbe esserlo una sorta di confederazione o alleanza internazionale aperta anche agli Stati minori; in essa però non viene posta in discussione la diseguaglianza politica conseguente al riconoscimento del principio gerarchico, dato che la guida effettiva dell’Europa è riservata al direttorio delle grandi potenze. Infine, circa il terzo punto, va osservato che nel quadro del Congresso di Vienna e della Santa Alleanza viene proposta programmaticamente una prassi concertativa della politica internazionale 5 che costituisce un elemento di novità rispetto sia al pluralismo ‘anarchico’ degli Stati d’Ancien Régime (ancorché giustificato secondo il principio d’equilibrio), sia soprattutto al personalismo monocratico dell’impero napoleonico. Benché dall’intesa tra le potenze maggiori non scaturisca una organizzazione permanente (com’era nelle intenzioni originarie del Ministro inglese Castlereagh), tuttavia il proposito di affrontare i problemi internazionali attraverso convocazioni ‘congressuali’ tra le potenze, al fine di adottare eventuali decisioni sulla base di un comune consenso, è certamente un 3 Cfr. il testo del Patto (redatto originariamente in francese) in F. Gaeta - P. Villani (a cura di), Documenti e testimonianze. Antologia di documenti storici, Milano 19692, pp. 603-604. 4 Propugnata soprattutto dall’Inghilterra, ma avversata dalla Spagna, la risoluzione di condanna della tratta degli schiavi venne approvata l’8 febbraio 1815 e inclusa nell’Atto finale del Congresso di Vienna. Non divenne tuttavia norma immediatamente ed effettivamente applicata nemmeno per quei paesi che l’avevano firmata. 5 Cfr. l’art. 6 inserito dal Ministro inglese Castlereagh nel testo della Quadruplice Alleanza del 20 novembre 1815. Questo articolo prevedeva riunioni periodiche tra le potenze, allo scopo di studiare le misure per il mantenimento della pace in Europa (cfr. H. Nicolson, The congress of Vienna: a study in allied unity, 1812-1822, London 1946, trad. it. Il Congresso di Vienna. Saggio sull’unità degli alleati, Firenze 1952). 92 LE STAGIONI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE aspetto caratteristico di questo tipo di società internazionale. Indipendentemente dalla effettività storica di questa prassi congressuale internazionale, e soprattutto delle interpretazioni che, secondo i propri interessi nazionali, ne danno di fatto i singoli appartenenti al direttorio delle potenze maggiori, tuttavia questo fattore procedurale contribuisce indubbiamente alla stabilità delle relazioni internazionali fra gli Stati europei. ASPETTI ATTUALI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE 93 VI ASPETTI ATTUALI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE 1. FATTORI DI MUTAMENTO NELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI DEL MONDO CONTEMPORANEO Il quadro internazionale dell’età contemporanea tra la fine del XIX secolo e la fine del XX presenta alcune significative caratteristiche strutturali e tendenze generali. Intanto, vanno registrati i profondi mutamenti determinatisi nel corso storico rispetto all’età moderna, dopo 350 anni dai trattati di Westfalia del 1648. Ciò che nella generale rappresentazione si era configurato come il ‘sistema europeo degli Stati’, fondato sul principio della sovranità assoluta su un territorio, sulla supremazia del potere civile su quello religioso, e sullo Stato come soggetto esclusivo delle relazioni giuridico-politiche internazionali, si è progressivamente trasformato. Combinandosi con l’idea di nazione, lo Stato sovrano è venuto determinandosi come ‘Stato nazionale’, che già a partire dal XIX secolo ha contribuito ad accentuare, anziché ad attenuare, il carattere instabile e ‘anarchico’ 1 delle relazioni internazionali, fino al tragico epilogo della 1 Sul carattere strutturalmente anarchico delle relazioni internazionali convergono numerose e autorevoli interpretazioni: ad esempio quelle di R. Aron, Les désillusions du progrès. Essai sur la dialectique de la modernité, Paris 1969; M. Wight, The balance of power and international order, in A. James (ed.), The bases of international order, Oxford 1973; H. Bull, The anarchical society. A study of order in world politics, London 1977; S. Hoffmann, L’ordre international, in M. Grawitz - J. Leca (éds.), Traité de science politique, vol. I. La science politique comme science sociale. L’ordre politique, Paris 1985. Al di là delle diverse motivazioni, argomentazioni e metodologie d’indagine circa i problemi della teoria (o ‘scienza’) internazionalistica, tutte queste interpretazioni riconoscono l’importante ascendente storico-genetico dell’‘anarchia internazionale’ nella teoria giusnaturalistica dello jus gentium, specialmente nell’accezione hobbesiano-pufen- 94 LE STAGIONI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE prima e della seconda guerra mondiale nel corso del secolo XX. Nella sua progressiva esasperazione, così come nei suoi vari contenuti, il fattore della nazionalità ha infatti, da un lato, moltiplicato le occasioni di lotta per l’egemonia tra grandi potenze nazionali, mentre dall’altro ha mortificato, e in tal modo accresciuto ed esasperato, le aspirazioni rivendicative degli Stati minori. Nell’epoca presente si assiste a un accelerato mutamento degli equilibri e delle gerarchie di potenza nell’intero scenario internazionale. Si tratta dei mutamenti conseguiti, in primo luogo, dalle due guerre mondiali, poi dal tormentato processo di decolonizzazione, quindi dal crollo del regime sovietico e dal sistema di Stati che vi faceva riferimento, infine dalle influenze e interferenze dei fondamentalismi e dei neo-nazionalismi di ogni genere. Nel complesso, il quadro è maggiormente e acceleratamente instabile per vari motivi: soprattutto per il moltiplicarsi dei soggetti delle relazioni internazionali, delle occasioni delle loro iniziative, nonché dei tipi, delle forme e delle circostanze di tali iniziative. Ai soggetti o attori internazionali tradizionali, ossia gli Stati reciprocamente riconosciuti negli accordi e trattati internazionali, si sono venuti aggiungendo quelli che, per vari processi recenti e meno recenti di disaggregazione politica, aspirano a ottenere un riconoscimento internazionale come nazioni indipendenti (Armeni, Curdi, Palestinesi, ecc. e, in generale, le «nazioni senza Stato» 2). Andrebbe aggiunta la capacità di iniziativa internazionale di soggetti che, già appartenenti a strutture politiche di tipo confederativo, aspirano a una ancor maggiore autonomia, oppure di quelli che, già disponendo di una relativa autonomia amministrativa all’interno di uno Stato unitario, aspirano o a potenziarla all’interno di una struttura di tipo confederativo, o a conquistare senz’altro l’indipendenza (Baschi, Corsi, ecc.). Da questo punto di vista parrebbe in crisi, più che lo ‘Stato nazionale’, lo ‘Stato unitario’, sia nazionale, sia multinazionale. Se poi la prospettiva si allarga dall’Europa all’Asia e soprattutto all’Africa, ci si rende conto di quanto il quadro internazionale sia sensibile anche ai contrasti, più o meno endemici e motivati talvolta anche dalla diversità di religione, tra etnie e gruppi tribali. Inoltre, dimensioni della vita dei popoli quali ad esempio l’economia internazionale, un temdorfiana. Circa le caratteristiche di questa riflessione si veda l’antologia a cura di L. Bonanate, Diritto naturale e relazioni tra gli Stati, Torino 1976. 2 Cfr. A. Melucci - M. Diani, Nazioni senza Stato, Milano 1992² (Torino 1983¹). Dagli anni Ottanta a oggi, il problema è andato notevolmente ampliandosi e arricchendosi di implicazioni ulteriori, anche per effetto di una maggiore articolazione dei criteri osservativi che hanno messo in luce la complessità dei fenomeni connessi: cfr. ad esempio A. Petrillo, Lento ritorno a casa. Note sulle ‘piccole patrie’, «Filosofia politica» 15 (2001), 3, pp. 411-429. ASPETTI ATTUALI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE 95 po subordinate e condizionate a volta a volta alle politiche dinastiche, agli interessi delle sovranità, agli espansionismi nazionali e coloniali, alle esigenze militari imposte dall’egemonia continentale, emergono ora come ambiti in varia misura autonomi di determinazione delle relazioni internazionali. Capaci di iniziative autonome sulla scena internazionale sono del resto, proprio per il loro carattere supernazionale o transnazionale, i maggiori gruppi economici multinazionali. Insomma, il quadro complessivo è tale che, a rigore, non si potrebbe più parlare di ‘sistema internazionale’ su scala mondiale allo stesso modo e nello stesso senso in cui se ne era potuto parlare dopo il 1648 e, in scala crescente, fino alla prima metà del XIX secolo. L’odierno processo di globalizzazione sembra mettere in discussione quanto rimane dell’architettura del ‘sistema Westfalia’ molto più di quanto abbiano fatto la Rivoluzione francese, le guerre napoleoniche, la Santa Alleanza, il Trattato di Versailles e gli accordi di Yalta. Non sono mutati soltanto il quadro storico e le ideologie che hanno contribuito, talvolta prepotentemente, a provocarne la trasformazione a partire almeno dalla seconda metà dell’Ottocento. Vanno mutando anche le categorie concettuali che hanno presieduto alla rappresentazione sintetica dell’ordine internazionale e che hanno prodotto, nel corso della storia, modelli descrittivi e a un tempo giustificativi della politica internazionale 3. (SEGUE) 3 Per un quadro articolato delle dinamiche relative alla globalizzazione, in rapporto al tema dell’‘interesse nazionale’, cfr. V.E. Parsi, Interesse nazionale e globalizzazione. I regimi democratici nelle trasformazioni del sistema post-westfaliano, Milano 1998. ANTINOMIE DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE POST-MODERNA 101 VII ANTINOMIE DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE POST-MODERNA 1. ANTINOMIE GIURIDICHE, ISTITUZIONALI E POLITICHE DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE Forse la miglior prova di questo paradosso, e a un tempo del persistente condizionamento dell’ordine internazionale sulla società internazionale, sta nel carattere antinomico dell’odierno bagaglio concettuale e pratico della società internazionale secondo il profilo giuridico, istituzionale e politico. La prima antinomia riguarda la natura e la funzione del ‘diritto internazionale’, a cui pure si guarda come a un mezzo conforme alla società internazionale perché mira a risolvere le controversie mediante procedure razionali e consensuali anziché mediante il conflitto armato. Va però constatato che l’idea di un ordine giuridico universale che prescinda da una concreta prassi pattizia tra Stato e Stato non ha alcun riscontro pratico 1. È vero, da un lato, che il ricorso al diritto internazionale come mezzo privilegiato di composizione delle controversie internazionali è formalmente e costantemente auspicato dalla generalità degli Stati; ma è altrettanto vero, dall’altro lato, che questo stesso diritto è privo, per la sua natura non meno che per la sua genesi storica, di un vero potere collettivo sanzionatorio, ed è perciò necessariamente rispettoso delle prerogative sovrane degli Stati nazionali. Mentre dunque si riconosce che il ricorso allo strumento del diritto anziché a quello delle armi è con1 Tale constatazione non è affatto contraddetta dalla funzione mediatrice di organizzazioni internazionali (a cominciare dall’ONU) la cui natura e struttura presuppone appunto la prassi pattizia tra singoli Stati e potenze. 102 LE STAGIONI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE forme a un valore irrinunciabile e costitutivo della società internazionale, nello stesso tempo, trattandosi più di un diritto tra gli Stati che di un diritto sovranazionale, esso è condizionato, come complesso di mezzi e di procedure, al riconoscimento degli Stati come soggetti internazionali a cui, di fatto, non è applicabile alcuna sanzione. Ne è prova il carattere sostanzialmente pleonastico della Corte Internazionale di Giustizia (organo collegato all’ONU e che ha storicamente sostituito la Corte permanente di giustizia internazionale, collegata alla Società delle Nazioni), alla quale infatti possono rivolgersi gli Stati, ma non i singoli individui. Ancora, ne sono prova le difficoltà che incontra (non per caso) la recente iniziativa, sostenuta da larghi settori dell’opinione pubblica in vari paesi e da numerose personalità del mondo del diritto, della cultura e della politica, di istituire, e soprattutto di far funzionare efficacemente nel quadro dell’attuale diritto internazionale, un Tribunale internazionale per i diritti umani, ossia la Corte Penale Internazionale, competente a giudicare i crimini più gravi commessi contro l’intera comunità internazionale (aggressione, crimini di guerra, genocidio, ecc.) 2. La tesi secondo la quale il diritto internazionale è tradizionalmente la forma regolatrice delle volontà sovrane nei loro reciproci rapporti, e quindi supremo principio normativo dell’organizzazione politica internazionale 3, è dottrina che oggi non risulta contraddetta, tantomeno sostituita, da altra secondo la quale il diritto internazionale non sarebbe più la forma giuridica che regola esclusivamente i rapporti fra Stati 4. (SEGUE) 2 Lo Statuto della Corte penale internazionale, con sede a Roma, potrà però entrare in vigore dopo la ratifica di almeno 60 Stati; il Parlamento italiano lo ha ratificato con la legge del 12 luglio 1999, n. 232. La Corte si basa sul principio che possano essere sottoposti al suo giudizio per reati contro l’umanità coloro contro i quali gli Stati di appartenenza non possano o non vogliano procedere penalmente per questo tipo di reati. La Corte è però autorizzata ad agire nei confronti dei cittadini di quegli Stati che abbiano preventivamente ratificato il suo Statuto. È proprio la questione della ratifica a creare le maggiori difficoltà a tale istituzione, perché con essa gli Stati rinuncerebbero, almeno in linea di principio, a esercitare una prerogativa fondamentale della loro sovranità interna, ossia il giudizio in materia penale sui propri cittadini nel proprio territorio. È da notare che per gli Stati che riconoscono ai Capi di Stato stranieri (anch’essi suscettibili di essere penalmente perseguiti dalla Corte) la prerogativa dell’immunità, la ratifica dello Statuto del Tribunale penale internazionale comporterebbe una modifica costituzionale. 3 H. Bull, The anarchical society. A study of order in world politics, London 1977, p. 140 ss. 4 È la tesi sostenuta oggi da molti e che risale a L. Oppenheim, International law, London 1905, vol. I, cap. I. ANTINOMIE DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE POST-MODERNA 4 . LA 111 FISIONOMIA POLITICA DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE È infatti sul piano politico che, nel rapporto tra fine e mezzi, vengono necessariamente convergendo il dato storico-strutturale della molteplicità dei soggetti internazionali e il dato di valore della società internazionale. Si tratta, in sostanza, di dare risposta a due interrogativi: in primo luogo, come imporre che la coerenza tra politica interna e politica esterna dei molteplici soggetti internazionali risponda a criteri riconosciuti e condivisi non solo nella prassi e nelle procedure internazionali, ma anche, contestualmente, nella prassi e nelle procedure della politica interna; in secondo luogo, come garantire che questo processo avvenga secondo un criterio sintetico che consenta il libero confronto dei dissensi, non 14 I conflitti di natura religiosa che sconvolgono in questi ultimi tempi vari scenari, soprattutto nel medio e vicino Oriente, sono eloquente dimostrazione della insuscettibilità dei vari fattori confessionali di lavorare nel senso della pacificazione tra i popoli e le religioni. 112 LE STAGIONI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE meno che la loro pacifica composizione. Non vi è nessuna possibilità di rendere coestensibili la ‘società internazionale’ e la ‘democrazia internazionale’ (quale che sia il significato che possa essere dato a tale espressione) se i molteplici soggetti indipendenti non obbediscono all’imperativo di darsi, come diceva Kant, una ‘costituzione repubblicana’, ossia (come diremmo oggi) un ordinamento di democrazia liberale nel quale le decisioni della sovranità esterna siano soggette al controllo istituzionale-costituzionale e a quello dell’opinione pubblica. Nondimeno, anche rispetto a una prospettiva minima della ‘società internazionale’ 15, va constatato un dato palesemente contraddittorio: ossia che (non diversamente dai numerosi progetti di pace internazionale fioriti nel corso dell’età moderna) anche la massima organizzazione internazionale della nostra epoca, l’ONU, è statutariamente indisponibile a mettere in discussione il problema della natura dei regimi interni 16. Fin dalle sue origini essa ammette infatti regimi diversi, comprese le dittature, salvo poi pretendere che queste si adeguino, nel loro comportamento internazionale, a procedure e valori (in primo luogo il rispetto dei diritti dell’uomo e la priorità dell’individuo-come-valore) incompatibili con la natura e il carattere dei propri ordinamenti interni, e comunque con la prassi della propria politica interna. Non è naturalmente in discussione l’utilità di una sede internazionale aperta al dibattito e al confronto: il riconoscerlo è persino una banalità, tanto quanto il pretendere che tale sede costituisca l’assoluto strumento risolutivo di ogni controversia. Ma il riconoscere questo non toglie che le persistenti difficoltà dell’ONU derivino in primo luogo dall’aver trascurato il fondamentale 15 Mi riferisco in particolare a D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano 1995. Dello stesso autore si vedano anche La forza del ‘pacifismo debole’. In difesa di un libro controverso, «Teoria politica» 13 (1997), 2, pp. 113-123 (in cui Zolo risponde alle obiezioni dei vari critici di Cosmopolis) e, inoltre, I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Roma 1998. 16 Cfr. lo Statuto delle Nazioni Unite, cap. I («Fini e princìpi»), art. 2, paragrafo 7: «Nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengano essenzialmente alla competenza interna di uno Stato, né obbliga i Membri a sottoporre tali questioni ad una procedura di regolamento in applicazione al presente Statuto; questo principio non pregiudica però l’applicazione di misure coercitive a norma del cap. VII». Naturalmente la sostanziale intangibilità delle competenze riferibili alla ‘domestic jurisdiction’, e quindi l’altrettanto sostanziale unilateralità o discrezionalità interpretativa dei singoli Stati, non sono affatto limitate o condizionate da altri articoli dello Statuto dell’ONU riguardanti, ad esempio, le questioni coloniali, il mantenimento della pace internazionale e la tutela dei diritti umani (cap. VII dello Statuto). Solo il terzo punto potrebbe riguardare la politica interna. Ma, di fatto, gli unici casi in cui l’ONU è intervenuta hanno riguardato la Somalia e il Ruanda: non per caso ‘piccoli Stati’ e, per giunta, paesi in cui il potere sovrano ‘nazionale’ era dissolto in una situazione di perdurante guerra civile. ANTINOMIE DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE POST-MODERNA 113 rapporto di coerenza tra politica interna e politica internazionale, e dall’aver in tal modo legittimato a priori una contraddizione: ossia pretendere che un medesimo Stato si comporti sul piano internazionale come palesemente, quanto legittimamente 17, non sia tenuto a comportarsi (né in effetti si comporta) nel proprio ambito interno. Tutto ciò induce a un’unica conclusione: che allo scopo di contenere gli sviluppi della politica internazionale entro limiti ragionevolmente controllabili, la prospettiva della società internazionale non solo autorizza a sottoporre a giudizio il tipo di regime interno, ma anzi impone di farlo. Quand’anche fosse vero che ‘gli stati democratici non si sono mai affrontati con la guerra’, potrebbe non essere vero che ‘la democrazia stessa è una garanzia contro il conflitto armato’ 18. Ove poi quest’ultima affermazione pretendesse di avere valore assoluto, potrebbe risultare contraddetta per almeno due ragioni: sia perché il grado di bellicosità delle democrazie va necessariamente relazionato, nel confronto politico-interna17 Anche per questo motivo non è condivisibile l’opinione di Bobbio il quale, riferendosi alla caratteristica attuale dell’ordine internazionale, ammette che «il sistema tradizionale dell’equilibrio continua a convivere a fianco del nuovo sistema [rappresentato dalle Nazioni Unite] avviato dal processo di democratizzazione». Ma aggiunge che «il contrasto tra i due sistemi, conviventi e tra loro concorrenti, può essere illustrato dal punto di vista della distinzione, ben nota ai giuristi, tra legittimità ed effettività. Il nuovo è legittimo sulla base del consenso tacito o espresso della quasi totalità dei membri della comunità internazionale che hanno creato e mantengono in vita l’Organizzazione delle Nazioni Unite, ma non è efficace. Il vecchio continua ad essere effettivo, pur avendo perduto, rispetto alla lettera e allo spirito dello Statuto delle Nazioni Unite, ogni legittimità» (cfr. N. Bobbio, Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, a cura di P. Polito, Torino 1989, pp. 225-226). Ora, legittimare a priori, da parte dell’ONU, qualunque tipo di regime interno, equivale a rendere discutibile proprio la dichiarazione di illegittimità circa il ‘vecchio’ sistema. Non si vede, infatti, chi possa continuare a seguire il tradizionale sistema dell’equilibrio (che, secondo Bobbio, sarebbe illegittimo) se non quelle stesse potenze mondiali e quegli stessi Stati che, appunto, «hanno creato e mantengono in vita l’Organizzazione delle Nazioni Unite» e che dovrebbero comportarsi secondo la lettera e lo spirito dello Statuto dell’ONU. Il punto è che lo stesso Statuto dell’ONU contribuisce a rendere legittimi entrambi i sistemi, sia il vecchio sia il nuovo; e non può dichiarare illegittimo il vecchio sistema se non ne dichiara contestualmente illegittima la fonte primaria, ossia ogni ordinamento interno contrastante con la libertà dell’opinione pubblica, con il rispetto e la tutela dei diritti umani, in sostanza con la prassi costituzionale-istituzionale liberaldemocratica. 18 Al proposito è molto significativo il confronto tra due opere: L. Bonanate, Etica e politica internazionale, Torino 1992, e A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Bologna 1997. Andrà d’altra parte osservato che, in giudizi di questo tipo (e a parte il caso peculiare e sui generis dello Stato di Israele), il termine stesso di ‘democrazia’ senza aggettivi porta con sé degli equivoci: come è provato dal fatto storico che almeno le democrazie ‘popolari’ si sono vicendevolmente aggredite militarmente più volte nell’ultimo mezzo secolo (tra i casi più noti, quelli dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968). 114 LE STAGIONI DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE zionale, alla persistenza reale di regimi non democratici e di comportamenti non democratici; sia perché la società internazionale è, appunto, una prospettiva, un processo storico che non può garantire automaticamente la pace perpetua. La quale in verità appare un fine così alto, e ad un tempo così remoto, da proporsi come obiettivo di una filosofia della storia e, a termini più ravvicinati, da impegnare e pretendere semmai più un responsabile comportamento morale dai singoli individui, che un utopistico comportamento etico dagli Stati. Come già notava Voltaire, «la sola pace perpetua che possa essere stabilita tra gli uomini è la tolleranza» 19. Ed è, questo, un ammonimento prezioso, ove non sfugga l’influenza che il principio della tolleranza può esercitare sul rapporto tra politica interna e politica internazionale. Il suo opposto, l’intolleranza, è infatti la negazione dell’individuo-come-valore, perché nasce da una duplice presunzione: di stabilire quale sia il bene e quale il male per gli uomini sia all’interno sia all’esterno degli Stati, e anche di imporre quanto stabilito dai governi con la forza e con la violenza. La società internazionale si accontenterebbe quindi di un obiettivo più modesto della ‘pace perpetua’: un obiettivo che consenta di ampliare progressivamente gli spazi di prevedibilità del comportamento internazionale degli Stati e, in questo modo, di contenere le occasioni di guerra in termini ragionevoli, ossia controllabili. Ciò significa che, intesa nel senso anzidetto, la società internazionale deve costituire una tendenza irreversibile che, nella dialettica storica con l’ordine internazionale, sia effettivamente in grado di condizionarne la struttura e gli sviluppi. È difficile dire se, di per sé, il processo di globalizzazione apra vie di sviluppo secondo una linea necessariamente compatibile con quella tendenza irreversibile; e anzi sembra presentare, al momento, aspetti contraddittori. Molto potrebbe fare la coscienza morale di ogni individuo; molto anche la capacità di persuasione delle istituzioni religiose, se queste non fossero talvolta indotte a condizionare la funzione del loro magistero a contenuti ideologici opinabili e perciò (data la ragion d’essere di ogni magistero religioso, che per sua stessa natura pretende di rappresentare la verità in modo assoluto ed esclusivo 20) suscettibili di diventare essi stessi occa19 Voltaire, Della pace perpetua, del dottor Goodheart (1769), in Id., Scritti politici, a cura di R. Fubini, Torino 1964, pp. 809-837: 809. È superfluo osservare che proprio la tolleranza, soprattutto nei suoi aspetti civili e politico-istituzionali, è uno dei valori particolarmente contraddetti e umiliati nei regimi interni non solo di molti Stati rappresentati nell’Assemblea delle Nazioni Unite, ma anche di una grande potenza che siede addirittura nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU in qualità di membro permanente. 20 Il più ovvio riferimento è, nel momento presente, a ogni forma di integralismo fondamentalista come fonte attuale o potenziale di destabilizzazione e di azione terroristica. ANTINOMIE DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE POST-MODERNA 115 sione di conflitto 21. Molto di più può fare perciò, nella direzione di un’auspicata coerenza tra politica internazionale e politica interna, un consenso politico sempre più orientato e ampio, soprattutto nelle organizzazioni internazionali. La condizione politica dell’‘etica dei diritti umani’ postula una relazione necessaria tra pace internazionale e priorità dell’individuo-come-valore all’interno di ogni Stato. Fino a quando quest’ultimo e fondamentale obiettivo non verrà realizzato, la logica degli ‘interessi degli Stati’ e dell’ordine internazionale avrà il sopravvento sulla società internazionale. Fino a quando le organizzazioni internazionali (a cominciare dall’ONU) non si porranno, direttamente ed efficacemente, il problema dei regimi interni degli Stati membri, la società internazionale rimarrà un obiettivo ideale, tanto altamente morale quanto inevitabilmente inefficace. 21 Si allude qui alla capacità delle istituzioni religiose, quali che siano, di influenzare i comportamenti individuali, e solo attraverso questa indiretta via di influenzare i comportamenti internazionali. Cosa ben diversa, rispetto a tale capacità d’influenza, è invece la potenzialità progettuale delle istituzioni religiose circa la costruzione politica di una società internazionale, giacché i suoi contributi risultano, a oggi, non esenti da contraddizioni soprattutto in merito al problema della preferibilità, a priori, di uno specifico tipo di regime interno. PENSIERO POLITICO E PROSPETTIVA INTERNAZIONALE Parte Seconda TEORIE DELL’ORDINE E DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE 123 124 TEORIE DELL’ORDINE E DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE PENSIERO POLITICO E PROSPETTIVA INTERNAZIONALE 125 AVVERTENZA I saggi che compongono la seconda parte del volume sono stati pubblicati, o sono in corso di pubblicazione, nelle seguenti sedi: I. II. III. IV. V. VI. Pensiero politico e prospettiva internazionale nell’età moderna, «Il Pensiero Politico» 25 (1992), 1, pp. 107-116. La concezione pufendorfiana della politica internazionale, in V. Fiorillo (a cura di), Samuel Pufendorf filosofo del diritto e della politica, Atti del Convegno internazionale (Milano, 11-12 novembre 1994), Napoli, La Città del Sole, 1996, pp. 29-72. L’idea di ordine internazionale nell’Europa di Montesquieu, in A. Postigliola - M.G. Bottaro Palumbo (éds.), L’Europe de Montesquieu, Actes du Colloque de Gênes (26-29 mai 1993), Napoli, Liguori, 1995, pp. 53-76. L’ordine internazionale secondo Mably: dal «Droit public de l’Europe» ai «Principes des négotiations», in F. Mazzanti Pepe (a cura di), Costituzione e diritti fondamentali in Mably, Atti della Giornata di Studio (Genova, 25 novembre 1998), Genova, Name, 2001, pp. 43-57. Doveri dell’ambasciatore e ordine internazionale nell’«Enbaxador» (1620) di Juan Antonio de Vera, in A.E. Baldini (a cura di), Rivolte, ragion di Stato e ordine politico tra Cinque e Seicento, Convegno Torino, 16-17 ottobre 2001, in corso di pubblicazione a Milano, presso Franco Angeli. L’ideologia dell’ambasciatore nel tardo Seicento: «L’Ambassadeur et ses fonctions» di Abraham de Wicquefort, in G. Borrelli (a cura di), Prudenza civile, bene comune, guerra giusta. Percorsi della ragion di 126 TEORIE DELL’ORDINE E DELLA SOCIETÀ INTERNAZIONALE Stato tra Seicento e Settecento, Atti del Convegno internazionale (Napoli, 22-24 maggio 1996), Napoli, Adarte, 1999, pp. 203-220. VII. Ragion di Stato e interessi degli Stati. La trattatistica sull’ambasciatore dal XV al XVIII secolo, «Nuova Rivista Storica» 86 (2002), 2, pp. 283-328. VIII. Un concetto di lunga durata: la ‘monarchia universale’, «Il Pensiero Politico» 24 (1991), 1, pp. 67-74. IX. L’equilibrio di potenza nell’età moderna. Dal Cinquecento al Congresso di Vienna, in M. Bazzoli (a cura di), L’equilibrio di potenza in età moderna. Dal Cinquecento al Congresso di Vienna, Milano, Unicopli, 1998, pp. V-XLV. X. Piccolo stato e teoria dell’ordine internazionale nell’età moderna, in E. Gabba - A. Schiavone (a cura di), Polis e piccolo stato tra riflessione antica e pensiero moderno, Atti delle Giornate di Studio (Firenze, 21-22 febbraio 1997), Como, Edizioni New Press, 1999, pp. 76-93. Ringrazio i direttori delle riviste, i curatori e gli editori dei volumi, in cui sono stati stampati per la prima volta i saggi di Maurizio Bazzoli, per averne permesso la ripubblicazione. Sono grato, altresì, al Comitato Scientifico della Collana «Il Filarete» per averne eccezionalmente consentito la raccolta e la ristampa nel presente volume. Ringrazio di cuore, infine, Fernanda Caizzi per la pronta disponibilità e la competente determinazione con le quali ha seguito la preparazione del volume e reso possibile la sua pubblicazione in tempi molto rapidi. Marco Geuna