Agli amici bussetani che, con la loro testimonianza diretta

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Agli amici bussetani che, con la loro testimonianza diretta
... Agli amici bussetani che, con la loro testimonianza diretta,
hanno contribuito all'allestimento di questa rassegna
PRESENTAZIONE
Busseto è una città, non solo di nome (e questo da oltre quattro secoli e mezzo, grazie all'Imperatore Carlo V, che
affascinato da questo borgo lo nominò città) ma anche e soprattutto per la sua cultura, e per i grandi personaggi
che hanno inciso profondamente nella sua storia. La nostra città è sempre stata guidata, sorretta da grandi
protagonisti; da circa un millennio ha visto fiorire ed operare autentiche figure che le hanno dato un blasone,
un'impronta capace di valicare i confini del suo territorio.
Ma la vita di un paese non è fatta solamente di grandi uomini con la «u» maiuscola. Vi è anche una storia minima,
nella quale si snodano mille episodi, gustosi e divertenti, che hanno come protagonista la gente comune,
personaggi semplici, il popolo, figure caratteristiche che danno il sale alla vita di tutti i giorni. Un modo diverso
dunque questo per conoscere la storia di un paese e ricordare, assieme ai «grandi fatti», quegli episodi di cronaca
spicciola, di fatterelli curiosi, di storielle popolari che ci aiutano a capire come fosse una volta la vita e il clima di
un piccolo centro.
Episodi che ci danno anche la misura della probità, della serietà della gente: come Medardo, al maringòn che,
quand'era Presidente del Comitato Carnevale, all'indomani di una sfilata dei carri che aveva dato un buon
incasso, si recò di buon mattino a restituire (con la borsa di moneta spicciola) la somma di un milione e mezzo
che l'allora Sindaco Stefanini aveva prestato al Comitato. Testimonianze di un amore autentico per la propria
terra, frammenti di vita, aspetti dell'animo buono della nostra gente di cui abbiamo bisogno che resti, in qualche
modo, un segno, una testimonianza affinché l'incalzare inesorabile del tempo non spazzi,via tutto.
Chi si ricorda più, ad esempio, di Càlvi, Ciupela, Cumòt, Cinèlu, Bramòn, la Delina, la Puldina, la Maria dal latt e di
tanti, tantissimi altri tipi caratteristici? Tutte persone che hanno legato il proprio nome (meglio, stranome) alla
vita bussetana, magari per un singolo episodio, un fatterello curioso, brillante, o perchè dotati di singolari
caratteristiche, il più delle volte legate al... dio Bacco, o ad avventure amorose o boccaccesche, oppure a scherzi
terribili, molto di moda un tempo. Molto tempo fa, ad esempio, si cominciò a raccontare una storiella, non si sa
bene se vera e fino a che punto, che ci rivela certamente il carattere della gente del popolo e la sua voglia di
ridere. Il fatterello riguardava un bussetano, rimasto anonimo, al quale poco più di quattro mesi dopo che si era
sposato, nacque un figlio. In cuor suo si andava chiedendo come mai, visto che lui, la sua sposina, non l'aveva...
«conosciuta» (per dirla in senso biblico) prima del matrimonio; ma si era, alla fine, lasciato convincere dalla
mogliettina la quale gli aveva assicurato, calcoli alla mano, che «Quatar mees e mes ad nott e quatar mees e mes
ad dé, i fan new mees»!
L'idea di far rivivere queste figure (e non solo le macchiette), di immortalarle con la penna, ci frullava da tempo
per la testa.
E così ci siamo messi al lavoro per allestire una «Galleria» di questa nostra gente che ha contribuito a
movimentare la nostra cittadina e la sua storia minima. Non è stato cosa facile metterli in fila tutti, ricordarli, farli
ricordare dai più anziani, dai più «bussetani». Ma, grazie anche a loro, specialmente a quèlli dotati di buona
memoria, pensiamo di esserci quasi riusciti, diciamo, almeno nelle intenzioni.
Sono bussetani quasi tutti scomparsi quelli che abbiamo riunito in questa singolare rassegna antologica, per cui
le ricerche, a volte non sono state agevoli; inoltre molti altri tipi interessanti ci saranno probabilmente sfuggiti e
di questo ci scusiamo con in nostri lettori. Alcuni poi di quelli che includiamo in questa «lista» forse non hanno
una gran fama, ma sono stati ugualmente citati perchè, come ripeteva spesso il buon Emilio Casali, «nel più sta il
meno». Ci conforta il fatto che abbiamo messo tutto l'impegno possibile, in questi tre anni di ricerche, per
raggiungere un risultato almeno di sufficienza.
Personaggi carichi di umanità, dotati di particolare humor, simpatiche figure di vagabondi, a volte fuori dalla
legge e dalle convenzioni; gente «tagliata» a misura dei tempi; una «produzione» scaturita dal popolo, dai
bussetani doc, quelli, per intenderci della «carota»
e
della «biciclOta»; quella gente che aveva come lingua madre il dialetto e solo quello, schietto e colorito;
che quando voleva avventurarsi, o era costretto a parlare in italiano per insegnarlo ai nipotini... ne uscivano delle
belle. Come questa, sentita in Codalunga: «Giusepinaaa... Giusepina, t'e l'ho bèle ditto tante volte di non andare
nello Stertino che, se tira il tron, prendi uno stramolone, vakkamadoj!».E un'altra volta: «Amore, lo vuoi il
persago?... no?, oh, lo volerai!».
E i nomi... il più delle volte storpiati, gli erano stati messi addosso ex novo dall'invenzione popolare (e Romeo
«Siicari», si dice, era uno specialista in questi «battesimi«).
Realtà di un mondo scomparso che non si ripeterà in avvenire perchè il vivere di oggi è sostanzialmente diverso
da quello di una volta: due mondi che divergono sempre di pù.
Abbiamo lasciato alle spalle l'epoca dei cantastorie (chi se li ricorda i cerchi di gente attorno a questi
caratteristici piazzaioli con fisarmonica e «pianeti», negli angoli di piazza Verdi o sotto i portici del Monte di
Pietà?), del «verticale» che passava traballando nelle contrate acciottolate, dello strillone che vendeva i giornali
in mezzo alla gente del mercato e sotto i portici. Gente che non aveva altra consolazione che un «manag» da
scolare in una delle numerose osterie disseminate un po' dappertutto nelle strette contrade, che odoravano
proprio di vino o di pesce fritto. Un bicchiere che il più delle volte faceva subito effetto perchè lo stomaco spesso
era vuoto o era reduce da un pasto troppo frugale. E su questo argomento c'era persino chi ci scherzava, come
quel mattacchione di Secchi Paolo, al maringòn, padre di Mario «Tara» e della Mietta, il quale volendo far creder
che se la passava bene, ogni qualvolta qualcuno lo cercava, all'ora di pranzo, lui si affacciava alla porta con un
anolino, infilzato sulla forchetta (un anolino finto, di legno, fatto da lui) dicendo: «Fniss j'anulèn e pò vegn subit».
E allora andiamo ad «aprire» questa Galleria... «Sènsa tant gnignon e gni-gnera» (come disse il maestro Pessoli,
nel discorso di inaugurazione della scuola di S. Andrea). Certo, un conto è raccontare un episodio, un aneddoto
gustoso e ridanciano a viva voce, con le opportune sfumature lessicali che il nostro dialetto porta con sè e un
altro è trasferire quel racconto sulla carta. Insomma, è come dire «pan fròsc» o invece sentirne il profumo
quando si passa davanti al fornaio. Ma tant'è: ci proviamo, consci che non abbiamo la stoffa del sagace umorista
per certe «pennellate»; inoltre siamo stati, a volte, frenati dalla prudenza e non abbiamo voluto calcare troppo la
mano sui vizi e le passioni dei nostri personaggi di un mondo scomparso. Vediamo dunque che cosa ci dicono
questi nostri «amici» bussetani, cosa ci hanno lasciato in eredità: certamente non tutto di positivo ma,
lasciatecelo dire, tanta e tanta umanità e saggezza di vita e ci ricordano che l'amicizia, quella vera, è capace di far
dimenticare tutte le tristezze e le amarezze di questo mondo.
E basterebbe anche solo questo perchè questa nostra gente venga ricordata.
Le coppie «celebri»
PALÈN E LA TERSILA
Una delle coppie più famose del variegato panorama della Busseto popolare: lui alto e magro, lei piuttosto
rotondetta. Due caricature autentiche, ancor oggi ricordate dai più maturi bussetani, ma conosciuti, di fama,
anche da coloro che non sono stati testimoni della loro pittoresca presenza.
Giravano le strette contrade col caratteristico carrettino a stanga a vendere verdura; roba di seconda, terza
scelta, scarti di orto e di magazzino che oggi giorno andrebbero bene solo per gli abitanti del pollaio.
«Dòni, g'ho 'l riviòt»!, gridava lui e lei correggeva: «Pisello»!; «G'ho i scartusèn!» e lei: «Finocchi». «A's vòda ca t'è
studiet!», diceva lui. In effetti, la Tarsilla aveva frequentato le elementari, almeno qualche classe. La gente aveva
affibbiato loro una filastrocca che diceva: «Fischia il sasso, il nome squilla; passa Palèn cum la Tarsilla; cu'l caròt
ad la vardiira, lú 'l g'ha un occ ca `g va in malura». Aveva infatti un occhio malato, da tempo, per cui portava
spesso una benda ed inoltre camminava traballando. Insomma, una sagoma. Il suo vero nome era Pietro
Giuseppe Ferrari nato a Busseto nel lontano 1866, come i genitori (Stefano e Luigia Tessoni - era parente con
Tessoni, «al russ»). Aveva un fratello, «Sadòc» (v.).
Si era deciso a sposarsi ad un'età matura (come la verdura che vendeva) a 67 anni. Forse aspettava che la «sua»
Tarsila rimanesse vedova del primo marito, Vittorio Zucchi, dello «Masavò» (v.).
Loro dimora era la via Seletti, poi la Codalunga.
Uomo strano, il nostro Palèn. Aveva l'aria di un poveraccio. In realtà, dietro questa scorza di uomo macerato dalla
miseria, si nascondeva un avaro calcolatore che, sfruttando la sua situazione apparente, accumulava denaro.
Col risultato poi, come spesso accade, che fidandosi di un «amico» (un commerciante bussetano) si fece
turlupinare rimanendo, davvero, sul lastrico. Cosa che lo portò infelicemente a Sospiro, dove morì nel 1936.
Lei, la Tersilla, era pure bussetana del sasso: Merli Tersilla, classe 1870. Dopo la morte di Palèn, trascorse la sua
seconda vedovanza senza più tante aspirazioni, e finì i suo giorni al Ricovero di Mendicità locale, all'età di 71
anni.
Dire ancora oggi, «Palèn e la Tarsila», vuol significare una strana coppia, vissuta sempre fianco a fianco, fatti l'uno
per l'altra ma pure con tutte le stranezze e contraddizioni.
L'AMABILE E SALMEN
Due personaggi che meritano senz'altro di passare alla storia assieme, accomunati da uno di quei fattori che
hanno caratterizzato quei tempi, la miseria. Una coppia (senza offesa per Paolo e Francesca o Giulietta e Romeo)
la cui prerogativa principale non è certo stata quella dell'amore struggente o reciproco; ché, se di amore si deve
parlare dobbiamo segnalare che era lei, l'Amabile, a... «carchèg l'amur ados» a «Salmèn», spesso e volentieri.
Due caratteri assolutamente dissimili ma pur sempre una coppia speciale; lei sempre «impiaghènta», per dirla
nel nostro gergo, piena di mali, di lagne continue, quasi volesse cercare la compassione di tutti. Se il dottor
Montanari e, morto lui, il dottor Ghezzi (anch'egli ormai trapassato nel mondo dei più) si sono guadagnati il
Paradiso, senza dubbio per buona dose il merito è dell'Amabile. Essa aveva inoltre la presunzione di essere una
eletta del Signore: «Sono santa, sono santa!», andava gridando ogni tanto.
Andava a messa tutte le mattine e si faceva portare la comunione giù dai gradini del presbiterio (una volta i fedeli
ricevevano la comunione allineati lungo la balaustra).
Una strana invalidità la sua, che non le impediva, in qualche circostanza di... venire alle mani, non solo col suo
«Salmèn» (che in questo caso non reagiva), ma anche con le vicine di casa. Le più famose liti, tuttavia, le ebbe con
«Picanello».
All'anagrafe era Ghirigato Amabile; era nata nel veronese, a Minerba, nel 1896 ed era approdata a Busseto nel
1927 proveniente da Fidenza, con la professione di cameriera.
Non era trascorso un anno che il buon Salmèn era nella sua «rete», regolarmente... matrimoniato. Anche lui non
era un bussetano puro; era nato a Villanova sull'Arda nel 1887, Gatti Salvino (da qui lo stranome) ed era capitato
da noi durante la prima guerra mondiale, nel '18. Non aveva una professione, come tantissimi altri; faceva il
«ciapa-ciapa«, quello che passava il convento, col Comune o con privati che lo chiamavano per un «sammartino»
o per scaricare e sistemare la legna, il carbone, e così via.
Abitava nel viale Vittorio Emanuele (ora Pallavicino), poi si era trasferito in Codalunga, quindi in via Provesi
(nelle scuderie) ed infine nelle case popolari.
Era un sant'uomo, Salmèn, sempre disponibile, taciturno; facile preda dell'Amabile. Era chiamato anche «pé
d'oca» per via dei suoi piedi «dolci», pieni di nocche e calli che gli rendevano l'andatura difficoltosa. Inoltre, col
passare degli anni la sua schiena si andava incurvando giorno dopo giorno e le sue lunghe braccia, già fiaccate dal
lavoro, penzolavano quasi a toccare il suolo (così piegato dicevano che andava cercando l'amore perduto...) e
negli ultimi anni di sua penosa esistenza l'unica amica era la sua fedele bicicletta con la quale riusciva a reggersi
in equilibrio nonostante una andatura lentissima.
Povero Salmèn, soffocato dalla sua Amabile dalla quale non riusciva a divincolarsi. Si racconta che un giorno (ma
sarà vero?) il no/ stro personaggio, stanco dei soprusi della moglie, stava per prendere
L'Amabile e, nel tondo, il... venerale «Salmèn»
una decisione estrema, farla finita: «Am trag in Po!;) così dicendo esce di casa, sbattendo la porta, dopo una lite,
ma poi ritorna subito indietro a prendere l'ombrello perchè piove. E la moglie preoccupata (per l'ombrello) lo
riprende: «Ma cu feèt?... at ta vè 'riga' e ghèt paura ad do gusi?»...
Due personaggi, dunque, passati alla storia minima bussetana, anche se non bussetani di razza. Ed a proposito di
razza ci sarebbe da dire che non hanno lasciato eredi; ed i maligni, a questo proposito, garantiscono che lei non lo
volesse a letto, nel suo letto. Sarà stato per via della sua... vocazione alla santità?
Salmèn se ne andava in Paradiso, in silenzio, come aveva vissuto, nel 1969, e l'Amabile, accentuando ancor più la
sua tristezza terrena, lo «raggiungeva» (?) dopo sei anni, nel '75.
ARTEMIO E LA VIRGINIA
Faroldi Artemio e Faroldi Virginia. Non erano consanguinei.
Si tratta di una coppia di anziani, anche loro erbivendoli, come «Palèn» e la «Tarsila» (vedi), ma più «moderni» in
quanto avevano il banco (meglio sarebbe chiamarlo casotto, dove vendevano le caldarroste, la «patona» al galtiti,
la caruba ecc.), in un punto strategico del centro urbano, sull'itinerario pedonale con particolare attenzione ai
bambini che andavano e venivano dalla scuola.
Artemio, che era nato a Fontanellato nel 1880, era chiamato anche «al sop», anche dopo aver perso prima una e
poi l'altra gamba.
Era sempre accovacciato accanto al suo fedele carretto-banco a rimestare le castagne sulla padella (d'inverno) e
quando erano ben arrostite le depositava dentro un panno di lana, più nero delle castagne stesse e delle sue
mani.
La Virginia: una gran buona donna, mite e servizievole; era rimasta vedova di guerra (nella prima guerra 191518). Aveva perso anche un figlio, Giovanni Contestabili, nell'ultima guerra (perito in mare per l'affondamento
della motonave «Città di Palermo», al largo di Brindisi)). Si era unita ad Artemio ma senza sposarlo per non
perdere la pensione di guerra, unica, sicura fonte di reddito (situazione abbastanza frequente) ed aveva avuto
con Artemio, un figlio, Luigino «Lulone» così spregiativamente chiamato, il quale ha sempre avuto problemi di
natura psichica.
La Virginia aveva ricoperto, nel dopoguerra (l'ultimo), la carica di presidente dell'Associazione Famiglie Caduti e
Dispersi in Guerra della locale Sezione, partecipando a tutte le manifestazioni civili col gagliardetto.
Artemio e la Virginia abitavano prima alle scuderie, quindi in Codalunga, in via Provesi ed infine nella via
Ghirardelli.
Lui è deceduto nel 1959 e lei (che viveva con la sola preoccupazione del suo Luigino, il quale peggiorava la sua
situazione psichica e lo ha visto morire), se ne andava, col suo fardello terreno, nel marzo del 1981.
LA RENATA E LA CICÒNA
Due donne del popolo, due autentiche macchiette che molti bussetani ricordano ancora: donne tutte d'un pezzo,
schiette, sicure, brillanti ed intraprendenti, senza peli sulla lingua e capaci di sbarcare il lunario con iniziative
originali e spregiudicate.
Le abbiamo messe assieme perchè assieme sono legate da episodi divertenti, esilaranti, curiosi. Questo
caratteristico binomio bussetano era chiamato scherzosamente «La fam e la sé», anche se la miseria, per loro, era
un ulteriore incentivo per... cavarsela. Tempo di guerra (è questo il periodo «nero»), le due «socie», munite della
carriola (la «carena», arnese ed espressione tipicamente bussetana), si recavano in campagna alla ricerca di
qualche buon affare. In particolare quando imperversava la «murja di pulastar», contrattavano, con discreti
risultati, l'acquisto di capi di pollame, ancora vivi, rivendendoli... sani dopo averli «trattati» convenientemente
con un intervento rimasto segreto...
Alla fine del conflitto (un'altra storia..) e conseguente caduta del fascimo, le nostre due donne avevano avuto
l'opportunità di venire in possesso delle ormai inutili bandiere del fascio, e con queste fecero delle fodere per
trapunte, tenendo, così, al caldo il tricolore. «Povi-Italia» commentavano quelle invidiose...
Da buone bussetane erano amanti della lirica e insieme andavano nel loggione ad assistere alle opere nel nostro
teatro Verdi. Ma la Renata non si limitava all'ascolto delle opere; cantava liberamente mentre sferragliava con i
ferri della calza, arie verdiane, in qualsiasi posto si trovasse. Rastelli Renata il suo casato; era nata nel 1874, era
la moglie del famoso «Càlvi» (v.) da cui è nato Radames, il padre di Paolino. Una famiglia di vecchissima militanza
bussetana (siamo risaliti fino al 1780, almeno). Non temeva nessuno, la nostra Renata. Si racconta che, coinvolta
in una vicenda, fu chiamata dal Pretore il quale le chiese se avesse l'avvocato. La Renata, senza esitazione alcuna,
mostrando la lingua penzoloni sbattendoci su l'indice e il medio della mano esclamò: «Siur Pretur, costa l'é 'l mé
a'ucdt»!! Non si limitava a stare in casa: come tutte le donne del suo temperamento era curiosa di sapere tutte le
novità del paese e, per arrivare a questo si spingeva ad... origliare senza creare sospetto, mentre lavorava ai ferri,
in piedi. Assieme alla Pina, sua figlia, ritirava i pacchi e la posta in arrivo con la corriera recapitandoli ai
destinatari, servendosi sempre della immancabile «caròta».
Un altro allegro episodio riferito alla Renata è quello del battesimo della Lina Crosali (la fiola 'd «Balalòn»), ai
tempi della prima
La figura autoritaria della Renata (la più anziana del gruppo)
con il figlio Radames, la nuora Rina 'd Ciupéla ed altri parenti.
guerra mondiale. La Renata aveva avuto l'incarico di fare da madrina alla prima figlia di «Balalòn» Crosali (v.), il
quale si trovava al fronte. Intanto c'è da dire che sulla scelta del nome decisero di chiamarla Lina, in riguardo al
padre che si chiamava Lino, «Se muore il padre al fronte, c'è già chi lo sostituisce», sentenziarono
sbrigativamente. Ma il lato più divertente di questo episodio è stato il... corteo verso la chiesa Collegiata per la
cerimonia del battesimo: la Renata davanti, con la neonata figlioccia «ingrugnata» nella carriola, «in 'd la caròta»,
e dietro il codazzo di parenti... E la Lina Crosali c'è ancora, dispiaciuta di non... ricordare la scena.
La Renata aveva un fratello, Massimino, (Mamèn), mentre suo padre, Sante, era detto «al malvag», un nomignolo
che lascia intendere il carattere piuttosto piccante del personaggio (ma, si sa, ci voleva molto poco ad affibbiare
uno stranome a volte non del tutto calzante).
Oltre al noto Radames, la Renata aveva avuto un altro figlio, Rolando e un terzo, morto infante ai tempi della
terribile «spagnola», l'epidemia che aveva mietuto migliaia di vite negli anni della prima guerra.
La «Cicòna» era di cinque anni più giovane della sua amica Renata (era del 1879, nata a Busseto, anche se i
genitori provenivano dal piacentino). Aveva sposato Alfonso Maldotti dopo aver avuto una bambina, l'Antonia (la
«Togna» 'd Parìs-v.), mentre la Mary è figlia legittima.
Grandini Adele il suo vero nome, sorella del famoso «Vigiota» (v.), ed è tutto dire. Una stirpe, un clan che ha
riempito di colore e di sapore la vita bussetana di un tempo.
GEO E GEA
Corradi Gelso e Faroldi Gina, all'anagrafe; lui nato a S. Secondo nel 1910 (venuto a Busseto solaMente nel 1952
quando si sono sposati; lei bussetana, del 1913.
Erano chiamati con i più strani binomi: «Palèn e la Tarsila», oppure «I due Foscari» (forse perchè abitavano
vicino all'Hotel omonimo, in piazza Carlo Rossi), oppure ancora «Paolo e Francesca», per il loro grande amore.
Proprio così: erano sempre insieme, in casa e fuori (naturalmente negli ultimi anni). Di una povertà (apparente)
dignitosa ma sentita, non disdegnavano però, sedersi al Bar e consumare una o due birre o una coppa di gelato,
sempre insieme, sempre senza aprire bocca.
Una coppia commovente, uniti anche dalla bruttezza, vivevano in una stanzetta che guardava in contrada, in via
Muzio, allietandosi le giornate con gli uccelli che tenevano nella gabbia in cucina.
Ed anche quasi insieme se ne sono andati, in silenzio, come avevano vissuto; prima lui, nel 1981, e dopo qualche
mese lei, nell'82, nella più assoluta indifferenza dei bussetani.
Fra gli aneddoti attribuiti a questa coppia speciale possiamo dire di quando si sono sposati: alla domanda fatidica
del prete se era «contento di sposare la qui presente ecc.», esclamò, senza ombra di umorismo, lo sposo: «Sum
gni; ché 'posta!».
«Geo e Gea», uniti nella miseria e... imprigionati dal loro amore
PALMIRÈN E PIROTU
Un'altra coppia ben assortita (anche se non legalizzata dal matrimonio) la cui caratteristica era, guarda caso, la
miseria. Abitavano in Codalunga, una contrada che ha fatto la storia, soprattutto per i personaggi, le figure
popolari che l'hanno abitata.
Lei, la Palmirèn, era sciancata, come se ne vedevano tanti a quei tempi, ma di grosso, e la sua deambulazione,
specie negli ultimi anni, era assolutamente laboriosa; si faceva strada appoggiandosi con le mani in ogni
appoggio, usando anche la sedia. Tuttavia, questa sua lacuna non le fece, fino ad un certo punto della sua vita,
disdegnare la compagnia... maschile e l'allegria, come raccontano i testimoni dell'epoca. Riceveva molta gente in
casa sua, ed i maligni asseriscono che li accoglieva dicendo: «Avanti giovinotti... ad'dré dal tindèn a's pèga un
caurèn! ». La combricola di Vichèn Baldus (v.), a proposito di queste serate dal Palmirèn, aveva imbastito una
filastrocca che diceva:
«Una sera in Codalunga
Una banda ci suonava,
Con chitarra e mandolini,
la Titina ognor cantava;
C'era anche l'impresario
di tutto quel masdus,
petto in fuori e tafanario,
e 'l barber Vichèn Baldùs».
La Palmirèn si chiamava Pizzoni Palmira; era nata a Busseto nel 1882 ed ha sempre alloggiato nella casa di
Codalunga, fino alla sua dipartita, avvenuta nel 1957. Aveva 75 anni.
(Aveva un fratello, Quirino, domestico, morto nel '24).
E veniamo a Pirotu, il suo compagno; uomo buono, taciturno e servizievole. Facchino, tuttofare. Disponibile a
tutti i servizi per alcune famiglie con premurosa e ossequiosa volontà (i suoi maggiori «clienti» erano le famiglie
Scaramuzza-ferramenta, Accorsi e Cavalli). Nessuno conosceva il suo casato per cui la ricerca per risalire al suo
vero nome è stata lunga: si chiamava Pietro Faroldi, era nato a Busseto nel 1883.
Un carretto a forma di barchetta era il suo attrezzo, il suo mezzo di trasporto, che parcheggiava dietro casa, nel
famoso «stertino», ufficialmente chiamato Vicolo Torto.
Sua caratteristica dominante, era quella, (indovinate un po'...) del grande amore per un bicchiere, meglio se due o
tre. L'altro hobby era quello di non lavarsi mai; al massimo a Natale, anche se il suo mestiere, che lo portava
spesso a «trattare» col carbone, lo richiedesse un po' più spesso. Era detto anche «Parsemul» (non si conosce la
causa), ed aveva un debole, anche lui come tanti altri, per... i gatti. Sì, avete capito bene, non per accarezzarli.
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Lasciò «vedova» la sua Palmirèn nel 1945 in seguito a broncopolmonite, causata (secondo i soliti maligni),
dall'essersi bagnata la schiena facendo il bagno... Ed è tutto dire.
BRUTO E LA FORTUNATA
Bruto, vero nome del nostro personaggio, col lignaggio dei Braibanti. Era nato a Busseto (dunque una famiglia
bussetana) da Lorenzo e Arduini Martellina (nome quest'ultimo che darà a sua figlia, la «Celina»). Lei, la
Fortunata, era nata a Colorno nel 1882, era una trovatella che era stata allevata dalla famiglia Borlenghi Alberto,
nonno delle Dolores Borlenghi e padre dell'Aida Borlenghi (moglie di Guerino Buffetti) (v.)
Si erano sposati nel 1901 e, oltre alla citata Celina, avevano avuto anche la Glorj, divenuta maestra e che sposerà
il cav. Manfredo Borlenghi. Personaggi tutti scomparsi all'infuori della Celina, figura bussetana nota a tutti, che
vive sola nella sua casa di via Roma, con le finestre sempre chiuse, con la sola compagnia di passerotti che vanno
a cinguettare sui davanzali.
Bruto, una figura simpatica, tutta particolare; dopo aver svolto per un certo tempo il mestiere di imbianchino e
decoratore (nei primi anni del suo lavoro era dipendente di Giuseppe Angiolini, quindi in proprio, fino al 1932)
era entrato nel commercio, come droghiere, con bottega sotto i portici di via Roma (dove ora c'è il «Barino»), una
caratteristica bottega, profumata di leccornie che faceva la gioia dei bambini. Alcuni dei quali, quelli più
grandicelli e... discoli, gli tendevano tranelli come quello di suonare il campanello della porta della bottega, per
far accorrere Bruto, mentre poi entravano nell'altra porta del negozio rubandogli qualche dolcetto (il negozio
aveva due entrate distinte). Bruto era addetto anche al botteghino del Teatro Verdi, in occasione dei vari
spettacoli e dei veglioni che si svolgevano un tempo; lavoro che assolveva con estrema correttezza e severità. E
per questa sua proverbiale intransigenza era fatto oggetto, da parte dei soliti mattacchioni nottambuli di allora,
di scherzi, il più famoso dei quali quello di «Ghitello» e soci i quali, per vendicarsi di non averli lasciati entrate in
teatro con lo sconto, gli hanno presentato sotto il naso, dall'angusto pertugio del botteghino, un vassoio...
fumante dei loro... bisogni. (Che schifo, ragass!).
Bruto era anche un cultore e conoscitore di cose verdiane, passione ereditata dal padre Lorenzo (classe 1831,
che faceva il muratore).
E di lei, della Fortunata, cosa dire? Era una gran «boria dona», come si dice di una donna tutta casa e famiglia, in
questo caso tutta bottega e famiglia. Una donna che sa e che finge di non sapere: c'era una certa «Titina», amica
di Bruto, che le dava qualche pensiero, anche se, in fondo, pare che Bruto si limitasse a portarle, di tanto in tanto,
solamente qualche cartoccio di caramelle, (che una volta la Fortunata sostituì con materia... poco igienica). Per
noi bambini, la Fortunata voleva dire gioie della gola, insomma era sinonimo di dolci; e lei comprendeva questo,e
molte volte era lei stessa a chiamare deritro in negozio quei bambini che, non avendo... spiccioli, indugiavano
sulla porta, così allungava loro qualcosa da mettere in bocca.
Bruto aveva anche due sorelle e un fratello (Abrandina, classe 1864, Firmina, del 1869 e Ferruccio che era nato
nel 1862), delle vicende dei quali non si conosce nulla. Bruto è scomparso nel 1961 lasciando la sua Fortunata
vedova per otto anni.
Bruto Braibanti lo vediamo in questo gruppo di amici del Caffè Centrale (è quello in piedi fra la giovane e il pilastro).
Vi sono inoltre: Giovanni Sagliani, Lino Demaldè, Massera Ginetto, Guglielmo Bellingeri, Cremonini Antonio, Ido Ci-pelli,
Erminio Ferruggia, Francesco Parolin, Peppino Cavatorta e la sig.a Swich.
ATTILIO FUOCHI E LA CAROLINA
Una strana coppia da non dimenticare: lui commerciante di mercerie, lei di biciclette e accessori. (L'abbiamo
«vista» insieme a suo fratello «Arturu Finulèn» - Leggeri). Eterni fidanzati (poi finalmente sposati già maturi). E
sul muro della casa di lei, guarda la combinazione, in bella vista, una delle frasi storiche del ventennio
mussoliniano: «Abbiamo pazientato quarant'anni, ora basta».
Attilio Fuochi ha avuto anche un periodo di notorietà, di natura politica, discreto: nel dopoguerra ha ricoperto,
per alcuni anni, la carica di segretario del partito della Democrazia Cristiana.
Persona dunque impegnata, dinamica, che se la cavava abbastanza bene affrontando le discussioni più
impegnative del difficile momento politico.
Bizzarro il suo modo di vestire: portava, ad esempio, calzini di qualsiasi colore, quelli che non riusciva a vendere
nel suo negozio, senza alcun timore.
«GUNISI E LA TERESINA»
Una coppia, questa, combinatasi non si sa bene per quale accordo degli astri: lui, più vecchio di lei di ben
ventidue anni, ruvido come la cartaraspa, originale, litigioso; lei tutta dolce e «leggiadra», buona di carattere,
anche se con le sue stranezze.
Gunisi, che non era un bussetano (era nato a Polesine P.nse nel 1874 ed era approdato a Busseto durante la
prima guerra mondiale, nel 1915) rimasto vedovo nel marzo del 1927 (da Delcisa Fedeli) non aveva perso tempo
e, dopo soli nove mesi di vedovanza, aveva impalmato la «sua» Teresina. La quale se portava in dote la sua
giovane età e l'arte del ricamo (imparato in Francia dove aveva vissuto alcuni anni) aveva anche, come si dice; «la
sonta», vale a dire una figlia naturale (nàtale nel 1922), di nome proprio Teresina. Lei si chiamava Borreri Ines,
sorella di «Didòn», detto «il francese» perchè pure lui aveva vissuto per qualche tempo di là dalle Alpi.
Lui faceva il fabbro, il segantino, «al pusèr» (perforatore di pozzi) contemporaneamente. Era un bravo artigiano,
nel complesso e, inutile dire che anche lui amava interrompere la sua giornata di lavoro con qualche staffa di
lambrusco all'osteria. Aveva il vezzo di ripetere, anche a sproposito, l'intercalare «parola d'unur» (forse per il
fatto che in passato, cioè prima di capitare a Busseto, aveva avuto qualche... discussione col Pretore di Busseto in
occasione del fallimento della sua azienda quando questa non era ancora un'«operazione finanziaria» come ai
nostri tempi.
Ma il nostro personaggio, che abitava ai Cappuccini, aveva alcune stranezze... coniugali. La prima, la più nota,
quella per cui è passato «alla storia», è quella della... polenta. Si racconta che una volta fece fare la polenta alla
sua Teresina completamente nuda, per vedere (come avrebbe poi precisato lui stesso) le movenze del corpo.
Gunisi finiva i suoi giorni nel maggio del 1950, a 76 anni a Color-no (e questo spiega tante cose del suo strano
comportamento). (Una volta a Colorno vi era l'ospedale psichiatrico, un ospedale dove bastava qualche disturbo
di natura psichica per esservi ricoverati, specialmente se di famiglia disagiata. Non occorreva essere matti: se
mai lo si diventava col tempo...).
E il laconico comunicato giunto in Comune diceva semplicemente: P morto Gonizzi. La Teresina lo aveva
preceduto quattro anni prima, nel 1946.
PATAR NOSTAR (GIUÀN E TURÈN)
Due fratelli che rimarranno nella mente di quanti li hanno conosciuti, ma anche di tutti gli altri, perchè «unici»,
specialmente Giuàn, (Guglielmo), personaggio particolarissimo per disponibilità, una gran voglia di lavorare,
duramente; sempre pronto alla chiamata, forte, generoso. Di cultura modestissima ma rispettoso verso tutti. «Sì,
siur - sì siur», »Bongiorno siur - Bongiorno siur», ripeteva spesso, e questo era il suo biglietto da visita.
Faceva il carrettiere, assieme a suo fratello Turèn (Ettore).
Partivano alla mattina prestissimo con muli e barra verso lo Stirone, a «fare» la ghiaia, cioè scavarla e caricarla;
tutto a mano col badile (e più di una volta caricavano metà barra, salivano dal greto, la scaricavano a terra,
ritornavano a «fare» altra ghiaia e risalivano, ricaricando quella di prima e quindi ritornavano a Busseto). Spesso
aiutavano loro stessi i muli a tirare la barra. Demaldè il loro casato; non erano proprio bussetani del sasso, il
padre, Romeo, anch'esso carrettiere, proveniva da Besenzone; Giuàn era del 1900 e Turèn era nato tre anni dopo.
Giuàn aveva trovato il tempo anche di prendere moglie, la «Pina» `d Bardi, che gli ha dato un erede, il prode
Romeo, il quale non ha seguito il mestiere troppo faticoso del padre, ed ora vive ancora nella vecchia casetta,
lunga e stretta intruppata nella via Ghirardelli, «capitale immobile» che gli ha lasciato il genitore.
Si era dato da fare anche per la «sportiva» (parliamo sempre di Giuàn Patarnostar), la squadra locale del pallone:
era il custode-magazziniere, severo e ligio alla consegna del Presidente e dell'allenatore della squadra. Durante le
partite di calcio, nel campo vicino alla peschiera della Villa Pallavicino, era pronto a recuperare i palloni che,
inevitabilmente finivano nel fossato, servendosi di una pertica con cestello. Lavoro che lo gratificava agli occhi
degli sportivi.
Il nostro simpatico personaggio se n'è andato nel 1982 (mentre sua fratello «Turèn» era morto due anni prima.
«Giuàn Patar Nostar» tira il rimorchio, operazione naturale (non lo fa per il... fotografo).
FERRARINI LINO E LA MARIA
Anche se non era un bussetano puro (era nato a Fontanellato nel 1903) è divenuto un personaggio
conosciutissimo, innanzitutto per il suo mestiere, ma anche per il suo carattere, la sua indole di uomo brillante,
sicuro, geniale. A 18 anni era venuto a Busseto a fare l'apprendista meccanico fabbro ferrario da Virgili; era in
pensione dai Patroni fin che non venne qui anche la sua famiglia. Imparò subito il mestiere: la meccanica era il
suo sogno, la sua strada ed acquisì subito una vasta esperienza su tutta la gamma motoristica.
Era riuscito anche, in poco tempo, ad entrare in possesso di una automobile, tutta sua (e a quei tempi era
davvero cosa rara per un operaio). Oltre a riparare le auto e revisionarle, ne faceva mercato ed era riuscito a
mettersi in proprio, trascinando nella passione per i motori il figlio Ettore (che ormai da molti anni si è trasferito
all'estero, in Brasile).
Ma non era finita, non si accontentò di questo. Andò a Milano a lavorare all'Alfa Romeo, specializzandosi sui
grandi motori aerei.
Con questa specializzazione la nota ditta milanese lo inviò, come «militarizzato» nel Dodecanneso (presso il
Comando 101 Gruppo A.S. Aeroporto 806 - P.M. 3450) col compito di garantire l'efficienza dei velivoli da guerra, i
famosi aerosiluranti, impiegati in frequenti azioni belliche di lunga durata. (Per tali operazioni, occorre precisare,
ricevette lettere di elogio dai vari Comandi di Gruppo e di Squadriglia).
Nel frattempo il nostro Lino Ferrarini si era sposato con Maria Pietra, pure essa di Fontanellato, ed aveva avuto,
oltre al figlio maschio, l'Emma e la Maria Gabriella (la Gaby).
Anche la Maria, sua moglie, era un tipo molto socievole e divertente. La sua casa, in via Cipelli, era aperta a tutti
quelli che passavano di lì, il caffè sempre pronto sulla stufa, «in da 'd'gamèn», (nel tegamino) e ne offriva a tutti
(una volta anche al Vescovo Zanchin, che passando di lì per andare a trovare mons. Azzolini, era stato invitato
dalla Maria a «prendere il caffè»). Diceva sempre «puvrèna», «puvrtita», anche se si trattava di una persona in
buona salute e che non aveva problemi economici. Un giorno erano venuti a trovare suo marito un gruppo di
amici che dovevano gareggiare in motocicletta qui a Busseto (chi si ricorda, nell'immediato dopoguerra, la gara
in circuito attorno al viale Affò?... proprio quella). Lei li aveva accolti in casa e, nel commiato, prima della gara,
raccomandò loro: «M'arcmand, ragass, andè pian». Insomma, voleva dire non fatevi male, quindi... andate piano.
Altro che «In bocca al lupo»!
Una bella famiglia la sua; in una contrada, «I tray», dove regnava la concordia fra le famiglie, la quiete, dove si
poteva tranquillamente fare crocchio in mezzo alla via, seduti, come facevano la Maria e le sue amiche,
«ingrugnate» sulle seggioline (sedie a cui erano state segate le gambe per essere più comode a rammendare
calzini o a lavorare ai ferri e all'uncinetto). Quante chiacchiere e quante risate!
La Maria Ferrarmi, la più «vistosa» in mezzo al gruppo della gente dei «Traj».
Da sinistra: la Ferraci, la Campioli, i coniugi Burla, e, sedute sul muretto, l'Angiolina Ambrogi, moglie del postino,
la Maria Mazzera (con in braccio la Teresa), la Rosina 'd Ciupela e la Rossi.
C'è anche la Marisa Napolitano seduta, al centro della foto.
VISÈINS E LA GEMMA
Al secolo Guareschi Vincenzo e Barabaschi Gemma, osti dei tempi eroici; che ci hanno lasciato in «eredità» il
buon «Rodi» (anch'egli oste fino a che non si ritirò per girare il mondo prima, divenendo poi un esperto ed
appassionato «cicerone» verdiano). «Viseins» non era busseto; era nato a Cortemaggiore nel 1879. Aveva
sposato la Gemma (questa sì che era «doc») nel 1903. La prima osteria era ubicata in via Roma (dove ora c'è il
negozio di mobilio di Adriano Cantarelli), quindi in via della Biblioteca. Morto Viseins, nel febbraio 1940, aveva
proseguito Rodi (v.), che poi si era trasferito in via Roma sotto i portici vicino al palazzo Orlandi, col «Bar Rodi»
quindi Bar Commercio.
Viseins e la Gemma, una coppia ben combinata ed affiatata; adatta a condurre un'osteria di quei tempi, dove si
mischiavano i facchini agli impiegati, gli stradini («stradaròi») ai vari Orlandi, al Murett, Stefanotti ecc. Insomma,
quasi una famiglia dove gli scherzi al paziente Viseins non si contavano. E non vi era concorrenza con le
numerose osterie vicino, come «1'Arlòi», «La Léur», «al Nasiunèl», «Ciupéla» e così via; cen'era per tutti perché la
gente non aveva altri passatempi, altri svaghi, che quello di bere un bicchiere in compagnia.
Viseins e la Gemma avevano rilevato l'Osteria di Galli, il quale a sua volta aveva comprato l'albergo «Nazionale»
(dove subentrerà più tardi «Pumòn».
TRIK E BARLÌK
Ancor oggi, per descrivere una persona ignorante, di un'ignoranza incolpevole, di uno che «al sa `ngùt» (che non
sa niente), si usa dire, a volte, «al ni'n sa me Tric e Barlic». Questo, però, solamente a Busseto. Perchè una volta
(parliamo dei tempi della prima guerra mondiale) esisteva un tipo che era chiamato proprio «Barlic». Ma
nessuno era in grado di dare ulteriori informazioni, nè sul nome o cognome, nè da dove venisse e che fine avesse
fatto. Sembra una coppia, dunque, ma è un «single».
La nostra costanza ed anche fortuna nelle ricerche, ci ha premiato e così abbiamo scoperto almeno uno dei due
fantomatici «soci» appunto «Barlic». Ma non è detto che esistesse anche «Tric». È invece probabile che si tratti di
una sola persona.
Non era un bussetano, si chiamava Seletti Pietro «detto Barlic» (è proprio precisato nel documento ritrovato),
era nato a Roccabianca nel 1852, entrato nel nostro comune verso il 1890 e morto nel 1918. Era celibe, senza
professione ed aveva abitato alla Gallinara, da Bergamaschi.
Viveva alla giornata e se la cavava (si fa per dire) cori piccoli espedienti e furtarelli per cui era divenuto un
abituale cliente della locale Pretura (che, rammentiamo, fino al 1921 era a Busseto) ed aveva conseguentemente
perduto il diritto al voto.
(Un bussetano d'oggi racconta che Barlic fu visto sfilare, da sotto al braccio di un uomo che era intento ad
ascoltare un imbonitore al mercato, un pacchetto, svignandosela, anche se era stato individuato e quindi
denunciato).
«Tric e Barlic»: quasi il rumore di una cella che si apre.
Ed a proposito dell'espressione «al sa gnènta».
Anche se non è proprio bussetana del sasso ma piuttosto «polesineggiante», della bassa, pare che questo
vocabolo dialettale provenga da molto lontano, addirittura dall'epoca longobarda.
Un'altra versione del «Tric e Barlic»: era così chiamato un gioco fatto con l'unghia del maiale, opportunamente
seccata, che produceva un rumore secco e caratteristico. Chi se lo ricorda?
PINCÒN E BALÈN
Anche questi due amici sono piuttosto anonimi; qualcuno giura che sarebbero quei due famosi che, per
raggranellare qualche palanca, si fingevano uno cieco e l'altro accompagnatore (senza indennità di
accompagnamento, si direbbe oggi). Fino a che, il finto cieco, Pincòn non si tradì quando, rispondendo all'amico
che gli faceva notare che c'era la «pèca», lui rispose: «L'ho vista, sum mia orb! », vanificando così sul nascere la
loro carriera di apprendisti questuanti.
Le famiglie e i gruppi
I'AMBROGI
Una famiglia bussetana, di vecchia data, quella degli Ambrogi.
Quasi tutti facevano il postino o l'impiegato del Comune o dell'Esattoria. Leopoldo (Poldo per gli amici) è stato
l'ultimo degli Ambrogi, una razza che a Busseto si va estinguendo, visto che i due figli, Angelo e Alda, si sono
entrambi trasferiti fuori sede, pur rimanendo col cuore a Busseto dove hanno ancora la madre, la Rosina Negri, la
«fila 'd Ciupela» (v.)
Dunque Poldo, un impiegato del Comune, di stampo antico: preciso, sempre disponibile, incorruttibile e bravo.
Lavorava a fianco del «siur Enso» (Arduzzoni) con il quale, spesso, si trovava a S. Agata, assieme al maestro
Nastrucci, a fare la briscola e il tresette.
Era inserviente in Teatro Verdi quando si davano spettacoli di ogni genere, assieme ai fedeli Tullio e Giacomino
Allegri. Ma più di una volta ha calcato pure lui, come attore, il palcoscenico del nostro teatro. Faceva parte infatti,
come comico, della Compagnia Filodrammatica capitanata da Chicotto e dalla maestra Stecconi. Una volta faceva
il personaggio di un vescovo e lo ha fatto tanto bene che per un po' di tempo lo chiamavano «eccellenza».
Faceva parte anche della Banda Cittadina diretta dal maestro Massera (v.): suonava il tamburino con maestria.
Ma veniamo a Odoardo, padre di Poldo, detto anche Duardèn; postino di campagna (poi divenuto «guardia
rurale» in Comune). La sua fama gli deriva principalmente dal famoso episodio della cartolina illustrata affidata...
all'Ongina. Era successo che un giorno, dopo ore di duro lavoro, con tante fermate (e tante bevute) si accorse che
gli era rimasta nella «sacca» una cartolina illustrata, guarda caso indirizzata ad una giovane di S. Rocco.
Perbacco... che fare? Letta la cartolina e, visto che si trattava solo dei soliti «saluti e baci», si chiede: «Ed io per un
bacio devo andare fino alla "Ginevra"?» (che è una contrada di S. Rocco).
Così dicendo si porta sul ponte dell'Ongina e getta la missiva nel torrente: «Va, corri cartolina, va dalla tua bella».
Aveva una bicicletta con i parafanghi in legno, pesante, dura da spingere, specialmente quando aveva il...
sovraccarico.
E quando tornava a casa dalla sua Angiolina (Fantini), così, si giustificava: «L'e sta' l'altim bicer!».
Che bel tipo il nonno «Duardèn»: amava scherzare, soprattutto sull'argomento... tavola. Quand'era in compagnia
di amici e si parlava di «piatti», lui le «sparava» grosse: diceva ad uno dei suoi figli... «E vera o no... dig quant piat
d'anulèn ho mangià inco! ». E quello candidamente rispondeva: «Si papà, guatar fúti»
La vecchia bicicletta era il suo mezzo di... locomozione; anche dopo, quando divenne guardia rurale con il
Comune. Bussetano puro, come detto, classe 1879, abitava nel centro, prima in via Gelati (ora Maccolini) poi si
era trasferito in via Roma. Aveva un fratello, Lazzaro, messo esattoriale, morto nel 1925 in circostanze
drammatiche
Oltre a Poldo aveva altri due figli, Aldo, pure lui postino, morto in Germania durante l'ultimo conflitto mondiale, e
Arnaldo, impiegato di banca, anch'egli morto prematuramente.
I BALESTRA (CADNÀS)
Una famiglia, una stirpe conosciutissima a Busseto, da oltre un secolo, trapiantata in Emilia dal 1300, ma che
affonda le sue radici nel Veneto, fatta nobile alla serrata del Maggior Consiglio in Venezia (dove risiedono dei
Balestra orafi, sarti e pittori, tutt'ora).
Luigi (Vigèn) era padre di quattro figli uno dei quali, Carlo, nato a Busseto nel 1866, ebbe a sua volta sei figli:
Natale (Talèn), Giacomo, Irma, Clara, Dina e Prassede (morta a soli 14 anni).
Furono agricoltori fra Roncole e Semoriva, ma anche abili in altri mestieri come fabbri e norcini (fra i clienti
annoveravano anche la famiglia Verdi Carlo); operarono, fra i primi, con le macchine per la trebbiatura e
l'aratura quando ancora si usava il vapore. Il soprannome «Cadnàs» derivò loro da uno di questi lavori, quello di
fabbri. Abili e perfezionisti nell'arte delle serrature costruirono un enorme catenaccio ad un portone, con relativi
chiavistelli e congegni, tipici di quei tempi. Come norcini (masalèn) furono raffinati nella preparazione del
culatello, creando il famoso «sacchetto» (quella parte superiore del prelibato salume nostrano che assorbe tutte
le impurità rendendolo ottimo).
Fra i Balestra troviamo il dott. Ercolano, notaio di Verdi e Don Pietro Balestra, pittore.
Avvicinandoci ai nostri tempi parliamo di uno dei figli di Carlo, Giacomo, colui che più degli altri ha «portato» il
soprannome di Cadnàs: gran bel tipo, carattere sanguigno e irascibile, ma amante della compagnia; si divertiva a
raccontare fatterelli strani che sarebbero capitati proprio a lui e pensava di far credere tutto ciò che diceva.
Come, ad esempio, la storia dell'oca sotto il tabarro, dimenticandosi che questo fatto era accaduto... d'estate.
«Catenacci, spara»!, gli gridavano i suoi amici, riferendosi alle «balle» che ormai per lui erano divenute una
norma.
Era della classe 1895, aveva quindi partecipato alla grande guerra e nel 1956 si trasferì con la famiglia a Fidenza.
Suo fratello Natale (Vigiglio Natale, per l'esattezza), Talèn per gli amici, faceva il muratore, come Giacomo; era il
più distinto dei fratelli. Aveva sposato una «forestiera», Udilia Amadei, una bella donna, signorile nell'aspetto,
faceva la bottonaia ed aveva dato al suo Talèn quattro figli, Carla, Adriano, Sandro e Franca. Anche loro hanno
abitato come tante altre famiglie, in Codalunga, nel Casermone quando questo era superaffollato. Due di questi, la
Carla e Sandro, sono ancora a Busseto mentre Adriano e la Franca si sono trasferiti; quest'ultima, dopo essersi
diplomata in pianoforte al «Boito» di Parma col massimo dei voti, ora insegna a Treviso.
Un accenno particolare all'Irma Balestra, nota per la sua abilità di sarta: si dice avesse lavorato per la Filomena
Maria Verdi, erede del maestro, con la quale aveva anche rapporti di amicizia essendo vicine di casa. Era la sarta
delle signore «bene» di Busseto, specialmente nelle occasioni dei veglioni al Teatro Verdi.
La sorella Dina, infine, scomparsa da pochissimo, era la moglie di Guido Bergamaschi (v.); donna energica e
schietta, da buona bussetana, anche nell'età avanzata.
Vanno senz'altro citate anche le cugine Alba e Ada, conosciutissime: ostetrica «ruspante» la prima e titolare di
lavanderia la seconda.
I Cadnàs: un'altro soprannome che rimarrà nella memoria dei bussetani.
BUTASS (i suplèr e furnèr)
Talèn Cadnàs primo da sin.) poi Tuscàn (papà di Giancarlo), Ido Butàss,
Gino Allegri («Marinèn»), suo fratello Angiulòn, al mai-star Allegri fflòl dal campanèr)
e, Angelo Barezzi, il ragazzo col violino.
I Bottazzi, una generazione originaria di Villanova sull'Arda ma da oltre un buon secolo trasferita a Busseto (dal
1884), quindi la si può senz'altro annoverare fra i «bussetani». Il capostipite, Valeriano, nonno di Ido, Valerio e
Giovanni (come vedremo), oltre a Cesare che faceva il barbiere, si era trasferito in Codalunga e svolgeva il
mestiere di zoccolaio, «al suplèr», una professione dei tempi anche se non rendeva molto: «par rnangià un toca
ad pan», decisero così di fare il fornaio. Ma vediamoli, questi Bottazzi, originariamente «suplèr» ma che si sono
poi emancipati...
Ido era indicato semplicemente così, Ido Butàs. Personaggio estroso, disinvolto, burlone, intraprendente e
capace. Tifoso viscerale del regime mussoliniano aveva pensato bene, dopo l'ultimo conflitto di... svernare
lontano da qui, e scelse Chiavari.
La sua professione era indicata come «suonatore» e «meccanico», mentre sia il padre, Remigio, che i fratelli,
Valerio e Giovanni, erano divenuti fornai, sempre in «Cualonga»; il buon mestiere prosegue ancora oggi dopo che
«Gabri», figlio di Giovanni, ha lasciato il «testimone» al figlio Giovanni). Ma torniamo a Ido. Era del 1896; aveva
fatto la prima guerra mondiale e si era sposato a Tornolo con Dall'Aglio Oclide Ada dalla quale ha avuto sette
figli: Mariolina, Jonne (una bellissima donna), Giuseppina, Remigio, Ivona, Guglielma e Alessandra.
Molto bravo nel suo lavoro era, come detto, un buontempone: fu lui a scrivere sul muro di via Ghirardelli, a
grandi lettere, la frase che divenne famosa «Romeo non ghe sé» riferita a Romeo Cantarelli (v.).
Valerio Bottazzi, era del 1899, nato a Busseto, coniugato con Bottoni Rosina. Fornaio, come abbiamo detto,
assieme ai suoi famigliari. Era divenuto, poi, portiere del locale Monte di Pietà.
Dopo la guerra si è trasferito, anche lui, in riviera, a Rapallo. Simpatica figura, allegra, pronta alla battuta e ricca
di humor.
Di lui si raccontano episodi divertenti. Ve ne riportiamo qualcuno. In compagnia di suo nipote Gabri (quando
questi era un ragazzino) erano andati a pescare nell'Ongina, alle Pioppe, naturalmente senza licenza.
Gettata la «balansa», dopo qualche minuto tiravano su... e così per un po'. Nel frattempo due individui, sulla
strada, con fare indifferente, si guardavano intorno. Ad un certo punto, Valerio dice a Gabri: «Va 'vocia chi l'en»
(vai a veder chi sono). E Gabri, dopo aver dato una sbirciatina, visto che i due guardavano in alto, ritorna e
rassicura: «Guèrda fi - guèrda fii!» (che vuol dire: guarda fili, quelli della luce). E continuano a pescare. Fin che i
due forestieri entrano in azione: «Come va, giovanotti... se ne prendono?». E Valerio: «Un quei d'on - un quèi
d'on». E quelli: «Avete la licenza?». Gabri, non immaginando certo che erano guardiapesca, di rimando: «S'usa
mja - s'osa mija» (insomma non usava avere la licenza, era più divertente così). A questo punto i due gettano la
maschera e si presentano per quelli che rappresentavano in quel momento, sequestrando tutto il materiale e
comminando la relativa multa.
Un'altra avventura di Valerio: aveva costruito, nel suo cortiletto interno (in Codalunga) una giostra in legno; era
tanto preso dal suo lavoro che non si era accorto che la giostra... non passava dal corridoio dal quale doveva
uscire con la sua giostra, e così dovette smantellarla.
Altra caratteristica di Valerio era quella delle strane espressioni, tutte «sue», buffe come: «Sum andà al camp
aspurtiv, a ghera dusènt gènt»; oppure: «Ghera tanta gènt c'a s'é pigà la strèda»!
Giovanni Bottazzi, al papà 'd Gabri (quest'ultimo deceduto lo scorso anno), prima di dedicarsi al forno coi
famigliari, aveva calcato il mestiere dei suoi vecchi, «al suplèr», ed aveva lavorato anche presso la ditta Muggia.
Anche lui era un tipo ameno, imprevedibile però, e quando gli saltava la mosca al naso, era capace di tutto: una
volta gettò fuori dalla finestra del forno, in contrada, un secchio di strutto («ad duleg») perchè rancido. Lo strutto
glielo aveva «piazzato» un «paisàn» che, evidentemente, lo deteneva da... qualche anno.
Ma la comica (o tragica, se volete) è che, proprio in quel momento, passavano sotto la finestra alcune suore che
andavano a messa (che alloggiavano, come noto, proprio di fronte al fornaio, in Coda-lunga).
«Al duleg» investì così le incolpevoli monache, imbrattandole senza pietà. Tanto si dolse il buon fornaio, e toccò
al padre presentare le scuse del caso alle suore, scuse accompagnate da una buona torta... riparatrice...«Ma brau
al mé furnèr al suplèr»!
Ancor oggi alcuni bussetani usano questa espressione: «Vag a tò 'l pan dal suplèr».
I CANTARELLI
Se non proprio bussetana di «razza» questa famiglia la si può considerare di adozione, visto che si è insediata
nella nostra cittadina agli albori della prima guerra mondiale. Era originaria di Alseno; il capostipite Angelo,
classe 1857, muratore, si era collocato in via Provesi mentre i suoi tre figli maschi, Giuseppe, Romeo e Luigi,
avevano aperto una bottega di falegnameria in via Ghirardelli dove c'è quel cortiletto caratteristico dei vecchi
centri storici. (In quel luogo il vecchio Cantoni, suocero di Giuseppe Cantarelli, uno dei tre fratelli falegnami,
aveva una «stazione» per-il cambio dei cavalli e delle diligenze per i forestieri, faceva il vetturale e dava a
noleggio i cavalli).
La bottega di falegnameria dei Cantarelli era legata all'episodio della famosa frase «Romeo non ghe sé», scritta a
rossi caratteri sul muro dirimpetto alla bottega, da quel mattacchione di Ido Bottazzi (v.). E vediamo come fu:
Succedeva che Romeo (papà dell'Anna e di Adriano) era fuori sede spesso, per lavori a domicilio e, perchè no, per
qualche fermata di... rifornimento, e, a quanti lo cercavano, un loro apprendista, un «giùan», di origine veneta,
immancabilmente rispondeva: «Romeo non ghe sé, fate buon viaggio»!
I Cantarelli, divenuti ottimi «maringòn» presso cui hanno lavorato e imparato il mestiere diversi bussetani, si
sono così insediati a buon diritto nel tessuto bussetano, con le loro rispettive famiglie: Giuseppe ha «lasciato» ad
Arturo il mestiere (trasformato poi in mobiliere); ha avuto altri due figli, Sandro e Vittorio, entrambi deceduti.
Romeo aveva quattro figli: Adriano (anche lui mobiliere) e Anna oltre ad Angelo e Aldo, questi ultimi da poco
scomparsi. Infine Luigi era il padre della Carla (moglie di G. Pietro Riccardi), l'Alda (vedova dell'avv. Coccapanni)
e Giuliano.
Oltre ai tre fratelli falegnami c'era anche la Severina la quale aveva sposato, in seconde nozze, Domenico
Baistrocchi (Minghèn).
I MARINÈN (ALLEGRI)
Un casato, una famiglia bussetana fin dai tempi di Maria Luigia: gli Allegri, chiamati tutti, o quasi, con questo
soprannome, non si sa per qual motivo.
Carlino classe 1887, Mario (1885), Gino (del 1889) ed Angelo (Angiulòn) del 1894 erano fratelli e quasi tutti
facchini di professione, all'infuori di Gino meccanico che emigrò in Africa da giovane. Erano figli di Paride (1863)
anch'esso facchino, figlio di Carlo (classe 1825) figlio di Giuseppe.
Carlino faceva il «corriere», prima di divenire facchino professionista; ritirava i pacchi alla stazione, ferroviaria e
tramviari, e li recapitava a domicilio; usava un carrettino a due ruote e due stanghe. Una stirpe di gente del
popolo, schietta, pronta sempre ad ogni lavoro o favore, per tutti. Amanti della buona compagnia, conosciuti e
benvoluti da tutti. Un casato che si va estinguendo dopo i famosi Tullio e Giacomino (figli di Carlèn) e Paride (di
Mario) i quali non hanno avuto figli maschi, e Giuseppe (Amos), figlio di Gino, che non si è sposato.
I fratelli Marinèn avevano anche una sorella, Fermina, sposa a Camorali Giuseppe.
Nella foto che segue vediamo Carlino Marinèn con alcuni operai del Comune fra cui i figli Giacomino e Tullio.
I PARÌSS
Carlino Marinèn (il primo a destra) assieme ai figli Giacum e Tullio, «Ceto» Casoni e .Pirèn Purchèr, operai del Comune.
Una stirpe, i Parizzi, con diversi personaggi particolari, divertenti, pieni di avventure esilaranti. Pirèn Parìss, il
più conosciuto: a lui è legata la famosissima frase di saluto «Bo'a nott, Bàsi» in uso ancora oggi, si può dire, e non
solo dai vecchi bussetani.
Pirèn, tipo sanguigno, genuino; abitava anche lui in quella strada, l'Impianellato, che era stata... benedetta dal dio
Bacco; era chiamata la «Porta d'Oro», la «Cuntrèda dal manag». «Quanti scimmj!». Era chiamato anche «al
Canonic», Pirén, perchè era stato per un anno in seminario.
Ma vediamo com'è nata la storia di «Bo'a nott, Bàsi»:
Succedeva che il nostro Pirèn Paris, classe 1887, un bravo muratore che amava la compagnia, finita la giornata di
lavoro e soprattutto le serate all'osteria, aveva il grosso problema... della Laura, sua moglie. Faceva parte di un
«cast» molto affiatato, (Carlèn Fulcini, Guirèn Bufòt, Turtlòt, Canòn, Dumenic, la «Pita», Gumasu, Arnaldo e Lino (i
so fradej), e via dicendo.
E, a forza di rincasare tardi la sera, e per di più alticcio, la Laura, donna energica e «spicia», era giunta nella
determinazione drastica di non lasciarlo più uscire dopo cena.
Per un certo tempo vi riuscì. Ma nel frattempo Pirèn aveva conosciuto un certo Pompeo Bassi, un sarto,
rappresentante di macchine da cucire, venuto ad abitare a Busseto, nel palazzo dei Marchesi con la famiglia. Una
brava persona additata ad esempio dalla Laura che diceva di lui: «Col lì, vè, l'è na brèva parson'na, al sartor» (era
nativa di Langhirano e non nascondeva certo l'accento dialettale). A Pirèn balenò un'idea: farsi amico con il
«bravo» Bassi, «cu'l sartor...». E così fece. Cominciarono a trovarsi e ad uscire insieme, prima di giorno, poi
qualche volta anche la sera. Ma era un'amicizia piuttosto fredda; «al sartor» non gradiva stare troppo all'osteria,
non era un nottambulo, insomma, e ben presto le «uscite» dopo cena con Bassi finirono.
Che fare? E qui uscì l'ingegnosa trovata di Pirèn. Facendo credere alla moglie che continuava ad uscire con Bassi,
al rincasare dava la buona note all'amico (anche se questi non c'era): «Bo'a nott, Bassi». Quindi, imitando la voce
dell'amico... fantasma, rispondeva, sempre lui: «Bo'a nott, Pirèn».
Per alcune sere il trucchetto funzionò a dovere, anche perchè il saluto era detto alzando un po' la voce in modo
che la Laura sentisse bene che era in... buona compagnia.
Ma la moglie, subodorando l'inganno, una bella sera lo attese sbirciando dalla finestra, pronta a coglierlo sul
fatto. E così, dopo che
i Pirèn ebbe... salutato il suo amico «sartor», col solito saluto: «Bo'a nott, Bassi», la Laura, con la tempestività di
un'attrice del teatro goldoniano, aprendo di scatto la finestra, gli gridò: «Bo'a nott na forcal... at la darò mì Bassi!
E per il nostro eroe fu davvero notte fonda.
Uno dei due fratelli di Pirèn era Lino, classe 1886. Faceva il muratore, come i fratelli, ma ha spaziato in altri lavori
ed incarichi vari, alcuni per conto del Comune, come quello della disinfestazione dei locali esterni (per questo era
chiamato anche «Ciappa muschi») e dell'accensione della caldaia per il riscaldamento degli uffici comunali. Aveva
sposato la Teresa Laurini ed aveva avuto due figlie, l'Anna e la Ninì (la mama 'd Marièn). Tipo molto particolare,
aveva un debole per i gatti... povere bestiole sole, abbandonate (meglio se ben pasciute) che lui accoglieva (si fa
per dire) e... faceva andare al tegamino. Inutile dire che aveva il debole del bicchiere (meglio se pieno di vino) e
della compagnia a lui cara, «cula 'd l'Impianlà». Era però una macchietta: era capace di andare all'osteria anche
solo, con pane e formaggio; metteva sul tavolo (senza tovaglia, magari bisunto) una ponga, proprio così, una
ponga morta, con assoluta naturalezza e faceva il suo tranquillo spuntino senza il timore che qualcuno lo andasse
a disturbare o gli chiedesse di spartire il companatico.
Lino Pariss è morto a Fidenza nel 1952.
Arnaldo Pariss era il più giovane dei fratelli. Anche lui muratore, questi, però con più costanza tanto che faceva
parte di una cooperativa di muratori. Aveva partecipato alla grande guerra e dopo alcuni anni si era sposato con
la Antonia Grandini, la «nuda 'd Vigiòta». Anche lui abitava come i fratelli, nell'Impianellato e, per non tradire la
stirpe e il mestiere faceva parte della compagnia «dal litar» che in questa caratteristica contrada brulicava. La
«Togna», sua moglie, era buona e paziente, ma fino ad un certo punto, specialmente quando il marito tornava a
casa non proprio sobrio e poi si lamentava perchè non aveva appetito, dimenticandosi che poco prima aveva
consumato uno spuntino alla trattoria «ad la Scalóta» o da Firmino Baròs, e la Togna lo apostrofava con
quell'espressione tutta bussetana: «T'é semp'r al solit»!
Arnaldo faceva parte anche del gruppo dei pompieri di Busseto e questa foto lo ritrae proprio a Milano, con il
notissimo «Picanèlo» dove era andato, in tempo di guerra, a prestare servizio.
L'ultimo dei fratelli Parizzi è Angilèn, muratore come il padre (che si dice fosse un ottimo caposquadra nella
costruzione delle scuole di Busseto). Del ceppo dei Pariss sono rimasti Oscar (figlio di Arnaldo) e il citato Marièn,
il baffone.
I BARSER
«Picanèlo » e Arnaldo Pariss
Erano tre i fratelli Barser (il casato è BERZIERI): tutti e tre,per un verso o per l'altro, entrati nella storia popolare
bussetana.
Il più noto è senza dubbio «al vagu», proprio così; anche all'anagrafe era etichettato come «vagabondo».
Luigi Antonio, al secolo; era del 1906, il più vecchio dei fratelli. Famiglia bussetana di lunga stirpe; carrettieri (il
padre, Carlo Angelo, classe 1875 e morto nel '17, faceva questo lavoro), mestiere che svolgeva anche lui al Vagu
detto anche Tulòn ma che ben presto abbandonò perchè amava vivere in libertà, non preoccupandosi di come
vestire e mangiare: il suo tetto era quasi sempre la volta celeste o il fienile (quello della «Gallinara» era a «tre
stelle» visto che era il preferito). Una salute di ferro la sua che gli permetteva di dormire d'inverno su una
panchina del viale, e al mattino si lavava la faccia e anche la camicia sotto il rubinetto della fontanina in piazza
Matteotti. Era cliente dei Frati francescani presso i quali andava a «mangià la supa» a mezzogiorno. Era
abbastanza tranquillo e non disturbava più di tanto (anche se il Pretore di Fidenza, nel '28, lo aveva condannato
per «disturbo della quiete pubblica e privata»).
Si dice abbia tentato di andare volontario in Africa ma che lo abbiano rimandato a casa perchè sobillava i
commilitoni gridando in piedi sul tavolo: «Morirem come le mosche!».
Negli anni cinquanta venne, più volte, mandato a Sospiro nella tristemente nota casa di cura per malati mentali,
dove trascorse qualche mese. La sua forte fibra lo accompagnò fino a 62 anni (che sembravano ottanta). Ultima
annotazione: si dice avesse una specie di morosa, la «Triaca», non meglio identificata.
Il secondo «Barser» in ordine di età, era Mario, classe 1908, detto «al student». Celibe, come gli altri suoi fratelli;
autista poi carrette-rie; questo ufficialmente perchè il nostro personaggio non era molto appiccicato al lavoro;
rifiutava quelli troppo prolungati e preferiva affidarsi al caso. Era il più «nobile» dei fratelli; da qui il suo
soprannome.
Nel 1938, è andato in Africa, ad Addis Abeba, rimanendovi per oltre un anno. Era di una certa aristocrazia; aveva
delle compagnie anche del ceto medio-alto; inclinato come conversatore spiritoso e divertente alle dissertazioni
filosofiche, che lo portavano spesso a uscire dalla realtà concreta. Leggeva il giornale ogni giorno al farmacista
Petit-Bon perche questi era cieco.
Ma l'episodio che lo ha reso «immortale» è quello del secchio di... liquido di fogna scaraventato in testa alla Maria
«dal butighèn» con negozietto in piazza del Mercato. Il fatto avvenne negli anni cinquanta, pare per futili motivi
(la Maria era accusata da Barser di intromissione nei suoi affari amorosi). Così un bel mattino (si fa per dire)
procuratosi un secchio e riempitolo di liquame dal tombino della fogna delle case popolari, la ricoprì di foglie e si
recò nella zona di operazione.
Attese il momento giusto quando la Maria uscì dalla bottega e... dopo aver tolte le foglie, spatargnack!, scaraventò
il secchio in testa alla povera Maria. Questa si mise a gridare ma non faceva che peggiorare la situazione in
quanto il contenuto veniva direttamente assaporato. Una tragedia! Lui scomparve per diverso tempo da Busseto,
temendo le conseguenze della denuncia; lei condannata a... masticare caramelle di menta per mesi dopo aver
masticato rabbia per l'insano affronto subito.
Mario al student è morto all'Ospedale- di Busseto nel 1989, dopo alcuni anni di degenza, quasi del tutto
dimenticato.
Ultimo dei fratelli, Antonio, «Tugnèn» o «Tugnòn», al strasèr; il più tranquillo, compassato, taciturno; il più
laborioso e intraprendente dei fratelli. Classe 1910; aveva il magazzino, si fa per dire, del ferro vecchio, nel
torrione nord-est delle mura di Busseto, quello vicino all'Oratorio: un buco che divideva senza tanti problemi con
ponghe, bisce e dove, qualche volta, trovava giaciglio suo fratello, al vagu. Aveva alcuni asini, per il traino del
carretto delle sue cianfrusaglie, che chiamava col nome delle opere di Verdi, Aida, la Traviata, Rigoletto ecc.
Una famiglia bussetana (ha sempre abitato nel centro storico, via dell'Anonimo, piazza Carlo Rossi e le Case
Popolari) che anch'essa è in via di estinzione. Sono rimaste le due sorelle, Rosina e Lia Pace, vecchie e stanche ma
ancora indipendenti.
Carlo Berzieri, padre dei famosi Mario, Gino e Antonio e della Rosina e Lia,
in una classica foto-studio «Giuffredi».
I RACCHI
«Tugnèn Barser» con un dei suoi «Tir» di una volta, l'asino chiamato «Rigoletto».
Ligio Racchi e i suoi fratelli Guido e Lisandar (potrebbe essere il titolo di un film), facevano parte di un clan
famigliare di pura estrazione bussetana (da circa due secoli esistente nella nostra cittadina. Ligio (anche se il
nome esatto era Eligio) ha fatto il calzolaio e l'infermiere; aveva messo su una famiglia numerosa con la sua
Gemma (sorella di«Bardàn»). Figura tipica di uomo del popolo; modesto e giudizioso, onesto e servizievole ma,
anche lui, come tanti, col «benedetto» vizio del... calice.
Suo fratello Guido, detto «al Marescial», aveva un debole per la divisa militare che indossava ancora ogni
qualvolta il calendario delle feste patriottiche glielo permetteva, (tutto bardato di mostrine, medaglie, cordoncini
e aggeggi vari - come un cavallino siciliano) e anche lui non... disprezzava certo la compagnia del bicchiere
(possibilmente pieno). Faceva il muratore (la sua specializzazione era quella del «calsinèn») e si racconta che un
mattino a Samboseto, dove si stava costruendo il Salone «Ape», si presentò sul lavoro con una faccia che... «la
pariva `na saracinesca». «Cusèt fat, marescial?» gli disse Tessoni, al russ, che era il mastro, e aveva subito capito
che i segni sul volto dal marescial erano dovuti ad una bevuta fuori ordinanza... della sera prima. E, il buon Guido,
candidamente, gli buttò una risposta che dimostra tutto il suo spirito: «Ma tèès... j'ar sira intant ca `ndéva a ca',
a's'mé `lvet impé la strèda davanti!»...
L'altro fratello, Lisandar, da giovane faceva il maniscalco. Durante la grande guerra aveva perso un occhio per cui
si adattava, poi, a qualunque lavoro: negli ultimi anni aiutava in macello e in negozio, Giuàn (Nicandro) Cipelli;
trasportava la carne in negozio e serviva i clienti a domicilio. Di lui si racconta il famoso episodio della gita in
barca con Luigi Caffarra, cieco di guerra. Quest'ultimo era addetto ai remi e Lisandar al timone; Caffarra,
inesperto, ad un certo punto della traghettata, centrò con la punta del remo... l'unico occhio buono, valido, quello
di Lisandar il quale esclamò dolorante e irritato: «Lé, adèsa sum a tèra»!, intendendo con ciò che a quel punto si
navigava alla cieca. Ma il rematore, pensando volesse dire che erano giunti all'altra sponda, scavalcò il bordo
della barca e finì nell'acqua, cioè nel Po.
I REMONDINI
Un'altra famiglia tutta bussetana, fino all'osso, numerosa e imparentata con mezza Busseto e ricca di personaggi
caratteristici e popolari. Quello che ci viene da più lontano è Salvatore nato nel lontanissimo 1855, naturalmente
a Busseto, come il padre Benedetto. Salvatore era campanaro della chiesa di S. Anna. Campanaro tuttofare e
brillante: durante le processioni, che lui stesso ordinava bene in fila, invitava le donne alla preghiera, dicendo:
«Pregate per le povere anime del purgatorio, incò lur, admàn vuètar!». Poi prendeva lo stendardo raffigurante il
simbolo della morte, con la falce.
Figlio di Salvatore erano Alberto, detto Pistulèn, la Francesca (la China) e Giovanni (Giachi). Alberto, che aveva
sposato la Zaira Borlenghi aveva a sua volta sei figli: Adelmo (papà di Poldo, l'Albertina e Vittorio), Pierina,
Giuseppe, Carlo, Maria e Teresa. Tutti o quasi con una storia.
Quella di «Giachi» è piuttosto singolare: faceva il carrettiere, ed un bel giorno, tornando a casa con la barra carica
di ghiaia (e lui a piedi che la seguiva) trovò sui suoi passi una giacca; la raccolse, la scaraventò sulla barra e
riprese a camminare. Dopo pochi minuti ne trovò un'altra. Stessa operazione, anche questa sulla barra.
Evidentemente era un giorno fortunato per lui perchè ne trovò una terza. A questo punto, il carrettiere,
pensando che gli sarebbero bastate due giacche di scorta, diede un calcio alla giacca mandandola nel fosso.
Tornato a casa, però, cercò la «sua» giacca e le altre due, ma non ne trovò nemmeno una.
Adelmo .era facchino (faceva parte della famosa Carovana - v.); fu portato in Germania nei primi anni dell'ultima
guerra dove rimase per circa due anni. Al ritorno lavorò al bottonificio Cannara ma fu sequestrato dai tedeschi
per lavori di trinceramento nei «Prati di S. Geminiano», dove fu colpito, durante un bombardamento aereo, da un
grosso masso di terra che gli schiacciò il torace e la testa, causa della sua morte, avvenuta dopo tre giorni. Anche
Carlo era facchino divenuto in seguito inserviente alla «Lancia» di Genova.
La Pierina aveva sposato certo Branchetti, si era trasferita a Parma come le sorelle Maria e Teresa (sposate
rispettivamente a Cattadori e a Cecchelli.
I Remondini, a Busseto da oltre due secoli, provenivano da Bassano Veneto dove svolgevano il lavoro di tipografi
e pare si fregiassero, fino ai primi anni del secolo scorso, del titolo di nobile.
I FERRAGUTI
Una famiglia bussetana di antica stirpe, purtroppo da poco estinta: l'ultima Ferraguti, la Dorj, è scomparsa alcuni
anni fa.
Leopoldo, il capostipite, che prendiamo in esame, aveva sposato la Maria Barbara Remondini ed aveva avuto sei
figli, quattro femmine e due maschi. Di questi, Ennio, era morto al fronte nella grande guerra 1915-18, mentre
Lino, falegname, era appunto il papà della Dorj. Delle figlie la Giuseppina aveva sposato Nino Uriati, (da cui
discendono i numerosi figli: Don Ugo, Cesarino Ennio, Francesco, Palma, Mariuccia e Lina; poi c'era l'Elena, la
fruttivendola, l'Ines, commessa di farmacia ed infine la Luigina, sposata Remondini, (la mama di Poldo,
dell'Albertina e di Vittorio).
Chiarita la situazione... anagrafica vediamo di addentrarci più da vicino sulle loro attività. Lino, il falegname, tipo
di poche parole era un gran lavoratore che non si fermava mai: un giorno si procurò, sul lavoro, una ferita con la
pialla: senza tante storie, dopo essersi asciugato con la vestaglia, non certo pulita, e la segatura, si fasciò la ferita
col fazzoletto da naso e continuò il suo lavoro.
Nella stessa bottega di Ferraguti (che era in via Leoncavallo, davanti alla villa Carrara) lavorava, da ragazzo,
anche Libero Dondi, il futuro fotografo, ed è proprio lì che perse la gamba a causa di un infortunio sul lavoro.
La più nota fra le sorelle è stata senza dubbio l'Elena, la «friitaróla»: col suo carretto e con il ...«fugòn dal
castagni» si piazzava nei punti strategici, in via Roma di fronte alla piazza Verdi oppure davanti al Cimitero nei
giorni dedicati alla visita ai defunti.
Era dotata di gran cuore, specialmente con i bambini che non avevano... spiccioli. Caratteristico il suo mezzo di
trasporto per il rifornimento delle merci: una vecchia bicicletta attrezzata con una cassetta di legno sistemata
dietro la sella e, davanti, il singolare portapacchi in ferro, chiudibile. Così girava nelle campagne in cerca di
prodotti, freschi ma anche di «seconda scelta». Come l'Ines, sua sorella, non si era sposata, ma si è sempre
dedicata alla sua famiglia con tanto amore.
STOCCHETTI
Ferraguti (il terzo da sinistra, in piedi) assiema a
«Talèn» Cadnass, al Gai«, «Manacul», Nino Stocchetti e Denso Borsi, (il giovane a destra).
Famiglia nota e stimata in Busseto di cui Guglielmo (Guglialmèn, per gli amici) era il più conosciuto: un artigiano
dai «guanti bianchi», si può dire, perchè raffinato nei modi e nel linguaggio, amante della conversazione e della
compagnia con cui amava trascorrere le ore libere al Caffè Centrale o facendo due «vasche» nel viale.
Ricordiamo qualcuno degli amici: Nadèl Parolari, Carlo May, Pinèn Zani, Adalberto Curblèn.
Gli Stocchetti avevano un negozio di biciclette, all'inizio; poi spostarono la loro attività nel ramo dell'idraulica,
impiantistica e sanitari. Nel laboratorio di Stocchetti si sono alternati molti giovani per imparare il mestiere; fra
questi, come molti ricorderanno, c'era anche il buon «Tiinèn Baròs», divenuto il suo «uomo di fiducia». Gli
Stocchetti non erano di origine bussetana; il padre, Enrico, classe 1880, da Cremona era venuto a Busseto nel
1906. Guglielrnèn che era nato nel 1914, aveva altri tre fratelli, più anziani di lui, Antonio, detto Nino, morto ad
Addis Abeba (nel 1970) dove si era trasferito col fratello Remo dopo la «conquista dell'Impero» e Romolo (Emilio
all'anagrafe), radiotecnico trasferitosi al Cairo dove è deceduto nel 1982.
Guglialmèn, che aveva sposato l'Ottavia Patroni, se n'è andato prematuramente, a 64 anni, lasciando un gran
vuoto in famiglia (aveva tre figli, due maschi e una femmina) e nella cerchia degli amici.
I VANOLI
Una stirpe, una razza di bussetani da circa due secoli.
Famiglia di barbieri, arte che si è tramandata di padre in figlio, da molto tempo. Il più noto dei Vanoli è stato,
naturalmente il buon «Ninetto» (all'anagrafe Umberto), morto qualche anno fa (nel 1991) che ha lasciato un
vuoto reale nella cittadina che lui ha sempre amato di un amore sincero e profondo. Appassionato conoscitore
verdiano, caparbio e paziente raccoglitore di fotografie con dedica dei più illustri personaggi della lirica, che
aveva allineato tappezzando il suo «salone» da barbiere, divenuto quasi un museo, un luogo d'incontro dei
bussetani di classe.
Nel suo negozio (che ha diviso col fratello Valter, poi deceduto quando Ninetto era ancora in servizio) si poteva
svolgere qualsiasi operazione turistica, ascoltare musica (la raccolta di dischi era ricca e pregiata), ci si poteva
prenotare per gli spettacoli al «Verdi», oppure per le gite in pullman o per vedere l'opera. Ninetto aveva gestito
anche la ricevitoria della Sisal (così si chiamava una volta il Totocalcio).
Insomma, in una parola, da Ninetto ci si poteva anche far tagliare i capelli per dire che c'era un po' di tutto. Un
vero ufficio turistico, meta continua di forestieri, turisti verdiani, i quali avevano libero accesso nella bottega del
figaro verdiano, conosciuto da tutti; era in corrispondenza epistolare con centinaia di appassionati della lirica e
di Verdi.
Andato in pensione, Ninetto, cedeva il suo materiale fotografico-discografico e documentaristico
all'«Obiettivodue», titolare Artoni Possidio, il quale ha allestito una mostra permanente intitolata al compianto
figaro-verdiano, chiamato anche «il baronetto», per i suoi modi signorili ed eleganti e per gli ambienti che
frequentava, del ceto medio-alto. Sua compagna fedele e discreta, teneramente legata a lui la buona Noemi,
acconciatrice di rango e fedele e gelosa custode dei ricordi di Ninetto.
Oltre al citato fratello Valter, Ninetto aveva anche una sorella, Carla; un tipo dinamico e genuino, dal carattere
deciso, che si era creato nell'ambiente dove lavorava, il Bottonificio Cannara, un suo habitat naturale, al quale
aveva dedicato tutta la sua vita.
Ultimo dei fratelli Vittorio, o Vittorino come viene chiamato amichevolmente: orchestrale di un certo rango;
aveva viaggiato anche su navi, suonato all'estero ed era divenuto «primo violoncello». dell'Orchestra di Verona.
Ora, in pensione, svolge un prezioso servizio, quello di suonare l'organo nella vicina chiesa di S. Maria degli
Angeli.
I genitori dei fratelli Vanoli erano Angelo (anch'egli barbiere, classe 1872) e Visioli Gisella; lui morto nel 1921,
ricordato ancora da pochi bussetani mentre il ricordo della Gisella è ancora nella memoria di tante persone: una
autentica donna del popolo, una bussetana fino al midollo; abitava prima in via dell'Ospedale quindi nella via
Pasini, nella casa di nonna Zoraide.
Ed ora un altro Vanoli, «Tanèn» (Gaetano), anche se andiamo indietro nel tempo: era infatti un fratello del nonno
dei citati fratelli Vanoli, appena «visti». Faceva il calzolaio; era un uomo di modesta levatura, singolare e schietto.
Di lui si racconta l'episodio dell'«operazione» di rammendo del simulacro del Cristo morto, quello che si porta in
processione il Venerdì Santo e che si trova nella chiesa di S. Maria.
Era successo che il prevosto della Collegiata (siamo ai primi anni del secolo, c'era allora il prevosto Mons.
Allegri), avendo constatato che il simulacro che, come si sa è in cuoio, presentava una lacerazione, una falla, nella
parte posteriore, si rivolse al buon «Tanèn» perchè ci mettesse una pezza. «Fa' un buon lavoro», gli raccomandò
il prevosto, «poi presentami il biglietto».
E lui, dopo aver eseguito per bene il suo lavoro, a domicilio, si recò dal Prevosto con il biglietto in cui aveva
scritto: «Per aver pezzato il culo a nostro signor Gesù Cristo, centesimi 50»...
Era nato a Busseto nel lontano 1863; il suo botteghino da calzolaio era in via dell'Ospedale. Aveva sposato la Zoe
Bianchi (detta «Zoia») o anche «la maga» perchè faceva le carte, con discreto successo, guadagnandosi così
qualche... «caiirèn».
Tanèn, che era nato nel lontano 1863, moriva dopo l'ultima guerra, nel 1947. Ha lasciato un figlio, Giovanni,
(Nino), classe 1899, che aveva imboccato fin da giovane la professione di suonatore professionista, divenendo
maestro d'archi, qui a Busseto.
I PAROLARI
Erano i famosi ramai di piazza del Mercato. Detti anche i «Boeri», perchè sempre sporchi in faccia per il mestiere
che praticavano. Un cognome che indica quasi esattamente il mestiere di «parolai». Erano due fratelli, Francesco
e Giacomo, entrambi celibi, uno del 1891 e l'altro del '97 (il padre, Battista era originario di Ortisei - da qui il
mestiere di ramai).
Abilissimi e bravi: con un «palanchèn» di rame (moneta degli anni venti-trenta) ci tiravano fuori un mini paiolo,
ed erano divenuti proprietari del palazzo dove lavoravano (ora negozio «Eliolab» e studio dentistico Donati).
Sono scomparsi negli anni sessanta.
I SCOTT
Quando si dice Scott ci si riferisce alla famiglia dei Camorali di cui sono rimasti, a tutt'oggi, Nino (classe 1908) e
la sorella Peppina del '910. Una stirpe di bussetana memoria che si prolunga con Luciano (figlio appunto di
Nino), anche se da tempo trasferitosi fuori Busseto. Un soprannome, gli Scott, che viene da lontano, all'incirca dal
1830 quando il bisnonno dei citati Nino e Peppina, Giuseppe Camorali, classe 1801 sposato a Scotti Rosa, erano
venuti a Busseto, provenienti da Fontevivo. Questi avevano avuto sette figli, fra cui Antonio dal quale proviene il
ceppo principale. Quest'ultimo faceva il tagliatore di pelli poi il crivellatore; aveva sposato una bussetana,
Filomena Baistrocchi (zia di Cichèn «Fiimèra»), abitava in Codalunga ed aveva avuto con lei 7 figli fra cui
Giovanni, classe 1866, faceva il calzolaio ed aveva sposato Rizzi Leandrina (la surèla 'd Rumeo Siicari).
Giovanni e la Leandrina, a loro volta, ne avevano messi al mondo ben otto, quattro maschi e quattro femmine, fra
cui Lodovico (classe 1898, Nino del 1908 e Mario del '12 (deceduto qualche anno fa).
Nino e Mario facevano i falegnami, nella cooperativa presso la scuderia della Villa Pallavicino, la Maria, una delle
sorelle, era la bidella presso l'Asilo Infantile (mestiere iniziato da una zia l'Adele, ed anche dal padre Antonio),
mentre le altre sorelle, la Rosa e la Peppina, facevano le ricamatrici e sarte.
Lodovico, che aveva sposato la Paolina Contestabili, ha avuto due figlie, la Bianca e la Bruna, faceva il calzolaio e
poi il bidello delle scuole Medie (e a tempo perso il suonatore della Banda cittadina).
Una famiglia discreta, onesta e lavoratrice; abitavano in via Piroli (dove abita tutt'ora Nino con la moglie
Giacoma) dove si «masticava» alla perfezione il linguaggio del nostro dialetto schietto.
Una famiglia un tempo prolifica ma che ora si è ridotta a pochi «testimoni» (anche la Gabriella e la Francesca,
figlie di Mario, si sono trasferite dopo il matrimonio) lasciando la sola Bianca «ad Fantèn», panettiera in
pensione.
Gli Scott, la cui caratteristica era la statura: tutti alti, quasi «pertiche», leggermente curve all'apice, quasi a
significare la loro vocazione al lavoro.
SÙCARI
Era così chiamata la dinastia dei Rizzi, una stirpe di bussetani schietti, di sicura derivazione «controllata».
Cominciando da Giovanni (Giuàn Sicari) figlio di Romeo e della Molla Rosa Filomena (altra famiglia nostrana),
tutti in famiglia erano amanti della musica e di Verdi, ovviamente, ed ogni qualvolta si apriva il Teatro Verdi non
mancavano nella «piccionaia». Chi non ricorda «al dutur Sicari », quello che abitava in Codalunga e cantava in
chiesa nei servizi funebri?
Ma torniamo a Romeo classe 1859, il capostipite, diciamo così: era un bel tipo; loquace, col senso dell'umorismo,
arguto e vivace; aveva il vezzo di «battezzare» con un nomignolo, un soprannome, tutti coloro che non gli
andavano a genio, o che avevano certe caratteristiche ben visibili; e, se lo diceva lui non veniva più smentito.
Faceva il calzolaio, mentre sua moglie, la Rusèn, aveva un negozietto di frutta e verdura. Giuàn, suo figlio, padre
di Lino Rizzi (attualmente ancora fra i migliori giornalisti politici e d'opinione, ex direttore di noti quotidiani)
faceva il muratore mentre sua moglie, Luisa Lodigiani, come molti ricorderanno, aveva il negozio di fruttivendola
all'inizio dei portici vicino a Secchi. Erano sette i figli di Romeo, tra cui la «Tisèn» (Teresa), l'Antonietta (la madre
della Luizita), la Giulietta e Luigi («Lovis») che vedremo più avanti. Un'antica famiglia che ormai ha smarrito il
soprannome ma che si tramanda con la generazione, appunto, del «nostro» Lino Rizzi.
ZILIANI
Un'altra stirpe bussetana, da almeno un paio di secoli; barbieri, sarti, falegnami, droghieri (occasionali) da cui è
uscito anche un autentico talento della lirica, il tenore Alessandro Ziliani.
Dal ramo di Antonio Ziliani, che aveva sposato la Rossi Marianna, sono usciti Giuseppe, classe 1874, falegname, e
Romeo del 1876. Il primo, che ha sposato Irene Bottazzi, ha avuto tre figli: Sincero (che farà il barbiere, così come
il secondo, Antonio morto a soli 48 anni), e, appunto, Alessandro.
Da Romeo, che faceva il sarto ed abitava in via Del Ferro poi trasferitosi in via Ghirardelli quindi in via Roma,
sposatosi con Desolina Giavarini, sono nati Bruno, Violetta ed Aldo. A mantenere la continuazione della stirpe è
rimasto Filippo, figlio di Bruno, trasferitosi fuori Busseto. Qui nella terra bussetana è rimasto Aldo, falegname «lustròn» in pensione, ultraottantacinquenne, con la moglie Ariella e la figlia Laura mentre dal ramo di Giuseppe
c'è la Giuseppina, figlia di Sincero.
La famiglia Ziliani si era particolarmente distinta durante l'ultima guerra per aver gestito il negozio di drogheria
della famiglia Muggia, costretta alla macchia per le note repressioni antisemitiche del regime fascista. Titolare
della licenza era Bruno, che si è poi sposato, nel 1951, con Norma Pitetti e morto l'anno seguente, lasciando il
figlio citato, Filippo.
La compagnia 'd l'«ARLÓJ»
Una simpatica compagnia, un gruppo di bussetani molto legati ed affiatati fra di loro era quello che frequentava
«la trattoria 'd l'Arlój» e, per precisare, dal siur Oreste e la Marina.
Erano i vari Dumènic Fugàsa, Pirèn Purchèr,Carlino Marinèn, Giuàn Fantèn, Rumeo Cantarèl, Radames (e questi
sono tutti quelli che vedete nella foto, ma ne sentirete degli altri...). Amici veri, sinceri, quasi una famiglia. E alla
sera, specialmente, quando la fatica del lavoro era smaltita, una sosta, una partita, una bevuta era quello che ti
dava la carica. E qualche volta ci scappava anche la cena, specialmente quando al siur Oreste (un piemontese
trapiantato da noi, ma che nei mesi caldi andava al suo paese, a Usseglio, a fare la stagione estiva, dove gestiva il
suo albergo) tornava dal Piemonte con il camoscio ed altra selvaggina che offriva agli amici. Quando il vino rosso
si beveva «in da sciidlèn», e la misura non era la bottiglia ma «al mes litar» oppure «al quartèn»; e la Marina e 'l
siur Oreste avevano imparato a conoscere le nostre carte da gioco e facevano la briscola in coppia, contro «i
bussetani». E a tarda sera entrava, spesso, «al Muretu» Trabucchi, per aggregarsi alla allegra compagnia (ed era
questo un momento dove non contava per niente il conto in banca o il modo di vestire - tutti uguali in amicizia e
libertà).
Naturalmente non mancavano le «sortite» fuori sede, in altre locande, e con loro, naturalmente lo stesso Cibrario,
contro il suo interesse personale. E quando non c'era lui, al siur Oreste, lo andavano a trovare, in Piemonte (e la
foto che vedete è stata scattata proprio davanti al suo bel locale): immaginatevi che bevute...
E gli scherzi anche loro non mancavano. Ne abbiamo scelto uno che ci sembra il più emblematico per quei tempi,
quello del finto coniglio, cucinato tanto bene dallo stesso Cibrario, ottimo cuoco, da leccarsi le dita. Uno scherzo
montato dal bravo oste con uno della compagnia, dovrebbe essere «Mania» Bardi, ai danni di tutti gli altri, ma in
special modo mirato a Gildo «Balalòn». Questo, infatti era il più scettico, il «santumès», il quale voleva accertarsi
che si trattasse davvero di coniglio. E volle fare un sopralluogo nel frigorifero della cucina. Il sig. Oreste,
rischiando di grosso, acconsentì alla verifica dell'«esperto» Gildo il quale si convinse che non era uno scherzo:
non si trattava di coniglio... coi baffi.
E così mangiarono tranquilli e beati, anche se, di tanto in tanto, si sentiva qualcuno che... miagolava. Ma Gildo
Balalòn, imperterrito assicurò: «Ragass... meno male c'ho vist cu'i me occ c'lera un cunil!».
La verità, naturalmente, non tardò a venire a galla (altrimenti che gusto ci sarebbe, senza risate). Il «coniglio» era
proprio... coi baffi! Così qualcuno dovette digerire, oltre al gattone (del resto squisito) anche lo scherzo del....
sopralluogo, mentre qualcun altro,come il buon Plinio Ferrari, trasformò il gatto in... cagnolini.
Ragass, che rìdar!
I FACHÉN
Un bel gruppetto di amici:
Pirèn Purchèr, Cibrario e Fantèn (in piedi) e Romeo Cantarèl,
Dumenic Fugasa, Belli Radames e Carlino Marinèn (seduti).
Un'attenzione particolare, quando si parla di compagnie, di «Ciop», di combriccole, merita senza dubbio la
squadra dei facchini, un tempo un mestiere molto utile, diffuso, quando i trasporti erano per lo più affidati ai
carretti e alle braccia robuste dei facchini. A Busseto funzionava la «Carovana Facchini», così era chiamata la
squadra organizzata, a disposizione di aziende e privati. Quando non c'era lavoro alla stazione ferroviaria o
tramviaria (quest'ultima fino al 1939, poi smantellata) i facchini si ritrovavano, per facile reperibilità,
preferibilmente al caffè della Stazione, da Firmino Barezzi, oppure da Ugo al «Sole», o all'osteria «dal tre pèchi»
(Trattoria Aurora, detta anche la Scaletta).
Il capo dei facchini era Angilèn Camorali, persona seriosa, e sobria quanto bastava per dirigere questa squadra di
scaricatori, pronta a mandar giù la polvere dalla gola con qualche fiasco di vino. C'erano Lelio e Guido Pizzoni (la
«Pita»), (poi entrerà Pepino figlio di Lelio), Guido Bergamaschi («vot-vot»), Mario, Angiulòn e Carlèn «Marinèn»,
Adelmo Remondini e suo fratello Carlòn, al «Moru» Renzo Malchiodi, Alcide Ballotta. E ci fermiamo ai tempi...
eroici, anni trenta-quaranta.
Il compianto Tullio Allegri, della famiglia dei «Marinèn» e ottimo operaio del Comune, raccontava un episodio
esilarante di questa simpatica compagnia di facchini. Un giorno, mentre scaricavano dei bariletti di vino pregiato
siciliano, alla stazione merci, non resistettero alla tentazione di... assaggiare quel ben di Dio. Così escogitarono
di... prelevare una bevuta, senza lacerazione alcuna dei sigilli: fatto un foro con un trivello piccolissimo e
infilando una paglia a mò di cannuccia per sorbire le bibite, fecero l'assaggio, rimettendo il corrispondente di
acqua e sigillando con lo stucco il forellino.
Insomma, bisognava pure eliminare la polvere di carbone e altro che si accumulava presso i vagoni ferroviari.
Che ridar, ragass!
E prima di rincasare a fare la doccia, pardòn, a lavarsi nella tinozza o nel «navasol», una fermatina nell'osteria più
vicina a casa... non si sa mai.
Un mestiere duro ma un gran cameratismo fra i soci facchini; amicizia sincera, come sincero era il vino.
I SOCI DEL CASINO DI LETTURA
Di questo Gruppo del «Casino di Lettura»; di cui abbiamo rintracciato questo bellissimo documento fotografico,
che mostriamo in questa rassegna, si sa con sicurezza che era riservato alla Bussetobene, che non era facile
entrarvi se non si era «qualcuno», come ci dice Napolitano nel suo interessante libro sui suoi cinquantanni a
Busseto.
La foto di cui parliamo e che mostriamo la dice lunga sui personaggi e sul «clichét» cui erano tenuti i soci del
Casino.
Siamo nel 1928 e si festeggia il 50° di apertura del Circolo di Lettura e Conversazione (così si chiamava
all'origine). Quindi dalle notizie che ci dà il prof. Napolitano circa una festa di carnevale, nel 1874, sembrerebbe
supporre che il Circolo stesso a quella data non fosse ancora ufficialmente funzionante; Ma questo ha poca
importanza. Nel locale dei soci, che era la Sala Gardenia, erano ammessi, quindi, solo i notabili, un tempo in gran
numero a Busseto: censo o casato, dunque, o per distinzione professionale, questi i requisiti per farne parte. Ma
l'attività era scarsa (come ci confida lo stesso Napolitano, anche lui socio dal 1927): poca lettura o niente e così
conversazione; l'occasione per unire i soci riguardava piuttosto qualche festicciola o veglioncino per Capodanno
o Carnevale.
Dopo la prima guerra mondiale andò sempre diminuendo la sua attività e agli inizi degli anni trenta si sciolse.
Ed ora vediamo di passare in rassegna i Soci uno per uno (anche se per qualcuno di essi non è riuscita
l'individuazione). Cominciamo dai primi, seduti di qua da tavolo a «ferro di cavallo», sul quale è ben visibile
l'anno di fondazione, 1878, e seguendo i numeri indicativi:
1 - Busca avv. Francesco, classe 1895, marito di Amelia Corbellini
2 - Swich Leopoldo
3 - Bacchini Agostino, classe 1892, negoz. carbone, deceduto 1937
4 - Stecconi... (uno dei fratelli «Mavrèn»)
5 - Zecca Antonio, classe 1875, deceduto nel 1941
6 - Panelli Giuseppe, classe 1873, orefice, morto nel 1942
7 - Verdi cav. Giuseppe (Peppino), classe 1892, Sindaco di Busseto
8 - Cavalli Giuseppe
9 - Trabucchi Leopoldo (al Muretu), classe 1904, deceduto nel 1952
10 - Corbellini Donnino
11 - Tosi Arnaldo («Canaia»), classe 1890, dirett. ind. apicoltura
12 - Casali Napoleone
13 - Grassilli Pietro, classe 1899, imp. di banca
14 - Vanoli Giovanni (Nino), classe 1899, m° scuola d'archi
15 - Pedretti Giovanni (Nino), classe 1892, capo staz. tramvie
16 - Carrara avv. Lino ex Sindaco
17 - Cavitelli Giuseppe, classe 1890
18 - Merli Luigi («Gigetto»), classe 1900, segret. com.le
19 - X (di Castioni M. si)
20 - Zaniboni rag. Fernando, classe 1903, rag. alla Cassa Risparmio
21 - Ghezzi dr. Alberto, segret. comunale
22 - Viola dr. Pietro, cl. 1894, farmacista, deced. 1950
23 - Pedretti
24 - Massera m° Guido
25 - X
26 - Usola (di S. Andrea, marito della Carrara Verdi...)
27 - Cavalli Carlo (Carlino), classe 1900, comm. te cereali
28 - Botti Camillo, classe 1893, chincagliere, deced. 1929
29 - Stefanini Giuseppe, classe 1894, caffettiere del «Centrale»
30 - Swich Priamo
31 - X
33 - Verdi Giuseppe Otello, fratello della ma Verdi (ex Pretore di Busseto)
34 - Bottazzi Arnaldo, classe 1904, trasferito a Genova nel '37.
I NOSTRI «GARIBALDINI»
I soci del “Casino di Lettura”
Consideriamo ora alcuni bussetani i quali, anche se non affiatati personalmente fra di loro, meritano di essere
ricordati per la loro appartenenza ad un corpo specialissimo, divenuto famoso, i «garibaldini».
Le nostre ricerche si fermano a tre elementi, il cui numero potrebbe aumentare con il contributo di persone non
più giovani, ovviamente.Essi sono Pietro Delfanti, Pietro Ercole Benda e Luigi Bonatti, tutti nati a Busseto. Il
primo nato nel 1843 e morto a 101 anni nel giugno del '45, aveva sposato la nipote di Emanuele Muzio, Luigia
abitava in piazza C. Rossi ed aveva una figlia suora, Maria e Anna che visse sempre con lui. Il Benda era lo zio di
Gino Benda,per intenderci, «qul dal currieri»; aveva il culto della divisa di cui andava fiero, e la indossava ad ogni
occasione, a volte anche a sproposito. Era nato nel 1846, aveva sposato una certa Ginevra Malchiorri
(inserviente) ed aveva due fratelli, Angelo, del '43 e Giacomo del '55.
Luigi Bonatti, fu Michele e Contestabili Barbara era nato nel 1847, di professione oste, morto nel 1927. Era
suocero di «Vigióta» (Grandini Gino) e nonno materno di Luigèn Crosali, e naturalmente della Lina e della
Giovanna, tutti viventi, questi ultimi.
Anche lui era orgoglioso della sua militanza nel reparto dei garibaldini. Si racconta che, in occasione di un suo
viaggio a Parma, negli anni venti, per una manifestazione fascista, abbia stretto la mano a Mussolini. Anche di
questo episodio andava orgoglioso e, si dice (sempre da parte dei soliti maligni) che dopo questa... storica stretta
di mano con il Duce, non si sia più lavato le mani...
«GHITÈLO» E COMPAGNI
Un bel gruppo di amici, senza dubbio, allegri, disinvolti e a volte scanzonati. Tutti bussetani del sasso, cresciuti
assieme e che, col passare degli anni, avevano fatto «lega». dividendo momenti di svago, tutti assieme. E, si sa,
quando il tempo libero, come si dice oggi, viene a noia, ci scappa qualche «uscita», qualche «trovata» di natura
gogliardica. Una compagnia capitanata da «Ghitelo» Borlenghi Aurelio, (al fil ad Cinèlo e fradel 'd la Tilde), con i
vari Rodi, Givanèn Stisàn,‘Cico Tuscàn, Luigino Angiolini, Bruno Bulgaràn, Turino Francia,tanto per citarne
alcuni...
Svariati gli scherzi che combinavano insieme a Ghitèlo che ne era l'ideatore. Ad esempio aveva trovato il modo di
andare a teatro gratis, confezionando ad arte i biglietti o le contromarche: bastava che vedesse il colore del
manifesto (che corrispondeva a quello del biglietto) e... voilà! si metteva al tavolo di lavoro e in men che non si
dica confezionava biglietti per tutta la compagnia. Anche se il giochetto durò poco. E allora, per vendicarsi,
combinarono quell'altro scherzo... poco pulito, quello del piatto... fumante messo sotto il naso del povero
bigliettario. (Vedi Briito).
Un altro episodio, con la stessa... materia prima, è successo a S. Agata, una sera che si ballava nella tradizionale
«balera». I nostri eroi, per invidia verso coloro che erano dentro a divertirsi, non visti naturalmente, hanno
sporcato il corrimano, della passerella, (la famosa «punzela») della solita... mer...ce. Al termine del ballo, i giovani
che transitavano in bicicletta sulla passerella, per tenersi in equil i-brio, erano costretti a far scorrere una mano
sul corrimano del ponticello. Così, il gioco era bell'é fatto. E quelli, furibondi: «Chi e stà, chi delinquent»! Cosi
imprecando, con le mani imbrattate, cercavano di pulirle nell'erba, ai bordi della strada, non immaginando che
anche quella era stata... inquinata dal materiale incriminato.
E la combriccola dei bussetani a ridere pancia a terra, opportunamente nascosti per vedere e gustarsi tutta la
scena.
Altre imprese o scherzi del genere; anche se innocenti, erano all'ordine del giorno, specialmente ai danni di...
extrabussetani con i quali venivano a contatto diretto nelle feste, nelle fiere ecc. (e qui entra in ballo l'espressione
più classica dell'intolleranza... paesana: «va ca' vilàn»!). Insomma, erano i tempi delle burle, degli scherzi, sempre
nei limiti e nell'ambito del sopportabile: uno dei passatempi più in voga, quando la compagnia era ben assortita
ed affiatata.
GLI IMPIEGATI COMUNALI DELL'ALTRO IERI...
Non sono turisti forestieri: sono bussetani puri.
,S.,`` Da sin. Rodi, Binidèn, Ghitelo, Berto Batistott ,
Bruno Bulgaràn, Fragni al furnèr, Franco Demaldè
e infine Luigèn Angiolini.
Una volta, fino agli anni venti-trenta, una certa professione cosiddetta della penna, era considerata quasi nobile,
degna del massimo rispetto ed ammirazione. Specialmente nei paesi piccoli, il dottore, il farmacista, il segretario
comunale, la levatrice, la maestra ecc. erano considerati, assieme al prete, al di sopra di tutti. Grande stima e
massima fiducia.
Anche l'impiegato del Comune era un privilegiato.
A lui ci si rivolgeva non solo per avere utili informazioni di carattere amministrativo e pertinente al municipio
stesso, o a qualche domanda da fare, ma anche per pratiche diverse o per risolvere qualsiasi problema. Insomma,
quasi un «Azzeccagarbugli» dilettante.
E la considerazione cui erano tenuti gli impiegati del municipio di altri tempi la si può misurare osservando
questa fotografia, scattata nel 1912 circa. Il gruppo ordinato, presenta gli impiegati dei vari uffici del nostro
comune, assieme al Sindaco, al segretario comunale e ai capiufficio, che ora vi presentiamo.
Cominciamo da sinistra, in piedi: Alberico Tata, capoguardia (classe 1881 e morto nel 1931 - gli succederà
Valentino Foà); Riccardo Azzolini («Cadèn»), di cui abbiamo più avanti tracciato il «curicculum»; l'ing. Lino
Bocchi, direttore dell'Ufficio Tecnico (era nato a Zibello nel 1872 ed è morto nel 1938); Sincero Bandozzi,
economo, bussetano DOC, nato nel 1870, morto nel 1946; Enzo Arduzzoni, ufficiale di Stato Civile, personaggio
notissimo; il m° Rino Pessoli, impiegato, nato a Busseto nel 1890; Luigi Bellingeri, guardia, classe 1869, morto nel
1924; Giovanni Patroni, guardia, classe 1878, deceduto nel 1951.
I cinque personaggi seduti sono: Vittorio Pessoli (padre di Rino, sopracitato), vice segretario comunale, nato a
Busseto nel 1862 e deceduto nel 1935; il dr. Lino Carrara, Sindaco di Busseto dal 1911 al settembre 1914;
Stefanelli Giacomo, segretario (dal 1911 al '14); Fracchioni Luigi, impiegato, nato a Piacenza nel 1867 e morto nel
1938 e, ultimo, con la sigaretta fra le dita, Giovanni Sagliani, 2° applicato.
Lo stemma del Comune, in primo piano simboleggia e completa un quadro di tutto rispetto e ufficiale per un
gruppo di «lavoratori» che «avevano in mano» il paese, il nostro paese così ricco di storia e carico di
responsabilità, da gestire e da amministrare.
Il Sindaco Carrara, un anno più tardi di questa foto, nel 1913, sarà impegnato, assieme a tante altre persone, ad
organizzare le manifestazioni del primo centenario della nascita del m° Verdi, un avvenimento che ancor oggi è
ricordato, per le nurnerevoli iniziative promosse e per il successo ottenuto.
TERESINA BELLI E SOCIE
Impiegati del Comune di Busseto col Sindaco avv. Lino Carrara - anno 1912
Nel settore femminile, fra i personaggi che hanno reso vivace e saporita la vita di salotto bussetano troviamo, ad
esempio, la compagnia della Teresina Belli, una brava magliaia (la prima a Busseto), dalla conversazione facile e
brillante, dalla battuta pronta e spiritosa, così come la Sina 'd Cagnòl e la Gina 'd Pumòn. Tutte «ragazze» che si
trovavano quasi quotidianamente a prendere il thè delle cinque, durante la pausa di lavoro della Teresina.
Un «salotto» privato e discreto che abbracciava, oltre al campo della moda e delle usanze del tempo, anche i più
svariati argomenti, dalla cultura alla vita popolare dei bussetani. Da lei hanno imparato il mestiere molte ragazze.
La Teresina non era sposata e solamente negli ultimi anni di vita, ritiratasi nella nostra Casa di Riposo, aveva
trovato nell'amicizia e nell'affetto di un ospite dello stesso Istituto, la serenità che le permise di passare una
piacevole vecchiaia.
I'USPISIANT
Gli ospiti (meglio sarebbe dire i ricoverati) della Casa di Riposo, che un tempo quando è sorto, nel 1929, si
chiamava Mendicicomio, erano molti. Erano tutti in divisa: una giacca e pantaloni di tela grigia, un grigio-topo,
distinguibili a distanza.
I più in gamba partecipavano ai funerali quando i parenti della «cara salma» facevano un'offerta al Mendicicomio
di Busseto. L'alfiere, per un certo tempo, era Guido Racchi, al «marescial» affiancato da Rino Ghisotti, il custode, e
gli altri dietro: un segno di devozione e ringraziamento dell'Ente alla famiglia.
Naturalmente per loro c'era una piccola mancia, concessa dall'Amministrazione, mancia che «non faceva la
muffa»: finito il corteo, infatti, il gruppo di ospizianti si fermava alla «Scaletta» l'osteria più vicina a casa, a farsi
uno scalfetto di vino... alla salute (sic) del caro estinto. E più la mancia era generosa più i «mes litar» erano
numerosi, finchè qualcuno del gruppo doveva essere accompagnato... a braccio, passando dalla porta di servizio.
Fino agli anni dell'ultima guerra, ed anche qualche tempo dopo, la vita, al Mendicicomio non era delle più allegre:
gli ospiti erano tutti autosufficienti e abbastanza sani di mente. Non appena qualcuno peggiorava, c'era però lo
spauracchio di Sospiro, dove finivano diversi anziani non più in grado di badare a se stessi (visto che
normalmente chi andava in Ricovero non aveva parenti a cui affidarsi). Sospiro era quindi una parola da non
pronunciare in mezzo ai vecchietti dell'Ospizio. Si tratta di piccolo comune in provincia di Cremona che ospitava
persone giunte all'ultimo stadio non solo per cause mentali ma proprio per assoluta mancanza di autosufficienza.
Gli ospizianti durante un funerale
(in questo caso dell'ex garibaldino Pietro Delfanti, morto a quasi 102 anni).
Siamo nel 1945.
Li guida Rino Ghisotti, portiere custode del Mendicicomio.
... e tutt
ceh'iètar...
ANGILEN
All'anagrafe era Angelo Braibanti, fu Nereo Achilleo, nato a Busseto nel 1884. Piccolo, molto piccolo e gobbo ma
simpatico, premuroso, innocuo; personaggio senza età: da ragazzi lo abbiamo visto così, come quando se ne
andò, nel 1964, a ottant'anni. Si adattava a tutti i lavori più umili, sfruttato il più delle volte.
Ha lavorato in prevalenza presso la segheria di Barezzi (oggi Cremona), e sulla sua gobbetta son transitate
migliaia di tavole, visto che non c'erano le gru aeree, e... «di paner ad tachi» (le scorze delle piante da cui
uscivano, appunto, le tavole). Era sordo ma riusciva ugualmente a captare tutte le notizie del paese. Molto buono,
pronto e sempre di buon umore. Suo posto di elezione era il sagrato della Collegiata, vicino ad un colonnotto,
oppure nelle panche di marmo sotto i portici del Monte di Pietà. Sorrideva a chi gli chiedeva qualcosa, lo salutava
e, scherzosamente, gli sfiorava la gobba, come un talismano, e si faceva dare i numeri del lotto, numeri che
Angilèn teneva, pronti, in tasca, già scritti su bigliettini.
Si racconta che ai tempi del fascismo fu brutalmente malmenato: fu un atto inconsulto e degradante che Angilèn
ha subìto senza nessuna conseguenza. Angilèn, o Rigoletto, come alcuni lo chiamavano, aveva due fratelli: Luigi
detto Sitòn (v.) e Benedetto, e una sorella, Camilla (la madre di Valentèn Cavalli e della Gabriella entrambi ancora
vivi e vegeti fra di noi).
ARTURU FINULÈN
Il simpatico e famoso «Angilèn», la mascotte e il portafortuna di una volta dei bussetani.
Una delle più vivide macchiette della Busseto degli anni trenta-quaranta: Leggieri Arturo, classe 1897, dai molti
mestieri e mansioni, ma ruotanti tutti attorno a quella di fabbro ferraio, mestiere ereditato dal padre, («Pepu
Finulèn», di cui si dice fosse un bravo ed esperto fabbro, morto nel 1943).
Tipo molto singolare: dal linguaggio bislacco e incomprensibile dove non trovava alcuna dimora la lingua
italiana. Fra le sue espressioni famose, passate alla storia ne citiamo solo alcune: «Acqua manca, pompa tira
mia...» «Fatto culo nuovo alla padella della siura Nina»... «Gussato marasso» (e qui spieghiamo che voleva dire
«arrotato un'ascia per potare»); «Messo culo a vecchia "caterina"» (cioè stagnato una vecchia padella). E per
spiegare che un gatto gli aveva rubato un salame appeso al travetto sbottò con: «Gatèn taci só, salamèn cucmal».
E per comunicare al Sindaco che il tetto della Rocca presentava un buco lo avvertì che c'era... «il tetto da
coppare».
Di una semplicità disarmante, aveva l'animo di un bambino.
Fra i lavori di cui si diceva sopra, aveva anche l'incarico della ricarica dell'orologio della Rocca: tutte le sere, con
passo da... carnefice... plaff, plaff, verso le ventitre, saliva la lunga scala che porta al campanile a girare la
manovella. Doveva anche suonare il campano-ne nel periodo delle scuole, per il richiamo dei ragazzi, tutte le
mattine. Si dice lo facesse volentieri, questo lavoro, perchè (così dicevano i maligni) non era... solo: con lui vi
erano i piccioni torraioli, dei quali ogni tanto, qualcuno aveva bisogno di... cure speciali, per cui era... ospitato in
casa sua, in cucina...
Un lavoro che gli rendeva abbastanza era quello di... produttore di bare di zinco (che andavano a rivestire
internamente quelle in legno, fatte da «Minghèn»), fatta la bara aveva poi il compito di saldarla, una volta
collocatavi la salma. Si racconta a questo proposito un aneddoto, non si sa bene fino a qual punto veritiero,
secondo il quale, al buon Arturo, mentre sistemava per bene il povero estinto, prima di saldare la cassa, gli cadde
il cappello dentro la bara; e, per timore, o pregiudizio non lo tolse, mise il coperchio di zinco e saldò la cassa. Era
un cappello quasi nuovo (precisano i soliti maligni). Al funerale la gente Io vide piangere e si chiedeva se per caso
fosse uno stretto parente, del defunto. Niente di tutto questo: «Al crida parchè l'ha lasà 'l capel nòv in d'la casa»,
qualcuno spiegò.
Anche la Carolina, la sorella di Arturo, merita una menzione speciale: era la sua aiutante, la «segretaria» nella sua
nera bottega... «Carolina, mèrca: messo un dado con l'arparella»...
I Leggieri, una stirpe che se n'è andata. Finulèn è uno stranome che non si recita più, da oltre vent'anni, da
quando è morto il buon Arttiru, lasciando la Maria, sua moglie (sposata a Polesine nel '25) e due figlie, trasferitesi
da tempo.
BÀFOLI
Era un altro personaggio bussetano che apparteneva al popolo.
Abitava nell'Impianellato, una strada che ha visto tante vicende allegre e disinvolte con gente, come abbiamo già
visto, piena di risorse. La chiamavano «la via dal mànag», anche se non tutti i bicchieri avevano il manico. Il
nostro Bafoli (al secolo Porcari) aveva iniziato la carriera come calzolaio, con Ugolini a Vidalenzo; poi...
intraprese la strada del muratore, dopo aver rimestato per anni la calce... «cum la sapa».
Si era sposato con la sua Pierina, donna sempre in casa, discreta e modesta ed aveva avuto cinque figli: Armando,
«Mondo», Nello, Eva e Lina.
Figura caratteristica, Bafoli, di una generazione ormai estinta: col sigaro in bocca, la sporta della spesa che
penzolava giù, sotto il tabarro, e nella sporta l'immancabile fiasco del vino, quel benedetto nettare nel quale si
rifugiava spesso.
La sua compagnia, manco a dirlo, era la solita, Pirèn Parìs, Gumasu, Michel e via discorrendo. Perchè era
chiamato Bafoli (nome che ha lasciato in eredità ai figli), ce lo spiega lo stesso «Mondo»: quando, ancora giovane,
abitava a Roncole, dopo una corsa in bicicletta alla quale aveva assistito, un corridore di nome Bafoli, che aveva
rotta la sua bicicletta, per la rabbia l'ha svenduta per poche lire e lui l'ha comprata. Da quel momento è divenuto
lui stesso«Bafoli»
È morto a 83 anni, nel 1970.
BALALÒN
Era il padre di «Luigèn», della Lina, della Giovanna e del povero Gildo. Crosali Lino. La famiglia Crosali è una delle
più vecchie della nostra cittadina; una dinastia che non accenna ad estinguersi, a differenza di tante altre. Balalòn
era nato, quindi, a Busseto nel 1884, da Daniele (nome che ricorre spesso nella genealogia dei Crosali l'ultimo dei
Daniele è il figlio del simpatico Luigi) mentre la madre si chiamava Lodigiani Palmira (altro cognome bussetano).
Lo strano-me, si dice, deriva dal modo di camminare, dondolante, ma i famigliari ci assicurano che era il suo
modo di chiamare il pallone, «al balalòn al balòn» quand'era ragazzo.
Il nostro personaggio aveva sposato Bonatti Ernesta; faceva il muratore, mestiere ereditato dal padre, ed abitava
anche lui in Coda-lunga; poi si è trasferito in via Piroli, quindi alle Case popolari.
Il padre del nostro Balalòn, Daniele, classe 1861, ha lavorato anche alla villa Verdi, come muratore, chiamato dal
fattore di Verdi a fare alcuni lavoretti. Pare che abbia avuto modo di vedere e parlare con il maestro. E sono
arrivati fino a noi alcuni aneddoti al riguardo, o, quanto meno, alcuni aspetti, atteggiamenti del maestro stesso;
del suo modo di godersi la libertà senza tante complicazioni, soprattutto del modo assolutamente democratico di
trattare, parlare con gente del popolo.
Pure muratore era il fratello Pirèn, detto anche «Pulidrèn» (Giuseppe, all'anagrafe), padre di Paolino, il taxista
degli anni trenta-quaranta. Abitava anche lui in Codalunga; come suo fratello amava le spremute... d'uva, mentre
la moglie, l'Emilia vendeva il latte (assieme alla sorella di lei, la Maria) quando si usavano i misurini del
«mezzolitro» e del «quarto», riempiti fino all'orlo, ma pieni non erano mai, causa uno strano tremore della
mano...
Balalòn è scomparso a 71 anni, nel 1953
BALDRIG (e la 'VGENIA)
Faceva lo stagnino e il lattoniere in Cualonga nella sua bottega scura e fumosa, accanto a quella della `Vgenia, sua
moglie, la quale vendeva poche cose, le più necessarie per la vita quotidiana delle numerose famiglie del
quartiere: lo zucchero, la farina, la marmellata, la pasta, tutta merce sfusa, e noi ragazzi di un tempo guardavamo
con ammirazione com'era brava la `Vgenia a fare i cartocci.
Ricordiamo che aveva le caramelle «ad pum» e il formaggino «Bebè», quello triangolare... e poche altre cosucce
che potessero servire alle massaie, come le spolette, le scope ecc. Due persone miti e silenziose, buone. Alberto
Beldrighi e Saggine Eugenia, all'anagrafe, ma semplicemente Baldrig e la `Vgenia. Avevano due figli, Gino ed
Enrico, entrambi suonatori, il primo addirittura «viola» nell'orchestra del Regio di Parma, mentre Enrico discreto
batterista nei complessi del dopoguerra, era tipo alquanto singolare.
BARABASCHI PAUL (al frarèn)
Lino Crosali, detto Balalòn, bussetano fino al midollo
Paolo Barabaschi, classe 1912, nato a Busseto (da Giovanni e Borra Linda) si era sposato con Nella Battistini.
Dinamico, estroso intraprendente, sportivo. Un vero moto-perpetuo. Suo mestiere più impegnato era quello di
meccanico di cicli, ma ha fatto anche il garagista, il benzinaio, il gommista e l'operatore di macchina nelle sale
cinematografiche al «Pellico» di Busseto ed anche a Cortemaggiore. Appassionato sportivo, giocava nella squadra
di calcio locale nel ruolo di portiere, anche se non era certo un... granatiere.
Era capace di andare in bicicletta fino a Celle Ligure (oltre Savona) alla casa «Olmo» a ritirare una bicicletta
nuova (da vendere): se la caricava sulla spalla e faceva ritorno, sempre in bici; spirito della passione per il pedale,
ma anche della necessità (questo, infatti, succedeva in tempo di guerra). Era stato lui a lanciare la moda del
tandem, la bici per due: visto che possedere una bici era un lusso, lo noleggiava ai giovani che volevano recarsi a
Po, la spiaggia dei poveri.
Aveva costruito il capannone-garage, in via Ghirardelli, su terreno che era di Bocchi, con tanti sacrifici e grande
volontà. Quei due platani che ancor oggi dominano la piazza Matteotti, li aveva piantati il nostro «frarèn», così
era comunemente chiamato, per poter lavorare all'ombra quando gestiva il distributore di carburanti. La sua
famiglia non era di Busseto: si era trasferita, da Cortemaggiore, nel lontano 1907. Paul aveva un fratello, Pinèn,
costretto su una carrozzella, ma sempre di buon umore e amico di tutti, e due sorelle, Nora e Maria, che
lavoravano al bottonificio Cannara.
Paul, al frarèn, seguendo la sua indole di uomo sempre in movimento, si trasferì,nel 1958, a Genova, non facendo
più ritorno in «patria». Ma la sua stirpe continua con Gianni, suo figlio.
BARATTA
Paul Barabaschi (l'ultimo a destra) nel glorioso «Busseto» degli anni trenta.
I superstiti della foto sono «Binidèn» e «Plinio» Bergamaschi
Liquidare con poche parole questo signore, questo tipo pieno di estro, è sicuramente opera improba. Descrivere
il suo carattere, la sua indole, le sue passioni, i suoi hobbies sarebbe troppo banale, scontato, visto che tutti i
bussetani lo conoscono (o almeno pensano di conoscerlo) e sanno come la pensa, sulla storia di Busseto e su
Verdi in particolare.
E allora abbiamo creduto interessante sapere da lui stesso chi è Lino Baratta. E lui, eterno sognatore che si affida
alle stelle, si riconosce nel segno zodiacale dell'Ariete dominato da Marte: uomo leale e generoso, ma vuole la
luna, passionale, ottimista, anticonformista (mezzo anarchico, si definisce addirittura); battagliero, ha bisogno di
rapporti eccitanti; dalle liti trae le sue energie, è indipendente ma odia i lavori ripetitivi, è quindi imprevedibile e
predilige le posizioni direttive. Non per niente nella sua vita è stato Preside di una scuola (a Cortemaggiore) e
mezzo dirigente di uno zuccherificio.
I Baratta sono, originariamente, montanari che pascolavano le greggi (e questa provenienza, il nostro
personaggio, la sottolinea apertamente), che d'inverno venivano nel piano, trovavano moglie e la portavano in
montagna. I suoi antenati diretti, però, non seguirono questa prassi, rimasero in pianura e il nostro Lino si è
ritrovato a Busseto; dopo gli studi tecnico-agrari e il Conservatorio, la sua maggiore attenzione si è rivolta alla
sua «salsamenteria storica», che dirige con innata perizia e che ha reso famosa addirittura a livello
internazionale. Ma questo i bussetani non hanno bisogno di scoprirlo. In bottega, al banco, non lo si vedrà mai,
qui comanda la moglie, la signora Anna Maria (Magnani di cognome), mentre il nostro Lino è addetto alle
pubbliche relazioni, ad intrattenere, anche per ore, i clienti-turisti, giornalisti, operatori di TV anche estere,
attratti da questa bottega-museo. Lui li intrattiene e li ammaestra dissertando non solo sul «suo» Verdi
piacentino, ma anche su storia, arte, musica, mentre in sottofondo, scorre sempre qualche aria verdiana.
La sua viscerale avversione a tutto quello che è e parla di Parma è sintetizzata appunto nel Verdi «piacentino» e
nel formaggio «reggiano». Insomma un bel tipo davvero.
Ma lasciamo questo «filone» cultural-verdiano, e vediamo, piuttosto, un altro Lino Baratta, il tecnico, con questo
episodio, del tempo dell'ultima guerra. Egli era stato incaricato dal Comando Tedesco di stanza a Salsomaggiore,
di costruire un ponte per il passaggio dei carri armati, davanti alla Villa Verdi; un guado, quasi, nell'Ongina,
perchè i carri potessero varcare, senza danni, il profondo torrente. Si era dopo 1'8 settembre ed i lavori
dovevano essere eseguiti senza tanti spiegamenti di mezzi tecnici, senza dare nell'occhio, insomma, a «Pippo»,
che volava di continuo sopra le teste.
Con poche attrezzature, dunque, senza «masabèk»; i tronchi d'albero, «al guci» dovevano essere piantate sul letto
dell'Ongina come si faceva per i pali dei filari, a braccia e il tradizionale «sdel d'acqua» dove occorreva. Gli operai
erano prelevati fra i civili, della «Todt». I tecnici dell'operazione «ponte» erano Accorsi, Michelazzi e lo stesso
Baratta che era direttore dei lavori.
Il problema era trovare il legname giusto per farne.. «al guci» da conficcare nel terreno. Il comando tedesco non
voleva perder tempo e l'aveva individuato nelle piante della Villa Verdi, le più vicine.
Ma Baratta, srotolando i disegni come uno stratega di guerra, con tutta la sua fantasia e, occorre dirlo, il suo
coraggio, tergiversando e usando atteggiamenti da esperto conoscitore di legname adatto alla bisogna, non esitò
a contestare la scelta fatta dai tedeschi e sentenziò: No... no, queste piante non andar bene! ... Al Po ... piante al Po.
Così il cantiere si trasferì vicino al grande fiume e si fece razzia di alcuni pioppeti di poveri, malcapitati
agricoltori che non vennero mai risarciti del danno loro arrecato. Si cóstruì così il ponte, un'opera... ciclopica
tanto sicura che... bastò una semplice piena dell'Ongina per trascinare tutto a valle.
(Durante i lavori stessi si scóprì che sull'argine sinistro del torrente, dalla parte della Villa del Maestro Verdi,
questi aveva fatto erigere un muro di contenimento e di sicurezza in caso di piena del torrente e, si presume, che
su di esso vi fosse appoggiato il ponte, la passerella fatta costruire dallo stesso Verdi e andata distrutta col tempo.
Inoltre, sempre davanti alla Villa Verdi, il Maestro aveva fatto installare una macchina a vapore per il
sollevamento delle acque dell'Ongina, per l'irrigazione. Ne fa fede il camignolo visibile appena al di là della siepe
in fregio alla strada).
Insomma, senza volerlo, i tedeschi avevano messo il nostro Baratta a contatto con il «suo» Verdi... piacentino.
BARBANDREA (o Cipriano)
Personaggio eclettico, brillante, dalla battuta pronta; un fiume di parole (anche se non tutte tratte dal... Vangelo)
accompagnate da gesticolazioni nervose e convincenti.
Stiamo parlando di Andrea Bianchi, ottimo maniscalco. Una grande passione per la musica e per gli strumenti:
bene col bombardino col quale ha brillato nella banda del maestro Massera ed anche nei complessi da balera, nel
doj)oguerra, estroso con la batteria meno bene col violino: famoso l'aneddoto dei... conigli: «Fabrizio, lascia stare
i conigli!» (gli ha detto un giorno sua madre). E lui, pronto :«Mamma, non sono io... è il papà che suona il violino!»
Era chiamato anche «Cipriano», si dice per via del vezzo che aveva da giovane di incipriarsi il viso quando andava
a ballare. Faceva coppia fissa con «Chicotto» (che bel «duo»), combinando un gioco di squadra: «Signorina dai
guanti bianchi, le presento Andrea Bianchi» esordiva Chicotto; e l'altro di seguito: «Signorina dal manicotto, le
presento Franceschin Chicotto». Amante della natura e dei frutti della terra era molto ricercato dai paisan.
Era nato, e vi è morto, in via Ghilardelli (1905-1987); anche i suoi (il padre Amilcare e la madre Bianchi Celeste
Maria), erano bussetani. Una leggenda vuole che in quella casa sia stato commesso un delitto del tipo di quelli
della famosa Cianciulli (la saponificatrice di Correggio che dopo aver consumato il delitto, faceva sparire le sue
vittime... ricavandone del sapone). Passando vicino alla sua casa, un tempo, la gente pronunciava una frase
passata alla storia: «Gnusgnus, ma'g sà 'd cristianus». Leggenda o realtà? Forse più quest'ultima se si fanno i
nomi, ancor oggi, dopo quasi un secolo: un certo Moia e un Bianchi fra le vittime (arrostite) e un tale Carapezzi, di
Cortemaggiore, indicato come il probabile Lucifero.
Tornando al nostro Cipriano, da giovane svolgeva un lavoro più leggero, faceva il portalettere; poi il fabbro e
maniscalco. Era molto bravo a battere il ferro incandescente sull'incudine da cui uscivano esemplari di ferri da
cavallo. Un ferro simbolo della fortuna, quella fortuna che, certamente non l'ha mai sfiorato.
BARBISON (al)
L'esperto maniscalco ferraio Andrea Bianchi, «Barbandrea» ripreso nella sua bottega dietro casa.
Era così chiamato per i suoi due austeri, arditi baffoni; e il senso spregiativo gli derivava dal terrore che incuteva
ai ragazzi, ai giovani, attratti in special modo dalla peschiera della villa Pallavicino della quale il nostro «eroe»
era severo custode-portiere.
Guai ad avvicinarsi al bordo della peschiera con la canna da pesca! Si chiamava Spotti Marcello, era nato a
Soragna nel 1912 ed era sposato con la Zelinda Bergamaschi. Si maligna che avesse doti (nascoste) di «Don
Giovanni» e che si sia dato da fare con un certo successo... Un Don Giovanni «cu'i barbis», insomma.
BARDÀN
Vanni Oberdan, detto Bardàn. Capostipite di una delle tante famiglie numerose accasatesi nel famoso
«Casarmòn» di Codalunga. A metà degli anni venti, quando venne in Busseto, proveniente dalle «Banzole» di
Samboseto, era stato assunto nelle «Tramvie Parmensi», insomma lavorava nel tram, con la qualifica ufficiale di
«deviatore tramviario», ma faceva un pò di tutto, dal magazziniere al «fughi-sta in 'd la machina da trenu» ecc.,
con ambizioni di divenire «macchinista».Un mestiere che lo gratificava e che svolgeva con impegno e serietà. Se
avesse studiato! Insomma,se fosse andato a scuola. Peccato perchè aveva una gran voglia di sapere le cose, di
leggerle. Così si accontentava di tenere in mano il giornale, «L'Unità».
Sostava spesso fuori dalla porta di casa (una volta in pensione) seduto, in contrada, in modo che sapeva vita e
miracoli di tutti. Quando transitava di lì il prevosto, Mons Picciotti, il nostro Bardàn, nascondeva il giornale dietro
la schiena e con l'altra mano, libera, salutava il parroco..«Bon giuran siur Prevost», con modi ossequiosi e gentili.
Un personaggio schietto, orgoglioso del suo lavoro e della sua famiglia che aveva messo su: la sua Peppina,
ancora presente con i suoi quasi novant'anni, pure se un pò «sagagnèda», e i suoi bravi figli ancora con lei, Rino,
la Liliana e la Maria, dopo la immatura scomparsa del buon Angiolino, e l'Angiolina, trapiantata a Parma.
«Fermar, Bardàn, ca sum in dal pantan!», una rima che lo divertiva. Era nato nel 1901 ed è morto nel 1956.
All'anagrafe risultava Oberdino; il perchè? Oberdan era un nome straniero a quei tempi, e l'autorità municipale
non lo aveva permesso. Che tempi!
Ma per i bussetani è sempre Bardàn.
BARDI GIACOMINO
Non aveva nessun nome speciale, era semplicemente Giacomino, uomo dinamico, nervoso, svelto nei suoi
lavori.Faceva il meccanico di biciclette prima in via Provesi, quindi in via Dordoni, Ghirardelli ed ha abitato anche
lui in via Zilioli, la Codalunga.
Sua caratteristica principale... soffriva di arsura per cui doveva piantar lì tutto e correre a bagnarsi il canalusso (e
le osterie non mancavano) lasciando la buona Fanny (la moglie - Tosi il suo casato), in bottega. Diceva che il vino
bianco «fa bene alla pressione alta», una cura che osservava con scrupolo, assieme alla ingestione copiosa di
aglio.
BARTÒLD
Al frèr. Arturo, il capostipite, nato a Zibello da cui provenieva nel 1930 con la famiglia. Aveva la bottega a
Frescarolo ma abitava in Busseto in Codalunga (tanto per cambiare). E tutti i giorni in bicicletta, con la sporta del
pranzo da consumarsi in bottega, si avviava con i figli (Omero, Giulio e Bartìn). E così per tanti anni; senza
clamore, con una costanza e serietà ammirevoli.
Era specializzato nel fare i cavatappi, i piantapali ed altri attrezzi e utensili di campagna; tutto a mano a forza di
fucina e martello. Una figura caratteristica che è restata nella memoria della gente. Aveva oltre ai figli maschi,
anche due femmine, la Carmen, bella ed avvenente, e Maria, entrambe andate spose di due forestieri, (la prima
era la madre di Angioletto Pistarino, ora in quel di La Spezia ma col cuore ancora qui).
Bartòld al vèch è morto a 76 anni, nel 1954.
BARNÈRD
Anche Barnèrd non era un bussetano di nascita (Pasetti Pasquale nato a Roccabianca nel 1870) ma era venuto a
Busseto dopo che si era sposato, nel 1911. Faceva anche lui il fabbro e la sua bottega è visibile ancora oggi, anni
novanta, in via Ghilardelli, in fondo a sinistra: un vecchio portone in legno nasconde uno stanzone affumicato
dalla fucina che una volta andava dalla mattina alla sera.
Barnèrd era una persona laboriosa e taciturna, tutto bottega e casa; sempre col sigaro in bocca (o la cicca) ma, a
differenza della stragrande maggioranza della gente di quei tempi, non era un bevitore e non andava mai
all'osteria. Era molto abile a forgiare il ferro caldo sull'incudine a colpi sicuri di martello e molti cancelli, i più
belli che ancora oggi si vedono (quelli che si sono salvati dalla campagna per il ... «ferro per la patria») sono stati
fatti da lui. Ha insegnato il mestiere oltre che ai figli (Enore e Luigi) a molti apprendisti, i «giùan» o «garsòn»
come erano chiamati.
Negli anni della vecchiaia, si vedeva spesso seduto, fuori dal portone, col sigaro in bocca, ad aspettare la sera. E
ogni tanto qualcuno gli ordinava ancora un lavoretto facendogli i complimenti per la sua «arte». Una volta si è
fermato il sig. Orlandi che gli ha detto... «Ehi, Pasquale, non ce n'è più di uomoni come voi». E questo (lo ha
sempre ricordato) è stato il miglior complimento mai ricevuto. Un'altra volta però fraintendendo un saluto a lui
sconosciuto, ne era rimasto molto turbato: il sig. Rusca gli aveva detto, accomiatandosi: «In bocca al lupo», un
augurio strano, mai sentito.
Barnèrd aveva anche due figlie la Maria e la Mina (chiamata ancora «la Mina dal frèr"), la prima trasferita presso
Milano mentre l'altra è ancora a Busseto, ottima sarta ora in pensione.
BATISTOTT «AL SOP»
Nardo Battistotti detto anche «al paròn», professione che indicava uno che accompagnava (meglio, si trascinava
dietro) le vacche al mercato-bestiame (un mestiere soppiantato da anni dagli automezzi appositamente
attrezzati).
Andava sempre scalzo ed era zoppo, poichè da ragazzo era finito con una gamba sotto la ruota di una barra. Di
famiglia modestissima e numerosa, era nato a Mortizza, (Piacenza), nel lontano 1874; la moglie Annetta,
anch'essa con un handicap (era leggermente gibbosa) andava al pascolo con le oche, pure se abitavano nel centro
storico di Busseto (in via Piroli): una casa bassa, tetra e umida. Una famiglia che ha sempre lavorato nell'ambito
dei quadrupedi e del macello: Afro, uno dei suoi tanti figli, si può dire che sia nato nel macello ed abbia trascorso
tutta una vita a macellare, squartare, spolpare, e vendere carne, di bassa macelleria ed anche carne equina in via
Roma, vicino a S. Ignazio, (aveva anche una gran passione, ed un certo stile, per il gioco del pallone: un ala
velocissima e lo chiamavano «la gazzella»).
«Al sop», detto «Rico», come tanti altri personaggi cresciuti nella miseria, aveva la dignità dei poveri: si racconta
di una volta che gli rubarono la vacca (mentre si era fermato lungo la via per Cremona, per fare un pisolino).
Convocato dai carabinieri, questi volevano trattenerlo per ulteriori indagini; ma Zani Alessandro, il macellaio, lo
scagionò da ogni accusa, giurando sulla sua onestà e garantendo per lui.
«Rico» era venuto nel bussetano ai tempi della prima guerra mondiale, nel 1915. Aveva avuto una nidiata di figli,
che crescendo, hanno saputo, col loro onesto lavoro, uscire dalla miseria e crearsi tutti una posizione più che
dignitosa. Sono però ormai quasi tutti scomparsi: Alberto, classe 1912, è deceduto in Russia durante l'ultimo
conflitto; Angiolino (marito della Verdiana e papà di «Richetto»), Argentino (marito della Danila Faroldi), Alfredo
(marito della Maria Cammi) e Paride sono mancati da pochi anni. Sono rimasti Luigi (Giòn), classe 1926 e Afro
del 1921.
Batistòtt «al sop», il nostro personaggio, se ne andò nell'immediato dopoguerra (1946), vecchio più dei suoi 72
anni, appesantito dal farcello di tanti sacrifici, fatti quando la miseria... si tagliava col coltello.
BERGAMASCHI GUIDO
Batistott «al sop»
Una famiglia di mugnai, partendo da Giovanni, detto Givanòn per la sua mole ed altezza da granatiere, ed
arrivando sino a Guido, visto che i figli di quest'ultimo (Giovanni, Loredana, G.Carlo e Luigina) hanno imboccato
altre strade.
Guido però, dopo aver svolto il lavoro di «baltèn»(crivellatore di frumento ed altri cereali) ed aver lavorato anche
con Manenti, si associò e fondò, assieme ad altri, la Carovana Facchini.
Figura tipica di uomo simpatico ed esuberante, con due grandi passioni: la bicicletta e la musica, assieme, (era
nipote del m° Cocchi insegnante di violino con il padre di Gino Nastrucci, Francesco, ed amico da sempre del
tenore bussetano Alessandro Ziliani).
In bicicletta faceva varie trasferte nei luoghi più disparati per seguire le imprese dei suoi beniamini, prima
Guerra e Girardengo, infine Coppi ed altri emergenti.
Simpaticissimo il suo modo di parlare: era infatti balbuziente, come il padre, ed a tal proposito si raccontano vari
aneddoti, «infarinati» anche dalla fantasia del «popolino», con simpatia e a volte con ricercata malizia. Alcuni
esempi:
Un giorno la moglie (la Dina 'd Cadnàs) lo pregò di comprargli un pezzo di formaggio da pasteggiare. Guido entrò
in negozio, da Bufót, e chiese... «Mmmmes chilu ad ffffffff ad ffffffff» Tentò più volte di far uscire la parola... Niente
da fare. Finchè, arrabbiato, sbottò: «Malat té e furmai, dam un ettu 'd pansòta»!
Un'altra volta , mentre aspettava all'angolo del «Sole», un forestiero si fermò nel crocevia, proveniente da
Roncole, e chiese informazioni per andare a Cortemaggiore. Il nostro personaggio, gentilmente, si dette subito da
fare per istradarlo; doveva solo dirgli di andare sempre dritto (verso Bersano). Ma anche in questo caso il
meccanismo lessicale si inceppò, subito, alla prima sillaba: «Sssssss... sssssss..., vot sssss» («vot» era un suo
intercalare, per questo era chiamato «vot-vot»). A questo punto intervenne in suo aiuto Ennio Tessoni che,
guarda la combinazione, anche lui non è che avesse la lingua molto sciolta. Di male in peggio. Un vero disastro.
Nonostante l'apparente disinvoltura, Tessoni non riuscì a pronunciare proprio nessuna parola completa:
«Sssssss... sssss...». Il malcapitato forestiero, più imbarazzato lui dei due premurosi cittadini, capì ugualmente, se
non altro per le istruzioni date... a braccia, che doveva andare diritto.
Le due figlie di Guido hano studiato e, dopo il matrimonio, si sono allontanate da Busseto. Al figlio Giovanni
(Gianni «Cudghèn») dedicheremo più avanti un breve «profilo».
Resta Giancarlo, che fin da ragazzo aveva manifestato la passione per il disegno (iniziando con Mario Magri),
passione che ha continuamente coltivato e che gli ha dato indubbie soddisfazioni come quella, ultimamente,
dell'illustrazione delle 27 opere verdiane delle quali si è interessato «Il Corriere del Teatro», una rivista
specializzata internazionale, oltre alla cassetta televisiva di M. Prawy, della televisione austriaca.
I Bergamaschi, «duri» di carattere, segnano forse la continuità del tipico «carattere bussetano», attaccati fino al
midollo alla propria città.
BERTO 'L CAMPANÈR
Allegri Roberto, nato a Zibello nel 1875 si era trasferito a Busseto néi primi anni del novecento, con la famiglia, la
moglie Censi Clementina, il padre Giuseppe e la madre Molinari Giuseppa. Una figura simpatica, gran lavoratore e
uomo di ingegno, serietà e onestà. Faceva il campanaro nella Collegiata di Busseto (prima abitava in piazza
Canonica poi si era trasferito in p.zza del Mercato, dove abitava con la Pina, sua figlia) ed aveva l'hobby di piccoli
lavori di precisione come quello di confezionare i caratteristici berretti a tre punte per i preti, «al brèti»,
rifornendo tutti i preti della zona. Aggiustava anche, (con un preparato fatto da lui stesso a «Berto 'l base, si
diceva, di mollica di pane), ogget- granda» ti di ceramica, statuine, piatti, bamboline, berto ecc.
Aveva sempre la «cicca» in bocca; e ne sa qualcosa chi scrive che si beccò una sputacchiata in pieno viso, un
giorno che, in corriera con i cantori, si andava in gita, e lui sputò fuori dal finestrino mentre il sottoscritto stava a
godersi l'aria fresca dal finestrino che seguiva.
Oltre alla «Pina» aveva anche due figli maschi, Carlo e Mario.
Aveva imparato bene anche a suonare a festa il concerto di campane, lassù sul campanile della nostra Collegiata.
Doveva salire tutti i gradini, «impiccare», cioè agganciare, le campane e collegarle ai tasti della tastiera che era
chiusa in una piccola garl'itta.
Un operazione che doveva fare molto spesso perchè le occasioni per suonare a festa erano frequenti. Per
imparare a suonare con i tasti, Berto faceva le prove in casa, dove si era costruita una tastiera delle stesse
proporzioni di quella originale.
Racconta la Pina che durante la festa di S. Bartolomeo, il 24 agosto, nella foga della sua esibizione, intonò un
motivo che non aveva niente a. che fare, con la festa e con la... stagione: aveva suonato «Fiocca, la neve fiocca».
Berto se ne andò alla bella età di 84 anni, nel 1959. I campanari di un tempo insomma hanno lasciato bei ricordi.
BIGHÈN (al)
“Berto ‘l campanèr ad la ciesa granda”
al secolo Allegri Roberto
Non si sa bene perchè lo chiamassero così. Era Archimede Ferrari, un cognome diffuso nel bussetano. La sua
famiglia era di Roncole e, trasferito nel capoluogo aveva aperto un negozio di salumeria in via Roma, angolo via
Pettorelli (dove c'è ora il Bar Commercio), a due passi dall'osteria di Ciupéla. Con quest'ultimo era legato da
amicizia soprattutto per il comune hobby della caccia, anche se più di una volta il carniere era floscio.
Di carattere brillante e spiritoso, faceva parte dei «carristi» del Carnevale; e il carro che più di ogni altro lo ha
appagato è stato «I sorci verdi», una esaltazione dei modernissimi aerei degli anni trenta.
Aveva sposato Linda Balestra, una bussetana, ancora fra di noi, mettendo sù urla bella famiglia di cinque figli,
tutti maschi.
Se ne è andato ancora giovane, troppo giovane per morire com'è morto, durante l'ultimo conflitto mondiale (nel
giugno 1944 a Bardi).
Così il suo nome è ora inciso sulla lapide dei caduti di tutte le guerre in Rocca, per la memoria dei bussetani.
BINIDEN
“Ciupela” e Bighen”… amici della lepre
Aristide Nizioli, al cavagnèn. Un mestiere tipico e pittoresco di una volta, ora soppiantato, o quasi, dall'avvento
della plastica.
I Binidèn era tutta una famiglia di cavagnèn. Aristide classe 1878, abitava contro la Villa Verdi, ... «al fnestri rusi»,
poi venne in centro a Busseto, prima in via Piroli, quindi in piazza Verdi vicino al molino di Nicoli. Ha tirato
avanti la famiglia, confezionando panieri, sporte, cesti e cestini vari nel suo laboratorio (si fa per dire)... a vista
per coloro che andando al molino passavano di lì.
Il nostro Binidèn si alzava prestissimo e, come primo impegno andava al Caffè Centrale dove ritrovava i suoi
amici del mattino: Bruno Vicini al furnèr, Nicoli al mulinèr, Ciupéla ecc. Sostavano davanti al Caffè, dopo aver
sorseggiato un grappino, facendo una breve rassegna delle ultime novità, le più fresche, quindi si rimboccava le
maniche, e via.
Amava fare una partita a carte, quando il lavoro glielo permetteva, passione che ha potuto tenersela quando era
già anziano ed aveva passato il testimone al figlio Enzo. Questi racconta che, per fargli uno scherzo, gli avevano
detto che suo padre, Aristide, era morto. Preoccupato ma non più di tanto, perchè il vecchio Binidèn era uscito di
casa un'ora prima, andò a colpo sicuro: era là in Cooperativa a fare la sua quotidiana briscola con gli amici.
Una simpatica figura, una buona famiglia: aveva sposato la sua Irma nel lontano 1905 ed aveva avuto sei figli,
Marino, Enzo, Elba, Gisella, Armando (questi morto a vent'anni di «spagnola») e Anna, moglie di Sergio Benassi.
BRAMON
Era Antonio Barezzi, non il suocero di Verdi, anche se potrebbe discendere dal suo ceppo. Omonimo del
mecenate bussetano così come la figlia Margherita (la famosa «Ghita», commessa di farmacia) omonima della
prima moglie di Verdi. Bramòn era del 1871. In pochi, oggi, si ricordano di lui, in quanto scomparso nel lontano
1921. Era il nonno materno dei «nostri» Dalmazio e Ferdinando, i fratelli «ghignari», in quanto la madre di
questi, Giovanna, trasferitasi a Sissa nel 1924, aveva sposato Valentino Besagni. Faceva il muratore il nostro
Bramòn, un mestiere molto comune, come comune era l'unico diversivo di un tempo, assaporare un buon
bicchier di vino. Ma Bramòn era andato oltre; riconoscente all'inventore di questo gustoso nettare, aveva coniato
con la sua vena poetica, una frase che diceva :«Benedetto colui che andò sotto la giga, e fece nascere quell'uomo
che inventò la vida».
Abitava in via B. Vitali, aveva sposato un'altra bussetana, come lui, Alzira Toscani (anche qui c'è aria verdiana),
ed aveva avuto oltre a Giovanna e la «Ghita», altri tre figli, Cristina, Alessandrina e Lamberto.
BRANDISIO
Nessuno sapeva il suo vero nome; si sa solo che proveniva da Villanova, che faceva il «parador de vachi», vale a
dire l'accompagnatore di vacche al mercato bestiame (come quella del «sop», Battistotti Nardo), e che si faceva
chiamare Brandisio. Aveva persino il biglietto da visita tanto andava fiero della sua professione, anche se non è
che navigasse nell'oro, anzi, il suo era un mestiere che ne suggeriva un'altro per poter mangiare tutti i giorni.
Viveva solo, ed era mezzo sciancato (aveva un piede girato all'esterno).
Una sera, a carnevale, il maresciallo dei Carabinieri gli ha chiesto chi era e dove andava. «Come, non sa chi sono
io?» rispose con tono quasi di offesa, aggiungendo: «Brando, Brandisio, parador de vachi!»; e, non contento,
concluse:«E... c'la staga luntan da me!». Questo a dispetto della sua povertà, che lui evidentemente non sentiva
addosso. Aveva dimora alla «stradassa» dai Concari.
Morì il giorno di Natale e si racconta che l'abbiano seppellito senza tante «litanie» o cerimonie: solo la
benedizione del prete, al cimitero, frettolosamente, e per bara, una cassa da morto... usata. Povero Brandisio!
BRIGENTI
Al solo nome, Brigenti, salta subito alla mente, naturalmente ai vecchi bussetani, il clarinetto e l'ocarina. Il primo
strumento lo suonava anche in un complesso a carattere... artigianale, ad esempio con il «Munchèn» (v.) mentre
con l'ocarina, che suonava, si dice, anche col naso, si divertiva e faceva divertire gli amici dell'osteria. Si racconta
infatti che un giorno, da Pumòn (v.), dopo aver allietato gli amici con questo simpatico strumentino, si allontanò
per un momènto, lasciando sul tavolo l'ocarina (non quella che aveva appena usato ma un'altra che sfilò
destramente dalla tasca), pensando che a qualcuno venisse la voglia di provarla. E così avvenne. Un amico provò
a soffiarvi dentro, sperando di trarne una variazione, ma ne uscì una nuvola di fumo nero che avvolse lui e gli
amici in attesa della suonata. Il birbante di Brigenti aveva riempito l'ocarina di nero-fumo, già pregustando le
risate che avrebbe fatto al momento clou dello scherzo.
E quando suonava il clarinetto, dopo pochi minuti, lo strumento sgocciolava... a «pisarola», a causa del vino
bianco che il nostro personaggio aveva ingerito: insomma come un alambicco. Tipo brillante: era sempre vestito
con braghe da soldato.
Si chiamava Donnino Brigenti, ma era semplicemente Brigenti. Classe 1888, piacentino di S. Pietro in Cerro, ma
bussetano d'adozione. Di professione fabbro. Tipo brillante, dunque, e di buona compagnia, era dotàto anche di
umanità e altruismo. Si racconta di lui che, prima di morire (è morto durante l'ultima guerra, nel 1942) volle
lasciare i suoi organi, praticamente quello che ci potesse essere di buono, perchè servissero all'Università di
Parma per laureandi in chirurgia (e questa, pare, abbia utilizzato gli arti inferiori del nostro Brigenti).
(GUIRÉN) BUFÓT
Nella nostra «galleria» non poteva mancare certo Guirèn Bufòt, un esemplare di perfetto salumiere all'antica:
rotondo e rubicondo, bonaccione, buono come il pane, che stava bene in compagnia e al quale si aggregavano con
piacere gli amici; e ne aveva tanti.
Era Buffetti Guerino, nato a Busseto nel 1885, coniugato con Borlenghi Aida dal 1916 (che era la sorella di
«Caronte la Nave»).
Aveva la bottega, stracolma di salumi e di roba varia, in posizione strategica, in piazza Matteotti vicino alle
scuole; una bottega pittoresca che profumava di buono attirando la gente che passava di lì. Ma il buon Guirèn,
appena avviato il lavoro in bottega per la sua Ida, si assentava con gli amici: a lui si aggregavano, a turno, i vari
«Gumasu al calsulèr, Lino Parìs, Fredo «Canòn», Bafoli, Dumenic Fuga-sa, Carlèn Fulcini, Pirèn Parìs, la «Pita»,
Turtlòt, Cècu 'l fiurista, Rumlòn ad la Guasona, Tony al pularòl.
Guirèn si riforniva dal suo negozio, di un pò di merce come culetti di salumi, furmaj cu'i begh, sanguinass,
pansòta, strachèn, tonno di fine scatola, marlùs e così via, e si ritirava con qualcuno di questi amici «dal manag»,
presso la vicina osteria 'd la Scalòta, o da Firmino Barós oppure a la Tratiiria 'd l'Arlòj, da la Marina. Facevano la
loro merendina-spuntino, naturalmente ben annaffiato, poi rientravano. Si dice che, per non dare troppo
nell'occhio, nascondevano sotto il tavolo alcune bottiglie (vuote). Ma alla compagnia spesso si aggregavano anche
Arnaldo Parìs (al papà d'Oscar), Ermete Rampon e Uglèn al calsulèr.
Che ridere... un giorno si fermò all'osteria «dal tre pèchi» (appunto «La Scalò-la») un ometto col "verticale", uno
di quegli organetti traballanti che capitavano ogni tanto ad allietare la gente e a rompere la monotonia e il
silenzio. Seduti fuori dall'osteria c'erano Mavrèn, la Pita Lelio, Michel e Gumasu, oltre, naturalmente a Bufòt.
Volevano che l'ornino suonasse un valzer col suo. verticale, ma quegli si rifiutò perchè aveva una gran sete; così
salì i pochi gradini ed entrò nell'osteria. I cinque bontemponi, per giocare uno scherzo al forestiero che si era
rifiutato di accontentarli, spinsero il verticale (che non era ancora modernizzato... era tirato a mano) in fondo alla
via, vicino alla cabina della luce (l'attuale, dietro il torrione del viale Repubblica). Il poveretto, al suo ritorno, non
vedendo il suo organetto trasalì: «Dov'è finito il mio carretto?». E quelli, di rimando: «Che caròt? L'um mija vist!»
Qualcuno poi gli fece notare che era là, in fondo alla contrada, ed aggiunse: «Ad g'arè mja dat al frenu!...»
Un'altra volta trovandosi al Bar della Stazione (appunto da Firmino), concertarono di prendere il treno: primo
«scalo» Fidenza. Giunti a quella stazione andarono allo sportello e chiesero...: «Tre biglietti per Milano». «È
appena partito» si sentirono rispondere dall'addetto. «Allora per Bologna»!. Questo breve dialogo insospettì il
vigilante della polizia ferroviaria il quale, esperto del mestiere, anche senza ricorrere al «palloncino» constatò
subito trattarsi di evidente... sovraccarico per cui fece fare ai tre amici marcia-indietro.
Ma torniamo in bottega, dalla siura Ida ad Bufòt: un tipo tutto speciale: non molto alta ma robusta e ben pasciuta,
la vera figura di bottegaia. aveva la passione del sigaro nei pochi spazi di siesta e, qualche volta, rischiava anche
la pipa. Sia lei che il marito erano generosissimi: lui era chiamato «il papà dei poveri» nel senso che non rifiutava
di dare aiuto anche ai forestieri, ai poveri di passaggio, oltre che alle famiglie in difficoltà, ed erano parecchie...
Guirèn era anche brillante e divertente in bottega, con i clienti... «Tri par sèt vintòt... dagal par vintisinc, Ida!».
Un tipo che rimarrà nella storia popolare di Busseto; un modo di vivere assolutamente scomparso.
«Guirèn Bufbt», davanti alla sua salumeria, presenta la prossima vittima, che finirà nelle... ragnatele ché ha alle spalle
BULOGNA
Di lui non si conosce il cognome; anche lui abitava nella contrada più... movimentata, l'Impianellato. Si racconta
un episodio che gli è capitato quando c'era ancora la Pretura a Busseto; Era stato denunciato perchè si era
impossessato (udite, udite) di «una snèda d'ila», cioè aveva fatto uno spuntino con alcuni grappoli d'uva, durante
una pausa, mentre pescava nell'Ongina. Era stato «al campèr» ad la Galinèra, al Dott, a sorprenderlo in flagrante
e, rincorrendolo, aveva avuto modo anche di affibbiargli qualche «ghèga» sulla schiena.
E così, davanti al Pretore, si giustificava: «Siur Pretur, porca miseria, ghèva fam e sum andà in dal filagn a catè un
grap d'iia; al campèr al m'ha vist e 'l m'é curì dré cum un bastòn; e sò na ghèga, e pò n'ètra ghèga». Il Pretore, che
era un forestiero, gli ha chiesto: «Ma signor Bologna (il denunciante non sapeva il suo vero nome), cos'è la «
Ghèga». E lui: «Na strènga, siur»! E quello, ancora: «E cos'è «Na strènga»? «Ma, siur Pretur, (ribattè quasi
incavolato l'imputato), na bacarlèda, una bastonata, una legnata; al capì adèsa»?E così avvenne che il nostro
«Bulogna», da quel momento, venne ribattezzato «Ghega».Pare che, dopo questo fatto, gli amici di «BulognaGhèga» si siano... vendicati incendiando la casotta del «campèr».
BULSÒN
Bolzoni Umberto.
Popolarissimo personaggio anche se non era un bussetano del sasso. Era nato, infatti, a S. Secondo nel 1885 e
solo nel '22 era capitato a Busseto (a proposito di questa data, non ci pare più un caso che molta gente agli inizi
del regime fascista abbia... cambiato aria). Era un caratteristico e singolare venditore di formaggio in piazza. Un
banco semplicissimo, scoperto, (allora non c'era ancora l'«u esse elle!»), quasi sempre deserto. Ma il buon Bulsòn
non si scoraggiava: «Uno alla volta, uno alla volta, per carità! », gridava, per far notare che c'era anche lui, al
mercato. Naturalmente il vero «Parmigiano Reggiano» non sapeva cosa fosse. «Tata roba 'd seconda, o tersa, tata
ratatuia» che comprava la povera gente, quelli che volevano spendere poco. Ma, insomma, il buon Bulsòn se la
cavava discretamente. «Un gran bon om». Rimasto vedovo della Ninfa Bottazzi, che gli aveva dato Felice e
Virginio, sposò la sorella di lei, la Ludovina, una buona donna che voleva essere emancipata: «Venite utero»
diceva, quando chiamava a se i due figliastri. Abitava vicino al passaggio a livello per Fidenza (l'attuale Villa
Silvotti) e si era «fatto» anche il camioncino per il trasporto della sua merce. Oh, a pruposit; ghe l'episodi ad
Pisigòn, Luig, quand l'e 'ndà a Pèrma cum Bulsòn, cu'l so camiunsèn.
«Guida te», al ghèva dit Bulsòn a Pisigòn. E questi partì. Prima, seconda, térsa e quèrta. «Oh, ma't vè fort!» gli ha
detto Bolzoni. E lui: «Beh, l'ho misa in quèrta», rispose Luig. E quelli, sorpreso: «Oh... g'hala anca la quèrta»?
Bulsòn campò fino a 73 anni, fino al 1958.
CADÈN
Uno stranome che, questa volta, è solo un diminutivo di Riccardo, Felice Riccardo Azzolini per la precisione. Era
nato a Soarza nel lontano 1860 ed è morto a Pieveottoville nel 1941.
Era portiere-usciere del Comune di Busseto, a cavallo dei due secoli: anche per questo è divenuto popolare e
famoso. «Il segretario e il portiere del Comune sono quelli che comandano», diceva lui stesso. .
Il suo incarico, il suo vivere fianco a fianco col segretario e col sindaco, lo portavano a conoscere vita e miracoli
del comune stesso ed aveva così una certa influenza sulle autorità e la fiducia dei cittadini. Questi, infatti, si
rivolgevano a lui, a Cadèn, per qualsiasi commissione, informazione, notizia di ogni genere. Un lavoro che
svolgeva con serietà ed impegno e con un certo sussiego.
Aveva sposato Adelina Gagliardi ed aveva avuto sette figli, di cui tre morti ancora infanti. Uno dei figli, Carlo,
avviatosi alla vita sacerdotale, divenne Vicario vescovile e parroco di Pieveottoville (Mons. Carlo Azzolini, morto
qui a Busseto da non molto tempo), la figlia Luisa sposò il prof. Almerindo Napolitano (dopo essere rimasta
vedova del maestro Pignagnoli), un'altra figlia, Gina, andò sposa al geom. Saporetti di Fidenza e Ginevra visse col
fratello in parrocchia.
Cadèn andava orgogliosissimo di aver conosciuto personalmente il maestro Verdi attraverso, appunto, il suo
incarico di portiere del Comune. Il primo incontro lo ebbe quando andò a riceverlo alla stazione ferroviaria (e da
lì, il maestro ritornava a S. Agata con la carrozza). Cadèn portava un berretto di servizio con le iniziali P.M.
(portiere municipale) e Verdi, scherzosamente (cosa che faceva raramente) ebbe a commentare, fingendosi
allarmato: «Ma come... mi avete mandato un "Porta Morto"»?... insomma, un becchino.
Alla Villa Verdi, poi, Cadèn ci andava spesso, sempre per servizio; fra i tanti incarichi aveva anche quello della
consegna a domicilio dei telegrammi. E quando gli capitava un messaggio indirizzato al maestro lo faceva molto
volentieri, anche se doveva andare a S. Agata a piedi: innanzitutto per la venerazione che aveva verso l'illustre
personaggio ed anche perchè questi era generoso e gli dava ogni volta, come mancia, cinque centesimi. Si
racconta che una volta Verdi, non avendo tale moneta gli diede dieci centesimi. La volta successiva, il buon
Cadèn, dopo avere recapitato il telegramma, stava lì ad aspettare... la lauta mancia, ma si sentì raggelare quando
il maestro Verdi gli ricordò che... la doppia mancia dell'ultima volta era solo un «anticipo». Un episodio che
conferma la buona, ottima memoria di Verdi e la sua precisione nelle cose. Cadèn era anche un intraprendente
organizzatore: questa sua dote la rivelò soprattutto in occasione dei festeggiamenti per il centenario della nascita
di Verdi, nel 1913. In tale occasione aveva fatto stampare, insieme ad alcuni amici, quella famosa cartolina verde,
ancora oggi in circolazione in pochissimi esemplari e perciò pezzo pregiato e ricercato dagli appassionati
verdiani e dai collezionisti di cartoline, insieme alle copie di tanti manoscritti del Maestro e dei suoi documenti.
La foto di Cadèn la si può vedere nelle prime pagine di questa «galleria» nel gruppo degli impiegati «comunali».
CAGNÓL
Fra i personaggi bussetani più stravaganti va certamente collocato Cagnól, che non è uno stranome, questa volta,
ma semplicemente il suo cognome, adattato al nostro dialetto. Cagnoli Antonio nato a Busseto da madre pure
bussetana, mentre il padre, Pietro, veniva da altri lidi parmigiani. Era nato nel lontano 1858 per cui pochissimi
bussetani d'oggi lo ricordano. Persona schietta, aperta e spiritosa, che sapeva il fatto suo. Aveva iniziato come
maniscalco apprendista, ma poi si era dato al commercio: ambulante fruttivendolo. (E lo vediamo posare,
seriamente, accanto al suo tradizionale carretto carico di cocomere, in una foto scattata prima della grande
guerra '15-'18). Dotato di ingegno e abile nell'arte di vendere all'incanto (cioè all'asta) e con lotterie oggetti e
merci varie, a volte con nascosti meccanismi (così dicono i maliziosi) che lo portavano a fortunate combinazioni
in suo favore.
Era un abilissimo fischiatore e questo suo caratteristico modo di richiamare l'attenzione veniva usato non solo
per vendere la sua merce, ma anche a volte per scherzare.
Abitava in via Pettorelli ed aveva sposato la Desolina Cassi, di S. Secondo.
CALVI
Allo stato civile era Belli Alfonso, fu Antonio; un casato bussetano, da diverse generazioni. Era nato nel 1873 ed
aveva sposato la famosa Renata (v.). Calvi (pronuncia Chèlvi) era una delle più brillanti macchiette bussetane,
sempre pieno di trovate spiritose, burlesche.
Anche lui faceva il facchino... di piccolo cabotaggio, vale a dire di roba leggera, che trasportava con il suo carretto.
Aveva anche il compito di andare a prendere il latte per l'Emilia 'd Cualonga, col caratteristico «carót dal lat». Si
alzava prestissimo e già a quell'ora era in vena di scherzi: «Doni, ghe ttitt al galèni in strèda»!, gridava di buon
mattino; oppure, picchiando i piedi per terra, avvertiva: «Ghe un cal ad neev! », anche se si era in primavera
inoltrata.
Era capace anche di scherzi: il più «macabro» che giunge fino a noi è quello del «fantasma al Paradiso» (dopo la
morte di una sorella in circostanze tragiche) Scherzo conclusosi con la decisione del nostro Calvi, di cambiare
aria, di partire per l'America.
Solamente che, giunto a Genova, fece un pò come capitò al famoso «Maradèn» («Uccelli in aria, pesci in mare e...
Maradèn par tèra»), sicché girò i tacchi e ritornò a Busseto. Si racconta che si presentò subito alla sua Renata, che
trovava al veglione in Teatro Verdi. Questa, appena vistolo, lo apostrofò bruscamente con una frase che restò
famosa: «Set bèle ché?».
Povero simpatico e buon Calvi! Se ne andò finita l'ultima guerra, nel 1946.
CANÒN
“Taglio rosso”
Alfredo Varani, una simpatica figura, conosciutissima anche e soprattutto per aver vissuto in mezzo ai bambini, ai
ragazzi. Era il custode delle Scuole ed era inoltre addetto ai bagni pubblici (che erano ubicati nelle stesse scuole,
al piano terra) un servizio, quest'ultimo, importantissimo per molti bussetani che non disponevano di ambienti
per... «dès na sgiirèda», almeno al sabato. I bagni funzionavano al giovedì e al sabato pomeriggio; si pagava cento
lire per fare la doccia e 150 per la vasca (usata da pochissimi). Un ambiente tutto particolare, rumoroso,
nebbioso per il vapore dell'acqua calda la cui temperatura controllata non tanto da termostati o congegni
elettronici, ma dalle capaci mani di Canòn. «Fredo, l'é fròda!» oppure «La scota!» gridavano i bagnanti da dentro
la garritta. E lui rispondeva «Bùfag sò!».
Era nato a Busseto nel 1894; si era sposato nel 1923 con Gemma Orsi ed era rimasto vedovo passando a seconde
nozze, a età già matura, con Maria Bruni. Abitava nel palazzo delle scuole, in piazza Matteotti e, una volta in
pensione, si era trasferito nel viale Pallavicino, nelle villette fatte costruire nel dopoguerra, per i mutilati. (Fredo
era stato appunto un combattente della prima guerra mondiale).
Uomo generoso e sensibile, aveva doti che nascondeva sotto un aspetto burbero. Non si è mai saputo l'origine del
suo soprannome, nonostante il figlio Bruno (figura di bussetano autentico che abita con la famiglia nel viale
Pallavicino) avesse tentato di saperlo. Si presume, comunque che gli fosse stato appiccicato per il gusto che aveva
di... spararle grosse, qui canòn!
Faceva parte di una brillantissima compagnia, quella di Guirèn Bufòt (v.); era questo il suo unico, irrinunciabile
passatempo.
CARONTE (LA NAVE)
Era così chiamato Borlenghi Alberto, nato a Busseto il 1858, falegname e, come secondo mestiere la «maschera»
(stracciabiglietti) al Cinema «Italia» quando gestore c'era ancora Furia. Era oggetto da parte dei monelli, di
scherzi per cercare di entrare «a macca»: gli porgevano biglietti... contraffatti o contromarche false, fatte in casa,
che lui non controllava, o faceva finta di non accorgersene.
Era suocero di Guirèn Bufòt.
CERU PATONA
Di professione sellaio, lavorava in una bottega bassa e scura in via Ghirardelli al n. 1 (dove ora c'è il Bar
Giardino). Una macchietta patetica, commovente: piccoletto, di una bruttezza rara, sordomuto per cui si
esprimeva in un modo quasi incomprensibile, nasale ed a scatti e sussulti.
Aveva il terrore dei carabinieri, e quando lo interrogavano chiedendo informazioni per via della posizione
strategica della sua bottega, si schermiva, chiudendosi a riccio e ripetendo: «Faccio lo scellerato (così chiamava la
sua professione), suta la ghirlandera»... vale a dire sotto la lapide del martire fascista Vittorio Bergamaschi, che
era proprio sopra il muro della sua bottega.
Era un bussetano autentico; nato nel 1876, si chiamava Guglielmo Tosi; il padre era Alberto e la madre Maria
Teresa Sgavetta, detta la «pallida» e che lavorava la tela, mestiere molto in uso il secolo scorso.
Non era sposato, naturalmente, e finì i suoi giorni, come tantissimi, al Ricovero di Mendicità, a 77 anni, nel 1953.
Era chiamato «Ceru patona», pare, perchè regalava la patona, il castagnaccio, al nipote Pino Pizzoni (una sorella
di Ceru, la Celestina, aveva sposato Luigi Pizzoni, padre di Lelio e di Guido, detto «la Pita»).
Era imparentato anche con gli Uriati perchè un'altra sorella, la Margherita, aveva sposato Ugo Uriati, padre di
Lino. Ceru Patona, aveva, come tanti suoi coetanei e colleghi, come amico un bicchiere di vino; e quando aveva
«caricato», acquistava voce e arroganza; insomma era come un modo di vincere la sua naturale, proverbiale
sudditanza verso le altre persone. Ed era capace anche di litigare, di apostrofare duramente il suo malcapitato
interlocutore (o interlocutrice) fino a dirle... «Lé, siura, la g'ha la lèngua sporca!»... Insomma... na bèla sàguma al
nostar «Ceru patona».
CHICOTO
Franceschino Rigoni, classe 1906: una figura emblematica, inconfondibile, quasi un'istituzione; si potrebbe
affermare senza alcun dubbio che Chicoto rappresenti la «maschera» di Busseto tanto è significativa la sua figura
oltremodo caratteristica. Ancora vivente è dotato di una conversazione brillante, spumeggiante ed amabile,
spiritosa e sorprendente per la sua straordinaria memoria: unico inconveniente per l'ascoltatore è quello di una...
doccia fuori programma.
Nato libero ha sempre vissuto da solo, arrangiandosi ma dignitosamente, in mille modi. Ha fatto il
rappresentante, l'artigiano, il venditore ambulante (con carretto e bancherella di varie cianfrusaglie sotto i
portici del Caffè Centrale); è stato anche in Africa Orientale, volontario, per fede e per necessità; ha lavorato
anche in campagna, ci ha confidato, con Remo Delindati.
Una delle sue più spiccate caratteristiche è quella di mangiatore eccezionale, dallo stomaco di ferro, capace di
sbalordire chiunque: in Africa, in un momento di crisi alimentare, ha mangiato tre chili di ceci crudi, fornitigli dal
«Cocu Bianchi». Un'altra volta ha divorato ben sessanta lumache. Su questo tema vale la pena raccontare questo
fatterello che chiameremo «I samaritani»: Insieme a Giannetto Cavitelli, Beppe Orlandi ed altri amici del «Pedale
Bussetano», era andato nel veneto a seguire un gara ciclistica; avevano mangiato in un'osteria e questa volta
Chicoto stette male tanto da preoccupare gli amici i quali lo dovettero addirittura lasciare sul posto, in
«deposito» all'oste; loro sarebbero ritornati più tardi a pagare «il disturbo». Al ritorno, quando già pensavano al
peggio, alle sue esequie, il nostro eroe non solo si era rimesso in salute ma aveva ripreso a mangiare... di tutto,
tanto che il conto era diventato astronomico. Altro che funerale!
In un'altra occasione si mangiò un intero tacchino mentre gli amici (che lo avevano invitato... «a mezza bocca») si
attardavano in chiacchiere. Quand'era rappresentante di pannello per il bestiame bovino, subito dopo la guerra,
per dimostrare la bontà del prodotto, ne mangiava come fosse torta salata. Divorava pesce crudo, appena
pescato, senza pulirlo. Mangiatore... pericoloso, quindi, ma commensale ricercatissimo, per la sua spiccata e
disinvolta capacità di raccontare esilaranti pantomine, grazie alla sua innata vena creativa. A. proposito di questa
sua dote c'è da specificare che da giovane si dilettava a fare l'attore, recitando anche a soggetto e suscitando
divertimento in ogni occasione. Qualcuno, ancora oggi, se lo ricorda nei panni di «Lucifero» al «Pellico», efficace
ed esilarante interprete. Faceva parte della Filodrammatica e negli anni trenta recitò «Il signore dalle scarpe
strette». Ottimo macchiettista che ha «battuto» diversi teatri in Emilia fino ad ottenere, nell'immediato
dopoguerra, a S. Andrea Bagni al Festival dell'Allegria, il primo premio assoluto su una trentina di partecipanti
provenienti da tutt'Italia.
Nella sua compagnia bussetana recitavano, a turno, la maestra Giovanna Stecconi, Lodovico Bianchi (al Cocu), il
rag. Cosimo Giusti, i figli del prof. Parolìn, i fratelli Cavatorta P. Luigi e P. Maria, Alberto Secchi, Rino Pessoli,
Poldo Ambrogi, Bruno Ziliani ed altri ancora, mentre la maestra Anita Scaglioni fungeva da suggeritrice (anche se
lui, Chicotto, se la cavava sempre con battute improvvisate). Ha addirittura cantato in un'operetta, con «Sandrèn
Ziliani».
Si può dire che era figlio d'arte: suo padre Egidio, era professore di fagotto (dava del «tu» al maestro Toscanini,
assicura lo stesso Chi-cotto). A proposito del soprannome ci piace riferire che a chiamarsi «Chicotto» è stato
proprio lui, il padre, e questo da «scoperte» d'archivio.
Tornando al nostro «Chicoto» c'è da dire ancora che, sempre negli anni giovanili, era una vera attrazione, un
divertimento per i frequentatori dei veglioni e delle «Balere», specie se era assistito dal suo amico «Barbandrea»
(v.) che gli faceva da «spalla».
Infine non si può sottacere sulla sua avversione a viaggiare in treno: preferiva l'automobile, essere
accompagnato da qualche suo amico. Anche se questa... passione gli aveva causato qualche inconveniente... Fra
quanti gli hanno dato un passaggio per i suoi viaggi a Milano, Chicoto ricorda con particolare riconoscenza, il
compianto Mario Zaniboni.
CICARLO
Il suo casato era Mazzera e Luigino il suo nome, bussetano da alcune generazioni, era nato nel 1886. Materassaio,
lavorava con telaio su appositi cavalletti e con due bacchette che batteva ritmicamente per cardare la lana;
lavoro che faceva con molta perizia ed abilità. Lavorava anche a domicilio, e quando era in «trasferta» indugiava
più del solito per venire a capo del suo lavoro. Inoltre le donne che gli procuravano il lavoro, nelle aie,
organizzavano diversi lavori in modo che restasse sul posto per diversi giorni. Questo anche per il fatto che
Cicarlo era una figura molto simpatica, di piacevolissima compagnia, dalle trovate amene, per il tono satirico e la
pronteíza della battuta. Inutile aggiungere che era anche lui un fedelissimo di Bacco; d'altra parte era il suo un
mestiere dove la polvere regnava. Quindi...
Al suono delle sue bacchette sul telaio, c'era da fermarsi ad ascoltare... sembrava un estroso batterista.
Partecipava al Corso Mascherato di Busseto, quand'era più giovane, e si racconta che un anno, quando la rivalità
fra paesi vicini era una quasi cultura, assieme alla sua combriccola era venuto alle mani con un gruppo di Zibello
per una dispusta sulla «paternità» del Carnevale: se fosse nato prima a Busseto oppure a Zibello.
Una figura indubbiamente particolare, amena e brillante, come dicevamo. Partiva in bicicletta col furgoncino
dietro con tutti gli attrezzi del mestiere, compresi i cavalletti e il tavolaccio su cui batteva la lana. E quando
tornava dopo una lunga giornata di fatiche, il suo umore variava a seconda della qualità del vino che gli avevano
offerto: se genuino, casalingo, tornava allegro e brillante, se invece beveva vino di osteria era piuttosto noioso e
poco disponibile.
Non era «nato» materassaio: da giovane aveva svolto diversi lavori, come «garzone caciaio» (come dire aiutante
casaro) e vetturale, con relativa carrozza e cavallo, mestiere che svolgeva sua sorella Luigia, detta «Gigiasa» (v.).
Aveva preso parte alla prima grande guerra e ne era uscito invalido in seguito ad una ferita riportata al fronte.
Cicarlo o Cecarlo: da dove era venuto questo strano nomignolo? C'è chi dice che derivava dal fatto che anche lui,
come tanti altri, amava ciccare, masticare il tabacco o il resto del «toscanino». Altri sostengono che esso
stranome viene dal rumore ritmico delle due bacchette che usava a cardare la lana... «cic-cirilik-cic ciak».
Il nostro personaggio ha sempre abitato in via Piroli (la cuntrèda 'd l'Uspisi), con entrata... di servizio in via
Dordoni, dove albergava cavallo e carrozza, i mezzi del mestiere di «taxista».
La moglie si chiamava Dina Bisoli e il figlio era Faustino, veterinario trasferitosi da molti anni a Bardi dove aveva
vinto un concorso di condotta veterinaria, ed ora in meritata pensione. Il nostro Cicarlo morì nel 1956.
Cicarlo, posa per il fotografo, in trasferta, a Bersano, davanti... all'Osteria di Marcotti.
CICHÈN (FÙMERA)
Perchè era chiamato Cichèn fumèra? Si dice perché portava gli occhiali in quanto vedeva sempre davanti agli
occhi la fumèra, anche in piena estate. E, si sa bene che, quando c'è un semplice appiglio per «battezzare» un
personaggio, i bussetani ne approfittano subito; e non lo lasciano più. Addirittura quel nomignolo si allarga, in
famiglia, a chi proprio non c'entra nulla.
E così è successo anche per Cichèn fumèra: chi ne ha fatto le spese è stato suo fratello prete, don Luigi
Baistrocchi, battezzato in seguito «Don Fumèra», etichetta che non gradiva affatto.
Ma tant'è. Vediamo che tipo era questo Cichèn. Intanto diciamo subito che era... allergico al regime fascista, fino a
rischiare di grosso quando parlava delle scorrerie delle camicie nere.
Era un bravo meccanico; era diventato il braccio destro di Facchini, nella fabbrica di Cannara, negli anni trenta;
poi, andato in pensione Facchini, è diventato capo officina.
Francesco era il suo nome di battesimo ma, naturalmente, nessuno lo chiamava così bene (forse solo il sig.
Cannara). Era sposato con la Carolina (Fasolini), che ha lavorato tanti anni alla fabbrica dei bottoni.
CINÈLU (o CINELO)
Chi gli avesse affibbiato questo soprannome è difficile dirlo, poiché non ha nessuna attinenza con il suo vero
nome che era Borlenghi Fabio. Ma questo stranome «vive» ancora, anche se Cinelu è morto da oltre 35 anni (nel
1957): la Tilde, sua figlia, è sempre chiamata «la fiola 'd Cinelu» anche se ha passata la settantina.
Una figura tipica di bussetano autentico (il suo lignaggio si perde lontano, di almeno due secoli). Simboleggiava la
razionalità, l'ingegno, più ancora, l'estro assieme a doti creative e disinvoltamente spiritose; ebbe una vita
travagliata, ma non si perse mai d'animo. Sarto di professione, padre di una famiglia numerosa in tempi duri
quando gli stratagemmi per arrivare alla fine del mese non si contavano più. Aveva perso una gamba, da giovane,
in circostanze drammatiche, ma questo handicap non gli pesava granchè: la necessità aguzza l'ingegno, si può
dire sia stato il suo motto. Così, da elettromeccanico e disegnatore divenne sarto, un mestiere più consono alla
sua infermità: per questo, dopo soli sei mesi dalla perdita della gamba partiva da Busseto per Parigi (addirittura)
per imparare il mestiere.
E, sempre per via dell'ingegno, del «fai-da-te", si costruiva in proprio la protesi, la sua gamba di legno e ne
costruiva anche per altri, insomma faceva anche l'ortopedico.
Sulla gamba di legno del nostro Cinèlu, sono nati un sacco di aneddoti, di episodi esilaranti. Come quello che... un
giorno, in motocicletta (lui dietro a suo figlio che guidava) passando accanto, un po’ troppo, ad un palo della
luce... zacc, via la gamba... quella di legno, per fortuna. Si racconta anche che il nostro eroe, andasse al cimitero,
dopo l'amputazione dell'arto, a portare un mazzolino di fiori sulla «buca» dove era sotterrata la sua gamba. Ma la
sua vita era piena di episodi curiosi, alcuni dei quali divertentissimi e... fantasiosi.
Come quello della capra che Cinèlu teneva nell'orto per fornire il latte alla sua Tilde quando era bambina (il dr.
Braga, che l'aveva in cura, le aveva proibito il latte di vacca).
Ebbene alcuni benedetti ragazzini pretendevano di mungerla a loro piacimento, continuando a molestarla: sicchè
si diceva che la pecora di Cinèlu non emetteva il classico «Beeeeee», ma, appena vedeva la vispa compagnia
avvicinarsi, belava in altro modo: «Ahiameeeeee».
Tornando alla sua gamba che non aveva più a volte scherzando diceva: «Ma spara tant c'la gamba chè... ». Gli era
stata amputata quando aveva circa vent'anni e non fu certo un'operazione tanto facile. Fu il dr. Manzi (v.), allora
Direttore del nostro Ospedale, ad amputargliela; un intervento che non aveva mai prima eseguito. Altri medici e
professori si erano rifiutati di intervenire asserendo che non vi era nessuna speranza, nessuna possibilità di
riuscita, vale a dire che le conseguenze sarebbero state addirittura nefaste. Ma il dr. Manzi non si scoraggiò e
nonostante le precarie condizioni della sala operatoria, senza anestesia e idonee attrezzature (aveva sistemato la
gamba fra due stecche di ghiaccio) era riuscito nell'intervento, e con esito felice; aveva avuto al suo fianco come
«assistente», il padre del giovane Cinèlu, Pasquale, che era infermiere nello stesso Ospedale di Busseto.
Si racconta che dopo l'amputazione i suoi amici, facendo una colletta, gli avevano fatto un regalo; e lui, più tardi,
dopo lo scampato pericolo, aveva regalato a sua volta un gingillo d'oro a Pèpu Sisula (Giuseppe Molla, padre
dell'Antonietta) e ai suoi amici «Busé» Delindati e un certo «Rusèn».
Era dotato di buona cultura, tanto lui che la moglie, Virginia Chiozza, sposata nel 1907 (avevano frequentato la
sesta classe, cosa rara a quei tempi). Aveva molta fantasia: raccontava le «fole» ai ragazzini, in contrada, la sera
dopo cena, favole create da lui stesso e raccontate a puntate, una specie di telenovela in primis. E i ragazzini, in
cambio, gli portavano qualche «buot ad tabac» per la sua fedele pipa.
Ha lasciato una buona eredità morale ai suoi figli: Carlo, Umberto, Aurelio, («Ghitèlo»), Clotilde e Canzio. E un
buon ricordo ai bussetani.
CIPELLI NICANDRO GIOVANNI
Il popolarissimo Cinèlo, in un pregevole ritratto a matita, fatto dal figlio Aurelio.
Non aveva stranomi particolari, forse perchè, trattandosi di un uomo sulla falsariga di «Ercole», nessuno osava
prenderlo in giro. Macellaio, nato a Villanova sull'Arda nel 1889; padre di Ido, Oreste e Giuseppe, tutti personaggi
divenuti notissimi in paese, anche se non necessariamente bussetani Doc. Era un bel personaggio, con due
baffoni come usavano allora. Era dotato, come detto, di una forza quasi brutale ed era un mattacchione. Un
giorno, da Pumòn, Cipelli, con un'ocarina in mano (uno scherzo.tipo quello di Brigenti) (v.), facendo finta di
soffiarci dentro, diceva che doveva essersi intasata. A questo punto interviene «al picèn» (un omino che
alloggiava da Pumòn e che lavorava nella nuova fogna che si stava realizzando a Busseto)... «fa vóda a me»! e
Cipelli gliel'ha passata con evidente soddisfazione, sapendo quello che gli sarebbe capitato. E che, regolarmente,
capitò, con risate da... spanciarsi (in mezzo a una nube di fumo nero).
Questa foto, scattata in via Roma nel 1932, ci «racconta» come veniva fatta la pubblicità- di un'azienda commerciale.
La premiata «Macelleria Cipelli» mostra la sua merce... viva.
Si riconoscono il titolare Nicandro Giovanni (coi baffoni, in secondo piano), i figli Ido e Oreste, accanto ai buoi, e molti bussetani
fra cui Valerio Butass, Pisigòn, Bruno Ambrogi, Angiolini, Carlino Mingardi e Ugo Patroni.
CITTADINO
Si parla di Fuochi Giuseppe, papà di Luigino, Attilio e Orlando. Era nato a Castell'Arquato nel 1875, aveva sposato
Caprioli Maria Beatrice e faceva il fornaio (dipendente) in via Provesi, nel forno di Moroni dove lavorava anche
Fragni.
Era detto così perchè lui asseriva di essere un «cittadino» e a chi gli contestava di non essere un bussetano
rispondeva che non era un «paisàn» come alcuni bussetani «puri» lo definivano.
CIUCHÈN
Dire Ciuchèn, a Busseto, viene in mente subito un vecchietto piccoletto, sordo e simpatico. era il campanaro di S.
Maria, era il marito della Clementa (la quale aveva un «butighèn» in piazza del Mercato, dove c'è ora la Dirce
pettinatrice). Si chiamava Benda Giacomo fu Luigi e Secchi Annunziata molto legato alla famiglia Secchi; era nato
a Busseto nel 1855 ed è morto nel 1935. Era un accanito ciccatore, come Berto al campanèr della Collegiata, ed
era abilissimo a centrare il bersaglio con uno sputo (per informazioni rivolgersi a Lino Rizzi, allora chierichetto).
Ma la fama, «Ciuchèn», se l'è guadagnata, per via della sua sordità: un giorno, i soliti «amici» mattacchioni per
fargli uno scherzo gli hanno tolto il battacchio della campanella della torre (alcuni dicono invece che il battacchio
si è sfilato cadendo nel sottostante orto). Fatto sta che il povero Ciuchèn (lo stranome deriva proprio da questo
episodio) continuava a tirare la corda della campana del «mezzogiorno», convinto che tutto fosse regolare; ma
era lui a non sentire che la campana non suonava.
Si racconta che gli capitò anche di cadere dal cornicione della chiesa, mentre puliva le vetrate cavandosela
miracolosamente.
CIUPÉLA
Ecco il famoso «Chiuchèn» al campanèr che saluta... in modo antico, davanti alla «sua» chiesa di S. Maria.
Una delle più vivide macchiette di Busseto: allegro, brillante ed ottimista, e «buono come il pane». Faceva l'oste
in via Pettorelli. «L'ustaria 'd Ciupela» era un ritrovo piacevole, brulicante di gente dove si davano convegno le
congreghe più spassose e mattacchione per cui il più delle volte chi ci andava di mezzo era proprio il buon
Ciupéla.
La pittoresca osteria del «Pesce fritto« ha fatto la sua storia a cavallo degli anni trenta-quaranta. Appassionato di
caccia, di lepri ne ha viste tante, ma impallinate poche, dicevano di lui: «Na grama volta» che riusciva ad
abbatterne qualcuna gli amici erano subito pronti a fargli uno scherzo.Una volta sapendo del buon esito della
caccia, qualcuno non visto, scese in cantina dell'osteria dove era già appesa e scuoiata la lepre, la prelevò e la
diede alla Desolina, sua moglie, perchè la cucinasse come sapeva fare bene; quindi l'allegra compagnia la mangiò,
con un invito particolare allo stesso Ciupela. Un'altra volta gli amici gli prelevarono la lepre dal carniere sostituendola... «cum na bisa d'acqua».
•
Che buon uomo il nostro Ciupéla! Il poveretto aveva però un terrore maledetto per le incursioni aeree: in tempo
di guerra, ogni volta che suonava l'allarme, di corsa scappava nei. campi del «Quadrone» e non di rado, così
dicono i soliti cattivi, la paura gli faceva un brutto scherzo... giù per i pantaloni.
L'altra sua passione era la musica lirica: spesso e volentieri cantava «Celeste Aida» o «La donna è immobile»
(sic.). Di prima mattina presto qualche volta lo si vedeva, con una fetta di... «pulenta surda», recarsi al Caffè
Centrale dal siur Pepino a prendere il caffè; scaldava la polenta mettendola sulla macchina del caffè, mentre
raccontava all'amico caffettiere le ultime birbonate capitate nella sua osteria la sera precedente.
Si chiamava Negri Paolino, era nato a Cortemaggiore nel 1887 ed era divenuto bussetano nel. 1930 proveniente
da Fiorenzuola. Aveva sposato la Desolina, donna energica ed operosa, paziente ma decisa all'occorrenza, morta
ultranovantenne solo pochi anni fa.
Amava gli animali, cominciando dal suo cane da caccia, anche se pare non gli desse molto, aiuto nella ricerca della
selvaggina. Si racconta che il nostro Ciupéla aveva fatto amicizia nientemeno che con una' ponga, che viveva
indisturbata nella cantina e che aveva... addomesticato. Tutte le sere, quando alle undici, ora stabilita, chiudeva
l'osteria, andava in cantina e dava da mangiare alla sua ponga bianca. Faceva questo, diceva lui, perchè così quel
grosso topo non andava a rosicchiare i salami e altra merce che teneva in cantina o appesa ai «travót».
Di Ciupela c'è ancora la testimonianza vivente delle figlie, Rina e Rosina, figure conosciutissime a Busseto, e del
figlio Luigino, orchestrale in pensione che vive nel piacentino.
Vediamo Ciupéla in una rara foto, insieme a «Bighèn» (v.).
CONT (al)
Contestabili Pietro nato a Busseto nel 1870, sposato con Bonatti Eugenia nel '94; padre di Maria e di Umberto di
professione muratore. Era un accanito ciccatore e spesso andava a trovare l'ing. Fanti in cerca di mozziconi di
sigari da riciclare. Con «Cinèlu» ed altri amici si racconta che ai tempi di Verdi, più volte aveva cercato di
convincere il maestro a passare con la sua carrozza in Busseto anzichè girare al largo dal centro: «Siur maèstar...
nuètar g'avrum bèn», dicevano, e con questo volevano dire che il popolo, la gente umile lo capiva e non gli
serbava alcun rancore per il fatto di non venire più a Busseto. Ma lui, Verdi, non volle saperne e, siccome quelli
insistevano, si dice .che una volta, abbandonato carrozza e cavalli Verdi ritornò a S. Agata a piedi. Un episodio che
potrebbe anche non essere reale, ma che testimonia l'atteggiamento della gente umile verso Verdi, lo spassionato
amore e la stima che avevano per lui.
CRANVÈL
Non era un soprannome e, il protagonista, non era un bussetano puro ma, attraverso la sua inusuale professione,
era diventato persona nota e arcinota in paese e in tutta la zona. Luigi Carnevali il suo casato ed era titolare di
impresa di pompe funebri, un'attività che ai suoi tempi a cavallo delle due guerre non era cosa da poco perchè
innanzitutto voleva dire possedere cavalli e carrozze, che venivano utilizzate a secondo del «grado» o della
«classe» del morto e quindi del relativo prezzo per il servizio completo.
Era nato a Roccabianca, il nostro personaggio, nel 1891, e la sua" famiglia si era trasferita a Busseto due anni
dopo. Qui a Busseto aveva un accanito concorrente in «Geti» Fulcini (v.) il quale cercava in tutti i modi di
accaparrarsi il «cliente» alzandosi di buon mattino per sentire le ultime «novità» sulla salute pubblica. Ma
Cranvèl era indubbiamente più attrezzato, ed inoltre aveva anche un aiutante, «Cavalotti», così chiamato per via
delle gambe piuttosto arcuate, come due parentesi, e si chiamava proprio Felice. Cranvèl aveva dunque un parco
carrozze di tutto rispetto: due carrozze nere, una per i funerali di «prima» con Cavalotti a cassetta, vestito di nero
con cilindro, e un'altra di «seconda» con il conducente seduto, là in alto, con coperta sulle ginocchia e frusta in
mano, vestito di verde scuro. Inoltre possedeva la carrozza bianca per il trasporto dei bambini, con altra «muta»
adatta per il conducente. Sicchè il povero defunto lo si definiva a seconda del lignaggio del casato: salma, oppure
morto o addirittura cadavere, con... buona pace per tutti.
CUDGHÈN
Bergamaschi Giovanni (Gianni... Cudghèn). Fin da ragazzo tipografo con Alberto Secchi e distributore volante dei
giornali a domicilio dei clienti, impegno assolto nei ritagli di tempo.
Per questo suo secondo lavoro, per la sua solerzia e il suo dinamismo divenne noto, tanto che su di lui qualcuno
ha pensato bene di... immortalargli queste poche strofe: «Quando passa - quando passa di buon mattino, il feroce
Cotechino, è la sveglia del paesino. Cotechino - cotechin dammi «La Stampa», dammi pure «Il Corrierino», la
«Domenica» voglio vedere, le notizie che porterà. Che notizia - che notizia strabiliante, a Cremona ha vinto
Ferrante» ... (Per la cronaca Ferrante è il bussetano Berzioli).
Insomma un tipo tutto pepe come il padre (Guido Bergamaschi - Vot-vot). Tifosissimo dei campioni di ciclismo ha
anche provato a gareggiare, ben sostenuto dal padre che avrebbe fatto di tutto per vederlo sfrecciare per primo
sotto il traguardo...
Il nostro Cudghèn (sull'origine di questo soprannome non vale la pena soffermarsi, data la banalità della sua
«nascita»), bussetano viscerale, passato anche lui dalla famosa Cualonga, il destino ha voluto si trasferisse a
Parma per necessità di lavoro (prima di andare in pensione fu tipografo alla «Gazzetta») per cui,ora, assieme alla
«caròta» e alla «biciclòta» mischia qualche inflessione di parmigiano del sasso. Ma quando ritorna,
saltuariamente, in paese, si ritrova e qui esce tutta la sua bussetanità.
CUMÓT
Una delle più brillanti macchiette di Busseto: personaggio autenticamente popolare, amante della vita e della
natura, un pò meno del lavoro a dispetto della sua povertà, ma che ha sempre trovato il modo di campare
dignitosamente. Secondo di sette fratelli, era nato a Busseto nel lontano 1854 e morto a 86 anni, nel 1940. Non si
conosce l'origine del suo stranome, visto che il suo «casato» era Bonatti e di nome Salvatore. Portava sempre un
fiore sul cappello, che amava procurarsi qua e là, da un vaso che era a portata di mano o da un giardino vicino ad
una siepe. Amava la musica per cui era stato anche corista, in chiesa e in Teatro Verdi, ma lui si esibiva anche...
all'aperto. Si racconta che una volta era andato a Bologna ad una visita per la pensione accompagnato da suo
genero Nullo Galli (quello dell'Osteria del «pesce fritto» in via Pettorelli). Bene, il nostro Cumót, stanco di
aspettare il suo turno, decise di rompere gli indugi e cominciò il suo repertorio lirico, a squarciagola, finchè i
medici non si decisero di... farlo passare avanti. (Ebbe l'aumento della pensione: potenza di Verdi!).
Era piuttosto piccoletto ma non disprezzabile, di carattere molto buono. Fumava la pipa che teneva sempre in
bocca. Una volta era disperato perchè non la trovava e non si era accorto che la teneva nell'angolo della bocca
sicchè, quando se ne accorse, dalla rabbia fece cadere la pipa che era di terracotta e si ruppe.
Era analfabeta, però se la cavava a leggere. ma quando andava a ritirare la pensione faceva due o tre croci; gli
veniva meglio che imparare a scrivere il suo nome. Uomo molto paziente, raccontava le favole ai bambini con
molta immaginazione e convinzione.
Aveva sposato 1'«Angiolina» (all'anagrafe era Amelia Bianchi) una buona donna mite e paziente che tollerava le
birbonate del marito e che lui rabboniva cantando: «Angiolina bel'Angio-li-i-na». Era un attore nato, nel senso
che sapeva fingere, recitare, piangere lacrime vere per dar forza alle sue storie, dette per necessità, si
giustificava. Si racconta che una volta, fingendo di aver perso la moglie per una grave malattia, girovagò nei
pressi di S. Agata ad elemosinare qualche moneta per il funerale della sua Angiolina, piangendo come... «Na vida
tajèda». La macabra bugia fu scoperta da sua moglie stessa alcuni giorni dopo, al mercato, sentendo una donna di
S. Agata che stava raccontando l'episodio ad una comare. Tese l'orecchio e sentendo che... «un povero vedovo
piangeva la sua Angiolina morta all'improvviso», entrò in scena chiedendo alla donna: «Si chiama forse Cumòt?».
E quella, di rimando: «Sì, sì, proprio lui»!
Quando abitava al «Ritiro» faceva il ciabattino, ma non durò molto. Un giorno, avuto un anticipo da un cliente per
mettere la suola alle scarpe, anzichè usarlo per comprare il cuoio («al curàm»), lo impiegò all'osteria e poi
raccontò al malcapitato cliente che le scarpe, lui, le aveva messe sul muretto ad asciugare e queste erano sparite,
incolpando i. ragazzacci che gli avevano fatto uno scherzo: «Chi discui le!' i g'an mjia 'd còòr!». E giù lacrimoni.
Negli ultimi anni si arrangiava facendo lavoretti vari, aiutando questo o quello nei Bar, nei negozi, andando a
prendere il latte, col carrettino dalla lunga stanga e con «al cupiròn», appeso all'uncino anteriore della stanga. E
molto spesso succedeva che facesse qualche fermata di troppo, causa l'improvvisa sete e così, quando arrivava
dalla Gisella, il latte era... bell'è scremato.
Abitava anche lui in Codalunga; un bel tipo, simpatico e allegro. Si alzava la mattina e andava in cucina nudo, e
molto spesso si lavava gli occhi alla fontanina del «Sole», con due dita, i due indici delle mani; dopodichè,
soddisfatto diceva: «Lé, pr'incò basta 'tsé, al rest aciman!».
Abbiamo appena citato Nullo Galli, suo genero e padre della Sara. anche lui un tipo singolare e brillante. Ancora
quando si parla di pesce fritto, lo si ricorda nella sua osteria che portava la scritta proprio del piatto di specialità.
Ma non si limitava a questo: con il cesto girava per le contrade, a piedi, gridando: «Pesce fritt00000, rosolato,
croccantato e ben salat0000»! Una tipica osteria di quei tempi che dopo di lui sarà gestita da «Ciupela». Evvival...
CUNCHÈR
Romeo Concari, detto anche, dai più vecchi conoscenti, Busacòn per essere stato allevato, da piccolo, dalla
famiglia Bussaconi, per la morte prematura dei genitori.
Era nato a Roncole nel 1895; la sua famiglia lavorava la terra, era terzaiola alla Bassa di May.
Trasferito a Villanova dopo la prima guerra mondiale alla quale aveva preso parte, si era sposato con la «Cisa» e
dopo aver vagato nel piacentino, ritornava a Busseto nel 1933.
Salariato agricolo, «badèn» manovale, tuttofare, una famiglia che andava aumentando col passare degli anni fino
ad ammucchiare cinque figli (fra cui lo scrivente e l'ultimo Alcide, nato in Codalunga). Dovette fare salti mortali
durante l'ultima guerra per sfamare la prole, sempre con lavori umili ma con la dignità dell'uomo onesto: da
scragnaro, a ciabattino. Poi emigrò in Germania a fare il «garzone» saldatore, sempre con la fiducia, la speranza e
l'ottimismo che lo hanno sempre accompagnato. Pur nella miseria il suo humor non veniva mai meno: con le
scarpe rotte e le braghe tutte rattoppate così diceva: «a' schèrpi i's n'abusan, e 'l brèghi i's la pésan mia mèl».
È campato fino a 96 anni nonostante abbia sempre molto lavorato.
Riferendosi alla sua modesta mole, paragonava il suo fisico ad un motorino «48» che doveva viaggiare sempre al
massimo.
Della sua esperienza bellica non parlò quasi mai fino alla vecchiaia, quando cioè gli venne conferito il titolo di
cavaliere di Vittorio Veneto, di cui andava fiero.
Allora raccontava qualche episodio di guerra, di quando restò ferito sul «S. Michele» presso l'Isonzo, da una
granata che gli menomò seriamente un occhio; e che, nonostante questa ferita fu mandato di nuovo al fronte
perchè gli aveva detto il suo capitano: «Per sparare bisogna chiudere un occhio...».
Raccontava anche che in una sola giornata partecipò a ben diciannove assalti, e lui era avvantaggiato essendo
piccolo di statura...
Romeo Cunchèr, un vecchietto simpatico, che aveva un solo motto, «Voler bene non costa niente». Fu esempio di
saggezza e di ottimismo. Piacevoli erano le sue «uscite» con battute spiritose o con l'armonica a bocca, sotto i
portici a suonare qualche valzer... antico o a cantare «Io cerco la Titina», ma questo avveniva al mattino quando
usciva di casa (la «Casa di Riposo» dove, rimasto vedovo, aveva scelto di entrare) non quando rientrava, perchè
non si pensasse che fosse effetto dei «bianchini» o della grappa ai quali era molto affezionato.
DAVID
Gli ultimi cinque Cavalieri di V. V. Ne è rimasto solo uno, Attilio Bersanelli, quello con gli occhiali
(Conti, Allegri, Concari e Testa, da sinistra, sono stati... richiamati).
Una figura tutta particolare, tutto bottega e osteria e qualche volta in cerca di... avventure (si dice con discreto
successo).
Davide Bertinelli il suo casato; era nato ad Alseno nel 1877, sposato con la bussetana Maria Ginevra Belli, aveva
avuto due figlie. Dopo aver lavorato per qualche tempo all'Ansaldo a Genova era divenuto un ottimo artigiano
costruttore di carrozze e calessi (birocci) tanto di moda negli anni trenta-quaranta, anche se, naturalmente, non
alla portata di tutti. La sua bottega in via Del Ferro, accanto a quella di «Ghisòt al frer», (col quale lavorava quasi
in serie, dovendo usare anche il ferro, avvalendosi pure dell'opera del pittore-decoratore «Ninu» al pitur,
Mazzolari Giovanni), era un gran kaos, come la sua persona per niente ordinata e curata a dispetto della
precisione e maestria che usava per portare a termine i suoi birocci. Trasandato è dir poco; sempre coperto di
segatura e polvere di bottega andava all'osteria a fare la briscola o dal barbiere Ninetto il quale prima di
insaponarlo, doveva spazzolargli la polvere, al rasgiim, che aveva in faccia e dentro le orecchie. Un giorno,
strappatosi i pantaloni mentre lavorava, senza perdere tempo, se li rattoppò col... «fil fer» e andò al mercato.
Scriveva i conti sulle tavole di legno, col gesso, e una volta dovendo presentare il conto al cliente che era venuto
per pagare, si accorse che il suo conto era sparito: l'asse era stata piallata e usata. Diceva al suo «giùan» (ragazzo
di bottega): «Ninu, vam a tò un chilu 'd ciold dal des... va, parsa a tera» (cioè di volata). Fra i suoi «giùan» vi è
stato Valentèn Cavalli.
Era molto amico di Berto Secchi con il quale trascorreva il tempo libero a conversare, in bottega o al Caffè
«Roma».
Una volta il nostro David ordinò dodici lime e gliene mandarono una «grossa» (cioè dodici dozzine). Amabile e
brillante conversatore, contava amici fra il ceto «nobile» di Busseto ai quali si aggregava volentieri nelle loro
uscite, così, come si trovava, in tenuta da lavóro.
DELFINA (la)
Questa donna che all'anagrafe è Provini Redice, è passata alla storia, si fa per dire, per un episodio, un fatto
avvenuto all'epoca della prima guerra mondiale, legato al miracoloso simulacro del Cristo morto che si trova
nella chiesa di S. Maria (simulacro le cui origini, come i bussetani ben sanno, sono avvolte da un'affascinante
storia quasi leggendaria).
Ebbene, i capelli del Cristo morto che ancora oggi si vedono sul capo di questa statua, coricata e a grandezza
naturale, sono reali e sono stati donati dalla Delfina per assolvere un voto per una grave malattia superata, quasi
miracolosamente, ed attribuita appunto all'intercessione divina. La Delfina, una bella donna, dai capelli lunghi,
rossi, dei quali ne andava molto fiera, non aveva esitato a prometterli alla chiesa di S. Maria per adornare il Cristo
morto se fosse uscita guarita dal terribile morbo.
E così avvenne.
Si fece crescere ben bene i capelli e, al punto giusto, se li tagliò; anzi ci pensò la Noemi, la pettinatrice, moglie di
Ninetto. E fu proprio Ninetto che provvide ad adornare la testa del Cristo dei bei capelli della Delfina.
Era nata a Besenzone nel 1889; faceva la cameriera e si era trasferita, a Rapallo, nel 1926 quando sposò certo
Angelo Frascora.
Ma di tanto in tanto faceva visita alla sua Busseto e fu proprio durante una di queste visite che adempì al suo
voto.
Era la sorella del noto «Pruèn» (v.) e della Maria. Aveva anche un altro fratello, Salvatore, trasferitosi a Mortara
nel lontano 1922.
DOTT (al maèstar)
Gino Dotti, bussetano, classe 1909, anche se occasionalmente nato a Villanova. Era chiamato «al maèstar Dott»,
maestro di fisarmonica, strumento che ha insegnato per quarant'anni a Cremona e che gli ha dato tante
soddisfazioni. Anche se non poteva «sventolare» il relativo diploma, si può dire che la sua lunga milizia musicale,
come direttore di complessi, insegnante e coordinatore musicale, gli ha garantito tutta la reputazione e la stima
della gente.
Alcuni dei suoi numerosissimi allievi nello studio di questo strumento affascinante, molto in voga nell'immediato
dopoguerra, sono giunti a traguardi eccelsi: basti pensare che dalla sua scuola sono usciti i vincitori del Concorso
Nazionale di fisarmonica di Stradella, nel 1947 e due «Oscar Mondiali» della fisarmonica del 1951 e 1957.
Persona singolare, il nostro maestro Dotti, distinta e compita, metodica e pratica. Sua caratteristica
inconfondibile erano le famose ghette (un originale tipo di calzatura di moda nei primi decenni del secolo), che
ha sempre portato, unico in Busseto, se si esclude Alberto Secchi che le portava solo in certe occasioni.
Ha scritto diversi pezzi per fisarmonica, ma soprattutto ha diretto alcuni complessi orchestrali in diverse
manifestazioni fra cui le commemorazioni verdiane a S. Agata e a Villanova. A Busseto molti ricorderanno ancora
i famosi «Saggi di fisarmonica» dei suoi allievi tenuti nel Teatro Verdi di Busseto .e da lui diretti.
Da autentico cultore e amante della musica ha avuto il merito di ricomporre la Bandà della nostra città negli anni
settanta, compito che ha svolto con competenza e passione, in modo assolutamente disinteressato e senza alcuna
sfumatura politica: la musica è apolitica, era il suo credo.
Il suo svago preferito era la partita a carte al Caffè Roma: giocava a tersiglio con gli amici Alberto Secchi, Mario
Cammi e Giovanni Berzioli ed anche in questo passatempo metteva in luce il suo carattere sobrio e signorile.
Aveva sposato la Marina Trabucchi, anche lei bussetana di vecchia stirpe, che gli ha dato un figlio, Carletto che ha
«ereditato» dal padre la grande passione per la musica, quella musica che deve essere portata a tutti, in modo
spontaneo e generoso.
DÙRAN (l'arlujèr)
Il maestro Gino Dotti con i suoi allievi in un classico «Saggio» al Teatro Verdi.
Era Alberto Adorni, classe 1882. Una tipica figura di vecchio «arlujèr» di una volta; chino sul suo banchetto
confusionario come appariva agli occhi dei profani, con la lente caratteristica nell'occhio, alle prese con vecchi
orologi da tasca o vecchie pendole per cercare di farle camminare.
Il suo segno di riconoscimento più palese era la gobba che portava senza nessun complesso. Handicap, del resto,
che non gli aveva impedito di assolvere al dovere militare (era un invalido della grande guerra 1915-18) e,
soprattutto, di formarsi una famiglia, con la sua buona, «santa» Angiolina e due figli. Sulla sua gobbetta
addirittura ci scherzava. Abitava in Codalunga, vicino allo «Stertino» che è indicato come «Vicolo Torto» (la
traversa fra la Codalunga e la via Barezzi). E lui diceva a questo proposito: «Ma guèrda te! L'i:mica via drita ad
Busé, i la ciaman Vicolo Torto... Me sì ca' sum tort!».
Era un uomo di carattere eccezionale, frutto di una vita saggia, una vita vissuta tutta dedita alla sua famiglia e al
lavoro. Un mestiere, quello dell'orologiaio, scoperto tardi, per necessità, ma che svolgeva con grande passione ed
anche con una certa bravura fino a quando il tremore delle sue mani, che andava sempre accentuandosi, glielo ha
impedito. E scomparso nel 1974, preceduto di pochi anni dalla sua compagna Angiolina.
EBE ROSSI
Bianca, all'anagrafe, figlia di Francesco e della Nanni Margherita. Era nata a Busseto nel 1906 ma nessuno ha mai
saputo quanti anni avesse; infatti è stata un personaggio senza età, eternamente «giovane» nel modo di
comportarsi, di parlare, di vivere. Cappellaia di professione, con quella tipica bottega a vetrina girevole, in via
Roma, nel palazzo Orlandi, (negozio sparito purtroppo per lasciar posto ad un negozio troppo moderno per la
nostra cittadina storica). Donna elegante, quasi maestosa; amava conversare a volte con spregiudicatezza,
inattaccabile e tenace alle lusinghe maschili (si dice che «Rodi» avrebbe fatto una pazzia per lei). Aveva però la
presunzione di distribuire consigli, specialmente alle giovani, alle ragazze, ad esempio sul modo di vestire, non
accorgendosi che queste, le ragazze, ci stavano ma per divertimento.
Negli ultimi anni, prima che si trasferisse in Piemonte, smessa la professione di cappellaia, nel suo negozio non si
vedeva più nessuno. Solo lei, con i suoi gatti, la sua compagnia: i soli che la capivano. Ora, l'Ebe Rossi non si vede
più... peccato!
L'EMILIA DAL TEATAR
La notissima Ebe Rossi (a destra) a passeggio con la famiglia Giuffredi.
Diversi Luigia, il suo nome; moglie di Attilio Porcari detto Veneranda). Non era una bussetana (era nata a
Castelvetro Piacentino nel 1894 ed era venuta a Busseto nel 1921 e qui si era sposata) ma la sua attività di
custode del Teatro Verdi e della Galleria Verdiana (anche se nei primi tempi il custode ufficiale era il marito),
l'aveva resa nota a tutti. Una figura di donna schietta, realista, arguta e pronta alla risposta. Senza peli sulla
lingua, come si dice, amava conversare e se la cavava benissimo anche con la gente di alto lignaggio con cui aveva
modo di intrattenersi, senza imbarazzo alcuno.
Molti gli episodi curiosi che amava raccontare inerenti appunto al suo incarico. Uno per tutti, quello della firma di
Mussolini sul registro delle visite: Questi venne anche lui a Busseto a visitare i luoghi verdiani quando non era
ancora il Duce, cioè subito dopo la prima guerra mondiale, nel 1919. Durante il fascismo, quando l'ascesa di
Mussolini alla notorietà era cosa consolidata, molti visitatori mettevano la loro firma accanto a quella del Duce,
tanto che ad un certo punto quasi la coprivano.
Dopo la guerra, quella del '45, alcuni di questi... tifosi di Mussolini ritornarono a Busseto... con la gomma per
cancellare il loro autografo fatto vicino a quello di Benito Mussolini.
L'Emilia raccontava anche, senza timori, qualche episodio capitato a causa della sua mancata conoscenza delle
lingue. Naturalmente se la cavava bene (abbastanza) con l'italiano ma, ad esempio, accompagnando una volta
una comitiva di francesi, trasalì quando qualcuno dalla platea disse, rivolto, naso in su, verso il palco reale dove
stava l'Emilia con altri turisti: «Tre-jo-lì», esternando meraviglia per la bellezza della nostra «bomboniera»:
l'Emilia, proprio, non sapeva chi buttare dal palco...
Anche se di cultura limitata, l'Emilia dal Teatar era un'ottima guida della «Galleria Verdiana», com'era chiamata
una volta. Oltre al Teatro Verdi, infatti, doveva accompagnare i turisti al primo piano della Rocca dove sono ora
gli uffici del Sindaco e di segreteria e mostrare gli oggetti del museo ed i cimeli verdiani.
«Veneranda», suo marito (influenzato dal nome della madre, Tanzi Veneranda), aveva lavorato come falegname
nella bottega di Angilèn Michelazzi, era diventato portiere della Rocca e custode del Teatro Verdi a cui era
subentrata, come abbiamo visto, la moglie. Da questa coppia di bussetani acquisiti erano nati Carletto (sarto della
pregiata sartoria Bardini), ora in pensione, Romano, da poco, immaturamente scomparso, e l'Adua, trasferitasi da
tempo a Torino con la sua famiglia.
ERNESTO TUSCÀN
«Al pustèn», quando fare il postino voleva dire camminare, camminare e ancora camminare. Sempre a piedi, con
la pesante borsa di pelle sulla spalla carica di lettere e cartoline (per fortuna non c'erano tante riviste o «omaggi»
vari).
Bussetano, classe 1872, Ernesto aveva sposato la Ginevra Pattini nel lontano 1904. Lo chiamavano anche «al
ltitu» (il lutto) per via del suo carattere: era sempre cupo, imbronciato, brontolone e lamentevole. E non aveva
tutti i torti: aveva infatti due piedi pieni di nocche che sembravano due zucche e conseguentemente due scarpe
come quelle di un clow da circo, scarpe che si ricostruiva da solo, le adattava alle varie nocche. Al mattino
l'operazione scarpe era primaria, importantissima; dopo averle opportunamente imbottite, faceva alcuni giri
attorno al tavolo per constatare che tutto fosse a posto.
Quindi via! E negli ultimi anni di suo servizio era... costretto a molte fermate, cosa che faceva anche molto
volentieri presso le case del centro, delle viuzze e contrade, dove gli offrivano spesso qualche bicchiere di vino
per rifocillarsi.
Aveva portato buone e cattive notizie ai bussetani per diversi lustri, specialmente durante l'ultima guerra.
Ernesto non si limitava a distribuire la posta alla svelta per finire il suo lavoro quotidiano: egli partecipava,
viveva con la storia della sua gente, ne capiva il dramma, le condizioni. Non diceva semplicemente: «C'è posta»!
No, aggiungeva «Teresa... ve so, ha scritt t'o marì» oppure «Ghe un vaglia» oppure: «Ha scritt t'o Mi da Verona». E
si fermava volentieri, oltre che per le ragioni dette prima, anche, proprio, per sentire, capire le varie situazioni di
famiglia delle quali conosceva vita e miracoli.
La sua professione l'ha tramandata al figlio «Cico» (Francesco) un'altra figura caratteristica, differente a suo
padre solamente nel mezzo di trasporto: usava la bicicletta.
Ernesto al pustèn aveva abitato in via Dordoni e poi nelle case popolari. Moriva nel 1956.
FIGÒN
Gino Figoni, bussetano solamente dal 1928 ma subito messosi in luce per il suo carattere vivacissimo e
mattacchione e un temperamento esuberante. Aveva una spiccata propensione alla camicia nera (del resto molto
di moda a quei tempi), che ha portato fino alla... scadenza del ventennio incriminato, ma con uno spirito
disinvolto, quasi goliardico, sportivo, nascondendo una certa sensibilità tanto da aiutare qualche bussetano di...
colore diverso, in procinto di essere pizzicato.
Ufficialmente era meccanico ma ha cambiato vari mestieri e non ne ha mai voluto «sposare» uno fisso (come non
si è voluto legare ad una donna, preferendo pagare il celibato). Era brillante e divertente: un giorno si scontrò in
biciletta col suo amico Bruno Vicini. Questi stava portando, sul manubrio della sua bici, due grossi secchi colmi di
siero per i suini (aveva un allevamento di scrofe nello Stallo dove c'è ora la Pubblica Assistenza). Veniva su
adagio dalla via Barezzi quando al crocevia con via Balestra venne investito dal nostro Figòn pure in bicicletta.
Che disastro! I due a terra inzuppati di «scota», gran fracasso e invettive... Una scena comica, visto che non si
lamentavano feriti. Vicini, incavolatissimo contro il suo «camerata», lo apostrofò: «T'é 'n gran èsan!... in du
guardèvat». E lui, di rimando: «E te èt mia sintì sunà 'l campanèn?». La scena era stata seguita non senza
divertimento, dal Prevosto Mons. Onesti, il quale non ha potuto fare a meno di far rilevare al buon Figòn che la
sua bici non era fornita di campanello...
Negli ultimi tempi, non era raro vedere il nostro eroe con un braccio fasciato, oppure un dito, un piede; insomma
il lavoro, per lui era un autentico... infortunio.
FIORÈLO
Personaggio tipicamente popolano, nostrano, nato all'ombra della Rocca, solitario, senza un mestiere fisso anche
se da giovane aveva fatto il fornaio. Era un convinto patriota, amante della divisa militare, specialmente dopo
aver partecipato alla grande guerra 1915-18 che lo aveva lasciato in qualche modo invalido (percepiva la
pensione di guerra). Teneva, come reliquie, divisa, berretto, mostrine, elmetto e tutto quanto ricordava la vita
militare, e non perdeva l'occasione di indossarli ogniqualvolta si presentava una cerimonia patriottica,
specialmente quella della Vittoria (il 4 novembre), in bella coppia con il suo amico «al marescial», Racchi Guido.
Era chiamato anche «Belocchio» per via di un occhio di vetro (ecco il motivo della pensione).
Fragni Francesco il suo casato, classe 1900 morto nel 1957, era fratello gemello con Enea ed aveva altri tre
fratelli e una sorella, tutti trasferiti a Milano agli inizi degli anni venti. Il padre, Emilio, del 1868, faceva il
bracciante e la madre era Laura Pezzoni.
Aveva abitato in Rocca poi si era trasferito in Codalunga, nel famoso Casermone, al n. 1. Fiorello era chiamato
anche «mangiagat», ed è qui che si è reso «famoso». A cavallo dell'ultima guerra ma specialmente nell'immediato,
faceva razzìa di bei gattoni. Aveva una tecnica particolare: armato di sacco, imitando il repertorio canoro dei gatti
in amore, di notte si appostava e riusciva a catturarli vivi. Li spellava e li appendeva, se era d'inverno alla finestra
per il tempo di frollare, visto che il frizer non era ancora in circolazione. E molte donne, derubate del loro
«micione», passando dalla Rocca e guardando in alto, riconoscevano la loro bestiola ed inveivano contro Fiorello:
«Guèrdal là 'l me gat»! «Dio ta maladisa!».
Si dice che a chiamarsi «Fiorelo» sia stato per primo il padre; questi abitava in via dell'Anonimo (ora via Vitali) e
per realizzare qualche centesimo, si faceva... orbo.
FRA GINEPRO
La «macchietta» FIORÈLO, nella divisa da lui prediletta.
Un'anima candida di frate questuante, «cercone» che ha saputo farsi voler bene da tutti. La bizzarria e la
singolarità di quest'uomo erano disarmanti; il suo candore fanciullesco lo ha accompagnato lungo tutta la sua
vita, che durò fino a 84 anni.
«Il Signore si rivela ai piccoli», proprio come dice un passo del Vangelo, citato dal Provinciale P. Bernardo Rossi,
nella Basilica di S. Antonio in Bologna, durante il rito delle sue esequie.
Fra Ginepro, che nel suo lungo peregrinare, sostò a Busseto per diversi anni nel dopoguerra, (dal 1950. al '59 e
ancora dal 1970 al 1982) diceva spesso: «Sono sempre allegro perchè sono il più bello; ma soprattutto perchè
sono il più furbo...».
Un sempliciotto, il nostro «fra' sircòn», che aveva (come confessava lui stesso), «la dignità di tendere la mano».
Sapeva leggere e scrivere ma diceva di non aver mai frequentato la scuola, nemmeno la prima elementare.
II suo nome di battesimo era Francesco Malori; era nato a Neviano degli Arduini (PR) il 1.4.1902 ed è morto a
Bologna il 14.6.1986. Dopo aver fatto vari mestieri da giovane, era emigrato in Corsica iniziando la sua
convivenza con i Francescani come cuoco, giardiniere e ortolano, nel convento di Aiaccio. Nel 1936 venne a
Parma, al Convento dell'Annunciata e qui i frati decisero di accettarlo come Oblato Terziario «battezzandolo» col
nome di Ginepro (un nome bizzarro per rinverdire il frate compagno di San Francesco del quale, si racconta, fra
le altre, la storia del maialetto amputato di una gamba per fare una tazza di brodo a un frate malato...). Ma la
stravaganza del «nostro» Ginepro e la singolarità diventavano qualche volta occasione eccellente per i suoi
confratelli per esercitare la pazienza: non era facile arrivare a convincerlo di qualcosa. Si diceva scherzando che il
suo compagno di fatica, il mulo, (col quale parlava e gli diceva: «Tu hai più intelligenza, ma io ho più forza»), gli
avesse partecipato un pò del suo carattere. Battute semplici e sapienti, qualcosa fra Bertoldo e Frate Egidio,
intercalari ai rosari e alle favole che egli amava farsi raccontare, come un bambino. Diceva anche che uno dei più
grandi miracoli del Vangelo era la trasformazione dell'acqua in vino. Eh, sì; non era capace di dire di no a chi gli
offriva un bicchiere di vino o meglio un grappino. E allora la sua preghiera tutta personale era fatta di un
miscuglio di latino, di dialetto, di italiano. Ma dopo tanto camminare, ha raggiunto la meta sognata!
FUGAZZA DOMENICO
La gioiosa libertà di Fra Ginepro, in questa istantanea.
Dumenic, meglio chiamato, e siccome ce n'era uno solo non si poteva confondere. Anche se non era un bussetano
(era giunto da Codogno nei primi anni venti) si era inserito benone nel tessuto nostrano e, grazie al suo carattere
e al mestiere, (stalliere, rigattiere), aveva trovato anche una brillante compagnia: faceva parte infatti del gruppo
di Guerino Bufot, Canòn, Cibrario, ecc..
Era considerato uno sfollato e, nel 1944, il Comune gli aveva assegnato un alloggio alle scuderie della Villa
Pallavicino, resa libera dai prigionieri di guerra.
Era anche un mancato oste. Infatti, doveva rilevare l'osteria della Scaletta all'inizio dell'ultima guerra, ma una
grave disgrazia colpì la sua famiglia (gli morì un figlio ventenne, in un incidente stradale mentre era in licenza
militare) per cui dovette rinunciare all'operazione. (L'osteria fu poi rilevata da »Carega» Rastelli, il papà di Amos,
che poi passò al »Centrale»).
Vedovo dal 1929 si era risposato nel '32 con Figoni Angela.
Dumenic Fugasa lo vediamo nella foto con il «ciop ad Cibrario».
FUNSÈN
Era un trovatello, come si diceva una volta, Alfonso Tapinelli, (lo stesso cognome richiama il termine «tapino»).
Faceva il falegname. Si è trasferito, pare, a Milano.
Ma c'è un altro personaggio con questo nomignolo, questi è Borlenghi Alfonso (da qui il vezzeggiativodiminutivo). Era il marito della Giulia Tosi, detta Maria, la titolare della pesa pubblica quando quest'ultima era in
piazza del Mercato e... funzionava davvero. Erano i genitori della Dolores Borglenghi (moglie di Marino
Lucchetti), scomparsa da qualche anno.
Quest'ultimo «Funsèn» era imbianchino ed aveva lavorato con gli Angiolini; aveva la passione per la tromba (non
quella del... «ltinèri nòv»). Era nato a Busseto, emigrato per un pò di tempo quindi ritornato nel nostro comune.
FUOCHI (Gigèn)
Personaggio bussetano di larga conoscenza, dotato di una straordinaria comunicativa che lo rendeva simpatico e
amato da tutti. Bussetano fino al midollo, ha svolto diversi mestieri, ma tutti imperniati... nella stampa, nei
giornali: prima era commesso, garzone di bottega, poi operaio tipografo. Negli anni della guerra e subito dopo, lo
ricordiamo strillone di giornali nelle vie, sul mercato; un pò come si vede nei vecchi films.
Gigèn Fuochi, pompiere volontario, scomparso da poco tempo, dopo che le sue gambe che avevano macinato
milioni di passi, avevano fatto... «Jacum», ed era costretto su una carrozzina (sia pure... radiocomandata), era
l'emblema di bussetani degli anni venti-trenta. Amico di tutti, amante della buona compagnia; e nessuno lo
ricorda nervoso o severo. Era dotato di memoria sorprendente: ricordava tutto di tutti, ed è stata una perdita
anche su questo aspetto, quando ci ha lasciati. Era del sette (cioè del 1907); si era sposato nel 1937 con Gioia
Gina e i suoi due figli, Corrado che ha seguito le orme del padre come tipografo, e Irina, sono gli ultimi Fuochi
rimasti da noi.
“… le ultime!!!” di”Gigen” Fuochi
GANÈN
Di questa «caricatura» bizzarra, non bussetana, nessuno ci ha saputo dire il vero nome; si sa solo che proveniva
da Zibello. Era zoppo ed il suo habitat era la prigione (quando a Busseto esisteva ancora la Pretura - cioè, come
abbiamo visto, fino agli inizi degli anni venti, e la prigione era in Rocca).
«Disturbo della quiete pubblica» oppure «ubriachezza» erano i motivi più ricorrenti per i quali veniva messo
dentro. E non è che se la prendesse più di tanto. anzi, quasi viene da pensare che lo facesse come... mezzo per
vivere, visto che era trattato bene. La prigione era vicina al teatro Verdi e siccome «Ganèn» era un appassionato
di musica, specialmente lirica, quando c'era l'opera la seguiva, cantando, fino a disturbare lo spettacolo.
Le ragazze che passavano di giorno in Rocca, lo vedevano con le gambe penzolare dalle inferriate della prigione,
e lui le salutava: «Tè bèn, ragasi».
Pare che una volta, preso dalla passione per l'opera, (rappresentano «Il Trovatore»), abbia appiccato il fuoco al
pagliericcio per ispirarsi alla romanza «Di quella pira». Insomma, Ganèn... «L'ha brusà 'l pajòn», frase che qui a
Busseto, ha un altro significato.
La cultura popolare bussetana attribuisce anche un altro episodio a Ganèn, senza però giurare che sia autentico.
Un giorno, durante «l'ora d'aria» concessa dal suo carceriere (pare fosse «Giagio» Ambrogi, nonno della Zina
Foà), nell'orto del segretario comunale, Ganèn tentò di scappare (da ricordare che era zoppo). E «Giagio» a
implorare: «Fermat, ca't ma fè pèrda 'l post!» e lui, di rimando: «Fermat te, ca 't cura mia 'dré `nson!».
GARGIO
È un «prodotto» assolutamente locale, ancora sul... piede di guerra a Busseto.
Delindati Virginio il suo casato, classe 1915, figlio di Lino, detto «Busé» e della Balduzzi Valentina (sorella questa
di quel «Vichèn Baldùs» che troverete in questa galleria).
Non ha fatto tanta carriera dopo il primo impiego come garzone tipografo; segno che non era assiduo
frequentatore dell'ufficio di Collocamento... Per alcuni anni, tuttavia, finché il padre aveva il negozio di stoffe (in
via Roma, angolo via Pasirii) lo ha coadiuvato. Rimasto solo, visto che non ha trovato, o cercato, l'anima gemella,
ha sempre affrontato la vita con estrema tranquillità e saggezza, senza dannarsi più di tanto, visto che il suo
dovere lo aveva fatto partecipando all'ultima guerra.
Di carattere docile, senza particolari inclinazioni, ha fatto del Caffè Centrale in suo habitat; e, pur vivendo solo da
anni, contrariamente a tanti altri tipi, ha un'estrema cura della sua persona, non chiede nulla a nessuno ed è di
sicura affidabilità.
Ha molti amici al caffè «Centrale» che lo fanno partecipe spesso di qualche escursione per qualche spuntino
nell'interland bussetano; è accompagnatore fisso di Andrea.
GELMETTI (signorina)
Era chiamata «signorina Gelmetti» da tutti, in lingua italiana, anche se allora ci si esprimeva solo in dialetto.
Perchè la signorina Gelmetti era una persona squisitamente distinta, nobile nei modi, nel linguaggio; fine e dolce.
Faceva la maestra privata perchè aveva a ripetizione i figli delle famiglie benestanti; un «doposcuola» che
funzionava al pomeriggio quasi per tutto l'anno, ed erano parecchi gli scolari. Ma aiutava tutti, anche e
soprattutto i ragazzi poveri ai quali dava lezioni, consigli. La sua casa, accogliente, profumava sempre di un
gradevole odore, come di mele cotte. Una donna che... non è mai stata giovane e viveva in Codalunga (dove abita
ora «Gion» Battistotti), in una casa che noi ragazzi vedevamo come molto distinta. Aveva fatto vitalizio, essendo
sola, con la famiglia Gelmetti (Gelindo), per questo, forse, la chiamavano signorina Gelmetti, anche se il suo vero
nome era Borlenghi Giovanna detta Maria, nata a Busseto nel 1880. Una figura rimasta nel ricordo di tanti.
«GÉTI»
Fulcini Secondo, detto anche «Bablòn», stranome riconducibile al termine di blaterare. Bussetano, di famiglia
numerosa, era della classe 1898 e, dopo varie esperienze di lavoro, era riuscito a metter su un'impresa di Pompe
Funebri pur nella difficoltà della concorrenza, più agguerrita, di «Cravèl» (v.). Il suo «parco cavalli», certo, non
poteva competere con quello del suo rivale: si racconta che il suo «puledro» - come lo chiamava lui - era piuttosto
malandato, insomma, un brocco, visto che nei momenti di sosta, di riposo, il buon Geti gli infilava sotto la pancia,
per sostenergli la schiena, addirittura un cavalletto di legno. E, per calcare la mano, i più accaniti denigratori,
dicevano di lui che per far mangiare al quadrupede i ricci di scarto dei falegnami - per risparmiare il fieno - aveva
messo al povero animale gli occhiali verdi, cosicchè il brocco si mangiò anche la creppia. Ma, a parte questi
aneddoti più brillanti che reali, il nostro eroe, quand'era in servizio, si metteva a cassetta dopo essersi
imbiancato il viso per assumere l'aspetto di mestizia, come si addiceva al suo incarico di trasportatore di salme, e
si muniva di parrucca e cilindro. Si racconta che la concorrenza nel mestiere era proprio tenace tanto che, una
volta hanno visto «Geti», al Caffè Roma, addirittura piangere perchè Cravèl gli aveva «soffiato» un cliente che
considerava ormai suo. Insomma, il primo che si alzava, faceva subito visita ai luoghi più... a rischio, come
l'Ospedale, la parrocchia, da Arturo Finulèn, presso gli ambulatori e negli angoli della piazza, in cerca di...
possibilità di lavoro.
Tuttavia, Geti, essendo bussetano, aveva ottenuto l'importante incarico di trasferire i prigionieri (non certo i
morti, in questo caso), che la Pretura di Busseto aveva condannato, in quel di Fidenza (Il pretore di Busseto, a
quei tempi, era il padre del dr. Montanari). Si era sposato nel 1923 ed aveva formato una numerosa famiglia.
Aveva abitato in via dell'Ospedale pói in via Ghirardelli, in via Biblioteca, ed infine in via Proversi.E deceduto a
Busseto nel 1986, mentre tutti i figli si erano trasferiti in altri centri.
GHISÒT
Aniceto Ghisotti, all'anagrafe: tipica figura di vecchio (così lo vedevamo noi ragazzi), fabbro. Aveva la bottega
tetra e fumosa, vicino a quella di David, in via Del Ferro e, come abbiamo detto per quest'ultimo, spesso i due
artigiani lavoravano... a catena quando confezionavano calessi e birocci. Quando gli ordinavano un lavoro,
specialmente se il committente occasionale era giovane o era un dipendente di qualche ditta, non indugiava, il
buon Ghisot, a porre la domanda: «... e chi e ca péga?». E l'altro: «pèga al rus» (ad esempio) che era il mastro
Tessoni.
Serioso, burbero, sempre con la cicca in bocca ( e non aveva problemi per sputacchiare per terra o sulla fucina
rovente, sempre pronta per scaldare il ferro da battere). E, a proposito di cicca si racconta che un giorno
«Vigiòta», che era andato per «battere» una falce («fer da sgà»), gli aveva chiesto una cicca, e Ghisòt, senza tante
precauzioni igieniche, mise due dita in bocca, si tolse la sua cicca e la porse a Vigiòta.
«Ta tènt, Ghisòt, ca ghé la Finansa!». Ancora oggi questa frase è in circolazione. Ma cos'era successo al nostro
fabbro? Forse perchè era sempre nero, sporco di fumo della fucina? Ci racconta il figlio, Lino, che aveva ricevuto
la visita dei finanzieri, in negozio, perchè c'era un problema di Imposta sull'Entrata, la fomosa IGE. Faccenda poi
risolta bonariamente grazie all'intervento del buon Dante Bussa-coni, impiegato a tempo pieno presso l'Ufficio
del Registro di Busseto. La cosa buffa è che, quando i finanzieri hanno fatto visita nella sua' abitazione, Lino gli
aveva offerto un grappino fatto da lui stesso, il «fai da te». Insomma, altri tempi. E così questa visita della Finanza
ha lasciato il segno, un segno positivo, però.
Ghisòt era della classe del 1875 ed era nato a Besenzone ed entrato nella schiera dei bussetani alla fine del secolo
scorso. Si era sposato in seconde nozze, nel 1902 con Valentina Cavalli. È morto nel 1951.
GIAGIO
Era Maldotti Luigi, cognato di Ambrogi Aniceto, nato attorno al 1890; custode delle carceri bussetane, soppresse
nel 1921. Quando vennero soppresse le carceri per la chiusura della Pretura di Busseto, non avendo ancora, il
Maldotti, maturato il diritto a pensione e non potendo fare altri lavori poichè era era zoppo (ricordiamo
l'episodio con «Ganèn») il Comune aveva deliberato di concedergli, in via straordinaria, un assegno di L. 5.000:
una somma notevole, dato i tempi.
Prima di lui, custode e carceriere era stato un certo Marenzoni Luigi, buSsetano, nato nel 1860, sposato a Zelinda
Affaticati, morto nel 1924.
GIGIASA
Era la sorella di «Ciacarlo», al secolo Luigia Mazzera, nata a Busseto nel 1876, nubile, di professione «vetturale»,
vale a dire taxista di una volta, però con tanto di cavallo e carrozza.
Dicono (i rari testimoni di oggi) essere stata una bella donna.
«Va là, Belu!» diceva al suo ronzino. La Gigiasa era chiamata, prevalentemente, per portare la gente dal famoso
Tajamuschi, di là dal Po, un medicone che ai tempi del Regime fascista aveva fama di gran guaritore. E così
sbarcava anche lei il lunario.
Era in confidenza con questo straordinario «madgòn», e, negli ultimi anni di esercizio dell'attività, la Gigiassa gli
chiedeva che le lasciasse qualche «segreto», qualche virtù guaritrice, prima di abbandonare la sua attività. Ma
Tajamuschi rispondeva che voleva portare tutti i suoi segreti nella tomba: «Posi mia, posi mia, Masseral...». E così
ritornava a Busseto con il suo carico di clienti risollevati dalla visita col famoso Tajamuschi, riparando il suo
calessino e il suo fido «Belu» nello stallino che aveva l'entrata in via Piroli.
GIOCONDO
Un nome non proprio azzeccato, Giocondo, (era proprio suo, quello di nascita), perchè Giocondo Viglioli, classe
1886, nato a S. Secondo e fratello del dottor Viglioli era sempre cupo, burrascoso, severo.
Era commesso della farmacia Petit-Bon quando questo mestiere comportava un notevole lavoro manuale di
preparazione dei vari in-polverine, decotti ecc. Giocondo non era stato certo beneficiato dalla natura: aveva i
piedi girati all'interno e un grosso rigonfiamento nel... bassoventre che copriva sempre con un grembiule, unto e
bisunto. Era un gran bevitore; si dice che andava all'osteria e cori il bastone picchiava forte sul tavolo,
impaziente.
In farmacia lo si vedeva spesso seduto sul suo sgabello a pestare sul mortaio. Era chiamato anche «Stronsiòn»,
ma non... direttamente. È morto nel 1949. Giocondo è qui ritratto assieme ai dipendenti della farmacia Petit-Bon.
Lui è al centro del gruppo; il titolare è a sinistra e le due donne sono l'Eugenia Lodigiani (ancora fra di noi) e
l'Ines Ferraguti, la sia 'd Poldo Remundèn.
Il titolare e i dipendenti della premiata farmacia Petit-Bon (Giocondo è quello al centro della foto)
GIUFFREDI ARNALDO (fotografo)
Personaggio estroso, originale, con un senso dell'umorismo tutto particolare, silenzioso. Abilissimo nel suo
mestiere, quando la fotografia era un'arte pur senza molti mezzi di cui invece la tecnologia moderna dispone:
alcune sue fotografie sono rimaste a testimoniare questa sua vena poetica, di schietto sapore realistico.
Era nato a Besenzone nel 1901, si era sposato nel 1927 con Longhi Laura, dopo sei anni dacchè si era trasferito a
Busseto; ultima residenza via Del Ferro, dopo aver toccato via Zilioli, via Roma e la «Beccara».
Era un burlone, come abbiamo detto, si divertiva a fare le pernacchie ed amava fare qualche scherzo ai suoi
amici, come quello che segue. Si racconta che un giorno il Giuffredi, che disponeva di una «Balilla» nera, prese
con sè uno dei tanti amici per andare a Milano; pioveva. Appena vide l'amico salire sulla macchina tutto
elegantemente vestito e scarpe lucide, pensò subito di fargli uno scherzo.
Avviato il motore e fatti pochi metri, battendosi la mano in fronte: «Oh, Giuàn, am sum asmingà l'umbrèla, am la
vèt a tó, par piaser?»; intanto aveva adocchiato una bella pozzanghera, davanti al «Sole». Fermatosi proprio in
corrispondenza della «poccia», l'amico, messo un piede in terra,... splasc! si ritrovò tutto inzuppato... (con le
imprecazioni che ne seguirono).
È deceduto nel novembre 1975 lasciando un bel ricordo ai bussetani, ed un patrimonio di negativi di foto che i
figli Ernestina ed «Enry» (quest'ultimo emigrato a Parigi e divenuto validissimo corrispondente della catena
«Rusconi») è sperabile abbiano conservato.
GRANDINI EDMONDO
Giuffredi con la sua Balilla «Coppa d'oro».
Uno dei pochissimi bussetani, assieme a Ziliani, ad affermarsi sui palcoscenici italiani e stranieri come cantante
lirico, negli anni fra le due guerre mondiali. Baritono di fama internazionale, il suo cavallo di battaglia era «Il
Rigoletto». A Busseto aveva debuttato nel 1919 con quest'opera, appunto, a fianco della bussetana Elvira
Casazza. Si era attivamente impegnato, al termine della carriera, nell'allestimento delle memorabili stagioni
liriche all'aperto nella nostra Busseto.
Artista serio, generoso e scrupoloso, amava sinceramente la sua cittadina (era bussetano puro, nato nel 1882), la
sua famiglia ed i concittadini. In particolare ai suoi parenti non ha mai fatto mancare il suo aiuto concreto.
Ricordiamo, infatti, che era fratello del notissimo «Vigiòta (v.) col quale ha sempre mantenuto stretti contratti.
GUARALDI
Guaraldi, la guèrdia. Per noi ragazzi rappresentava la legge, l'ordine, la serietà e la severità, quasi la paura ma
anche il rispetto verso la divisa. Insomma, quando si vedeva Guaraldi, bisognava cambiare atteggiamento,
mettersi buoni-buoni, salutare e... scappare in cerca di un altro angolo per le nostre piccole marachelle. Ma il
buon Guaraldi non faceva che eseguire il suo compito con onestà e rettitudine, proprio questo era il suo «credo»,
il suo modo di vivere, vestisse o meno la divisa.
Emanuele Guaraldi, era nato a Cento, in Romagna, nel 1871 ed era venuto a Busseto nel 1914, l'anno in cui sposò
Benilde Guidoboni, ostetrica comunale dello stesso paese del marito. Anch'essa una persona retta e buona:
quanti bambini ha fatto nascere, in tutte le case del nostro paese! E cori quanta carità e sensibilità verso le
partorienti povere (che non mancavano certo): le aiutava anche personalmente dando del suo e, a volte,
coinvolgendo le famiglie benestanti di Busseto le quali non si tiravano indietro. Un giorno, dopo un parto a
Frescarolo, le hanno messo in mano una busta con dei soldi; lei non ha controllato, ma giunta a casa, insieme al
marito ha aperto la busta ed ha constatato che la somma era troppo alta. Così Guaraldi ritornò immediatamente a
Frescarolo a restituire parte della somma a quella famiglia. Che tempi, gente! Una famiglia così unita, così bella e
così crudelmente distrutta dalla guerra: tutti e due i figli non tornarono più: Giuseppe, classe 1915, disperso in
Russia nel gennaio del 1943 e Samuele, nato nel 1922, irreperibile nei Balcani. E rimasta la sola figlia Rosa,
sposata a Gino Marocchi, che vive ancora a Busseto.
Ma torniamo alla guèrdia Guaraldi: figura dall'aspetto signorile che incuteva, come detto, timore non solo ai
bambini, ma anche agli adulti. Le infrazioni di una volta non erano certo commesse dai fra-cassoni in moto, ma
piuttosto dai «discui cum la fionda» oppure dai ladruncoli di susine nell'orto del segretario comunale o, ancora,
da chi faceva pipì sulla «Montagnola». Una volta Guaraldi multò un giovane che oggi, ottantenne, circola a
Busseto che faceva il bagno nell'Ongina in costume adamitico: il pudore era uno dei valori primari.
Una figura irripetibile, d'altri tempi... purtroppo persi.
GUMÀSU (al calsulèr)
Personaggio sicuramente caratterizzante una generazione, perchè nato in un'epoca a cavallo del secolo, vissuto
in un tipico ambiente popolare, l'Impianellato; con un mestiere che lo portava ad avvicinare tante persone, tante
famiglie. Faceva il ciabattino e, se andiamo indietro nel tempo, il pollivendolo. Simpatico e popolarissimo
soggetto.
Era Demaldè Aldino, all'anagrafe; i genitori, Sante e Maria Stella Soncini, erano chiamati «il Re e la Regina»,
probabilmente per l'aspetto e gli atteggiamenti severi.
Gumasu', che era chiamato anche «Necchi» (e vedremo il perchè), come tanti altri era amante della buona e
allegra compagnia (lo abbiamo citato già più volte in questa rassegna), una compagnia che si ispirava al dio
Bacco.
E quando Aldino tornava a casa brillo, il desco farnigliare si. surriscaldava.
Partecipava anche lui, come tanti altri al Carnevale di Busseto come protagonista di quei soggetti speciali che una
volta rappresentavano davvero il «sale», l'aspetto più allegro e divertente della ultra-centenaria manifestazione.
I meno giovani lo ricordano ancora agli ultimi Corsi Mascherati prima della guerra assieme ai suoi soci... di
gomito, specialmente con Fredo Canòn ma anche con «Guidòn da `scudlèr» di Vidalenzo, nella spassosissima
allegoria del Méllin.
Sull'altro stranome, cioè. «Necchi», si racconta un episodio, chissà fino a che punto veritiero: assieme ad alcuni
suoi amici era in viaggio, in treno, verso Roma. Era un avvenimento, una cosa straordinaria; Gumasu si divertiva
a leggere tutti i cartelli delle fermate alle stazioni. In una di queste, leggendo frettolosamente un cartello
pubblicitario di macchine da cucire, esclamò: «Siamo a Vecchi!».
Il buon Gumasu (nomignolo che ereditò, poi, il figlio Franco, noto maestro elementare immaturamente
scomparso) è morto a 61 anni nel 1957.
LODOLA
«Gumasu’» con Ligio Racchi al desco da ciabattino.
In piedi c'è la Marianna e la bambina è la Santina, la mama 'd «Balelu» e 'd l'Ave Bonatti.
Costantino Lodola, classe 1913, uno dei tanti «piacentini» (del Bersano) «rigolati» a Busseto; si può dire il più
famoso, il più «matto» (e le virgolette potrebbero anche non entrarci per nulla perchè il suo temperamento, la
sua indole sono di quelli che ti fanno scappare questo aggettivo).
Un'autentica macchietta, sempre in movimerito, sempre a trafficare con cartoni, vecchi frigoriferi e rottami di
ogni genere. Estroverso e inguaribilmente «malato» di motori, automobili vecchie di ogni tipo: conosce tutti i
bussetani che negli anni venti-trenta avevano la macchina, con relativa marca, tipo e addirittura numero di targa.
E allora la curiosità ci prende e ci facciamo dire chi erano: Orlandi con l'autista Attilio Laurini, Ferfante Berzioli,
Giuffredi, Stefanotti, Enrico Accorsi, Carlo Carrara (al Bis-Mtil), con l'autista Alberto Carra, Neno Susani con la
«Balilla», Poldo Swich (che possedeva una «509»), Lino Carrara, Lino Pedretti, l'ing. Demetrio Fanti (con l'autista,
Ginèn Carolfi), Angilèn Maccagnoni, Anteo Cavagna,' Amedeo Passera, Donino Corbellini (con l'autista Mario
Maffini), Mario Ferrari, Angelo Barezzi, Carnevali, Ferrarini oltre agli autisti di piazza Pirèn e Ginèn Fermi e. Aldo
Porcari.
A oltre ottant'anni (è ancora fra di noi) la vivacità, la sua dinamicità sono ancora intatte: ama il ballo, ancora oggi,
fare lunghe scorrazzate in bicicletta e solo da poco ha smesso di fare il raccoglitore di cartoni, carta, ferro e
cianfrusaglie varie (anche se non del tutto perchè il suo ex garage ed il cortiletto interno della casa sono ancora
non del tutto sgombri).
Ha svolto il suo mestiere di autista di piazza per lunghi anni; praticamente ha iniziato appena conseguita, la
patente di guida e, cambiando un'infinità di autovetture (pochissime nuove) ha accompagnato i suoi clienti
dappertutto. Gli episodi e le avventure legate alla sua attività si sprecano. Diremo solo di quella volta che,
dovendo andare a prelevare una sposa novella a Ponte dell'Olio, arrivò in forte ritardo alla chiesa di Bersano (con
gran timore del novello sposo in attesa davanti alla chiesa) perchè, causa un guado nel torrentello «Chero», la sua
moderna autovettura fece .i capricci e solamente dopo attente cure si riavviò, così Don Remigio potè benedire le
nozze.
Tipo tutto particolare, il nostro lodola, nervoso ed irascibile a volte (quando cambiava il tempo - quindi con
funzioni di barometro); bonario e godibile altre volte.
Un linguaggio secco, nervoso; astruso e bislacco. Quando parla guarda nervosamente il distintivo della sua marca
di motocicletta preferita, che tiene sempre nell'occhiello della giacca.
Galante o, quanto meno, gentile, specialmente con le signore, subisce a volte l'umore delle condizioni
meteorologiche, come detto, ma comunque sempre brillante ed esplodente, nei modi e nell'esprimersi. Fra una
corsa e l'altra, in auto e in moto, è riuscito a trovare il tempo di sposarsi, con la sua Giannina, anch'essa
piacentina, che ha saputo e sa tenerlo doverosamente a freno. La casa di Lodola è universalmente conosciuta da
tutti, tanto che viene usata come punto di riferimento per chi cerca una via, un indirizzo, così come «la
Cualonga», «I Traj», «1'Impianlà» ecc. La sua casa poggia sulle vecchie mura della prima Busseto storica... per un
personaggio popolarissimo... storico.
LOVIS
Lodola Costantino: se non ci fosse...
Uno dei tanti Sucari (v.): Luigi Rizzi.
Taciturno, burbero e di una bruttezza senza eguali aveva avuto, però, una gioventù interessante essendo
emigrato in Francia e disponendo di una discreta cultura. Non si era sposato e viveva solo; negli ultimi anni
abitava in Codalunga, nel famoso Casermone.
' Brontolava sempre come... «na pugnata 'd balar», imprecando contro tutta la categoria... ecclesiale:
un'avversione che si manifestava con evidenza perchè evitava sempre di transitare davanti alla chiesa dei frati
quando doveva recarsi da Dumenic Fugasa a recapitare il ferro vecchio che raccoglieva per lui. Un «mangiapreti»,
come si dice, che però non aveva scrupoli di andare a prendere una scodella di minestra dalle suore, in
Codalunga.
Superfluo aggiungere, a questo punto, che l'altra caratteristica di Lovis era quella di rifugiarsi nel... bicchiere,
naturalmente pieno. Si dice che a causa della sua passione per la «Marsigliese», che amava canticchiare, le aveva
prese di santa ragione: erano i tempi del ventennio fascista. E allora il nostro Lovis meditava, a capo chino sul
bicchiere di lambrusco, al Bar Sport, per ore, senza dire una parola, senza amici, ormai.
LULÙ
“Lovis”, col vestito della festa: non è apparso mai cose bello!
All'anagrafe era Cristoforetti Giuseppe (Franco), di Eliseo e della Barezzi Beatrice; era nato a Busseto nel 1891 e
non si era sposato.
Era un poveraccio che viveva di quello che gli capitava di fare: portava le valigie alla stazione con un carrettino
sgangherato sul quale aveva scritto «Oggi non si presta». Amava i gatti, come tanti altri delle sue condizioni e
specialmente quelli che finivano nella sua padella... «L'andèva a sircant», cioè chiedeva l'elemosina, quando
proprio non sapeva che pesci pigliare.
Aveva avuto qualche guaio anche con la giustizia, quella ufficiale, per via di un furto. Gli era costato tre giorni di
condanna che, alla fine, non gli saranno poi tanto dispiaciuti, date le circostanze... (Fatto avvenuto però quando
aveva solo 21 anni). Lulù, era così chiamato, si dice, perchè imitava il verso del lupo. Aveva anche altri fratelli, Ida
e Mario, ed era cugino di «Pinelo» Barezzi.
Il nostro Lulù morì nel 1948, dopo che era andato al Mendicicomio. Aveva abitato in piazza Grande (Verdi) coi
genitori, quindi in via Gelati (ora Maccolini), Pasini e via Roma. Un autentico bussetano, quindi, ricordato da
pochi.
MACCAGNONI
Angelo Maccagnoni, un piacentino nato a Cadeo nel 1881, capitato da noi nel 1906. Abile commerciante e
grossista (aveva il negozio in piazza Affò (ora Matteotti), vicino al «Sole».
Era un appassionato di automobili e ne possedeva una, sempre moderna e costosa.
Di lui si diceva, malignamente, che quando sbatteva l'uovo, (e si metteva alla finestra quasi ad ostentare tale
«operazione»), lo facesse prima di andare a letto con sua moglie, la «Ghita»... E allora gli dicevano gli amici:
«Angilèn, ét'sbatì l'u'én?»
MAGRI EMILIO
Non aveva particolari stranomi, era semplicemente Milio Magri (anche se all'anagrafe era Emidio). Una simpatica
figura che ha affrontato la vita quasi per scherzo, con quella semplicità e leggerezza che era la sua caratteristica.
Una macchietta quasi irripetibile: tutto matto, imprevedibile, pieno di trovate bizzarre, ricco di humor.
Mai preoccupato, sempre allegro e pronto allo scherzo o alla battuta. Ha cambiato molti mestieri anche se quello
di materassaio, ci sembra, sia stato il più costante, quello trainante, fino agli ultimi anni di sua vita (è morto da
poco tempo, nel 1993).
Ha messo su famiglia con la sua Maria, una santa donna che ha saputo mandare avanti una «barca» dove i
problemi non sono mancati certo.
«Milio» era svelto con le mani e con la bocca; una vivacità innata che gli permetteva di superare qualsiasi
ostacolo. Una figura popolarissima che rimarrà nélla mente dei bussetani.
Era nato a Busseto nel 1910; sua madre era pure una donna molto nota, la Puldina; e suo fratello Mario, la
guardia, era dotato di ingegno pittorico e di una certa cultura verdiana e bussetana.
MAMÈN
Emilio Magri: dinamismo e buonumore
Alto, austero, quasi distinto nel portamento, Mamèn, fratello della famosissima Renata (v.), abitava in fondo a via
Pettorelli, quindi nel cuore della vecchia Busseto che comprende l'area della Coda-lunga: Rastelli Massimo, il suo
nome, classe 1876. Di professione «tramviere bigliettario», al termine del suo peregrinare, finiva i suoi giorni al
Mendicicomio come tanti altri bussetani dei ceti più umili, dove moriva nel 1951.
Aveva sposato la Pietralunga Giuseppina nel 1900, ma non aveva avuto figli. Mamèn lo vediamo, nella foto,
assieme alla Mietta.
MANACUL
Era il marito della «Nitòn» (v.) che aveva sposato dopo che questa era rimasta vedova, nel 1912. Anche lui
facchino, nonostante l'handicap del braccio destro più corto; da qui lo stranome... pertinente. Sincero Casalini era
il suo nome.
Un tipo brillante: è stato lui che ha messo su quella storiella (non si sa fino a che punto autentica) dei... «quatar
mees e mes».
Morì giovane, a soli 46 anni, lasciando un figlio, Pino, «al fiò1 dal Nitòn» (come se lui non c'entrasse...), che
emigrò in Belgio per molti anni, quindi, ritornato, si trasferì a Parma.
Manacul lo si può vedere nella foto di gruppo assieme a Ferraguti.
MANIA
Bardi Giulio, fratello di Egidio, il professore di disegno e di Giaco-mino, meccanico di cicli.
Nato a Busseto nel 1905 e morto a soli 35 anni non si era sposato. Era chiamato così per le sue strane manie, il
suo temperamento piuttosto vivace ed imprevedibile. Assieme ai suoi amici (Tino Zani, Plinio Ferrari, al Cocu
Bianchi, Gigèn Fochi, Luigi Marinèn «Paralu» ecc.) ne combinava di belle, specialmente la notte, e lui, Mania, era
l'artefice principale. Amava anche partecipare al Carnevale con strani soggetti speciali da lui ideati come quella
volta che sfilò al Corso mascherato con una ponga nella gabbia, che estraeva ogni tanto facendosi mordere le dita,
opportunamente calzate dal guanto. Giulièn Bardi, un bravo meccanico, in definitiva, ma dalle trovate e scherzi
piuttosto bizzarri che sorprendevano gli stessi suoi amici. Aveva anche una sorella, la Pina, che ha poi sposato
Giuvan «Patarnostar».
MANZI
Un bravo medico condotto di Busseto (di origine piacentina, classe 1855) con spiccata propensione per l'arte
ortopedica nel senso che era abile nelle amputazioni di arti o interventi agli stessi. Famosa l'amputazione della
gamba a «Cinello» (v.) alla fine del secolo scorso, e l'operazione di «restauro» alle gambe di «Piat», Archimede
Gualazzini.
Tutti interventi eseguiti senza anestesia e con rudimentali attrezzature. Era, insomma, un benemerito della
società e i Bussetani lo amavano. Abitava in Codalunga ed aveva il vizietto di fermarsi al Bar della Stazione a
scolare qualche bottiglia. Aveva avuto cinque figli.
MARÈLU
Figura caratteristica di brillante e disinvolto personaggio bussetano, consapevole di essere un «artista», di
sapersela cavare ma aveva fama di scarsa... filantropia.
Faceva il sarto ed abitava in piazza del Mercato dove abita oggi la Pina, la «campanèra»; non era sposato e viveva
con una sorella, Adelina. Il suo casato era Finetti Salvatore, classe 1877, fu Pasquale e Parolari Emilia. Molti
episodi si raccontano di lui, specie per rimarcare la sua tirchieria: ad esempio si dice che accendeva la stufa tre
volte all'anno; mangiava le ciliegie alla sua stagione conservando i noccioli che rompeva d'inverno.
Aveva un poderetto in campagna in periferia che, si diceva, tutti i giorni andava a... concimare personalmente per
renderlo più fertile. Le sue condizioni... economiche non erano del tutto precarie ma lui voleva far credere che se
la passava proprio bene: nel periodo della crisi del tabacco, ad esempio, ostentava sempre il sigaro in bocca
(quando,gli altri, a mala pena trovavano il modo di... ciccare, di masticare il tabacco, ciclato e riciclato). Il suo
sigaro, però, era tutta una messa in scena: era sempre quello, trattato in modo che non si sciupasse.
Una volta si ruppe una gamba scivolando dalla scala, ma lui, senza tante storie, se la «steccò» in proprio con due
pezzi di «canti-nella», e così rimase zoppo. Cuciva tutto a mano, senza macchina, a volte seduto fuori di casa,
appoggiando un piede su un piolo della scaletta di legno. È passato alla storia per via delle misure che prendeva
senza il metro, così, ad occhio: una volta, in campagna, doveva fare il vestito a un giovane che stava nei campi; la
madre lo chiamò a casa e lui, Marelu, appena vistolo: «El qul la'?... ho bel'è vist!». Lo squadrò a distanza e gli
confezionò il vestito della festa. Era tipo abbastanza calmo; però; un giorno lo fecero arrabbiare di grosso e lui
sferrò una... giornalata al suo interlocutoe (solo che dentro al giornale vi era un matterello da cucina...). Marelu
morì nel 1955, in silenzio, lasciando, in definitiva, un buon ricordo di lui: una figura che in certo qual modo
rispecchia quella del bussetano tipico, anche se pieno di stranezze. «Un bel elemeint»!, come diciamo noi.
MARIÒN DELINA
Una tipica figura di vecchio carrettiere; uomo di pasta buona, taciturno, dall'aspetto cupo ma assolutamente
innocuo.
Bersanelli Mario, classe 1888, originario di Besenzone ed «attraccato» a Busseto nell'immediato dopoguerra (la
prima grande guerra).
Appena da noi aveva sposato la Tina (Degiovani Ernesta, sorella della «Nitòn»), che gli regalava tre figli: la
Verdiana, Pietro (Pirèn, da qualche anno scomparso) e la Marcella.
Grande passione per i cavalli, anche se lui aveva a che fare coi muli. «Faceva» la ghiaia, «in dal Stiròn» con Patar
Nostar, Ghèrbi, Cesar Butàs, ecc.; lavoro duro, durissimo, che lo costringeva a dare una mano al mulo nella risalita
del greto del torrente. Gli capitò anche un'avventura... bellica, negli ultimi mesi del conflitto 1.94045: stava
tornando da Madonna Prati con un carico di «Masòj» per il forno di Vicini, quando una pattuglia di aerei
americani (sospettando che sotto le fascine si nascondessero chissà quali armi) non esitò a mitragliarlo. Perse
così mulo e carico cavandosela per miracolo rifugiandosi dentro al fosso.
Negli ultimi anni di sua attività faceva il «corriere» Busseto-Cre'moria, con «Ciantèn», due volte la settimana.
E morto nel 1969 mentre la sua Tina (una donna che ha sempre lavorato moltissimo, per la famiglia e per gli altri
- faceva la lavandaia per conto terzi... «cu'l navasòl»), è campata ancora una ventina d'anni dopo il suo Mariòn,
giungendo all'invidiabile traguardo di trisavola.
Perchè lo chiamassero Mariòn Delina nessuno è stato in grado di saperlo.
MASAVÒ
Era così chiamato perchè i ragazzini «discoli» lo prendevano in giro (era uno dei divertimenti dei ragazzi di una
volta) perchè era zoppo, e lui, rincorrendoli li ammoniva: «At ciapavò, al masavò, at cupavò», tipico di chi
«mangia» l'erre.
Era il primo marito della famosa Tarsila, che lasciò vedova nel 1928 (questa, poi, sposerà l'altrettanto famoso
Palèn). Si chiamava Zucchi Vittorio ed era nato a Busseto nel lontanissimo 1859. Un tipo piuttosto strano,
originale, pieno di manie e complessi.
MASSERA (al maèstar)
Una figura ancora «viva» fra la gente di Busseto, anche se sono trascorsi oltre quarant'anni dalla sua morte.
Maestro di musica è il primo attribuito per il quale si è fatto subito conoscere ed apprezzare nella nostra
cittadina (era oriundo di un paesetto del cremonese, S. Daniele Ripa Po, dove era nato nel 1884). Il suo
entusiasmo, la sua innata passione per la musica, uniti alla capacità e competenza, lo avevano portato, fin dalla
sua venuta a Busseto (1911) a risvegliare quella cultura musicale che la cittadinanza verdiana stava smarrendo.
Gli era stato conferito l'incarico dal Comune, innanzitutto, di Direttore della Scuola di strumenti a fiato, e di
Maestro di Cappella della Collegiata di S. Bartolomeo. Ma soprattutto era il maestro della Banda Cittadina di
Busseto, ciò che più di tutto lo appagava. Era la «sua» Banda, ma anche dei Bussetani e dei suoi musicisti, vecchi e
giovani, i quali nutrivano per il loro maestro rispetto e riconoscenza per le soddisfazioni che procurava loro. Chi
non ricorda i memorabili concerti della banda in piazza Verdi, da lui diretti? Una banda composta da artigiani,
operai, impiegati e pochissimi diplomati, capaci, però, di eseguire impegnativi pezzi, esaltandosi quando
suonavano sinfonie verdiane al cospetto del monumento. Chi erano questi bandisti? Vediamo di ricordarne
qualcuno (ci perdonino gli altri): Rino Sagliani, Zecca, Dante Foà, Toscani, i Bisagni, Aldo Provini, Amici Camillo,
Dante Spigaroli, Lino Orsi, Lodovico Camorali, Niceto Ambrogi, Gino Cavanna (che diverrà direttore alla morte
del maestro Massera), Vittorino Vanoli, Pippo Rusca, Ginèn Ambrogi, Ugo Patroni, Antonio Galvani e suo figlio
Mario, Bruno Ambrogi, i fratelli Squadroni, Ildebrando Mondelli, Enore Pasetti e poi, più vicini nel tempó,
Romano Tessoni, Luigi Negri, Tino Pederzani, Enzo Parizzi, Guido e Bruno Concari, Enzo Bassani, Pierino Casoni,
Adriano Balestra, Roberto Baistrocchi, Luigi Bonatti («Balela») Gianni Bonini e soprattutto un giovane, Fernando
Ghilardotti, il quale dopo essersi diplomato in fagotto e pianoforte conseguirà la laurea in musicologia.
E i suoi coristi... non possiamo lasciarli fuori: Tullio Allegri, Gino Sacca, Emilio e Alberto Rossetti («S'ciatrèn»),
Belli Radames, Remo e Romolo Pederzani, Pinèn Brandazza, Gino Micconi, Gildo Crosali, Marino Dotti, Delindati
Virginio, Paolino Crosali, Cesare Tarozzi, Emilio e Luciano Bonilauri, Paride Allegri, «Ceco» Toscani, «Nato»
Carbognani, Guido e Bruno Concari, Angelo Bassani, Marino Cremona ecc.
Il maestro Massera era anche compositore di pezzi sacri, pezzi per banda e organo (pregevole una sua «Ave
Maria» che Vittorino Va-noli, ancora oggi, suona volentieri all'organo di S. Maria degli Angeli).
Persona esuberante, bonaria, piacevolissima alla conversazione, era un'ottima «forchetta», insomma amava la
buona tavola con predilezione per il culatello (però!!)... tanto che, si dice, una volta fece star male il suo gatto che
si era limitato a mangiare... le pelli che gli gettava. Nelle brevi pause alla scuola di musica o alle prove della
banda, per prendersi un attimo di relax, si intratteneva con gli allievi, bonariamente, con qualche battuta come...
«Kate, kus te ghè mangia, stasera?».
Figura indimenticabile il nostro caro «maistròn»: dedicò il meglio di se stesso alla sua famiglia ed ebbe la
soddisfazione di vedere i suoi cinque figli (Ginetto, Luisa, Mario, Angiola e Giancarlo), tutti laureati, grazie ai
sacrifici della santa donna di sua moglie, la maestra Nella Baistrocchi (47 anni di ininterrotto servizio che gli
meritò la medaglia d'oro del Ministero della P.I.).
Nel ricordare la figura del m° Massera all'indomani della sua scomparsa, Lino Rizzi, all'epoca già giornalista
emergente, sul «Giornale dell'Emilia» del 21 marzo 1952, scriveva che... «dalla sua opera fattiva ed instancabile
ricevette una indiscutibile notorietà»... e che «le celebrazioni per il cinquantenario verdiano lo videro alla testa di
ogni iniziativa e la manifestazione popolare da lui promossa con la costituzione della corale bussetana resterà
,una delle cose più significative di tutto il ciclo commemorativo». Anche un anonimo corista su «Il Risveglio» del
1° maggio 1952 ricordava con nostalgia le bellissime «Litanie» del mese di maggio, che il maestro Massera
preparava ogni sera per il coro e i fedeli...
È- morto dignitosamente povero, cioè senza appartamenti, tappeti persiani o quadri d'autore; visse in mezzo alla
gente, a tutta la gente e aprì la porta a tutti. Per questo ha lasciato un ottimo ricordo.
MAVRÈN
Il m° Massera (al centro) in un concerto al Treato Verdi con (da sinistra) Ginèn Ambrogi, Bruno Ambrogi,
Ugo Patroni, Antonio Galvani e Pippo Rusca.
Stecconi Corino - Personaggio faceto, brillante, col senso dell'umorismo. Faceva il venditore di formaggio in
piazza. Proveniva da una famiglia numerosissima, era nato a Besenzone nel 1898, si era sposato nel '25 e dopo
alcuni anni era sbarcato a Busseto.
Dalla gamma di episodi che lo hanno protagonista salta in mente l'aneddoto del maresciallo dei carabinieri il
quale, accostatosi al suo banco di formaggio, assaporava tanti tipi di grana per scegliere il migliore, a tal punto
che l'arguto Mavrèn uscì con questa frase: «Cal mangia più-, siur marescial... ho patì tant la fam anca me da
picièn...».
MICHEL
Tipo gioioso, brillante, pieno di »massime«, tutte sue, che sciorinava in ogni occasione e, più «ladine», quando
aveva bevuto un bicchiere (il che avveniva non di rado). La sua mimica straordinaria, le sue «trovate» lo avevano
reso noto nel" suo mondo popolare: «Ragàsi (diceva alle sue figlie), figarè bèn, che mé ho mèi figarà bèn gnan in
futugrafia». E quando doveva giudicare qualcuno che gli stava sullo stomaco diceva: «E `mmei aveg un mort in cà,
che un cojon in 's la porta».
Si chiamava Lodigiani Emilio, ma lo chiamavano Michel. Un bussetano puro; era nato nell'88. Aveva sposato Galli
Iride nel 1921 e, rimasto subito vedovo, aveva impalmato la sorella di questa, Margherita, nel '23. Faceva il
muratore ed ha sempre abitato, nell'Impianellato, una via, come abbiamo visto, «baciata» dal dio Bacco. Che buffo
il nostro Michel! «I fioj i'en tant me 'l cambièli sènsa scadènsa...», diceva.
Quando tornava a casa piuttosto... allegro si metteva il cappello sulle «ventitrè», domandava in che paese si
trovasse e chiamava la sua «Ghita» con un eufemismo astrale, «Ecliss», non si sa bene se per farle un
complimento nel senso che... oscurava il sole coi suoi capelli rossi, oppure in senso spregiativo. Era primo cugino
con «Palèn« e »Sadòc« (v.).
Di Michel si potrebbero raccontare episodi e aneddoti a non finire. Uno solo val la pena di lasciare ai posteri,
quello della gallina. Una storiella che viene ricordata con alaine varianti più o meno veritiere ma che, in sostanza,
ci mostra un personaggio davvero amena.
Una sera, dopo la solita bevuta, in compagnia, al «Nazionale» del famoso Pumòn, appena fuori, all'aria aperta,
assieme ad un suo amico, devia per fare la solita fermata al «vespasiano» che era in via dell'Ospedale (gli orinatoi
erano disseminati un pò dappertutto, una volta). Lì trova una gallina, evidentemente sfuggita da qualche vicino
pollaio cittadino. Michel e il suo amico, impietositi, constatate le cattive condizioni del pennuto, tutto
infreddolito, pensando che avesse... sete, ritornano con la gallina sotto il tabarro al «Nazionale» e la fanno bere,
naturalmente vino rosso. Si può immaginare la scena, con le risate dei presenti.
La povera gallina, non abituata all'alcool, ben presto da' in escandescenze, creando confusione, fracasso con
disturbo della quiete pubblica. L'episodio della gallina ubriaca, al mattino seguente, è sulla bocca di tutti. E la
cosa va nelle orecchie della proprietaria della gallina, la signora Maddaluna (che abitava proprio contro
l'Ospedale). Michel viene così invitato dal dr. Maddaluna, (che era direttore dell'Ufficio delle Imposte Dirette e
vice segretario del Fascio) nel suo ufficio. «Cura ghé, siur?», esordisce Michel appena entrato nel suo ufficio,
«m'iv mandà a ciam,à?». «Silenzio... (cominciò severo Maddaluna) Cosa avete combinato ieri sera?» E Michel,
candidamente: «Me, siur??.. gnènta!». «Ma come, riprende Maddaluna, ci sono un sacco di lamentele di gente che
non poteva dormire»... E Michel, di seguito: «Anca me, siur, ho durtnì pooc!» «Non faccia lo spiritoso, e ...si tolga il
cappello!... Lei non sa chi sono io?..» «No, siur», risponde ancora il nostro personaggio «Io sono Maddaluna!»... E
Michel, seriamente impassibile, ancora risponde: «E me sum Michel!».
Un'altra variante di questo episodio vorrebbe che la gallina non fosse stata... proprio trovata, e che il Maddaluna
avrebbe affrontato Michel contestandogli di essersi appropriato del pennuto senza indagare da dove provenisse.
A questo proposito si dice ancora che il nostro personaggio si fosse recato direttamente in Caserma dai
Carabinieri a raccontare come fossero andate realmente le cose, e che il Maresciallo gli avesse detto
esplicitamente: «Perchè non l'avete messa in pentola, invece di far tanto casino!?».
Si racconta anche che quando lavorava lontano da casa (faceva il muratore, come abbiamo detto) e consumava il
pasto di mezzogiorno fuori, si portava l'occorrente nella sporta, di solito pane e frittata, oltre al fiasco,
naturalmente: ma lui aveva sempre fame e non resisteva a tenere tutto questo nella sporta, sicchè, ancor prima
di mezzogiorno, si mangiava pane e companatico... «tant (diceva) prima o dopa, lè la stèsa cosa...»!
Una figura caratteristica, il nostro Michel, davvero speciale... È morto a 65 anni, nel '53, ma agli occhi di noi
ragazzi sembrava ne avesse tanti di più.
MIETTA
Questi è il «nostro» famoso Michel
Figura notissima, personaggio che ha fatto un pò la storia della Codalunga. Era una bella donna da giovane, alta e
maestosa, signorile; molto ordinata da giovane ma negli anni avanti era divenuta distratta e pasticciona verso la
sua persona. Leggermente balbuziente, quando parlava faceva strane «smorfie» con la bocca, ciò la rendeva
ancor più simpatica. Era dotata di straordinaria bontà d'animo; nella sua casa (uno dei tanti «buchi» della
caratteristica Codalunga) c'era sempre gente, e a tutti era disponibile ad offrire il caffè. Era una discreta sarta,
sempre incollata vicino alla sua fedele macchina da cucire presso la quale mangiava, prendeva il caffè più volte al
giorno ed ascoltava la radio in continuazione (quando la radio non l'aveva nessuno nelle vicinanze). Amava la
musica lirica ed era esperta in materia. Alla sera, ma anche di giorno, noi ragazzi indugiavamo davanti alla sua
finestra presso la quale lavorava, per ascoltare la musica, le opere. E lei ci chiamava dentro, ci faceva sedere per
ascoltare meglio le romanze, in particolare il Concerto «Martini e Rossi», che veniva trasmesso il lunedì sera.
La Mietta non era sposata ed aveva avuto una figlia, che le è morta a soli sei anni. Mietta Secchi il suo casato, era
nata nel 1890 da Paolo Secchi, quello dell'anolino di legno, e Bianchi Maria Teresa, la «Tisèn» com'era chiamata.
Negli anni della guerra era diventata quasi un pachiderma; lenta, larga, pigra: non si scomodava nemmeno per
fare... pipì; usciva in contrada (passava a malapena per la porticina di casa), si guardava attorno circospetta, si
portava in mezzo alla via sopra la bocchetta di scarico delle acque piovane, allargava semplicemente le gambe
sotto una lunga e nera veste e, senza ulteriori operazioni... si liberava. Poi, quando passava «Gigi» Rossetti
operaio del Comune,con la pompa disinfettante antimosche, lo invitava a dare una spruzzatina nella «bocchetta».
Per le altre avventure di combricola non mi ripeto; basta vedere «Palmiren (e Pirotu) e «Vicu Baldiis».
La Mietta Secchi aveva un fratello, Mario, professore di contrabbasso (lo chiamavano Mario Tara), marito della
Celestina Barezzi, anch'essa chiamata, la «Tisèn» «sorellastra di »Nani» Barezzi e dei suoi fratelli Angilèn al
prufesur, Pinèlo e Tiinèn), ed una sorella, Esterina, sposata con Giovanni Delindati (i genitori, questi, di «Berto»
al barber).
La Mietta è stata una figura caratteristica, conosciutissima che ha saputo farsi voler bene. Una donna d'altri
tempi.
MORELLI
La famosa «Mietta» (seconda da sinistra) posa per il fotografo (Giuffredi), in Codalunga,
assieme alle sorelle Patroni a'Anna e la Rosa).
La piccolina è la Ivona, moglie di Marièn al barber e l'uomo è «Mamèn», fratello della Renata.
Quando si pensa a Morelli si va subito col pensiero al contrabbasso e... agli anolini. E i bussetani di una certa età
sanno che il nostro personaggio era un appassionato suonatore dello strumento a corde, più ingombrante. Ed in
quanto agli anolini, l'episodio del pranzo ai Frati, terminato malamente, è pure noto e va senz'altro trasmesso ai
posteri. Era tradizione che per l'Epifania, dopo la solenne cerimonia religiosa, con tanto di suonatori, si passasse
all'«...agape fraterna» con anolini, brodo in terza, e tutto quel che segue. E il nostro personaggio,' che amava
particolarmente la buona tavola (specialmente se in veste di invitato), quella volta si lasciò andare nelle
libagioni; si sentì male e dovette ritirarsi per rimettere. E qui uscì dal buon Morelli, quella frase che è rimasta
famosa. Mettendo la mano davanti alla bocca a mo' di griglia, di filtro, esclamò: «Vivaddio... il brodo sì; ma gli
anolini mai! ».
Morelli era proprio il suo cognome, e di nome Nelusco (ma nessuno lo chiamava per nome di battesimo); era un
bussetano, nato nel 1884; anche il padre era nato da noi. Nel 1919 era emigrato per qualche tempo a Nizza e non
si era sposato.
Ha abitato in via Zilioli (la solita Codalunga) e quindi in quartiere Case Popolari, finendo però i suoi giorni
all'Ospizio, nel 1977.
MUCIÒN (al)
Era uno dei «ragass ad Cualonga» anni trenta-quaranta. Si chiamava Delledonne Sergio, classe 1927; la famiglia
(il padre Sincero e la madre Scita Adele) era originaria di Soragna. Tipo apparentemente calmo; parlava adagio
scandendo le parole ma, con gli amici, era protagonista delle avventure e birbonate, caratteristiche dell'epoca.
Perchè era chiamato così, Mticiòn (un bel mucchio), è presto detto: un giorno come tanti, ai tempi dell'uva, delle
albicocche, ecc., con la solita combriccola, si era portato nei «filagn» (filari, per chiarire meglio) a Spigarolo, per la
cronaca, da Abati. Fatto il pieno, mentre si attardava a mostrare ai suoi compagni di avventura, la «snèda d'iia»
che aveva realizzato... («Guardè, ragass, che bel maciòn»), arriva «al paisàn» che pizzica il nostro eroe, il quale
appesantito dal carico, non riusciva a divincolarsi, e così... prende un bel milciòn... «ad plati».
Povero Milciòn, morto prematuramente; un'altra famiglia numerosa la sua che si è dissolta; la sola Graziella, la
più esuberante, con lo spirito da «ragazzina», di tanto in tanto ritorna qui a Busseto a trovare le vecchie amiche o
a fare qualche «numero», come quello alla festa dei «Ragass ad Cualonga», nel '91.
MUNCHÈN (al)
Borsi Guglielmo (detto anche «Giuliani», non si sa per qual motivo) il cui soprannome è un chiaro riferimento al
suo braccio destro più corto dell'altro. Una menomazione abbastanza grave che non gli ha impedito, però, di
divenire un estroso suonatore di fisarmonica. Un'attività che avrebbe potuto e dovuto sfruttare meglio perchè
proprio ci sapeva fare con il suo strumento, molto di moda una volta, e che faceva «cantare» a meraviglia. Si
dilettava a divertire la gente, specialmente nelle osterie, da solo o con qualche suonatore occasionale, Brigenti
(v.) e un certo «Farmòn» non meglio identificato. Con loro si attardava fuori casa anche per giorni interi
tornando poi con pochi spiccioli e... tanta voglia di dormire.
Fra i suoi «allievi» possiamo considerare il «maestro» Gino Dotti (v.). Era nato a Busseto nel 1882 ed era sposato
dal 1911 con Adele Antelmi; prima di venire ad abitare in Codalunga risiedeva in campagna, a Frescarolo. Aveva
una schiera di figli, quasi tutti emigrati fuori Busseto. La Graziella è l'unica rimasta nella nostra terra.
Un personaggio pittoresco il buon Guglielmo, un tipo tanto lontano dai nostri tempi...
NANÀN
Al «Munchén»
O «Picaja-Nanàn»: anche in questo caso abbiamo uno stranome di invenzione popolare. Al secolo si chiamava
Rusca Renato; cognome bussetanissimo (anche se oggi questo casato è scomparso); era nato nella nostra
cittadina nel 1869 ed aveva sposato la Rosa Tosi, anche lei bussetana autentica. Era facchino e si dice fosse
dotato di una forza erculea (era capace di sollevare, con i denti, un sacco da un quintale); era sordo e pieno di
manie, come quella di parlare con i ganci appesi ai pilastri di via Roma, per questo lo chiamavano anche «rucitil».
Quand'era brillo (quindi abbastan.za di frequente) cantava le romanze delle opere di Verdi ed era, si dice, un
buon ballerino, accompagnandosi, a volte, imitando il trombone, mettendo la mano sotto l'ascella e muovendo il
gomito... a pompa
Non aveva molta compagnia, aveva un gatto che lo seguiva sempre come un cagnolino che lui chiamava «merda».
Un rozzo omone ma garbato con gli altri; non chiedeva nulla per sé. È morto nel 1943 all'Ospizio di Busseto, dopo
aver abitato in via Zilioli (per non ripetermi, ma che è la Cualonga come tutti sanno), via Roma e via Provesi.
Nanan lo si può vedere in fotografia nel gruppo di Tosi, al Tarlandòn (è il terzo da sinistra, con le braccia
conserte), dove ha lavorato per breve tempo.
NITÒN (la)
Una delle figure più originali, rappresentative, una vera macchietta bussetana. Conosciutissima da tutti. Era detta
anche «la Gnacra». Tutta abbindolata, piena di patacche al collo, nelle orecchie, sulle dita, naturalmente di latta.
Aveva una carriola, suo mezzo ordinario di trasporto, con la cinghia da passare dietro al collo, per ostentare
fatica e pietismo, salvo poi andare via spedita quando non era notata da nessuno. Si chiamava Degiovanni Annita,
nata a Busseto nel 1885, sorella della Tina (la moglie di Mariòn Delina). Aveva sposato Segalini Sincero nel 1905
e dopo sette anni era rimasta vedova, ma nel '32 sposò Casalini Sincero, facchino, detto «Manacul» (v.). La Nitòn
era appassionata dell'opera lirica alla quale non mancava mai di assistere nel loggione, in compagnia...
dell'affezionato fiasco di vino.
La Nitòn oltre al figlio Pino aveva «tirato su» anche suo nipote, Pirèn, il quale aveva vissuto la sua giovinezza
appunto dalla zia. Naturalmente abitava in Codalunga e prima di morire, (ciò è avvenuto nel 1963) si era
trasferita in via Malta (ora via XXV Aprile).
PARIGÈN
Capofamiglia di un «reggimento» di figli, ben undici, quattro dei quali scomparsi e gli altri tutti a Busseto (Nando,
Alfredo, Nina, Maria, Anna ed Eva) e Carlo, estroso pittore, emigrato.
Adorni Luigi, il nostro Parigèn, soprannome che non si sa da dove provenga, e che ha lasciato in «eredità» ai figli.
Era del 1894, di modesta estrazione famigliare, aveva cavalcato un pò tutti i mestieri per tirare avanti... «a l'unur
dal mond», quando la miseria dalla «emme» maiuscola regnava dappertutto, figuriamoci con undici figli. Senza
un mestiere fisso ma con tanto ingegno e volontà ha fatto il calzolaio, meglio dire il ciabattino, è emigrato in
Germania, ha fatto l'ortolano, il bracciante. insomma è riuscito a sbarcare il lunario.
Uomo deciso, esuberante, nervoso a volte. Aveva, anche lui come tanti, il brutto vezzo di intercalare al discorso,
qualche... moccolo. Accidenti, questa è tutta da raccontare. Un giorno (faceva l'ortolano negli anni di fine guerra e
aveva l'ortaglia vicino alla scuderia di villa Pallavicino); con mulo e carretto carico di pomodori, stava
transitando davanti alla chiesa dei frati. E qui il mulo si impiantò, non voleva più andare avanti, e lui, Parigèn, a
bastonarlo bestemmiando; e il mulo rinculava sempre più, fino a scaraventare il carretto nel canale del molino
che a quei tempi era scoperto. Il povero ortolano, con crescendo rossiniano, ha inanellato una serie di «sarachi»,
gridando tanto forte da far uscire dal convento tutti i frati, i quali, noncuranti delle... litanie del nostro Parigèn, si
sono tirati su le ingombranti vesti ed hanno recuperato le cassette di pomodoro. Terminata l'operazione Parigèn
ringraziò i frati... a modo suo, cioè proferendo ancora qualche... giaculatoria che le era rimasta dentro.
Un'altra volta, durante un furioso temporale con caduta di grandine e quindi con pericolo di rovinare il suo orto,
lui e la moglie, la buona Gemma, hanno affrontato in modo diametralmente opposto la situazione: lei aveva
incrociato sul camino, «la mujóta e 'l gavèrd» ed aveva acceso un ramoscello d'ulivo per scongiurare danni,
pregando il Signore che non gli rovinasse il raccolto, mentre lui, girava attorno al tavolo come un indemoniato a...
recitare, a modo suo, i salmi, andando a disturbare tutti i santi del Paradiso.
Aveva abitato anche in Codalunga, in una casa troppo stretta per tutta quella compagnia. Aveva intrapreso anche
il mestiere di cocomeraio, con «l'ingtirièra» contro la segheria Barezzi (oggi Cremona), prima di fare l'ortolano.
E morto a 73 anni.
PATRONI (la guèrdia)
Giovanni Patroni, la guèrdia. Notissima figura dotata di particolare sensibilità umana; uomo tranquillo pieno di
saggezza e senso dell'ordine. Prima di essere guardia comunale faceva il carabiniere (non abitava ancora a
Busseto). Aveva una famiglia numerosissima. Dopo essersi sposato, con l'Edvige Gavazzi, a Fiorenzuola d'Arda,
era stato a Besenzone per qualche tempo dove svolgeva già allora il compito di guardia rurale. Poi, nel 1910, era
venuto a Busseto; ha abitato in Rocca e, quando è stato costruito il macello pubblico, nel 1911, è stato nominato
custode, compito che svolgeva in contemporanea con quello, appunto, di guardia comunale. Intanto la famiglia si
ingrossava... E lui, il nostro personaggio, si alzava prestissimo, specialmente d'inverno; doveva far bollire l'acqua
per i macellini che uccidevano i suini. Quindi andava in servizio.
Un servizio fatto quasi esclusivamente in campagna, con la bicicletta. Quanti agricoltori hanno usufruito dei suoi
servigi: portare a Busseto una lettera, compilare la denuncia del vino e recapitarla in Comune, incarichi vari da
cui non si ritirava mai. E, in compenso, non rifiutava una sporta di verdura fresca o qualche uovo, e, solo di rado,
un bicchiere di vino per mandar giù la polvere che si portava dietro.
È scomparso nel 1951 lasciando un ottimo ricordo ed una famiglia esemplare.
Patroni lo vediamo in fotografia nel gruppo dei comunali, nelle prime pagine di questa rassegna.
PEDRINI
Ercolano Pedrini, ai più non dice nulla questo nome; eppure qualche bussetano dai capelli bianchi se lo ricorda
ancora. Una fugace apparizione a Busseto (era nato a Parma nel 1908 e si era trasferito da noi nel '33, ma per
pochi anni); era un tipo originale, faceva l'arrotino e girava in campagna con un impianto a dir poco ingegnoso:
aveva una cassetta dietro la biciletta, sul portapacchi, sulla quale stava scritto «Contadini, volete mieter senza
fatica e spender pochi quattrini?, fate arrotar la falce da Ercolano Pedrini».
Aveva come «giovane» Luciano Bonilauri il quale gli procacciava i clienti. Avrà fatto poi fortuna?
PEPINO (al siur)
Era proprio chiamato così, al «siur Pepino». Di professione caffettiere al «Caffè Centrale», il locale più rinomato e
aristocratico di Busseto, (addirittura c'è chi dice che una volta non si poteva entrare se non si vestiva con giacca e
cravatta). Era nato a Ragazzola di Rocca-bianca, era venuto a Bugseto nel 1923 e si era ben inserito, rispettato e
riverito, entrando -a far parte da subito dell'elenco dei cosiddetti notabili o benestanti.
Era il «papà» di tutti, a Busseto: da lui andavano in molti per chiedere informazioni o aiuti di qualsiasi natura,
perchè mettesse i suoi buoni uffici per ottenere sussidi dal Comune, per fare una domanda di lavoro, ecc.
Qualcuno andava nel suo Caffè col boccetto dell'olio di ricino per farselo preparare in modo che si potesse
trangugiare senza troppe smorfie.
Dall'aspetto apparentemente asciutto e burbero, nascondeva un cuore tenero. Più di una volta, dopo le undici di
sera, all'ora di chiusura del locale (che bei tempi, quelli!) permetteva, a suo rischio, ad alcuni, ad esempio «al ciop
di siur», di fermarsi a bere una bottiglia, magari di champagne (marca Piper a 30 lire la bottiglia, qualcuno
precisa).
.
La «siura Angiolina», sua moglie, donna molto affabile ed attenta, disponibile a fare due chiacchiere con i clienti, era un tantino attaccata al cassetto, più di quanto non lo fosse il
marito.
«Daghen puuc», diceva alle ragazze che servivano ai tavoli.
Morti entrambi hanno lasciato qui a Busseto Gianfranco, il cavaliere, il quale, non ha bisogno di tante parole
perchè ancora oggi è uno dei personaggi più noti e in vista nella nostra città.
PEPÒN
Era Vitale Vincenzo, al papà 'd la Brunetta, la mujer d'Ettore Cavalli. Pepòn era nato a Parma nel 1901, era venuto
da noi nel 1925 e si era sposato nel '33. Faceva un pò di tutto, anche se menomato da un infortunio sul lavoro
avuto in gioventù che gli impediva di svolgere lavori pesanti. «S'an ghes mjia col pè chi»!, Andava dicendo. E così
non poteva fare molta strada a piedi, per cui le fermate, specialmente nelle... chiese erano piuttosto frequenti.
Capitava a volte che, incaricato dalla Maria, sua moglie, di andarle a prendere il latte in Cualonga, si sbagliasse e
portasse a casa «un pugnatèn ad vèn ad Pumòn». Diventato nonno faceva il «beby-sitter» portando Fabio sul
«blisgone», così chiamava lo scivolo.
E così fra una sosta e l'altra fra un progetto e l'altro, si andava interrogando, il buon Pepòn, su cosa sarebbe
diventato senza... «col pè chì».
PEPU SÌSULA
«Pepòn»: al papà 'd la Brunetta.
Era così chiamato Giuseppe Molla, il papà dell'Antonietta Merli (simpatica figura di bussetana, da poco
scomparsa). Il nostro personaggio, che era figlio di Luigi Antonio, cocchiere, oriundo di Villano-va, e della «Tisèn»
(Lodigiani Teresa), era nato nel lontano 1869 e fa, ceva il gasista, vale a dire era addetto all'accensione e allo
spegnimento dei lampioni a gas per conto del Comune e contemporaneamente era operaio del gas presso Tosi,
padre del noto «Tarlandòn» (v.).
L'Antonietta raccontava che ai tempi della nascita dell'illuminazione elettrica, che soppiantava il gas, Pepu Sisula era talmente pessimista sull'esito della nuova invenzione che
andava dicendo: «La Giara mija - la dura mija». Purtroppo fu lui che non durò più di tanto: morì infatti a soli 68
anni, nel 1937.
Pepu, che aveva sposato la Carolina, aveva anche altre figlie: la Maria e la Pina andata sposa a Carmelo Ronchini,
«al marsèr», e deceduta a soli 37 anni. Aveva anche un fratello, Lino, del 1875, che era falegname e morì nel 1954.
Ancora in pochi lo ricordano di persona, Pepu Sisula: lo vediamo, in fotografia, nel gruppo degli operai del gas
della ditta Tosi, assieme a «Tarlandòn»; è il quinto da sinistra.
PIAT
Archimede Gualazzini è un noto cittadino bussetano che ha superato di gran lunga gli ottanta. Lo chiamano Piat
che non è un vero e proprio soprannome ma un cognome, Piatti, con cui era chiamato suo padre, Eugenio
(proveniente da Besenzone) perchè un suo antenato aveva sposato una Piatti, un nobile lignaggio di origine
piacentina che ricorre addirittura in qualche biografia verdiana.
Il `«nostro» Archimede, dunque, è un bussetano schietto, nei modi e nel gergo proprio della nostra terra. Dalla
parola facile e scorrevole e dalla memoria eccezionale: racconta mille storie vissute, forse autentiche e a volte
tanto strane da sembrare... quasi vere.
Una vita travagliata la sua: da ragazzo era finito sotto una carrozza del tram procurandosi alcune fratture alle
gambe. Ad operarlo fu il «solito» dottor Manzi, medico tuttofare con vocazione di chirurgo ortopedico (come
abbiamo «visto» in questa galleria).
Piat ha trascorso molti anni lontano dalla sua Busseto: negli anni venti era già a Torino e quindi a Milano, dove
rimase fino alla fine dell'ultima guerra, divenendo un buon elettromeccanico. Aveva aperto quindi, a Busseto, un
negozio di elettrodomestici ma, dopo pochi anni, attratto dai viaggi e dal lavoro all'estero, ripartiva per altre
mete (Uganda, Kenia, quindi Perù, Canada e Australia) inviato dal governo inglese ad insegnare il suo mestiere
agli indigeni presso le colonie e i protettorati inglesi. Questa è la sua storia...
Ritornato sui suoi passi, è rientrato a Busseto carico di esperienze, di avventure da raccontare e da... sviluppare
in compagnia degli amici Bartinu Bufot, Luig Marinèn, l'avucat Rusca eccetera... «e vera... e vera».
PICANÈLO
Questo è un personaggio, una macchietta autentica, indimenticabile. Ancora oggi, ad oltre tre lustri dalla sua
morte, si parla di lui come se l'ultima «trovata» l'avesse combinata ieri sera.
Uomo fedelissimo al suo carattere, forgiato da una vita travagliata e variabile; brutto di grosso, simpatico ma
brontolone, capace di fare di tutto, ha fatto mille mestieri e li ha fatti con cipiglio ed una certa cognizione: dal
muratore, all'attacchino; suonatore nella banda, guardia notturna, pompiere, ecc. Non soffriva di vertigini ed i
lavori più rischiosi li affidavano a lui (aveva demolito la vecchia chiesa di S. Rocco, nel vicolo omonimo per
19.000 lire). Non aveva famiglia, viveva con la madre (una macchietta: si chiamava Alice, ed era detta la
«Fiachèna»: voleva una femmina e non potendola avere aveva adottato due ragazze); ed anche lui, Picanello,
prediligeva il... miracolo della trasformazione dell'acqua in vino. Picanello aveva un nome, anche se questo ha
poca importanza, si chiamava Borreri Giuseppe, classe 1899, bussetano, amava la divisa nera ai tempi del
fascismo, che sfoggiava in ogni occasione opportuna. Episodio della benedizione della cappella dei Caduti in
Collegiata; il prete recita: «A porta inferi»... e lui, di rimando: «Cu/-/é, è, l'è un bel sid, d'invèran». Negli ultimi
anni suoi, quando era ricoverato al Mendicicomio e le sue condizioni di eterno brontolone si erano accentuate,
frequenti erano le liti con l'Amabile ad Salèm. Era molto religioso, almeno negli ultimi anni (c'è quel proverbio, a
questo riguardo che recita: «Quanda la gamba l'a s'impasisa, l'alma la s'insantisa», ma per Picanèlo è forse un pò
severo). Alle cerimonie religiose rispondeva tanto forte ed in anticipo al celebrante che subito ci si accorgeva
quando c'era lui presente; e si arrabbiava con chi non rispondeva.
Si dice che anche la madre, la Fiachena, avesse il... bicchiere facile. Abitavano nell'Impianellato e molte volte lei
andava in contrada, allargava le gambe sotto una lunga gonna nera e giù... Andava a letto col suo cagnolino e al
mattino sbatteva fuori, giù dalla finestra, le pulci che... non avevano dormito.
PICCICA
PICANELO: l’uomo tutto fare.
Non era un bussetano; veniva dal profondo sud e faceva il carabiniere (C'è da dire a proposito di carabinieri che
hanno soggiornato per lungo tempo qui a Busseto, che tutti si sono trovati bene; o siamo stati fortunati noi
oppure ci hanno considerati ospitali e... simpatici; chi si ricorda ad esempio il buon Cleva?).
Questo signor Piccica, il quale dopo che si è ritirato dal servizio faceva un pò di commercio ambulante di
mercerie e stoffe, è passato, per così dire, alla storia bussetana per l'episodio della stufa.
Siamo al tempo di guerra, dell'ultima, naturalmente; egli aveva acquistato, finalmente, una stufa economica (così
si chiamava la stufa a legna che oltre che ad essere usata come piano di cottura fungeva anche da riscaldamento).
Non ne sapeva molto del suo funzionamento, il nostro carabiniere, tanto che mise la legna nel posto sbagliato,
cioè nel forno di cottura, causando un casino di fumo che invase tutta la casa (abitava nelle case popolari).
Precipitatosi dal venditore, il sig. Sincero Scaramuzza, lo apostrofò inquieto: «Signor Sincero... ch'èlla stufa fa'
fumo!, m'avite `mbrogliato!». E così il paziente Scaramuzza si recò dall'acquirente imbranato e gli spiegò che nel
forno ci va messa la torta, non la legna.
PINÈLO
Severo, all'apparenza, ma buono, Pinello, al secolo Barezzi Giuseppe, bussetano del sasso, classe 1896; fratello di
«Nani», di «Tunèn e del maestro di violino Angelo. Era il corriere dei bussetani: due o tre volte la settimana, con
la corriera di linea, andava a Parma con un sacco di commissioni da sbrigare, specialmente negli uffici ma anche
per comprare qualsiasi merce... portatile. E lui, in giornata, le assolveva tutte. Figura notissima, che nei ritagli di
tempo si divertiva in buona compagnia, ma si arrabbiava quando lo chiamavano «Picanelo» (complici i suoi amici
Fantini e Bruno Vicini i quali suggerivano ai forestieri che cercavano «al curer» di chiamarlo forte dalla contrada:
«Picanèl0000»!.
Era amico anche di «Pita» Pizzoni, con il quale, una volta, eludendò la sorveglianza del «s'cianca-bigliótt», che era
Larini, si intruffolò al veglione della Sportiva, ma fu subito espulso, assieme all'amico, per... sovraccarico.
PISIGÒN
Davide Pizzigoni, non era quindi uno stranome, come si usava «battezzare» la gente, i tipi più appariscenti e noti.
Bussetano ma solo dal 1920 (era nato a Piacenza nel 1988), proveniente da Sampierdarena, dopo essersi
stabilito a Busseto sposava Maria, la sorella di Alberto Secchi.
Elettricista di professione, mestiere che ha sempre svolto con competenza e passione; sempre pronto e
disponibile ad ogni chiamata. Di carattere docile si era subito accattivato la simpatia dei bussetani. Aveva un
negozietto di elettricista e vendita di apparecchi radio in via Roma, nel palazzo di S. Ignazio... «95 dal pèchi». Fra
gli aneddoti su questo simpatico personaggio, quello che gli è rimasto appiccicato è senza dubbio la vicenda del
lampadario (alla Villa Verdi), al quale si era aggrappato, causando il patatrack, quando la scala-doppia sulla quale
era salito, si era improvvisamente... aperta.
Una figura che ancora oggi molti ricordano; è deceduto nel 1969 mentre anche il figlio Luigino (un tipo
gustosamente simpatico e vivace), trasferito a Torino, terminerà i suoi giorni terreni, prematuramente.
PIZZONI (la Pita)
Lelio e Guido Pizzoni, bussetani fino al midollo, noti e stranoti facchini, hanno «ereditato» questo nome da
pennuto dal padre, Luigi, (Gigèn) classe 1871; uno stranome, quindi, che dura da circa un secolo, sopportato non
sempre con filosofica pazienza dai nostri due personaggi e solamente oggi, alla terza generazione (e anche
quarta), questa «pita» se ne sta andando del tutto. (Anche perchè dire «pita» significa «scimmia», sbornia, il chè
non si addice certo agli attuali portatori di questo cognome). L'origine viene da un episodio capitato al bravo
Gigèn, appunto. Aveva vinto una tacchina giocando alla «mora», all'osteria, una sera d'inverno. Si faceva tardi e la
moglie, la Celesta Tosi (sorella di «Ceni Patona») cominciava a preoccuparsi del ritardo del marito. 'Ma
finalmente lo sente su per le scale che sta brontolando... con la pita: «Va só, pita... va so, pita», così dicendo
invitava la tacchina in casa. La mattina seguente la Celesta non ha potuto fare a meno di raccontare la scena alle
vicine di casa.
È bastata questa semplice... propaganda perchè Gigèn Pizzoni divenisse da quel momento «la pita» e con lui la
sua diretta discendenza, nomignolo, come detto, non gradito, specialmente da Lelio il quale non di rado
rispondeva per le rime a chi lo chiamava così: «...E té 't sé 'm bèl ucòn».
Tornando a Gigèn - la Pita, abitava in via Dordoni e faceva il sarto, un mestiere che si svolgeva anche e
soprattutto al domicilio dei clienti, in campagna: caricava la macchina da cucire sulla «carta» e portava con sè la
moglie che l'aiutava nel lavoro. Anche lui, come faceva il più noto «Marèlu», confezionava vestiti senza prendere
le misure al «soggetto», bastava un'occhiata... Voleva che anche i figli lo seguissero in questa arte ma solamente
Lelio, per un pò di tempo, resistette: era un omone grande e grosso con due braccia «così» e non se la sentiva di
stare inchiodato ad una sedia a cucire delle braghe. Scelse dunque di fare il facchino, seguito da Guido, il quale
aveva cominciato a lavorare come cementista. Facchino è stato pure Peppino, figlio di Lelio morto
prematuramente.
Una famiglia bussetana che continua con i figli di Lelio: Luigina Copellotti, Luigi, Umberto, oltre alle altre figlie
Vittoria e Ida entrambe trasferite mentre dal ramo di Guido vi sono Eliseo e Nando, quest'ultimo vive fuori
Busseto.
PLACID
Un tipo che i bussetani ricorderanno a lungo. Un autentico personaggio, «bello come il sole» per il suo modo
bizzarro di affrontare ogni situazione; estroverso, anticonformista per natura, brillante; apparentemente pigro e
menefreghista ma sostanzialmente attento. Era nato in quel di Soragna all'inizio del secolo (1902) e la sua
famiglia si era trasferita a Busseto quando lui aveva otto anni. Commercianti i vecchi, commerciante lui: aveva un
negozio di stoviglie, articoli da regalo, vetreria... tanta roba, di tutto.
161
La caratteristica principale del nostro Placid senza dubbio era quella di sciorinare battute in rima, la pù nota
delle quali era «Viva l'Italia», a cui aggiungeva, per completare la rima... «e la siura Amalia»; oppure «Viva Susani,
oggi e domani»; «Sum stuff da mangia dal marluss»... «Por Susan, c'ul brèghi in man». E quando voleva far valere
la sua autorità, in modo semiserio, diceva: «S.P.Q.R.: Susani Placido qui regna».
Questa sua vocazione alla battuta in rima era dunque quasi un intercalare ai suoi soliloqui, ai dialoghi con i
clienti, con i quali aveva un rapporto tutto particolare, imprevedibile e stravagante (insomma, non insisteva mai
perchè comprassero) e. così rispondeva agli indecisi: «Sa vrì mja cumprà, andè `cd».
A questo proposito gli episodi, gli aneddoti con il cliente, in particolare con la classica «risdura», sono parecchi,
ma il più sintomatico del suo modo di fare è quello della... scodella sbeccata. Un giorno una donna di campagna
entrata in bottega si avvicina al signor Susani e chiede una scodella... «Basta c'la sia, anca sl'é sbichèda». E chiaro
che voleva spender poco. E il nostro brillante personaggio, facendo onore al suo nome, senza por tempo in
mezzo, prende una scodella, la prima che gli capita fra le mani, la picchia contro il pavimento finchè si sbecchi e la
porge alla buona donna... «Eco... custa l'é sbichèda!».
Il suo passatempo più gradito era la partita a carte con gli amici al Caffè Centrale: il tersiglio, il gioco da lui
preferito. «Entro, in Benevento» diceva quando aveva belle carte. Finita la partita faceva il «solitario». Fumava
poco ma non teneva mai con sè le sigarette.
Al Bar si faceva consegnare una sigaretta - dal siur Pepino (poi da Amos quindi da Bruno Freddi), e diceva... «una
per volta non fa male!...»
«Ta bèn, Susàn, s'avdum admàn»! Ci ha lasciati nel 1983, con gran rimpianto dei bussetani.
PRUÉN
Placid Siisàn
Provini Aldino (Aldo), nato a Busseto nel 1907 - meccanico di biciclette, mestiere che svolgeva con quella cura e
meticolosità da chirurgo esperto. Celibe per... vocazione della sorella Leandrina (detta Maria) con la quale ha
sempre vissuto a stretto contatto in bottega e in casa. Eccellente anche quando suonava il clarino nella Banda di
Massera, sua spalla assieme al collega Lino Orsi.
Tipo piuttosto originale; nervoso nei movimenti e nella parola; era dotato di forza insospettata nelle mani,
nonostante non fosse un Ercole (smontava e rimontava i copertoni delle bici senza servirsi degli appositi
attrezzi). Soffriva di disturbi di stomaco, per questo portava sempre con sé un biberon, un boccetto di latte che
nascondeva nella tasca interna della tuta di lavoro; e ogni tanto... «al tirèva un gulòn». E morto nel '79 seguito
dalla sorella qualche anno più tardi, dopo che questa era stata ricoverata nel nostro cronicario.
PUMÒN
Piuttosto piccolo, la pancia fatta a palla, la testa pelata e l'occhio rotondo che faceva girare come fa il camaleonte.
Personaggio ameno, bonario e scherzoso, ricco di humor e pronto alla battuta. Si chiamava Allodi Mario, era nato
a Duemiglia (così si chiama questo ennesimo stranissimo comune del cremonese) nel 1890. A Busseto era
«rigolato» appena prima della grande guerra (è morto a soli 49 anni, peccato!). Titolare del famoso albergo
«Nazionale» che funzionava anche da ristorante e da osteria, in via Roma. Con la «siura Gina», sua moglie, era
divenuto subito conosciutissimo. Una vera macchietta ma anche persona che si impegnava nel sociale: aveva
infatti ricoperto, agli inizi degli anni venti, incarichi in Comune, come assessore. Era soprannominato anche
«Cirillo Schizzo», che era il titolo di un giornalino satirico. Di lui si era scritta una filastrocca, chiamata
«Pomoneide», che diceva, fra l'altro:
. «Al principio della seduta del Comòn,
con nostra gran costernasiòn,
è mancato il bel Pomòn,
impegnato, si capisce, col bociòn,
e lo volean rimproverar perchè invece di curar
le cose comunali sta a vender dei boccali;
Non basta forse la siora Gina a far la sposa in cantina,
e tu curar con più puntualità le cose della comunità?
E mentre questo io pensava,
improvvisamente nella sala entrava
il Consiglier Mario Pomòn, grasso, rosso e tondo come un balòn.
Saltellando col Suo melòn,
viene a sedersi sul suo scragnòn
e dava inizio alla sua discussiòn
della fornitura dei giaròn.
E allora a noi conviene, quando Mario Pomòn non viene,
con una gran puntualità prendersela con tanta serietà.
E alla fin della seduta
andar tutti a fare una bevuta
nella trattoria di Pomòn, il peroratore dei giaròn.
E con questa buona sera, arrivederci al «barbera»,
che Pomòn ci servirà senza farcela pagà.
«Cirillo Schizzo» del bussetano Consiglio
26 novembre 1924
Personaggio brillante, ripetiamo: a Carnevale appendeva sotto i suoi due balconi due grosse mele, si metteva un
tappo nel naso e, scherzosamente, canticchiava un ritornello: «Torna la primavera, tornano gli augelletti, torna
l'erba nei prati, ma sulla mia crapa pelata il pel non torna più».
E, per farsi pubblicità, dove era molto abile, aveva pronto anche questo ritornello: «Un litar de vin de quel de
piisè fin, un frank de salam de quel che scurlis la fam».
Era anche generoso: a Carnevale, un anno aveva sponsorizzato un carro allegorico (chi si ricorda di «Becconia»?),
promettendo alla squadra di carristi una cena se la partecipazione ai corsi avesse portato a qualche guadagno.
L'esito non fu dei più felici: le spese superarono le entrate, di gran lunga. Ma lui, com'era nel suo stile, per niente
preoccupato offrì ugualmente la cena ai «carristi», aggiungendo la rima di rito: «Anca se g'un giuntà, la panca l'ha
mja da `spetà!».
Insomma, Pumòn e la siura Gina erano una bella copia, simpatica, generosa. Ci racconta una bussetana dai capelli
bianchi, testimone oculare, questo aneddoto: Si era nel 1936. A Busseto c'era una compagnia di commedianti, di
operette («d'upróti»). «L'a g'andèva mèl abota... i pativan anca la fam», perchè non lavoravano molto. La siura
Gina da due giorni dava loro da mangiare, a credito, con pochissime speranze di essere pagata.
Era di domenica, a mezzogiorno; questa povera gente era lì, ancora, con la speranza di mangiare, con un Muso
più lungo dello stomaco vuoto... La situazione era molto tesa; la siura Gina aveva dato loro l'ultimatum. In quel
frangente sono entrati alcuni signori di Busseto per prendere l'aperitivo (cosa molto rara a quei tempi)... «Ghera
l'avucat Rùsca, al «Muretu» (Trabucchi), i dii Swick e Orlandino (Orlandi).
La siura Gina ha esternato ai presenti la difficile situazione, soprattutto per quella gente. Al sentire il racconto, i
signori bussetani, senza alcuna esitazione, si sono impegnati a pagare il pranzo alla compagnia, al completo.
Inutile dire che il clima, prima teso e silenzioso, si tramutò di colpo: la provvidenza ancora una volta era arrivata.
Subito grande animazione in sala da pranzo all'annuncio che... si poteva mangiare, che tutto era pagato.
Pumòn aveva partecipato alla guerra di Libia, nel 1912, ed a questo proposito raccontava che era stato
condannato dal tribunale di guerra di Tripoli per non aver fatto nulla per tentare di sedare un tumulto, un
ammutinamento della truppa. Sarà poi stato vero?
Caro, grande, Pumòn, un cremonese entrato subito nel clima bussetano. Una vera macchietta, che tutti i bussetani
dai capelli grigi e bianchi ricordano ancora. Peccato sia scomparso così giovane, subito dopo l'ultimo Corso
Mascherato d'anteguerra, carnevale al quale aveva, come sempre, partecipato attivamente.
RODI
Questo è Pumòn, piccolo grande uomo
Chi non conosce Rodi alzi la mano! Caffettiere negli anni della media età e «cicerone» del Palazzo Orlandi nei
volgenti anni della pensione, mansione quest'ultima che per lui, che vive solo da molti anni (non ha trovato
l'anima gemella quand'era ora) lo gratifica enormemente.
Amico dei bambini, dei bambini piccoli, che ama... stigare, tormentare con pizzicotti bonari ma autentici, mentre
si morde la lingua,... «ma che bèl
Rodi è invecchiato in questi ultimi tempi (del resto ha passato l'ottantina, e ormai lo dimostra) ma il suo brio, il
suo modo di fare, di conversare, di far capire ed accettare la sua versione dei fatti, è ancora fresca, tenace. La sua
voce rauca che si porta dietro fin da quando era giovanissimo, non glielo impedisce. Ma come mai questa
difficoltà di suoni? Lui la racconta così: era ancora un ragazzo quando ha contratto la famosa malattia del «grup»,
un virus che blocca la gola; era a letto ed i genitori, i famosi Visèins e la Gemma, (v.) erano fortemente
preoccupati (con questa malattia si poteva morire). E a farlo guarire, improvvisamente, quasi miracolosamente,
spiega Rodi, fu una paura, una forte paura,... «un stramulòn», come si dice nel nostro dialetto: la sua donna di
casa aveva rovesciato, sul camino acceso, un catino di acqua bollente provocando un'improvvisa fumata. Uno
spavento, un grido... liberatore del piccoli Rodi e il «grup» era sparito. Beh, prendiamola per buona.
All'anagrafe è Guglielmo Guareschi, chiamato Rodi fin da prima che lui nascesse (erano i tempi delle aspirazioni
italiane su Rodi); bussetano vero anche se i genitori, erano piacentini. Da loro ha... ereditato il mestiere, un buon
mestiere, l'arte di gestire in modo simpatico la tipica osteria, in fondo alla via della Biblioteca dove sono passati
tutti i bussetani, la gente del popolo come i signori, senza di- . stinzione alcuna.
Dotato di buona memoria; buon mangiatore, ancora oggi, nonostante l'età; amante dei viaggi, che ha potuto fare
solo dopo aver abbandonato... «la machina dal cafè e 'l butigliòn dal vèn in gir p'rì tavlèn». Rodiiii! Quante volte si
è sentito chiamare... E guai a chiamarlo diversamente (per esempio «Cik-Ciak», come facevano i suoi amici anni
fa). Auguri, Rodi, per ancora tanti anni di vita. Senza Rodi la vita in via Roma sarebbe meno movimentata. Marièn
al bar-ber e Tilièn, al sartur ed esperta «guida» del Palazzo Orlandi, non avrebbero più pretesti per «litigare».
ALBERTO SECCHI
Noto personaggio, bussetano come pochi e verdiano, nato nel 1881 morto nel 1971 (lo stesso giorno della morte
di Verdi).
E. Verdi lui lo vedeva spesso perchè col padre Angelo, cocchiere al servizio della famiglia Carrara del «Paradiso»,
si recava in villa a Sant'Agata.
Ebbe tante occasioni di parlare con Verdi ma ricordava solo che una volta il Maestro indicandolo chiese: chi el qul
ragass lé?
Gli fu risposto: al fiol d'Angilèn. E quasi per giustificarsi spiegava che a quei tempi «seran tant cuion che
s'inscalèvan gnan cave so i occ».
Nel 1909 aprì tipografia, poi cartoleria e rivendita giornali che divenne col tempo luogo di incontro e
conversazione, specialmente su argomenti verdiani. Prima di allora era stato apprendista nella tipografia Fava e
in seguito operaio a Bordighera dove perfezionò la sua arte.
Caratteristici erano i suoi baffi e la sua vestaglia nera che non smetteva neppure quando al pomeriggio, uscendo
dalla bottega, accendeva un toscano e si incamminava verso il caffè per il terziglio quotidiano.
Pare che fósse anche un ottimo giocatore, imprevedibile e fantasioso.
Originale, severo ma anche brillante, schietto soprattutto, tanto da non preoccuparsi se ciò che esprimeva poteva
significare la perdita di un cliente.
Era veramente un bussetano e come tale portava alto il nome del paese in ogni occasione prendendo spesso
iniziative per la sua valorizzazione. Partecipava direttamente e attivamente a manifestazioni che riguardavano
non solo musica e teatro ma anche sport e carnevale.
Prese parte nel 1932 alla commedia «La Fiammata» insieme ad altri attori dilettanti bussetani quali: Anita
Scaglioni, Carmen Cicciotti, Iolanda Bergamaschi, Francesco Rigoni, Lodovico Bianchi, Virgilia Secchi, Bruno
Ziliani. Probabilmente non fu l'unica recita teatrale a cui partecipò.
Per la sua attiva propaganda e proselitismo a favore del Touring Club Italiano fu console fino dal 1920 e per molti
anni; venne gratificato per il suo impegno con un'artistica targa di bronzo e smalti e con sei medaglie d'oro (di
cui tre donate successivamente alla patria).
Non si iscrisse mai ad alcun partito e tanto meno fece politica ma fu sempre ugualmente apprezzato per la sua
saggezza e cultura.
In lui e in tanti altri personaggi si identificò il carattere del nostro paese in un periodo che, a distanza di tempo, ci
fa sembrare essere stato più sereno.
Alberto Secchi
... quando a Busseto c'era la Filodrammatica. Si rappresenta «La Fiammata» con Alberto Secchi, Aldo e Poldo Ambrogi, Lodovico Bianchi,
Alfredo (Plinio) Bergamaschi, Bruno Ziliani, «Chicotto» Rigoni, Aldo Bardelli, l'Anita Scaglioni, Carmen Cicciotti, Iolanda Bergamaschi,
Virginia Secchi.
SEVERINO (e SUGET)
Suo vero nome di battesimo, Bassani Severino, figlio di «Suget». Era nato nel 1895 a Busseto da famiglia
bussetana. Si era sposato con Rossetti Corina nel 1921. Una coppia famosissima, specie nell'ambiente di noi
ragazzi in quanto ha venduto gelati, per tutta una vita.
Severino, una figura tranquilla, garbata e cortese; sempre il mozzicone della sigaretta nell'angolo della bocca,
anche quando scodellava il gelato a noi ragazzi (gelati da dieci centesimi) transitava col suo caratteristico
carrettino a navetta per le contrade e per le campagne, facendosi sentire con un colpo di campanellone del suo
triciclo. La Corina, più avanti, nel dopoguerra, col suo «moderno» mini-chiosco volante, ubicato nei punti più
«caldi» e frequentati, a servire gelati e grattare ghiaccio per fare le granatine. «Dar da bere agli assetati»,
sembrava essere il loro motto, e tanti ragazzi, tanta gente hanno dissetato - portando - un po' di.s.. dolcezza in
tempi difficili. In seguito il figlio Enzo seguirà le orme dei genitori rilevando un bar in piazza Matteotti, il Bar
Sport. Ma con la scomparsa di queste figure di gelatai con carretto a tre ruote finirà un'epoca. Severino è
deceduto nel 1957.
Anche «Suget», suo padre, era un tipo dinamico: veniva chiamato così per le sua vena di novità, di idee che
sviluppava in occasione delle sfilate di Carnevale. Bassani Alessandro, il suo nome (fu Lazzaro, classe 1862 e
morto nel 1944), era fratello di Clodomiro («Miro»). I Bassani, una famiglia che prosegue a Busseto, con i nipoti
Gabriele, Raffaele e Gianluca, figli di Angelo (deceduto da qualche anno) mentre il citato Enzo vive da anni sulla
riviera figure.
SITÒN
Al secolo Braibanti Luigi, di Nereo Achilleo, nato a Busseto nel 1890; non si era sposato. Soggetto alquanto
deciso, con un carattere burrascoso che lo aveva portato più di una volta a tu per tu col Pretore di Busseto negli
anni a cavallo della prima guerra mondiale. Socialista convinto, proprio a causa della sua fede e del suo carattere,
era stato, si dice, ingiustamente incolpato del famoso omicidio del fascista Vittorio Bergamaschi, avvenuto nel
1921. Costretto ad eclissarsi, alla fine si trasferirà a Reggio Emilia, nel 1931, dove, pare, sia morto nel. '54.
Si racconta che una volta, mentre era in prigione a Busseto (per aver bastonato un rivale per opinioni divergenti
sui premi del Carnevale di Busseto), per protesta, incendiava il materasso di paglia causando caos e pericolo di
incendio dell'intera Rocca.
Nonostante queste sue «deviazioni» era un uomo di acuto ingegno ed intelligenza, ed anche nel suo lavoro, quello
di muratore prima imbianchino poi, se la cavava discretamente. Ma come spesso avveniva, la sua fedeltà a Bacco
lo faceva trascendere e combinare qualche guaio. Pare che Sitòn facesse parte della famosa spedizione «Vagnòt»
(v.) (al macabro scherzo del «sorgi Camilla»). Un'altra volta, si racconta, volle imitare Icaro: dal solaio di casa sua,
in Coda-lunga, munito del solo ombrello, volle provare l'ebrezza del volo. Si buttò sotto, nel cortiletto, mentre sua
madre, «la Chèca» stava lavando i panni: «Mama, vuul!». Così dicendo si librò e... patapunfete, nel «navaseil» pien
d'acqua.
Come esperto in processi gli fu chiesto da un amico il modo in cui doveva comportarsi davanti al Pretore._E lu lo
istruì: «Ad ga dì atsé-atsé-atsé»; e così per tre volte, finchè l'amico gli rispose: «Ma parché `g vèt mja te!». Sitòn
era il fratello minore di Angilèn (v.), il più famoso gobbetto della storia bussetana, e zio di Valentèn Cavalli (v.).
SPAVENTA PASRI
Era Boccanti Mario, nato a Busseto nel 1886, era celibe e faceva il campanaro nella chiesa di S. Ignazio (abitava in
via Dordoni nel palazzo Fermi). Così chiamato, probabilmente, perchè amava la compagnia dei passerotti che si
rifugiavano nel campanile.
Aveva un fratello prete, don Angelo Boccanti, in S. Anna, al quale prestava spesso il suo servizio, specialmente
nelle cerimonie funebri (che una volta erano abbastanza frequenti).
Era un po'... tardo, il nostro Spaventa Pasri; ordinav_a lui stesso le processioni invitando i fedeli per... categoria
«Avantile verginelle»... didéVa; e, visto che nessuna si muoveva, aggiungeva: «Allora avanti tutte le altre». Faceva
sparire le candele che le donne avevano appena accese giustificandosi che... «Ghé un'èria curènta tant fort!».
Aveva anche l'incarico di suonare le campane delle scuole (quando queste erano ancora in via Piroli, nel
complesso di S. Ignazio) - e i bambini, d'inverno, gli tiravano le pallate di neve impedendogli di salire i gradini
della torre (e fra questi vi erano «Gabri», Angiolini e compagnia bella).
Si dice che suo padre, Francesco Giovanni, fosse il sarto di Verdi (o quantomeno che abbia lavorato per il grande
maestro), e si racconta che un giorno Verdi gli abbia affidato una vestaglia da accorciare avuto in dono a Parigi
dal Re di Spagna (?), e che Boccanti, che era in società con Cinello (ancora un punto interrogativi è duopo), vi
abbia trovato nella tasca una moneta d'oro spagnola.
«Spaventa pasri» era anche amico di «Ciuchèn» (v.) col quale si attardava spesso nelle brulicanti osterie.«Che
coppia 'd campanèr!».
Aveva anche un altro fratello, Silvio, nato a Busseto nel '77 sellaio, coniugato con Ronchini Amelia (ed aveva
avuto sette figlie, tutte femmine). Un breve accenno merita il fratello prete, don Angelo Boccanti (classe 1876 e
morto a Fidenza nel 1947). Dopo l'esperienza di Busseto era divenuto canonico della Cattedrale a Fidenza e
cappellano dell'Ospedale civile. «Fu una figura venerata per l'umiltà e la dedizione con cui, per molti anni, attese
all'assistenza spirituale degli ammalati» (così si parla di lui nell'Enciclopedia Diocesana - volume, pag. 1292).
TAPINELLI
Il più noto dei Tapinelli era Alfonso, «Funsèn». Figlio d'ignoti (Tapinelli, come «tapino», appunto per la
condizione umana). Era nato a Busseto nel 1875 e faceva il carrettiere; aveva sposato la Erminia Censi nel 1901
ed è morto nel 1957.
Fu il primo carrettiere ad emanciparsi: dal tradizionale mezzo a due ruote tirato dal cavallo o dal mulo, al
moderno autocarro per trasporto merci. Anche se il buon Tapinelli fece una gran fatica ad abbandonare il suo
fedele «Piròn» con la barra.
Era fratellastro del famoso baritono Edmondo Grandini, anche lui di padre ignoto, cresciuto nella famiglia
Grandini (padre di «Vigiota»). Aveva avuto cinque figli, la Gina (che aveva sposato Givanèn Bianchi), l'Antonietta
(in Scazzina), la Dirce, maritata a Stocchetti Emilio e la Maria Nella, nubile, oltre al figlio Edmondo, detto
«Mondo», anche lui carrettiere-camionista, noto per le sue gesta di ottimo «bek» nella squadra di calcio del
Busseto degli anni trenta, poi trasferitosi a Parma.
Anche di questa antica famiglia non è rimasta traccia.
TARLANDÒN
Figura notissima degli anni venti-trenta era Tosi Giuseppe, nato a Busseto nel 1889, impiegato, poi negoziante di
carbone e legna.
Segni particolari: si grattava... in fondo alla pancia.
Un omone alto e possente, rozzo ma al tempo stesso debole al fascino femminile (si dice avesse un sacco di
donne, ma evidentemente allergico al matrimonio). Era un ottimo bevitore: mandava a prendere un fiasco di vino
da Visèns (questi, allora, aveva l'osteria in via Roma, contro la chiesa di S. Ignazio), che vuotava regolarmente in
giornata. Era curioso come una «Barnèrda»: si appostava, al mattino presto, all'angolo dell'Abergo «Sole» e da lì
captava le prime notizie del paese, che poi, rielaborate e manipolate per bene, ritrasmetteva agli altri. Aveva il
magazzino del carbone in Circonvallazione Sud (dove c'è ora un supermercato) e, si dice che usasse qualche
sotterfugio per lievitare leggermente il peso e quindi il guadagno. Quando aveva delle necessità fisiologiche, lievi,
le soddisfava direttamente sul... mucchio di carbone. Una sera, però, tornando dal «Nazionale», come di
consueto... sovraccaricato, girato l'angolo del «Sole» ebbe una improvvisa necessità fisiologica: c'era proprio un
«vespasiano» a portata di mano, dietro al cancello del ristorante. C'era buio, lui traballante, l'orinatoio ridotto ad
una pozzanghera, scivolò e cadde imbevendo il tabarro che lo avvolgeva fino ad assorbire la nauseante «poccia».
Una volta, si dice, «... l'ha tot sei `na suprasèda a Selindo, in butega» e questi è andato a riprendersela... al
domicilio.
Non voleva che lo chiamassero «Tarlandòn»; e una volta si inquietò di grosso quando un carabiniere, non
sapendo il suo vero nome ha chiesto: «C'è il signor Tarlandoni»?
E, a proposito di carabinieri si racconta, ancora, che un giorno doveva portare il carbone al maresciallo dell'arma
benemerita. Chiamò «Pirotu» il quale caricò sul suo carretto il carbone; quindi Tarlandòn gli consegnò due
biglietti, uno con il peso giusto, l'altro leggermente... lievitato; il primo da mettere nella tasca destra e l'altro nella
sinistra, e gli raccomandò: «Sal 'l pesa, at tir fora al biglieit ad la sacosa destra, se no, qul ad la sinistra, èt capì?».
Però,... l'era un bèl birichèn è... sa'lla fèva cu'l Marescial... `maginumas!...».
TATÒN
«Tarlandòn» (il primo a sinistra), con sua madre,
quindi viene «Nanàn», Dante Pederzani, Giuseppe Molla («Pepu Sisula»)
e, a destra, la Gigina sorella di Tarlandòn.
Un tipo tutto speciale, pieno di stranezze e bislaccherie; un modo tutto particolare di vivere la libertà. Dotato (si
fa per dire) di una bruttezza macroscopica, con una faccia..; <data strafugna«, come una zucca, ne accentuava le
sembianze con smorfie del viso. Aspetto trasandato durante la settimana ma la domenica si dava da fare per
apparire almeno passabile.
Le sue stravaganze cominciano quand'era ancora giovane. Un giorno si era comprato un paio di scarpe nere di
vernice (una rarità per quei tempi); camminando sotto i portici le scarpe cigolavano tremendamente, e qualcuno
gli gridò: «Taiag al ponti!». E lui, giunto a casa, prese il «maràs» e... zacc, due colpi precisi e via le punte delle
scarpe; quindi ritornò a passeggiare sotto i portici, con fare indifferente.
Sempre da ragazzo era stato scioccato per un incidente da lui causato al suo amico Fronti Aldino: stavano
tirandosi sassi, così per gioco, lui su un cumulo di ghiaia, lungo la strada, e l'altro poco più distante, su un altro
metro di ghiaia. Tira tu che tiro anch'io, finisce che un sasso scagliato da Tatòn colpisce un occhio di Fronti che
resterà guercio. Tatòn, spaventato dal fatto stette tre giorni nella melica e tre anni «par famej da fagot», senza
andare a casa una sola volta. Era diventato «bifolco» al podere «Bottone», una specialità dei giornalieri di
campagna; non si era sposato perchè, diceva, io sto bene da solo. Che matto, Tatòn! Un giorno, dopo un furioso
temporale, d'estate, cori la strada piena di pozzanghere, al passaggio del camioncino del latte di un casaro, per
non essere schizzato, salta nel fosso pieno d'acqua bagnandosi fino alla cintola, gridando al casaro: «A me t'am la
fè mija»!
Negli ultimi tempi (se n'è andato da qualche anno) lavorava per il Cómune di Busseto, come salariato avventizio,
adattandosi ai lavori più disagiati, più sporchevoli come scavi, fogne, cimiteri, pulizia di tombini ecc. Insomma si
guazzava beato per confondere la sua bruttezza. Tipo simpatico perchè sempre contento, senza problemi di
sorta.
TESSONI
Lino Tessoni, «al rus», come veniva chiamato negli ambienti di lavoro: forse, e senz'altro, per il colore dei capelli.
Uno dei pochi capomastri degli anni venti-trenta: i tempi folli del regime mussoliniano, verso il quale, il nostro
personaggio nutriva indiscussa simpatia, seguito da tutti i suoi figli maschi (Ennio, Isolo e Romano, tutti già
deceduti).
Era nato a Busseto nel 1890; aveva sposato la Maria Maffini e, rimasto vedovo, portò all'altare la sorella di
questa, la Pierina che gli ha dato tutti i figli, quelli citati e la figlia Nelda, ancora nella stessa casa dei vecchi
Tessoni.
Conosciutissimo in tutta la zona, soprattutto per il suo mestiere di muratore, aveva lavorato soprattutto per il
Comune di Busseto (Case Popolari nel capoluogo, il Mercato Coperto, la Gil, le scuole delle frazioni, ecc) ma si era
occupato anche di altri lavori importanti come la chiesa di Spigarolo, progettata dal compianto Don Giuseppe
Piccoli nel 1934, il Salone «Ape» di Samboseto e così via.
Una persona di ferreo carattere, deciso, sicuro. Aveva l'abitudine, quand'era incavolato per un lavoro che non gli
veniva bene, di ripetere spesso... «Povr'Italia, sporca 'd mèrda»! Balbettava leggermente, ma quando si infuriava,
la lingua gli si scioglieva d'incanto.
TIMON
Era un esperto muratore con la specializzazione di pavimentista (fra l'altro aveva lavorato al selciato di via
Roma, agli inizi degli anni trenta , quel selciato in porfido ancor oggi esistente, anche se alquanto malandato).
Nessuno ricorda come si chiamava realmente. Tipo originale, insomma un po' strano.
Di lui resta un episodio, quello del Duomo di Milano. Il nostro personaggio aveva un solo desiderio, visitare il
Duomo; e un giorno vi riuscì. Al suo ritorno, gli amici, incuriositi vollero sentire le impressioni a caldo, e chiesero
se aveva visto il Duomo, se gli era piaciuto, ecc. E lui, con calma e seriamente, sentenziò. «Sì, l'ho vist, l'ho guarda
beèn, l'ho squadra bèn, ma, second me l'é so da squèdar ad da centimentar!». E gli amici: «Brau al me Timòn, ad
ghè 'd l'oc».
TURTLÓT
Stefano Tortellotti, un bussetano oriundo (era nato a Polesine nel 1900_ salito a Busseto a nove anni.
Uomo strano e bislacco... una macchietta; viveva solo e si arrangiava col lavoro di rigattiere: raccoglieva stracci e
ferro vecchio passando nelle case, con un carretto; merce che poi rivendeva al grossista. Solamente che il
ricavato di tale vendita lo investiva esclusivamente... in..: liquidità, nelle osterie di Busseto. E le bevute erano
copiose, frequenti e stracariche, tanto che lo trascinavano alle più svariate stranezze: sotto i fumi del lambrusco il
buon «Carletto» (così si autochiamava) si esibiva in soliloqui incomprensibili, oppure in canti di inni politici...
controcorrente, nel senso che durante il ventennio mussoliniano intonava «Avanti o popolo...» e, caduto il
fascismo, si azzardava ancora a cantare «Giovinezza».
Quand'era ubriaco era prodigo con tutti; era capace di pagare da bere a chi si imbatteva all'osteria e, non
contento, gettava al vento manciate di soldi («lirèn e dades»).
Le sue esibizioni canore, oratorie e di seminatore di palanche, non si risolvevano però solamente nell'interno
delle osterie, ma fuori, in Busseto, nel centro di via.Roma dove Turtlòt, piegato come una canna al vento e col dito
indice alzato in atteggiamento profetico, sfogava tutta la sua natura di ribelle alle convenzioni sociali e politiche
verso un uditorio distratto ormai dalle sue pantomine frequenti, concludendo con la frase ammonitrice...
«Cadetto... ha sempre ragione»!
Poi tornava a casa (abitava in via Dordoni) con molta fatica, barcollando a destra e a sinistra, faticando, quasi, a
risalire la contrada, sicuro che all'indomani sarebbe stato tutto un altro uomo.
Se n'è andato nell'aprile del 1978, e ai suoi funerali hanno pianto solo... gli osti.
VAGNÓT
Personaggio estroso, singolare, imprevedibile; dall'abilità e padronanza dialettica ed epistolare, pieno di trovate
ed amante degli scherzi, come vedremo più avanti. Vagnotti Andrea bussetano, nato nel 1864 e coniugato nel
1892 con Verdi Adelina. Era professore disegnatore, una mente aperta ed intraprendente. Si prestava per tutti
coloro che avessero bisogno, per la povera gente, come si usava dire, e lui scriveva lettere di raccomandazioni
anche ai più grossi nomi della politica, anche se personalmente non li conosceva, con l'audacia di firmarsi, in
calce... «tuo carissimo amico».
Si dice abbia fatto al cimitero, prima della sepoltura, l'elogio funebre di un suo figlio, morto tragicamente nella
peschiera della villa Pallavicino mentre pattinava sul ghiaccio.
Ma Vagnót è passato alla storia per aver combinato il famoso scherzo macabro al cimitero degli ebrei (sulla
strada del Bersano), quello del «Sorgi, o Camilla».
Il soggetto preso di mira era uno Swich, (zio di Priamo), il quale si vantava di non aver paura di niente. Vagnòt gli
propose di andare, di notte, davanti al cancello del cimitero degli ebrei e gridare: «Sorgi, o Camilla» (un'ebrea da
poco deceduta e colà tumulata). E così, quello accettò di recardi al macabro appuntamento. Ma il birbante Vagnòt,
coadiuvato da alcuni amici (si dice che fra questi vi fosse «Vigiota», che aveva messo a disposizione il lenzuolo, e
Sadòm), aveva preparato una zucca svuotata, una candela e il solito lenzuolo da... fantasma, per cui all'invito
fatidico «Sorgi, Camilla», il grande coraggioso si vide comparire da dietro il cancello il fantasma di Vagnòt, che
rispondeva: «Non disturbare chi giace!», con voce cavernosa. Sicchè il poveretto fuggì terrorizzato, per di più
sentendosi strappare il tabarro, che teneva sulle spalle, impigliatosi in un ramo.
Una paura tale che gli provocò... «na freva da caval» che gli durò per alcuni giorni. Addirittura c'è chi dice che il
poveretto, per questa paura morì di lì a pochi giorni.
VALENTÉN CAVALLI
Cavalli Nereo Valentino all'anagrafe. Un bussetano tutto particolare, popolarissimo; impenitente e lagnoso
attaccabottoni che non trova mai il finale del discorso. Amante sincero della sua città, si era scoperto, da giovane,
la vena poetica, anche se le sue... esibizioni letterarie sono tutt'ora inedite (Valentèn Cavalli è ancora fra di noi).
Un poeta incompreso, autore, fra l'altro di testi di canzoni che non è mai riuscito a lanciare. La poesia più nota è
quella dedicata alla sua Busseto, dal titolo «I bussetani amanti della sua (sic) città» di cui riportiamo il testo che
così recita:
«A Busseto, con la malalingua che c'è,
ci starebbe male pure un Re.
Voi barbieri, che di chiacchiere ne fate tante,
se ce ne fosse fra di voi qualcuno che ne fa più tante,
fatelo tacer questo birbante.
Che danno ci dà colui che il suo interesse fa?
Che ti giova rosicchiarti il fegato di rabbia,
quando qualcuno sta per trionfar?
Oltre il torrente Verdi fuggì,
causa i maligni di quei dì.
Dal Ginnasio al Magistero, tutto se ne andò!
Salviamo i merli della rocca
gettando gli asini nella fossa.
Non cerchiam medaglie, né gloria, né allori,
ma dobbiam cacciare i calunniatori.
Una pantomina certamente arruffata fin che si vuole ma che evidenzia un carattere sincero e amante «davvero»
della sua città se pur -Critico verso il prossimo, come sono i bussetani in genere.
Valentèn Cavalli che alcuni vorrebbero chiamare ancora «Pantàn» ma il nomignolo, egli assicura, era di suo
padre, conduttore del tram; Pantàn perchè voleva saltare un fosso più largo di quanto non stimasse, ed era
finito... nel pantàn. Tutto qui. Lui, invece, Valentèn era chiamato «tip-tap» perchè era un abile ballerino di questo
strano ballo degli anni venti, ballo con cui si esibiva a volte su un tavolo.
Ha ammucchiato i suoi anni, il nostro Valentèn, ma è sempre quell'inossidabile, impenitente «poeta» sciupone.
»Brau Valentèn», eterno sognatore.
VERDI (la maestra)
Valentèn Cavalli (a destra) assieme al suo amico Chicotu due autentici personaggi bussetani.
Adelaide Verdi, maestra elementare degli anni venti-trenta. Una figura maestosa come una matrona, con un fisico
grande come un armadio e con modi assai severi. Le sue scolaresche, certamente poco diligenti, hanno certo
contribuito al suo temperamento deciso. Ed i più discoli hanno fatto i conti con le sue botte, a due mani, lungi dai
sistemi didattici di questi giorni che bandiscono ogni forma di castigo corporale. La maestra Verdi, che era
sposata ad Alfonso Mazzoni ed aveva avuto un figlio, Giuseppe, pure lui maestro elementare, aveva il vezzo di
incipriarsi il viso, si dice con farina di riso; si profumava e si agghindava con collane e braccialetti vari.
Un tipo di donna, proprio, in estinzione.
VICU BALDÙS (o Vichèn)
Balduzzi Lodovico, all'anagrafe. Barbiere, con negozio in piazza Verdi, sotto i portici del palazzo ex Parolari. Tipo
brillante, mattacchione, imprevedibile; dall'aspetto elegante e signorile anche se era «lis mé n'as da lavà». Era lo
zio del «Gargio» (fratello della madre di questi). Amava divertirsi con i travestimenti, specialmente con abiti
femminili. E lo faceva con successo, tanto che, si racconta, una sera, al veglione di Busseto, era così reale il suo...
cambiamento di sesso che un certo Dieci, di Frescarolo, lo ha fatto ballare, «le» ha pagato la cena e poi si
apprestava a fare delle «avance», e solo a questo punto Vichèn Baldus... «gettò la maschera» e, con voce maschia...
gelò il suo accompagnatore... «Pian, pian, sum anca me par cla strèda lé...»!
Faceva parte della combriccola che andava dalla Mietta e dalla Palmirèn (v.), in Codalunga e che ha ispirato per la
filastrocca semiseria dedicata appunto a queste avventure boccacesche nostrane. Si racconta anche che una
volta, davanti al Pretore, dovendo difendersi dall'accusa di aver scagliato sassi contro un suo rivale («Signor
Balduzzi, siete stato voi a tirare delle pietre...»?), timidamente, con la mano destra sul petto, rispose: «No, siur
Pretur, me g'ho tirà sultani un quei codul!». Evidentemente, per lui, le pietre erano solamente quelle del molino,
«al predi da mulèn». Ma è più credibile che il bizzarro Vichèn abbia voluto apparire un allocco per non... pagare
dazio, come si dice in queste circostanze.
Insomma, un personaggio bizzarro ma estroso; sapeva suonare anche il pianoforte, anche se si esibiva solamente
in ambiti... famigliari.
VICO BENDA
Era Eugenio Lodovico Benda, detto anche «Pan fròsc» (perchè si assentava spesso dal lavoro per andare a
prendere - diceva lui - «'na mica 'ci pan fròsc»). Era il padre di Gino Benda «bigliettario tramviario» quindi
conduttore di autocorriera, marito della Livia, pettinatrice. Anche questo bussetano «purosangue» così come la
moglie Maria Maldotti, ha conosciuto il maestro Verdi, ma di lui aveva un ricordo a dir poco traumatico: era
successo che, quand'era ragazzo e lavorava come garzone presso un maniscalco, Verdi in persona si era fermato
con la carrozza, in viaggio per Busseto, e lo aveva redarguito severamente perchè era in ritardo al lavoro (doveva
raggiungere il suo padrone alla Villa Verdi a ferrare i cavalli del maestro). E lui non ha avuto il coraggio di
giustificarsi, pur avendo le prove del suo ritardo (il padrone lo aveva fatto tornare indietro a prendere la
tenaglia, dimenticata a casa). Insomma, un rimbrotto non meritato!
Vico Benda, divenuto adulto, aveva il vizio, come tanti, di ciccare; una volta, in forte crisi, si impadronì con raggiri
di una pipa di un vecchietto dell'Ospizio e, ridottala a pezzi... la ciccò!
Che tipo, il nostro «Vico»!
VIGIÓTA
Senza ombra di dubbio questo nostro personaggio può essere classificato come una delle figure più
caratteristiche e rappresentative di Busseto. Un bussetano doc, anche se i genitori provengono dal piacentino
(Fiorenzuola d'Arda).
Grandini Gino, il suo casato, detto Vigióta, probabilmente per deviazione del suo nome, da Luig, Vigièn, Vigióta.
Soprannome che ha lasciato in «eredità» ai suoi figli maschi. Era il fratello del noto cantante lirico (baritono)
Edmondo Grandini (v.). Era nato a Busseto nel 1876 ed è morto alla soglia dei 102 anni; anche per la sua
longevità, il nostro personaggio si è distinto. Persona ruspante, schietta e rozza ma al tempo stesso dal cuore
d'oro. Aveva sì il viziaccio di tirare «moccoli» a tutto spiano, ma lo faceva senza cattiveria, solo come locuzione,
intercalare, un suo modo di parlare.
Eterno brontolone, era detto anche «al rabì». Faceva il muratore ed è uno degli ultimi bussetani ad aver
conosciuto personalmente il maestro Verdi, presso il quale ha lavorato, assieme al padre e ad altri bussetani
(come «Balalòn» Crosali). Si racconta che una volta, assieme a quest'ultimo era andato alla villa Verdi a S. Agata a
lavorare per il maestro, calzando le scarpe da donna col tacco e con la mantellina da soldato: abbigliato così non
per stranezza o esibizionismo ma semplicemente perchè non aveva altro da mettersi addosso in quel momento.
Un'altra volta Verdi (era sempre lui, Vigiòta, che raccontava) rimandò a casa i muratori perchè facevano troppo
rumore mentre lui era intento a realizzare le sue ispirazioni musicali. Naturalmente pagò loro l'intera giornata di
lavoro.
Amava raccontare anche, sempre a proposito del maestro Verdi, che questi gli allungava qualche moneta ad ogni
piccolo servigio; ad esempio, quando il ragazzotto Vigióta, che faceva «al giùan da mùradur», sentiva arrivare la
carrozza del maestro, si precipitava vicino ai cavalli, teneno le briglie e scacciando le mosche «cum na rama».
Aveva sposato l'Elvira Bonatti nel lontano 1907 (figlia del garibaldino Luigi Bonatti e zia di «Balalòn» Crosali).
«L'era un bon om», così ancora di lui, quanti lo hanno conosciuto, e sono ancora parecchi; molto attaccato alla
famiglia, ai figli in special modo, ai quali aveva insegnato soprattutto l'onestà e la serietà sul lavoro. Una famiglia
numerosa che ha sempre affrontato le difficoltà della vita con estrema dignità.
La sera si mangiava la solita polenta, servita direttamente «sul tavler» (macché tovaglia!), con la «risdura» che
faceva le razioni, i mucchietti di ricotta seccata e grattugiata e la polenta.
Della sua passione per la cicca in bocca ne abbiamo già fatto cenno nella «scheda» di «Ghisòt» (v.).
Purtroppo, aveva quel maledetto viziaccio, come abbiamo detto, di dire troppi... rosari. Ed anche a questo
proposito si racconta che un giorno era a lavorare a casa della signora Viola, una donna timorata di Dio, distinta e
nobile, moglie del farmacista; doveva riparare un «franclèn», una stufa in ghisa, come usava una volta.
Evidentemente il lavoro non gli veniva bene, sicchè mise in atto il suo... vocabolario; insomma «l'ha trat un carelt
ad madoni», per dirla in bussetano. La signora Viola, al sentirlo, non voleva pagarlo, ma Vigióta l'ammonì: «S'lam
pèga mia, n'in trag n'ètar careit, atsé la và a prega par tatti».
Nella storia di Vigióta non si può non ricordare ancora l'episodio del fantasma al cimitero degli ebrei, ideato da
Vagnòt (v.), assieme a Sitòn (v.). Vigiòta, che all'epoca era un ragazzotto, collaborò al raccapricciante scherzo,
mettendo a disposizione di Vagnòt, il lenzuolo (materia prima per inscenare uno scherzo del genere5. Si
racconta, a tal proposito, che a causa di questa bravata, sua madre, constatato che il lenzuolo era stato usato,
stropicciato e sporco di terra, «l'ha dat na crasmèda» sia al figlio che agli altri due discoli, «Mondo» e «Fonso»
Tapinelli, fratellastri del primo.
Ma l'atteggiamento più classico, più emblematico del nostro personaggio,che si ricorda ancor oggi, è quello nei
confronti della gente di campagna, dei «paisàn», verso i quali Vigiesta nutriva un sentimento di insofferenza,
forse solo apparente; più di una volta, infatti, specialmente all'osteria, quando ancora non era un vegliardo,
manifestava la sua intolleranza... «Va 'cà, vilem!»; una frase, una parola d'ordine. di schietto linguaggio bussetano
che ha fatto storia.
VITORI 'L SADÒC
Chi non conosce “Vigiota”?
Era il fratello del famoso «Palèn» (al marì 'd la Tarsila).
Tipo sanguigno, collerico, deciso; carattere che lo aveva trascinato in alcune occasioni in Pretura, a causa della
sue manacce (proprio come quelle di «Don Camillo», per intenderci).
Vittorio Ferrari, il suo nome, classe 1864, bussetano «s'ciótt» (schietto) come i genitori, Stefano e Annunciata
Tessoni. Faceva il muratore ma si adattava anche ad altri lavori, più umili, fino a fare lo spazzacamino; sempre a
piedi, anche se c'era da fare... qualche chilometro di strada. Si dice che, insieme a Michel e a Lodigiani (papà 'd
l'Eugenia), sia andato a.piedi fino ad Oneglia, per lavoro.
Tipo deciso, dicevamo: si racconta che da giovane aveva avuto un diverbio con un carabiniere: gli aveva morso il
dito che quello gli aveva puntato sotto il naso,' perchè questi... corteggiava la sorella quattordicenne.
Un'altra volta smarrì il portafoglio (che conteneva una ragguardevole somma, stranamente) mentre, assieme a
«Bulogna» (v.), scavava una fossa nel cimitero di S. Andrea. Se ne accorse solamente quando il caro estinto era
già stato inumato. «Bulogna, èt vist al me portafoj»? «N000»!. Disperato, la notte ritornò al cimitero e, come un
ossesso, preso il badile, rivoltò tutto il cumulo di terra che copriva la cassa, ma del portafogli niente. A questo
punto il dubbio, che qualcuno... lo avesse rinvenuto crebbe e, nonostante le affannose ricerche non riuscì mai a
recuperare quei soldi che con tanto sudore aveva guadagnato.
Morì a 85 anni, nel 1949; abitava in via Vitali (oggi Scarlatti).
Appendice
Una rassegna certamente non completa, con qualche lacuna come abbiamo anticipato all'inizio.
«Oh, i ghen mja tutt... ag'n'im manca 't se sè!», ci pare di sentire da qualcuno. Certo, ne mancherà qualcuno; ma
forse sarebbe divenuta troppo pesante questa «galleria». Tuttavia vediamo di inserire alcune altre figure tipiche
in estrema sintesi, per non dimenticarle del tutto.
Come non ricordare, ad esempio, la famosissima coppia di bussetani che tutti i giorni, insieme, camminava uno
davanti all'altro fino a S. Agata, all'osteria di Bigna, a bere un bicchiere, a fare la partita e poi ritornare, sempre in
«cordata», senza scambiarsi una parola? Certo, erano propri loro: Enzo Arduzzoni, impiegato comunale di
vecchio stampo e Gino Nastrucci, violinista e famoso direttore d'orchestra, bussetani, bussetanissimi.
. E 'l Cocu Bianchi, compìto impiegato del Comune e amante della divisa... scura. E Mario Brac (Peracchi), che ha
legato il suo nome al Monte di Pietà, e, come hobby, si è dedicato per anni, nel dopoguerra, alle fortune del
Carnevale di Busseto risultando un proverbiale portafortuna, una mascotte del nostro Corso Mascherato.
E la frase «Anca té, Tugnèn, a Milàn?» A cosa si riferisce e a quale personaggio? Un bussetano, naturalmente, di
nome Antonio al quale, la prima volta che andò a Milano, gli amici combinarono un bello scherzetto. Giunto nella
grande città il nostro Antonio si sentiva salutare da sconosciuti con la frase suddetta, e con una manata sulla
spalla. E lui, sorpreso più che lusingato, di essere conosciuto, si chiedeva: «Ma guèrda te... tutt i'm cunusan, anca
ché a Milàn!». Era successo che gli amici burloni, prima che prendesse il treno, in barberia, gli avevano
appiccicato sulla shciena una scritta: «Mé sun Tugnèn».
E «Fis'ci«, Zappieri, che si è guadagnata la notorietà, proprio per questa strana esclamazione, rimasta attuale, ed
entrata nelle espressioni bussatane. Rispondendo al prete, all'altare, che gli rivolgeva la fatidica domanda se era
,contento di sposare la qui presente.... lui
rispose: «Fis'ci, su gnì che 'posta!».
E R o ék? Il famoso vigile (una volta si diceva «la guèrdia») degli anni trenta, ai tempi di Patroni e Guaraldi
(capoguardia era Tata), intimando la multa ad un «risdur ad campagna» non in regola con la sua bicicletta, lo
apostrofò: «Des e des!», per intendere che era in contravvenzione e che doveva pagare la multa, dieci lire più
dieci centesimi del bollo, si sentì rispondere... «A vanz'ur sum a ca'!».
Un'altro bel tipo era Primèn Buf ò t, che aveva un negozio di robe vecchie in via Roma contro il Caffè omonimo.
Un giorno alcuni ragazzacci gli fecero uno scherzo incendiandogli una balla di stoppa nel magazzino. Ma lui,
avvertito del misfatto, senza scomporsi rispose «Chi 'l l'ha pià, 'lla smursarà» e non intervenne.
Non sono tutti «Reduci dalla Russia«, questi allegri bussetani ma sono ugualmente tutti contenti...
Manca in «Galleria» anche il brillantissimo Bartinu Bufòt, al fiól ad Guirèn. Che bel simpaticone! Gli amici più
stretti lo chiamavano scherzosamente «Rubinacci» (che era il Ministro del Lavoro dell'era fascista) mentre lui
stava molto bene in riposo in compagnia specialmente con Pinèn Zani e Gumasu, al maèstar: erano chiamati «I
tre dell'Ave Maria», per via... del mattino presto spesso scortati dai loro scudieri: «Piat» Archimede, Luig Marinèn
e l'avucat Riisca. E la frase «Va chèga, nonu» che origine ha?
Un bambino, un birbantello, rispondendo al nonno (pare fosse «al Mèn») che gli intimava di scendere subito dal
parapetto pericoloso, pronunciò questo... invito che è rimasto nel linguaggio corrente.
Ricordiamo alcuni simpatici e spesso significativi soprannomi: Manfredo Borlenghi era «mes miliòn, un altro era
chiamato «Mèi munéda» perchè non aveva mai spiccioli in tasca, era Donnino Corbellini; mentre all'ingegner
Fanti era stato appioppato il nome di Tinsòn (per il fatto che si incipriava il viso); il facchino Angelo Camorali lo
chiamavano «Pistola» e non si capisce il perchè, visto che era un uomo tranquillo, per niente bellicoso.
«La nascosta» era la Gina Vanoli per via che stava alla finestra a controllare le mosse altrui. Vi erano anche due
sorelle gemelle, notissime negli anni trenta, delle quali si diceva che... «una era bella di faccia e l'altra andava
bene... di corpo»: «Cagnamègra» era Rossi il custode del macello pubblico; anche Berto Rusótt (Rossetti) che
abbiamo già «visto» nel coro della Collegiata, era chiamato S'ciatrèn, e non si sa bene il perchè; cosa... s'ciattrava?
Il papà di Pippo Rusca era chiamato Gesù, ma, questa volta non impropriamente perchè il suo nome di battesimo
era proprio quello, Gesù Cristo. La Zoraide era una donna molto bella, si dice; ma i maligni, forse per invidia,
l'avevano battezzata, senza tanti giri di parole (come siamo tenuti a fare noi) «La... dona 'd fèr» (dove
l'eufemismo è d'obbligo). Ma. vediamo che la lista si allunga; d'altra parte non possiamo sottacere a questo punto
altri personaggi, ad esempio la Ghita, la Zindèn, le sorelle Agoccini, la Ninì, la Mariettina, Tisian al pitur, Americo
fraderd la Culomba, Gelindo, Machidan al bechèn; al Mnaja, la Fiachèna; Varisto al calsuler, Sincero Bandoss,
Cesar Butas al carater, l'Ida Mata e la Maria Mata, Lajo 'd Cualonga detto anche Bacabargnocla, Mario l'Oca (Tosi),
Minghèn al maringòn, la
Mintèn mnèva in gir la galena cu'l guinsaj, Miro detto Miro dei
Lazzari re della merda (solo perchè aveva l'incarico di tener in ordine le latrine pubbliche). «Graneli di pepe» era
Cesare Vigevani così chiamato per via del suo... caratterino.
E ancora, Alessio Bottazzi, Lodovico Larini, Marchèn, Catiilu Bufòtt, Casimir, Castagna (quello che ha rotto il
campanone della rocca per troppo slancio nel suonarlo), la Catalonia, Pan fròsc, Paralo al slèr, i fratelli Ferruccio
e Gino Macchiavelli ottimi idraulici.
Ginèn Carolfi era detto S'scianclèn; essendo timido e prudente
Si festeggia S. Barbara - Anno 1954.
Sono i pompieri ma... di acqua non se ne vede!!
chiamava un pezzo di pane e un grappolo d'uva «un bucunsèn» e «un s'cianclèn». Anche la Lisnona era una figura
molto nota per il fatto di aver battuto il record di... matrimoni e vedovanze, ben cinque.
Ma ci fermiamo qui anche se tante persone meriterebbero quanto meno la citazione, come abbiamo fatto ora, ma
sarebbe impossibile elencarle tutte.
Ci stavamo dimenticando anche di Leone (Nello) Faroldi, guida verdiana esperta e uomo di fiducia alla villa Verdi
di S. Agata; piacevole e brillante conversatore, che si. gloria di aver conosciuto personalmente famosissimi
personaggi del mondo lirico. Il più anziano fra gli «Amici di Verdi».
Nella nostra galleria, abbiamo «visto», sia pure di sfuggita, fugaci citazioni riferite al maestro Verdi (vedi Cadèn,
Vigiót e alcuni altri). Certo, non è questo il luogo e l'occasione per disturbare il più illustre nostro concittadino,
tuttavia, ci piace raccontare una testimonianza diretta riferita alla nota generosità e al rigore del «nostro» Verdi.
Ci rivela la signora Dina Bardini (vedova da poco di Plinio Ferrari), che sua madre, sposatasi nel 1904, aveva
beneficiato del «Premio Verdi» che era concesso alle ragazze povere che si sposavano. Però, attente! Il premio,
erogato attraverso il Comune di Villanova sull'Arda per lascito del maestro, appunto, veniva dato solamente dopo
nove mesi dal giorno delle nozze purchè nel frattempo non fossero nati bambini. Capito? Insomma, un premio
all'illibatezza.
Vorremmo dedicare un piccolo spazio anche al prof. Almerindo Napolitano che, come si sa, non era un
bussetano... del sasso. Lui però si sentiva tale, più di tanti altri nostri concittadini, tanto che, nei suoi interventi
ufficiali, proclamava: «Noi bussedani...». Lo ricordiamo volentieri per la sua fervida attività, piena di iniziative,
nel campo della scuola, della cultura, del turismo e del tempo libero.
Molti altri bussetani non sono stati scomodati da questa penna... «pucia-nès», anche se hanno avuto una parte
attiva, attivissima nella vita della nostra cittadina e hanno messo il loro tassello per costruire le vicende belle e
meno belle, allegre o tristi della nostra cara Busseto. Vari componenti di note famiglie: Viola, Corbellini, Cavitelli,
Bergamaschi, Braga, Petit-Bon, Tedaldi-Cicciotti, Foà, Catelli, Carrara Verdi, Rusca, Romolotti, Demaldè e tante
altre; ciò non toglie che abbiano avuto il loro ruolo, la loro precisa collocazione nella vita di tutti i giorni.
Tutti col loro modo di vivere e di stare in compagnia hanno contribuito a «scrivere» la storia popolare della
nostra terra.
… e per finire, la foto più vecchia:
la servitù di Villa Verdi a S. Agata.