Giugno sta scarfa la petra e il suo Morso è Questi i numeri apparsi

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Giugno sta scarfa la petra e il suo Morso è Questi i numeri apparsi
Seguiamo la formula dello scomparso Antonio Leonardo Verri .
“spedite fogli di poesia, poeti/dateli …” .
Redazione: Francesco Pasca, Maurizio Nocera, Francesco Carrozzo, Federico Capone.
Questi i numeri apparsi
A condividere sinora: Ignazio Apolloni, Francesco Aprile,
Aicha Bouabaci, Pino Cannoletta, Federico Capone,
Gianmarco Chiavari, Elio Coriano, Ada Donno, Antonio
Errico, Giovanni Invitto, Alessandro Laporta, Teresa Maria
Lutri, Lorenzo Madaro, Paola Marconi, Mauro Marino,
Stefania Papara, Maria Pia Romano, Marisa Romei, Danilo
Scorrano, Carlo Stasi, Paolo Vincenti.
In questo Foglio
Federico Capone – il tarantismo
Paolo Vincenti - brivido caldo
Carlo Stasi - amore in fumo
Maurizio Nocera - tarantula Salento
Francesco Pasca - canto per otto zampe e una mandibola
Francesco Castrignanò - la pizzica pizzica
Antonio L. Verri - diario 16-11-83
Francesco Carrozzo – Euridice e il respiro di fuoco
1) Foglio n. zero l’inizio. Il diario di Antonio L.
Verri.
2) Foglio n. uno La raccolta e il racconto della “follia”
in arte.
3) Foglio n. due Dedicato a Carmelo Bene.
4) Foglio n. tre Dedicato a Pier Paolo Pasolini.
5) Foglio n. quattro Memoria.
6) Foglio n. cinque Al poeta e storico Ignazio Delogu.
7) Foglio n. sei L’abbazia di san Mauro e dall’estetica
del colore alla parola.
8) Foglio n. sette Fra diverso e diversale, fra
universalità e diversalità.
9) Foglio n. otto Dedicato a Renato Centonze.
10) Foglio n. nove Novoli e L.P.N. di Enzo Miglietta.
11) Foglio n. dieci Salvatore Toma e il Senso Live ®umore del colore.
12) Foglio n. undici tra OuLiPo e Patafisica - Le
diVersalita® de-Scritte.
13) Foglio n. dodici nella normalità di Maria
14) Foglio n. tredici “sta scarfa la petra” Giugno
e la sua “Taranta”
Giugno 2012
Foglio di ProsaPoesia
Solo cartaceo a circolazione interna
Giugno sta scarfa la petra e il suo Morso è ...
Girolamo Mercuriale,
De venenis et morbis venenosis, s.l. 1584
traduzione a pag. 3
)
Fotocopiate! Regalate Fogli di Poesia, Poeti
Progetto grafico curato da © franceSkoPasca via Palermo,1 San Pietro in Lama (Lecce)
Questo numero È
di
Federico Capone (il tarantismo nel tempo)
ANTONIO L. VERRI
Il Satiro e la Menade*
La raffigurazione richiama movimenti simili a quelli della pizzica pizzica.
Fra motivi floreali vi è una menade o baccante (1) che, mentre batte un tamburello, come si evince dai
nastrini svolazzanti (2), danza con un satiro (3).
Il movimento della danzatrice è rivolto verso l'esterno (un movimento a balzelli, come raffigurato dai
pallini presenti sul terreno), quasi a tentare di fuggire da chi tenta di toccarla con l'indice (4).
Il satiro è raffigurato con al fianco un tirso (5), un bastone sormontato da una pigna; due tralci di vite
fanno da cornice alla scena.
La coda (6) è attributo che identifica il satiro. (fc)
(*)
buona parte di questa interpretazione, che si trova a pagina due del volume "Il morso del ragno" (Capone Editore), è del prof.
Maurizio Nocera, che ringrazio.
Ho rivisto Rina. Acciaccata, meno
aggressiva, passa le sue giornate
con una terribile paura: ha della
simpatia per me, le ricordo i suoi
inizi, i rapporti con Vittorini (è la
mia
maledettissima
madre
americana). Penso di darle qualche
altro dispiacere non sostenendo la
candidatura di Gino Santoro
(malandrino anche lui, suo delfino
da sempre) a segretario [del] S. N.
S. [Sindacato Nazionale Scrittori].
Un’interessante proposta l’ha fatta
Nigro, ieri a Bari, fuori convegno:
o uno strappo violento ai vecchi
(De Jaco si preoccupa!) o
un’associazione alternativa di
scrittori (pugliesi, aggiunge lui).
Carlo Alberto [Augieri], sempre
più retorico e blando mendica per
stampare qualcosa. Non è un fesso,
però.
I Manni cercano di organizzare al
meglio la mia rinuncia. Ho tre
milioni di debito da Colazzo
[Salvatore] e, quando mi capita,
ancora voglia di cacciarmi nei
guai…
Dopodomani, lunedì, la Corti
[Maria] ci parlerà di Leopardi. La
incontrerò volentieri. Sempre a
Maglie.
Da Maglie, ancora Claudia [De
Lorenziis], troppo ingiustificato
amore per Toma [Salvatore] (è un
po’ cazzone a volte il Toma: promesse da tutte le parti, lui e Claudia, per soldi al libro Forse ci siamo, già
fatto; e poi niente; i guai sappiamo chi li risolve…) mi ha riaffacciato la faccenda dei settanta inverni di
Macrì [Oreste]; vuole che io sia magna pars (io non so quanto mi serve Macrì, Valli [Donato] e Claudia,
adesso) (e le fantasticherie colorate?, e i festini, le festucce?).
Macrì mi ha scritto giorni fa per Il pane sotto la neve, giorni prima Lunetta [Mario] [di Macrì ho letto il
cinquanta per cento della lettera, Lunetta spera nella giovane età di Toma (?) – è preferibile non far[gli]
legger[e] la lettera].Tutti e due hanno trovato buono il libro. Però!
Il diario di
ANTONIO L. VERRI
di
A cura di Maurizio Nocera
Federico Capone (il tarantismo nel tempo)
(ritratto di L.A.Verri - tempera di Antonio Massari)
Gaufredi Malaterrae,
De rebus gestis Rogerii
Calabriae
et
Siciliae
Comitis
et
Roberti
Guiscardi Ducis fratris eius
Edizione:
Rerum
Italicarum Scriptores 2,
V 1, ed. E. PONTIERI
1928.
26 – 11 [- ‘83]
Sono successe un bel po’ di cose. Senza la fretta, la paura di non farcela, il riassumere costante, il
produrre e riprodurre di questo porco mondo (tutto succede, niente succede, niente rimane). È una
diavoleria! Mah!
Un convegno a Bari sulla poesia che viviamo. Un cumulo di cazzate, una sull’altra. Relatori che
riempiono cartelle col solo scopo degli “Ami”, sbarbatelli levantini e no che si pubblicano quadernetti di
merda (come se non bastasse, poi, si antologizzano e si fanno i convegni) poetastri e corbezzoli;
Giovanni Bernardini, “il piccolo uomo”, che si lamenta per l’esclusione; il sottoscritto che si lamenta per
l’inclusione; tutto sa di buffo, di grottesco – il vero, il fattibile serio confinato chi sa dove (Nigro si salva
per puro miracolo; l’aquila lucana ha un nido favoloso di fronte al teatro Abeliano, in largo 2 Giugno);
l’invito a gente seria, costretta, portata di peso (Franca Rossi, una stupenda donna sui cinquanta,
mediatrice poco convinta: ci siamo guardati l’intera sera: così lei mi diceva di questa paura degli anni che
passano, di questa voglia che diventa, pian piano, nostalgia, oh! oh!; è una madre di sesso e d’avventure.
Ieri, sul suo giornale, ha parlato del Pane: buona intenzione, azzeccatissima (ti ringrazio Franca, ti adoro;
quanto mi tiri!): «… un affastellare parole vecchissime e nuovissime in una lingua improbabile e
affascinante, dalle infinite sfaccettature, densa di allusioni, da assaporare piano per coglierne tutte le
intrecciate implicazioni».
Valeva la pena trascriverlo. È grossa cosa!
Con Nigro, ho valutato la possibilità di utilizzare per la terza rete la mia tessera di pubblicista, buon
cuoio, ottimo odore: niente marche là, un casino trovare lavoro in questi bordelli; non posso che fare il
giornalista, che altro se no! Cazzate, solo cazzate: è vero che odio il perdere tempo in un impiego
qualsiasi, ma scrivere per un giornale potevo farlo prima, non adesso. Beh!, si vedrà. Intanto. Con Nigro
ci siamo intesi su di un radiodramma che la terza [Rete] dovrà pagare, La vita del Galateo, non so se mi
appassiona o mi sgomenta lavorarci!
Altri stimoli per il racconto: miti questa volta, vecchi miti da cui far uscire segni e suoni miei. Mi rispunta
quel monaco che mi visitava, lavoravo in biblioteca tanti anni fa, con quelle sue storie di quanto è
perfetto il corpo dell’uomo, di quanta armonia di Dio, diceva, che ha saputo fare!?! (?).
È uscito il «Pensionante» di ottobre/dicembre [1983]. Una liberazione! Devo non fare niente per molto
tempo (i debiti crescono in tipografia, anzi, nelle tipografie), una voglia di mandare al diavolo un po’ tutti.
Hanno sempre contato sul sottoscritto che ha fatto salti mortali per cominciare un bel po’ di cose. Sono
di un’indifferenza a tutto proverbiale. Il «Pensionante» mi è morto dentro anche per questo!
Passo spesso le mie giornate girando nel niente, sono un fabbricante di mezze cose; aspetto come sempre
la neve: ho tanto disordine in testa, pari solo a quella che vi è sul mio tavolo, libri ammonticchiati,
pellicole e piombi, dattiloscritti di gente idiota, lettere e cocorì cocorà.
Ma serve a qualcosa per tutta questa moltitudine di “poeti” pubblicare, stampare in proprio, dare con
belluria il libro all’amico che idiota non è, e che sa bene che farne…?
XXXVI Nostri a tarantis
vexantur. 1064 […] atque in
monte,
qui
postea
Tarantinus [dictus est] ab
abundantia tarantarum, a
quibus ibidem exercitus
eorum plurimum vexatus
est, jubente duce; quem
postea poenituit, tentoria
fixa sunt; nam monts totus
insitus tarantis, viris et
mulieribus
inhonestum,
quamvis iis evaserint, ridiculosum hospitium praebuit. Taranta quidem vermis est, araneae speciem habens, sed aculeum
veneni ferae punctionis omnesque, quos punxerint, multa venefica ventositate replet; in tantumque angustiantur, ut ipsam
ventositatem, quae per anum inhoneste crepitando emergit, nulla modo restinguere praevaleant et nisi clibanica, vel alia
quaevis ferventior aestuatio citius adhibita fuerit, vitae periculum incurrere dicuntur. Tali inhonestate nonnuli nostrorum
vexati, tandem locum mutare coguntur, vicinum urbi locum tutiorem […].
Libro trentaseiesimo. I nostri molestati dalle tarantole. 1064 […] Le tende, così come il capo comandava – poi si pentì – furono
alzate sul monte che, in seguito, per l’abbondanza di tarantole, fu chiamato tarantino. Infatti offrì come ridicolo alloggio il
monte infestato dalle tarantole, ripugnanti agli uomini e alle donne e ancor più a coloro che si erano allontanati. La tarantola
è un verme che ha l’aspetto di un ragno, ma ha un aculeo velenoso e di puntura spiacevole e riempie tutti coloro che punge
di molta aria: e questi si angustiano a tal punto che la stessa aria, che viene fuori attraverso l’ano, rumoreggiando
vergognosamente, non possono in nessun modo controllare e, se non sarà usato più velocemente possibile [l’immersione in
un?] il vaso arroventato, o qualsiasi altra agitazione più impetuosa, si dice possa esserci il pericolo di vita. Alcuni dei nostri,
tormentati da tale disagio, infine furono costretti a cambiare luogo, cercando un posto più sicuro vicino alla città […].
Rielaborazione di Federico Capone
Girolamo Mercuriale, De venenis et morbis venenosis, s.l. 1584
Intorno alla tarantola*
Tra i falangi e i ragni se ne annoverano alcuni altri che, volgarmente, sono chiamati tarantole e sono esclusivi dell’Italia e,
soprattutto, della Puglia, per cui si può dedurre che Plinio sbagliò quando scrisse che sono una schiera straniera all’Italia, dal
momento che non solo questo genere è peculiare ma, in verità, nelle regioni italiane ne nascono molti altri, come è
confermato dall’esperienza e dall’autorevolezza di molti scrittori. Questo animale produce molti sintomi sorprendenti simili a
quelli degli scorpioni e dei ragni. Si dice, in verità, che ne provoca uno singolare: quando morde (punge) uno, quello è solito
rimanere sempre nello stato e nel modo di fare in cui è stato punto finché il veleno non è stato espulso dal corpo, così che se
punge qualcuno che cammina, quello camminerà sempre, se sta saltando [ballando] sempre balla, se sta ridendo sempre ride;
di
Federico Capone (il tarantismo nel tempo)
io non sono in grado di affermare se ciò sia vero o meno, ma quelli che si sono trovati in Puglia, lo danno per certo; e
talvolta io ho visto qualcuno che saltava di continuo, e diceva che era stato morso dalla tarantola, ma appena veniva preso dal
capo e legato con funi, veniva curato. Tuttavia, per il resto affermano che contro il morso della tarantola può fare molto la
musica, ma i rimedi per questo veleno sono da ricercarsi dagli abitanti della Puglia. E questo è la fine della trattazione
specifica sui veleni che vengono iniettati dagli animali.
* trad. di Maria Teresa Ciccarese, rielaborazione di Federico Capone
Francesco Castrignanò
LA PIZZICA PIZZICA
Quandu sona la piulina
jò mi rrizzicu e mi scàzzicu,
e mi pézzicu, e mi mòzzicu
di la sera a la matina.
Ballu mo ci so bagnona
o ccu sòruma, o ccu fràima,
o ccu Arcangilu, caniàtuma;
tutti dìcinu: cce bona!
Ogne tantu jò suspiru
ccu li razze all’aria all’aria;
zzumpù, e bolu co na ponnula
no lassandu mai lu giru.
Ttuppi ttuppi, tamburrieddhu,
binidittu santu Pàulu!
li suduri sta mi squagghianu
suttaninu e sciupparieddhu.
Gira gira… cce mi sentu…
la taranta cchiù mì scazzica,
e mi pèzzicu e mi rrìzzicu…
Tore mia, sii nu turmientu!
Francesco Castrignanò è l’autore di questa poesia dialettale pubbliccata in Cose Nosce. Poesie dialettali.
Seguite da un Dizionaretto Neritino-Italiano, Nardò, Tipografia Neritina, 1909, p. 67.
Girolamo Marciano di Leverano
[Degli animali rettili e velenosi]
Degli animali rettili e velenosi, degl’insetti e, particolarmente, de’ bruchi
Gli animali rettili e velenosi di questa Provincia non sono così potenti, come nelle altre parti montuose d’Italia. Sebbene vi
siano serpi di molte specie, come Aspidi, Vipere, Chelidri, Ceneri, Drinni, Emorroi, Cecilie, che vi chiama Cecelle, e Serpi
Viuole, Arundinarj, Cristallini, Saettoni, Serpi caprine, Carbonari, Carnoni, ed altre specie. Se ne sono viste con due
cornicelle sopra del capo, le quali io penso che siano Cerasti, altri con peli e mostaccio. Gli anni passati ne fu preso uno
vicino il porto di Cesaria, territorio di Nardò, da un certo ciurmatore della città di Gallipoli, chiamato Giannuzzo Lisco,
lungo circa palmi dieci e grosso a corrispondenza della lunghezza: era di color variegato, come la Vipera, aveva i denti
ordinati a filare nella mascella superiore ed inferiore, con due zanne, contorte e vergenti verso l’orecchio, che uscivano dalla
mascella inferiore fuori della bocca, lunghe e grosse quanto il dito piccolo della mano; aveva anche il mostaccio di pelo, ed
era del peso di circa dieci rotoli, cioè libre trenta. Altri di maggior grandezza non se ne sono visti in questa Provincia,
quantunque dica Solino, che la Calabria genera la Boa, serpe di smisurata grandezza che suggendo quando è piccola il latte
dalle poppe delle vacche si fa grossissima e che finalmente preda le vitelle, le gregge, gli uomini, ed altri animali1; ma a questi
tempi non si vede, se pur non intende Solino della Calabria detta Magna Grecia, o del Monte Gargano, detto di Sant’Angelo,
parte dell’antica Japigia, ove a’ nostri tempi se ne son vedute, ed ammazzate.
Ricorderai forse quello che dice in proposito il
Berni (11. 17)
nel suo Orlando Innamorato:
Come in Puglia si fa contro al veleno
Di quelle bestie, che mordon coloro,
Che fanno poi pazzie da spiritati;
E chiamansi in vulgar tarantolati;
E bisogna trovar un che sonando
Un pezzo, trovi un suon che al morso piaccia;
Sul qual ballando, e nel ballar sudando
Colui, da sé la fiera peste caccia.
La tarantata – Macchiette (da Figurine e ritratti)
di
I.
— “Eh, cummare, cc ebete?” — “Soru mia,
ca cce sapimu mancu? La Cuncetta
se nd’ha benuta te la massaria
e quantu spania, quantu nu rreggetta!
Lu miedecu l’ha ditta schetta schetta
ca nu nn’ha truata nudha malatia
e nn’ha scritta na stozza te lezetta
ca ‘imu pigghiata te la speziaria.
Stringe lu senu: doppu doi tre ure
comu nna morta a nterra se ba mina,
mmudhata tutta quanta te sudure;
e llu scucubbatu sècuta a cantare:
— “O Santu Paulu miu te Galatina,
te priamu ca la razzia ni l’ha ffare!”
IV.
II.
A mumenti la casa ddenta china
Te fimmene e de strei te lu ecenatu,
e sienti: — “Ha’ istu, ha istu, Pascalina,
pueredha! Quantu tiempu ca ha ballatu?”
— “Eh, l’arma mia! La tocca a Galatina,
ca lu Santu cussine è cca ole priatu!...
Quantu rria dhai, stasira o crammatina,
se binchia d’acqua e bi’ ca n’ha passatu.”
Se nde mina te botta lu saccune,
lu talaru e nnu pizzu s’ha rruccatu,
e lla banca se minte a nnu puntune,
l’ancu ‘ntru ll’autra cammera è purtatu,
Ogne una se cucchia e bole la ìscia;
nnu calantomu uarda re dha ffore
comu ete ca lu piettu ni nfanniscia;
Fradditantu l’ha strutta tutta quanta
e nu nde etimu luce.” — “Uei, cummare,
cu nu bessa, ci sa, schacche taranta…?
E ccu ss’aggia mmestuta ballarina!
Sa cce ffane? Facitila ballare,
poi se rreggetta e sciati a Galatina.”
all’angulu se minte lu casciune,
e lu largu te mienzu è preparatu;
se spande mmienzu ccasa nnu chesciune
iancu e te ‘ntru lla cascia stuccecatu.
Cucchia la mamma e dice cittu cittu:
— “Me faci na lemosena, signore,
ngloria te Santu Paulu benedittu?” —
Una nfila nnu nzartu ‘ntru lu niedhu
cu nna canna, la soru ffaccendata
ni sta ttene la capu e lla cunforta
— “Uh, Santu Paulu miu, quantu è ca balla?”
e nni spunta lu bustu; te la porta
trase intru nnu scubbatu e nna cecata
cu llu priulinu e cu llu tamburiedhu.
III.
Allu nzartu zzeccata nfannisciandu
e cu ll’ecchi te fore stralunata,
russa comu papàparu, spumandu
pesciu te serpe, menza spetturata,
mpisa cussì allu nzartu e bae utandu
a nturnu tutta scramignata
e lli dienti nzerrati e poi schidhandu
ca se sente te fore te la strada.
V.
— “Ah, figghia mia! Mo mo s’ha rreggettata…
Abbande Ssignuria cu sta esta gialla:
se la a bite, la zzicca e l’ha strazzata…
Scusame Ssignuria, llèate sta scialla:
ci sa, se la taranta e penti sciata
propriu peccussine, e biti ca alla
Rusina, la semana ca ha passata,
dhu culure ni piazze.” — “Nu nci crìsciu
ca la taranta balla.” — “E jeu a nienti
mancu credìa, ma poi cce cosa a bìsciu?
L’annu passatu, allu Danatu Nnau
Ni pòrtanu li stremi sacramenti…
Sente la banda… balla… e sciu ssanau…”
Federico Capone (il tarantismo nel tempo)
Le vipere di questo paese sono eccellentissime per la composizione degli antidoti, teriaca e mitridato. Pochi anni sono nel
paese di Arneo, territorio di Nardo, e propriamente dentro i ruderi della terra detta di Cagnano, si trovarono due serpenti che
erano usciti al sole da una caverna, e furono presi da un barbiere di Copertino, detto Gio. Antonio Amato, e portati in detta
terra, ove li vide tutto il popolo. Erano questi della grandezza e figura della vipera, ciascheduno a due teste a modo di
forcina, una più grossa dell’altra; in ciascheduna testa erano tutti i segni necessarii all’animale, come il viso, l’odorato, e gli
altri, ed una gola per ciaschedun collo, che ambidue si congiungevano in un ventre, ove incominciava la forcina, ed il ventre
aveva un solo sesso vicino alla coda, per il quale mettevano gli escrementi, camminavano colle due teste avanti, e nel
camminare una testa tirava a sé l’altra, secondo il desiderio dell’animale. Onde è da credere non esser del tutto favoloso quel
che Aristotele e gli altri antichi dissero dell’amfisibena aver due teste, il che mi do a credere facilmente, considerando però
che le due teste vadano avanti a guisa di forcina, come le sopradette, e non una esser nel capo, e l’altra nella coda, come molti
si hanno creduto, e falsamente persuaso.
Sono anco in questa Provincia molti Chersidri, come dicono Questi nascono nel terreno arido e secco, l’estate seguono
predando le rane dentro le paludi e le acque stagnanti.
Solino e Virgilio nel III della Georgica in questi versi:
Praticando nelle acque, come dice Aezio, si chiamano Idri e
Natrici, ed allora non sono molto velenosi; ma dimorando nel
secco si dicono Chersidri, che morsicando producono
gravissimi accidenti, ed in tre giorni la morte, se il morsicato
Est etiam ille malus Calabris in saltibus anguis,
non si aiuta. Vi sono anco Ramarri, detti Lacertoni, lucertole
Squamea convolvens subtato pectore terga,
delle ordinarie, e di un’altra specie, nel paese di Vaste negre,
Atque notis longam maculosus grandibus aluum:
Salamandre acquaticele, Lumache di molte specie, grandi,
Qui, dum amnes ulli rumpuntur fontibus, et dum
piccole, e mediocri: le più grosse si dicono marruche, ed
Vers madent udo terrae, ac pluvialibus austris,
infinite altre specie d’insetti, come scorpioni, cantarelle verdi,
rosse, fasciate di nero, Bupresti, Bruchi, Vespe, Calabroni,
Stagna colit, ripisque habitans, hic piscibus atram
Cicale, e simili, cavallette di un mezzo palmo con i piedi lunghi
Improbus ingluviem ranisque loquacibus explet.
Postquam exhausta palus, terraeque ardore neri, bigie, variegate, e di colore erbaceo, di aspetto bruttissimo
ed abominevole, che il volgo chiama Cavallette di streghe. Vi
dehiscunt,
sono molte specie di Locuste, chiamate Bruchi grandi, piccoli e
Exsilit in siccum, et flammantia lumina torquens
mediocri, alcuni con le ale, ed altri senza ale. Di quelli che non
Saevit agris, asperque siti atque exterritus aestu.
mettono ale, se ne sono osservati di cinque specie. [...]
Ne mihi tum molles sub dio carpere somnos,
Delle tarantole dette aragni e falangi, etimologia dei loro nome,
Neu dorso nemoris libeat jacuisse per herbas:
differenze, meraviglia ed artificio che osano nel tessere la loro
Cum positis novus exuviis nitidusque juventa
tela. Non è da passarsi sotto silenzio in questa descrizione
Votvitur, aut catulos tectis, aut oca retinquens,
l’istoria delle tarantole, insetti non tanto noti quanto infesti in
questa provincia, e per narrare gli stravaganti sintomi ed i
Arduus ad solem, et linguis micat ore trisulcis.
diversi accidenti causati dalle loro velenose punture, si
richiederebbe ridurli non in pochi e brevi capi, ma in
copiosissimi e lunghi trattati; il che non potendo fare per non
avere tant’ozio, e per non esser materia che si richieda in questo
luogo, ne diremo solamente quanto basta in questa nostra
descrizione, e si è da noi osservato in questa provincia. I nomi Tarantola, Aragno, e Falangio sono in sé sinonimi, e
significano una istessa cosa (benché gli antichi li abbiano distinti) e l’uno si può intendere dell’altro, pigliando tal volta la
Tarantola per il Falangio, ed il Falangio per l’Aragno. Alcuni dicono il Falangio esser detto aragno da Aracne conversa in
questo animale, come finsero i poeti. Isidoro nelle sue etimologie dice esser detto aragno dall’aere, ove esso sospende le tele;
altri tarantola dalla terra ed altri da Taranto città di questa provincia, ove se ne trovano molti; i quali nomi tutti si riducono
sotto il nome generico di aragno. Fingono i poeti, che nel guerreggiar di Giove con i Titani, feriti costoro, dal sangue loro
sparso nella terra nascessero varie specie di animali velenosi, tra i quali Furono i serpenti, le vipere, ed i falangi, come scrive
Nicandro nelle sue Teriache, così dicendo:
Serpente pariterque Phalangia noxia, et atrum
Vipereumque genus, quae terrae plurima monstra
Producunt, sunt Titanum de sanguine nata.
di
Federico Capone (il tarantismo nel tempo)
Francesco Carrozzo
Ninetta-Euridice, il Mors(o) della Taranta-Orfeo e il Respiro di fuoco.
Narra Plinio nel Libro XI, cap. 24, la differenza tra gli Aragni ed i Falangi, dicendo che gli Aragni non hanno veleno, e che i
Falangi sono velenosissimi, ed ignoti in Italia. Ma queste differenze non si veggono appresso de’ medici, come si può
osservare in Galeno, Aezio, Paolo Egineta, ed altri, che fanno l’una e l’altra specie velenosissima, quasi volendo dire, che
comunemente si dicono Aragni, e velenosi. Sono detti poi Falangi per avere divisi i lor piedi in tre giunture, simili alle dita
umane della mano, i cui internodi i Greci chiamano Phalangi. Da Avicenna e suoi colleghi son chiamati Rectele, e
ciascheduno di questi ha otto piedi, cioè quattro per ciascheduno de’ lati, dal collo sino a tutto il ventre. Scrisse degli Aragni
Aristotele nel IX Libro dell’Istoria degli Animali, al cap. 39, dicendo in questo modo: Le generazioni degli Aragni e de’
Falangi son molte: il mordace che si divide in due specie, l’una simile a quelle che chiamano lupi, è picciolo, di color vario,
mordace, libidinoso, detto pulce; l’altro notissimo a coloro che preparano i medicamenti, niuno, o picciol nocumento
veramente arreca. Del secondo genere, che prese il nome di lupo, l’una specie è piccola, e non tesse, l’altra è maggiore, ed
ordisce la tela piccola, aspra, ed appresso la terra, e per le siepi ne’ buchi, nei quali si osservano i primi ordimenti esser posti
dentro, e quando si commove alcuna cosa nella tela, subito corre per pigliarla. Un’altra specie è di color vario, che fa una
picciola e vile tela sotto degli alberi. Il terzo genere è sapientissimo e splendidissimo più di tutti gli altri nel tessere,
imperocché tesse pigliando con le fila il principio dal mezzo, distendendo e riducendo lo stame per ogni parte in giro, né
senza magistero piglia il mezzo, nascondendosi dopo sotto la coverta, o casa, ed in altro luogo si fa il ripostiglio, e si esercita
nel mezzo dell’opera, spiando la preda. Perciocché quando nella tela rintuzza qualche animaletto, risvegliatosi col moto di
mezzo, vi corre, e lo lega ravvolgendolo colle tele mentre che sbatte, e lo soffoga, e dopo lo prende e porta seco, ed avendo
fame, lo sugge, essendo questo il suo intento; non avendo fame, lo rimette nel suo ripostiglio, e ritorna di nuovo alla caccia,
risarcendo prima la tela lacerata per il cacciare, se vi sarà occorsa qualche rottura nel mezzo, o nelle sponde, e corre egli
prima nel mezzo, d’indi a quello. Quello detto vespa vive particolarmente circa i forni e i molici. Il rimedio è di metterne uno
della medesima specie sul morso, ed a questo fine si conservano quando si trovano morti, e te scorze loro tritate e bevute lo
sanano, ed i feti della donnola, come di sopra dicemmo. I Greci mettono parimente il Falangio nella specie degli aragni, ma
lo distinguono col nome di lupo. La terza specie è l’aragno lanuginoso col medesimo nome di Falangio, col corpo
grandissimo, il quale aperto dicono trovarvisi dentro due vermicciuoli, come lasciò scritto Cecilio ne suoi commentarj.
Un’altra specie si chiama Rhagion, simile all’acino dell’uva nera, con picciola bocca sotto del ventre, con piedi tortissimi, e
quasi che imperfetti. Il dolore del suo morso è simile a quello dello scorpione. L’urina del morsicato è simile alle loro
ragnatele. Il medesimo sarebbe l’Asterio, se non si distinguesse colle linee bianche. Il morso di questo fa indebolire le
ginocchia, e peggiore dell’uno e l’altro è il ceruleo con nera lanugine, il quale col morso induce caligine e vomiti araneosi, ed
è anco peggiore del Calabrone, differendo solamente nella penna, e questo riduce ad etticia. Il Mirmecio, simile nel capo alla
formica, ha il corpo nero distinto con certe macchie bianche, e fa il medesimo dolore che la vespa. I Tetragnati sono di due
sorte: peggiore è quello che ha il capo diviso con linea bianca ed un’altra per traverso. Questo fa gonfiare il volto. Ma il
cinericcio biancheggiato alla parte di dietro, non è nocevole, ed è del medesimo colore di quello che fa la tela da pigliare le
mosche per le mura. Contro i morsi di tutti è rimedio il cerebro gallinaceo bevuto con alquanto pepe, cinque formiche
bevute, la cenere dello sterco delle pecore impiastrata con aceto, ed essi aragni di qualsivoglia specie putrefatti nell’olio. Tutto
questo che scrisse Plinio parlando degli Aragni, e fu trascritto con tutto quello che scrisse Aristotele da Alberto Magno nel
suo Degli Animali. Eliano nel III Libro dell’Istoria degli animali dice, che l’arte del tessere e delle lane è fama averla trovata la
Dea Ergane, ma che l’aragno l’ha per natura non istudiando nell’artificio del tessere, né altronde, che dal suo ventre produce
gli stami, contessendo le fila colla velocità de’ piedi, e formandole in ispecie di tele, e si nutrisce con diligenza colla preda
delle medesime fila che cava dal suo ventre. Ed in altro luogo dice che non solamente gli aragni hanno l’insigne sottigliezza di
tessere similmente come le Dee Paltade o Minerva, ed Ergane, tanto celebrate pel sottile e lungo artificio di mani, ma sono
anco dotte nella geometria; perciocché osservano il centro, circonducono quasi il compasso, e sanno perfettissimamente la
circoscrizione, né hanno bisogno di Euclide ammaestrato con geometriche ragioni. Sedendo in mezzo del centro, tendono le
insidie alla loro preda; e non solamente sanno il vero modo del tessere, ma sono anco eccellenti nell’esercizio del risarcire,
imperciocché rompendosi qualche parte della loro sottile opera, subito la rifanno, come rinnovato tetto. In sino a qui Eliano.
Del temperamento e della natura del veleno delle tarantole, degli strani accidenti che producono e dei vari modi del ballare
che fanno i morsicati da esse.
Ninetta è una donna, Ninetta è una voglia, Ninetta è una delle tante donne della grecìa salentine libere di
danzare, libera di mostrarsi godere dopo essere stata punta, infettata e DEIficata dalla taranta. Ninetta è libera
di desiderare, è libera di mostrarsi godere senza ritegno perché è stata “pizzicata” e ora “zumpa e balla” in
onore di Santu Paulu, ma soprattutto in onore di sé stessa, perchè Ninetta è una donna che lavora. Ninetta è
una donna libera. Ninetta danza perché è stata MORSa da un messaggero degli dei, dalla taranta, e, danza per
raggiungere la “piccola morte”, come qualche poeta definì l’orgasmo. Ninetta deve danzare, deve far l’amore
con la terra.. Ninetta, adolescente in fiore o vecchia carampana, Euridice per eccelenza dopo il MORSo di
Orfeo-SANTU PAULU miu te le tarante, è benedetta dagli dei e tutti la devono ammirare-invidiare. Ninetta è
l’inconscio collettivo che può permettersi di catapultarsi istericamente a terra per dedicarsi-donarsi all’amore
REpresso e reso pubblico dopo che un messaggero di Santu Paulu-Orfeo, la taranta, le ha messo il fuoco
“mienzu l’anche”. Così deificata, il fuoco in mezzo alle gambe diventa un’esperienza divina da vivere
all’aperto, grazie all’incoscienza della trance forsennatamente e volutamente raggiunta con lo squotimento del
bacino, sbattuto forte sulla nuda terra, squotimento teso a comprimere ritmicamente le terminazioni nervose
tra le osse pelviche. Vi è inoltre un altro elemento fisico importantissimo che aiuta raggiungere l’ncoscienza e
la trance, ossia quello stato alterato della coscienza che sperimentano persino i santi quando sono in preghiera
e combattono con i demoni, esso è il ritmo affannoso del respiro caldo e ansimante che porta
all’iperventilazione ventricolare del cuore mentre tutto il corpo vibra ritmicamente. Ninetta che mima l’amore,
non è altro che Euridice che fa l’amore con sé stessa e/o con la madre-padre terra/spirito santo che le
permette il raggiungimento del piacere senza il suo Orfeo. Infatti l’orgasmo è solitario, è reale, e mostra alle
altre donne REpresse che si può vivere liberamente la propria esperienza sessuale quando si lavora e si è
libere, godere senza se e senza ma, e senza anche la presenza fisica di un uomo. Questa tecnica in Oriente,
questo squotimento di tutto il corpo con il percuotere forte del bacino a terra in modo ritmato per portare le
terminazioni nervose delle ossa pelviche, osso sacro, a trasmettere il piacere su tutta la colonna vertebrale sino
al cervello, è un godimento fisico ben conosciuto in oriente. Esso, assieme alla tecnica di respirazione
volutamente affannosa per ottenere una iperventilazione del cuore, è noto come “respiro di fuoco” e affonda le
sue radici nella notte dei tempi, come la “taranta”. Ninetta non fa altro che liberare Kundalini, ossia prende
l’energia sessuale nella sua forma radicale e la converte in energia spirituale di frequenza estremamante alta
che permette lo sviluppo e l’attivazione delle attività paranormali. Energia che rinnova il corpo e lo spirito.
Ninetta/Euridice con la sua danza raggiungerà uno stato di piacere sessuale profondo simile all’aver fatto
l’amore con un dio, l’amore con Orfeo/Santu Paulu miu te le tarante/Spirito Santo divino. Orfeo ed Euridice
che si amano ma non si troveranno mai a condividere il loro amore, perché un destino crudele rinchiederà per
sempre Eueridice nel mondo del fuoco. Mito del fuoco che la donna si porterà dentro e lascerà vivere solo ai
primi calori dell’estate, quando si fa sentire più forte il dediderio dell’amato che non c’è. Ninetta deve ballare
e deve trovare la scusa per farlo, per giustificare una “sconvenienza” che l’ipocrisia sociale accetta solo se la
si può assimilare alla malattia, espressione di una possessione dalla quale solo un guaritore maschio, che
mima il ragno e che le gira attorno senza toccarla, potrà liberarla. La danza che ne è venuta fuori è quindi
un’epressione mistificata e simbolica di un desiderio represso che si può solo vivere se Euridice/Ninetta lavora
ed è libera. L’uomo che le balla intorno infatti la può solo ammirare ma non toccare. Nella vera taranta, e non
nella tarantella dove uomo e donna si incrociano con le gambe e danzano insieme, l’uomo non tocca mai la
donna, ma le gira soltanto intorno e lascia piena libertà di espressione alla donna. LA TARANTA PER
CONCLUDERE è UNA DANZA DI DONNA LIBERA, RINFRANCATA DAL LAVORO CHE DA
LIBERO SFOGO AI SUOI DESIDERI.
Maurizio Nocera
soprattutto le vedono puntare
sulle loro gambe a imbuto aperte,
disperano un po’
poi
godono tuttavia.
Dicono pure che ce un’altra strana tarantula
dal corpo tutto maculato,
che quando morde il nido
delle tante Marie salentine
lo brucia e lo spinge
su un sentiero irrequieto
dove i segni della vita
si leggono come amore.
Sapete
qui
sono tante le Marie morse tutti l’anni
per questo
ora
parlano poco
zittiscono a volte
occupate dalle faccende della vita.
Non s’ode più il lamento nella notte
e veleni ce ne sono per tutti
per chi vuol farsi mordere
e per chi vuol farsi prendere
e perdere.
Qui
non è difficile
sentire di notte
la tarantula ragnare
come pure
il lamento di una donna
che sotto l’albero di fico aspetta l’amato.
E poi
non è vero che con un liquorino
pur’anche appassito
la sofferenza piglia e passa
gli umori della carne
non sopportano il furore
quando la taruntala già ti morde dentro.
di
È per questo che Maria canta e balla
come pure
cantano e ballano tutte l’altre Marie
al ritmo del musico di Cutrofiano,
col danzatore di Lecce
tra tamorre, organetti, chitarre,
e flauti, fisarmoniche e scimitarre,
si scontrano con Aracne a testa in giù.
La musica però è sempre la stessa:
pizzica taranta per chi ha dolore,
pizzica de core per chi vuole amore.
Questo è il rimedio del Salento
terra dura amara rossa
dove Maria
eppure tutte l’altre Marie
un giorno
quasi per gioco
finiscono col perdersi davvero
a volte solo
per così poco.
Altri rimedi non se ne conoscono
per questo le Marie salentine
cantano e ballano
spengono la luce e s’attaccano al palo
per non fuggire
per non sparire
per non morire.
Intanto
dall'ombra d'un ulivo rovinato
tamburellista e danzatore volano in cielo
uno batte la tamorra
l’altro danza sulla terra di mezzo
incuriosendo le Marie ingannatrici
all’inseguimento di un aquilone celeste
con gli occhi fissi al manico
e le mani a tessere la tela di nostra vita.
La Tarantula salentina
arde e morde
il ventre delle tante Marie infuocato
che ora
s’espande per mari e per terre
rosse di sangue raggrumato.
Federico Capone (il tarantismo nel tempo)
Il temperamento di questi animali, per quanto si cava dalla loro natura, è senza dubbio freddo e secco, accostandosi molto
alla stagione autunnale, e dall’umore melanconico, essendo cosa chiara, che in quella stagione hanno più vigore e potenza,
che negli altri tempi dell’anno, ed allora più quando questi animali avranno divorato altri animali velenosi, come vuole
Aristotele nel libro VIII dell’istoria degli animali, al capo 29, così dicendo: Sed omnium venenatorum morsus graviores sunt,
si alterum ederit alterum, ut scorpio devoratus a vipera certum est; o avranno succhiati corpi, o cadaveri di animali velenosi,
come più chiaramente descrive Alberto Magno nel libro VIII degli animali, così dicendo: Rationabile autem est, araneam
propter frigiditatem habere venenum frigidum, sed tamen tanto est venenosior quanto animalia quae sugit sunt venenosiora,
et ideo dicitur quod in autumnum est venenosior omnis aranea, quia tunc sugit per aestatem multa venenosa quae
incorporata sunt ei. Araneae autem non solum sugunt ea, quae venantur, sed aliquando sugunt magna animalia adhaerentes
eis sicut Bufones vel pediculi. Et ideo frequenter visum est quod ab alto aranea se per filum submisit, et Bufonem, vel
serpentem pungens linguam sugit, et sic aliquando pungit omines, volens sugere humiditatem ex ipsis. Plinio ne’ luoghi
sopracitati dice che l’aragno ammazza la serpe per naturale odio, che vedendola all’ombra distesa sotto del suo albero ov’ella
alberga, si lascia andare giù per il filo che tesse addirittura sul suo corpo, e la morde nel cervello, afferrandosela in modo tale,
che sibilando dopo, e ravvolgendosi, non ha la forza di rompere il filo dell’aragno che le sia sopra pendente, né indi si parte
finché non l’uccide col suo velenoso morso. Ma questo fa, secondo Alberto, per suggerne dopo l’umido, e non per naturale
inimicizia, come vuole Plinio. Il che conferma anco la natura del Calabrone, specie di vespa, il quale si vede fare il medesimo,
che non solo ammazza la serpe afferrandosele, ma anche pungendola nel capo sopra del cervello. Ma quel ch’è di maggiore
meraviglia, dopo ammazzata, la sugge alquanto, e finalmente afferrandosele alle labbra, cerca con ogni sforzo tirarsela al
ripostiglio, e la tira e rimuove per grossa che ella sia, ed egli piccolissimo animaletto tra gl’insetti poco più della vespa. Che sia
freddo il veleno di questi animali lo afferma anco il dottissimo Girolamo Mercuriale nel suo II libro de’ veleni. Ma non per
questo vuole egli che ammazzi per la sua freddezza, ma per occulta qualità specifica; ove egli dice essere veramente
impossibile intendere che il loro veleno ammazzi per la sua freddezza, perciocché ponendosi qualsivoglia freddezza in questo
animale, e nel suo veleno, che fonde nel trafiggere, è di tanta poca quantità che non può in verun modo offendere, simile a
quello che dice Galeno, che una centesima parte di una scintilla di fuoco non può abbruciare.
E però si può francamente conchiudere, egli dice, che sia qualità specifica velenosissima ed occulta, della quale sono infetti e
formati questi animali «ella loro propria specie. Onde Solino nel suo Polistore, scrivendo degli animali di Candia, dice del
Falangio: Phalangium Aranei genus est; si visum quaerar, nulla vis corporis, si potestatem, istum hominem veneno interfecit.
Questi animali trafiggono la cute, fondono il veleno con un certo ago, simile a quello degli scorpioni, non così
profondamente come quelti, ma alquanto più superficialmente, facendo la puntura sottilissima, che appena si può discernere,
come dice Galeno.
Producono nel trafiggere gravissimi accidenti, e stravaganti sintomi, alcuni simili a quelli dello scorpione, ed altri diversi, che
affliggono in varii e diversi modi, secondo le diverse specie degli aragni che trafiggono, ed il dominio dell’umore che domina
il trafitto, come dottissimamente narra il Mattioli sopra Dioscoride; il quale dopo di aver narrate tutte quelle cose che scrisse
Aezio, soggiunge dicendo che oltre le sei specie degli aragni narrate da Aezio, se ne trova un’altra di pessima natura, che da
Taranto, città del Regno di Napoli, dove ne nasce gran copia, si chiama tarantola, la quale produce diversi e strani accidenti
negli uomini che ella morde. Imperocchè di questi alcuni cantano, alcuni ridono, alcuni piangono, alcuni gridano, alcuni
vomitano, alcuni dormono, alcuni vegliano, alcuni saltano, alcuni tremano, alcuni sudano, ed alcuni patiscono diversi altri
accidenti, e fanno pazzie come se fossero spiriti, i quali effetti non si può dire, se non che procedano da diverse nature di
questi animali, e parimente da coloro, che sono morsi da essi, comechè vogliono alcuni che le tarantole facciano diversi
effetti, secondo che mordono, ed a seconda di loro. Di queste, egli dice, ne sono assai in molti luoghi delle nostre maremme
di Siena, e nel Patrimonio. Ma universalmente ne sono assai in Puglia, e stanno ne’ campi del grano ascose in terra, dove
spesse volte trafiggono i mietitori, che per non sapere l’ usanza, non hanno gli stivaletti in gamba. Dei quali già mi ricordo
averne veduti alcuni patire assai de’ predetti accidenti. Tutto questo disse il Mattioli.
Girolamo Mercuriale nel suo II libro de’ veleni, scrivendo delle tarantole dice: fa questo animale maravigliosi accidenti, e
quasi tutti quelli che fanno gli aragni, gli scorpioni, ed altri. Ma una cosa dicesi far principalmente, cioè che quando morde
alcuni, sempre li conserva in quello stato ed operazione sinché il veleno non sarà scacciato dal corpo, di modo tale che se
morde alcuno camminando, sempre quello cammina, se ballando, sempre balla, se ridendo, sempre ride.
di
Maurizio Nocera
Federico Capone (il tarantismo nel tempo)
Ma se questo sia vero, egli dice, io non oso affermarlo, ma quelli che hanno conoscenza della Puglia l’affermano per cosa
certa. Un certo scrittore moderno afferma esser verissimo ciò che dice Mercuriale, ed egli averlo visto mille volte nella
provincia d’Otranto. E noi per il contrario con aver fatta da circa anni venti in questo esattissima osservazione, ed aver presa
informazione anco da medici diligentissimi del paese, e da coloro che continuamente suonano per guarire i tarantati, non
solamente non ho potuto ciò vedere, ma né anco inteso da quelli.
Dioscoride nel VI scrivendo degli accidenti delle loro punture, dice, che il luogo della puntura fatta da’ Falangi è come se
fosse stato trafitto, ma non si gonfia, né si sente calore all’interno, ne nascono però questi sintomi, cioè tremore in tutto il
corpo, storcimento di ginocchia, e d’inguinaglie simile allo spasimo, oppilando le parti vicine ai lombi. Dal che si causa una
continua volontà di orinare, senza che possano i pazienti, se non con difficoltà grandissima orinare, ed andare del corpo.
Esce oltre ciò fuori della persona un sudor freddo, e lagrimano, ed hanno volanti gli occhi.
Aezio nel III dice, che il morso de’ Falangi è sottile di modo che appena si può discernere. Il tumore che lo circonda intorno,
è livido, comeché in alcuni si trovi parimente rubicondo, dal che si causa frigidità nelle ginocchia, ne’ lombi, e nelle spalle.
Aggravasi alle volte tutto il corpo, i dolori punto non cessano, il sonno si perde, e la faccia si fa non poco pallida e smagrita.
In alcuni nasce nella verga non poco stimolo di coito con prurito di testa, e di gambe. Fannosi gli occhi lagrimosi, torbidi e
concavi, il ventre egualmente si gonfia, come tutta la persona, e la faccia, e massimamente quelle parti che sono intorno alla
lingua, di modo che non poco impediscono la loquela. Sono alcuni pazienti che non possono orinare, quantunque ne
abbiano desiderio, se non con dolore, e sebbene orinino, fanno l’orina acquosa, nella quale si veggono alcune cose simili alle
tele degli Aragni; il che similmente si vede ne’ vomiti loro, e nelle fecce che vanno dal corpo. Messi i pazienti nell’acqua, si
alleviano da ogni dolore, ma come se ne veggono fuori, si dolgono, non poco nelle parti vergognose, comeché ne’più vecchi
intervenga tutto il contrario; perocché in loro quelle membra tutte si rilasciano. E questi sono gli accidenti che comunemente
sogliono intervenire in tutti questi morsi. Ma quando morde particolarmente quello che chiamano Cranocolapte, causa
dolore grandissimo di testa, vertigini, freddo universale, affanni, e punture di stomaco. Tutto questo disse Aezio degli
accidenti e sintomi del morso de’ Falangi.
Paolo Egineta nel V Libro dice che ai morsicati da’ Falangi appare veramente il luogo rubicondo simile alle punture, non
caldo, nè tumido, ma moderatamente subrubicondo, refrigerato, e pruriginoso. Segue alle punture refrigerazione, tremore,
gravità di corpo, sudor freddo, dolore intenso, pallore continuo, irritamento di orina all’espulsione, in alcuni difficoltà di
orinare, ed attrattazione di verga, gli occhi umidi, distensione circa l’inguinaglie, convulsioni alle giunture de’ piedi, forte
mordicazione di stomaco, scabrizie di lingua, vomito d’acque, ovvero di altre cose simili alle tele de’ ragni, ed in alcuni si
evacuano anco per il ventre e per l’orina le stesse materie. E se si mettono nell’acqua calda, si liberano dal dolore2, ma dopo
subito ritornano ad aggravarsi. Edappresso dice: v’è anco un Aragno, che produce mordendo dolore grave circa il mezzo de’
precordii, rossore e difficoltà di orina, ed alle volte anco soffocazione. Tutto questo disse Paolo Egineta.
Attuario nel VI del Metodo dice: il luogo a quelli che sono stati morsicati dal Falangio arrossisce, e dimostra picciole
punture, ma non si gonfia, né molto accende, e per il contrario vi si sente freddo, vi concomita tremore per tutto il corpo,
impeto e ritiramento dell’inguinaglie e giunture de’ piedi simile alla convulsione, dolore circa i lombi, e perpetuo stimolo di
orina, difficile espulsione di escrementi, prorompendo in tutta la superficie del corpo sudor freddo. Questi medesimi
accidenti trascrisse Avicenna da Paolo, Aezio, Dioscoride, Attuario, ed altri, per quanto egli riferisce nel Libro IV, capo 6.
Strabone nel XI Libro scrive che nell’Albania, regione posta tra l’Iberia e l’Armenia maggiore, la terra produce certi velenosi
Serpi, Scorpioni, ed Aragni, e che alcuni degli Aragni forzano a morire ridendo, ed altri a piangere con desiderio de’ suoi, così
dicendo: Terra Serpentia quaedam lethifera progignit, item Scorpios, et Araneas; Aranearum quedam cogunt ridendo mori,
quaedam flendo desiderio suorum.
Eliano nel Libro XVII dell’Istoria degli Animali scrive i Falangi esser pessimi a Zacinto, così dicendo: Dicono i dotti che a
Zacinto ai percossi dal morso de’ falangi non solamente avvengono quegli accidenti che sogliono avvenire ai trafitti altrove,
ma i medesimi ancora farsi tutti più acerbi; imperocché essendo qualcuno morsicato, prima incomincia a stupefategli tutto il
corpo, e debilitarsegli, e dopo assalirgli tremore freddissimo, ed appresso vomito, convulsione, che certamente induce terrore
a chi li sente, ed a chi li vede muove meraviglia.
Qui
nel sud del sud del Salento
fa ancora caldo
quand’ormai si è fatto pure tardi.
Occorre ritornare al campo
riprendere la strada dell'ardore
che per Maria
e per tutte l’altre Marie
significa solo amore.
Tarantula tarantula
tarantula salentina
porti il tormento
e l’oistros di un ragno di un dio pagano
e colori in una mano
e tele dipinte nell’altra
e terra hidruntina
rossa e cretosa
come le mani
di quella donna perdutasi nella forra,
là dove
una foglia d’ulivo
di rugiada risultò baciata.
Ci sono tarantule a forma di uva nera
e altre che somigliano al frutto del mirto,
di una si dice che non ha collo
e che morde duro,
di un'altra si sa che fa le capriole.
È buffo che si dica che ci sia
una tarantula salentina di nome Caterina
e un’altra che s’appella Cristina,
di altre
poi
si sa che hanno il corpo a stella,
e altre ancora che sputano veleno da tre bocche,
di un’altra
ancora
gli antichi dicono
che striscia sulle gambe della donna
come seme di oleandro profumato,
e di quell’altra che luccica come una lanterna
trascinandosi un codazzo da cometa astuta.
Di notte
comunque
le donne dicono di vederle da ogni parte,
Maurizio Nocera
Infine
ora
la Morte è divenuta
predatrice dello spirito dell’ieratico ballerino
come dell’anima scanzonata del tamburellista
che
in solitudine
danzavano e suonavano
sulla riva di un mare
rombante sulla terra di mezzo.
Non è vero che li hanno visti entrare tra i flutti
e non è vera la loro morte
piuttosto sono saliti sul ventre di nostra Magna Mater
e lì si sono nascosti tra cespugli di vento
che
nella notte
sibilano alla luna.
Dicono di aver visto pure una croce
e un fiore rosso di papavero.
Non è vero anche questo.
Quei segnali e quei profumi
erano lì da millenni.
Noi li abbiamo solo dissotterrati.
di
Federico Capone (il tarantismo nel tempo)
Noi non solamente abbiamo osservato tutti questi accidenti essere verissimi, ma molti altri ancora. Perciocché subito che
questi animali mordono qualche membro del corpo, si sente da quella parte ascendere e trascorrere il veleno, come un’aura
freddissima, simile a quella che Galeno dice ascendere per consenso agli epilettici, dilatandosi ed occupando tutto il corpo,
sovvertendo gli umori, consumando gli spiriti vitali, dissolvendo il calor naturale, e facendo finalmente tutto il corpo
languido, freddissimo ed assiderato, e con dolore ed ansietà grandissima, che se tosto il languente non si soccorre colla
musica, cambia in brevissimo tempo la vita colla morte. Si son veduti parimenti, e si vedono spesso, alcune donne ed uomini,
vecchi e decrepiti, che non hanno forza alcuna, né color naturale, trafitti dalle tarantole, subito che sentono la musica, e
particolarmente il suono che più loro aggrada, sollevarsi al ballo, e saltare come se fossero gagliardissimi giovani per lo
spazio di tre, o di quattr’ ore continue senza mal stancarsi e, fermata la musica, divenir languidi, freddissimi, ed assiderati,
come se fossero morti. Ma toccata di nuovo la musica, si eccitano il calor naturale e gli spiriti vitali, si rinforza il languente, e
salta più velocemente che prima, così perseverando mentre col sudore che fa saltando si estragga e consumi totalmente il
veleno, benché in alcuni rimanga il fomite3, di modo tale che dopo l’anno seguente, nel medesimo tempo in cui furono
trafitti, si muovono, o rinnovano i medesimi accidenti e sintomi ch’ebbero nel principio della morsicatura, onde sono
costretti di nuovo a ballare; e così perseverano tal volta per dicci, o quindici, e venti anni nel ballo, e molti per tutto il tempo
della lor vita, ballando ogni anno per otto, o dieci giorni continui in quel medesimo tempo che furono trafitti, insino a che si
debiliti quel fomite col sudore, e si mitighino gli accidenti che li sogliono assalire, e se ciò non fanno, si ammalano, e
pericolano della vita. Questo maledetto fomite è simile a quello che scrivono i medici del cane rabbioso, e del mal francese, i
cui effetti se ne stanno occulti talvolta per lungo tempo nel corpo, senza mostrare alcun segno che vi siano, e dopo lungo
tempo si discoprono e manifestano con gravi ed insopportabili accidenti. Così parimente avviene al fomite del veleno di
alcune specie di tarantole, che rimanendo dopo esser guarito la prima volta l’infermo, se ne sta occulto e latente per un anno
intero, e dopo si manifesta con gravi ed insopportabili accidenti in quel medesimo tempo ch’ ebbe il principio, e così
persevera talvolta col suo periodo per molti e molti anni, come si è detto. Per render di ciò la ragione è cosa veramente
difficile, perciocché delle cose occulte della natura con grandissima difficoltà si può avere alcuna probabile opinione, non che
vera certezza. Si potrebbe non di meno dire, che ciò nasca dalla natura e specie del veleno, perciocché essendo il veleno delle
tarantole, come si è detto, di natura freddissima, il fomite, rimasto, secondo l’essenza e qualità della sua velenosa sostanza,
ripiglia di nuovo vigore nella sta gione e nel tempo a se determinato, e fa i medesimi effetti che fece prima l’essenza e
sostanza velenosa, dalla quale dipende il fomite, come talora si vede nell’estinta favilla, che se di nuovo il fomite si accende,
dimostra la primiera fiamma. Questo fomite per qualità sua propria non si sente nell’inverno, né nella primavera, come
manco il suo veleno ha forza alcuna in questi tempi; ma solamente l‘estate e l’autunno, quando l’aere è più caldo, e questi
animali naturalmente si muovono con maggior velocità, ed i loro morsi più offendono. Ma dirà forse taluno curioso in qual
parte del corpo si contenga, e conservi così occultamente questo fomite per quel tempo, che non si muove? Io non voglio
questo determinatamente asserire; ma per dichiararne la mia opinione, dico, ch’è ragionevol cosa, che si contenga in tutta la
massa del sangue, o nella congerie degli umori, che come dicono i medici hanno la loro origine dal fegato una cogli spiriti
naturali, che non poco aiutano alla dilatazione del detto fomite per tutto il corpo e pe’ membri principali, in quel tempo che
avrà preso il vigore e la potenza propinqua al moto, che sarà l‘estate o l’autunno, quando più si scalda ed assottiglia la massa
de’ detti umori. E per il contrario nell’inverno e nella primavera per la natura del tempo, la qualità freddissima del fomite e la
grassezza del sangue non è atto al moto, se prima da alcuna causa esterna non viene ad essere agitato e mosso. Alcuni si
compiacciono ballare con una o due spade nelle mani, altri con pugnali, ed altri con spada e rotella tirando stoccate,
imbroccate, punte, riversi, man dritte, e simili, come se fossero espertissimi maestri di scherma. Altri si compiacciono ballare
col capo in giù, e i piedi in sù; altri godono tuffarsi nell’acqua; ad alcuni offende il guardar drappi di color rosso, ad altri il
turchino, il giallo, il verde, il nero, o bigio secondo l’umore che li assale. Ad altri poi piace mirare i medesimi colori, e saltare
con quelli. Del modo in cui si guariscono i morsicati dalle tarantole colla musica ed altri rimedi Il principal rimedio in questo
paese per guarire i tarantati è la musica di qualsivoglia istrumento, ma principalmente quello della cornamusa, de’ piffari, e de’
tamburrelli, che sono molti appropriati per questo effetto; questo non si crederebbe se non fosse per lunga esperienza
osservata. Si legge presso Aulo Gellio nel IV, 13, delle Notti attiche d’autorità di Teofrasto e di Democrito, che il veleno delle
vipere, ed alcuni morsi si sanano col canto e la musica, così dicendo: Creditum hoc a plerisque est, et memoriae mandatum
ischiaci cum maxime doleant, tum, si modulis lenibus tibicen incinat, minui dolores. Ego nuperrime in libro Theophrasti
scriptum inveni, viperarum morsibus tibicinium, scite modulateque adhibitum, mederi. Refert et Democriti liber qui
inscribitur «-illegibile-», in quo docet plurimis hominum morbis medicinam fuisse incentiones tibiarum.
di
Federico Capone (il tarantismo nel tempo)
Tanta prorsus affinitas est corporibus hominum, mentibusque, et propterea vitiis quoque, aut medelis animorum, et
corporum. Alessandro di Alessandro nel II libro de’ suoi Geniali conferma quel che dice Teofrasto con l’autorità di
Asclepiade medico, e di lsmenia Tebano, così dicendo: Teofrasto filosofo uomo di eccellente dottrina, successore all’
Accademia dopo Aristotele, che fu di gran scienza e stima nelle cose filosofiche e matematiche, troviamo aver prescritto ad
alcuni morsicati dalle vipere il suono di piffari, della lira, ed altri strumenti musicali applicato con misura, medicare
attissimamente, questo lasciò scritto Asclepiade medico, il quale i frenetici, i forsennati, ed affetti nelle passioni dell’ animo
con niuna cosa più che colla musica, e col concerto di voci giudicò sollevare e restituire alla sanità. Si dice ancora Ismenia
Tebano aver col suono del piffaro restituiti a buona sanità molti ischiatici di Boezia, e travagliati dal dolor coxendico. Tanto è
il consenso della natura dell’uomo coll’armonia, che non si può credere!
Il che essendo poco fa casualmente a noi succeduto, fu ritrovato per cosa vera e non dubbia. Imperocché i percossi dalla
tarantola, o dal falangio, che il volgo chiama tarantati, non si sono visti altrimenti che di questo modo sollevati dal dubbioso
morbo. Che se il sonator di cornamusa, o vero di cetra, fa appresso loro diverse modulazioni per la diversità del veleno,
essendo essi presi dall’armonia, ed allettamento nell’intendere, quel veleno rilasciatosi dall’interno del corpo si disperde,
ovvero risuda diffuso a poco a poco per le vene. Perciocché la tarantola è una specie dell’aragno, animal velenoso in tutto
pestilente; onde se casualmente la vedi, la giudicherai innocua e senza offensione, e nel restante tempo dell’anno non è
pericolosa, o mortale, ma nell’ardentissima canicola, la quale nella Puglia, dove particolarmente è questo male, arde e
distrugge i campi, allora grandemente col velenoso morso, o che sia pel nocivo alito, o per l’estivo incendio, apporta pestifera
rovina. Il qual male è di tanta forza, che a qualsivoglia che sarà percosso dal morso, se non vien soccorso con veloce rimedio,
gli avviene prima mortifero stupore, e dopo indubitata morto; ovvero se alcuni scamperanno il pericolo della vita, infetti,
come di mente alienati, mezzi vivi con stupore continuo, ed ottuso senso degli occhi e delle orecchie, è necessario che
menino vita miserabile ed inferma. A questa peste, ed a così potente male una sola cosa si è ritrovata che apporta salutifero
rimedio, per quanto si è potuto coll’umana diligenza provvedere; questo è il suono di cornamusa, o di cetra con varii modi
musicali; perciocché allora il percosso da simil morbo, che se ne stava per morire, ed aveva perduti i sensi della loquela e degli
occhi, e non poteva camminare, né prevalersi di alcun senso, subito che si approssima la cornamusa, o la cetra, e l’intende da
vicino, preso ed allettato da quel soave suono e concerto, svegliatosi come da un grave sonno, apre alquanto gli occhi, e
subito si leva in piedi, e ritornando a poco a poco in se stesso, incomincia a camminare, secondo la legge del suono; e quello
aumentandosi, ed essendone gli spiriti quasi allettati e confermati, con gran forza ed impeto prorompe in salti e gesti
conformi al modo del suono della cetra, cosicché anco i rozzi e vili si vedono aver arte nel saltare, ed esser periti nel ballo .
E ben mi sovviene, che mentre con alcuni compagni io camminava per quei luoghi della Puglia squallidi per l’arsura ed il
continuo calore del Sole in ogni parte di quelle Terre e Casati, molti andavano circumsuonando, altri con tamburi, ed altri
con sampogne, ed altri con piffari. Di ciò volendo noi saper la cagione, ci fu detto, così curarsi in queste terre i morsicati
dalla Tarantola. Ed essendo noi, per curiosità della cosa, arrivati in una villa, trovammo un giovinetto infetto di questo male,
il quale percosso come, da un repentino furore, ed alienato di mente col moto del corpo non difforme, e con gesti di mano, e
di piedi saltava ordinatamente al suono del tamburo, e quando più forte udiva i suoni, si vedeva quasi da quel toccamento
alleviar l’animo, ed a poco a poco mitigar il dolore, ed accostarsi quietamente al tamburro, e dopo commoversi il capo, i
piedi, le mani con continuo moto, e finalmente lo vedevamo sollevare in salti; la qual cosa pareva veramente esser degna di
riso e di giuoco. Fra questo tempo quello che batteva il tamburro fa’ posa, fermando il suono a poco a poco, e quello infetto
dal male, come attonito, simile a stupefatto lo vedemmo repentinamente mancar di animo, e d’ogni senso. Ripigliato di
nuovo il suono del tamburro, non sì tosto quello l’udiva, che vedevasi ripigliate le prime forze, sollevarsi più veloce alla
danza. Si credè (il che non è fuor di ragione) quella potenza del veleno contratta dal morso virulento, e dalla corruzione, col
concento e l’armonia delle voci diffondersi per tutto il corpo, ed indi, non si sa per qual cagione, partirsi occultamente ed
evacuarsi. Però se a quelli che han patito di questo male sarà rimasto alcun residuo di quel veleno, che non si fosse
totalmente consumato, se alcuna volta accade udir qualche suono, o concento musicale, si son visti commovere come
sbigottiti di mente, con tutto il corpo ed animo gesticolare con mani e piedi, insino a che, quella potenza si fosse totalmente
estinta. Noi anco leggiamo nelle memorie scritte generarsi alcune specie di Aragni, e di Scorpioni, e particolarmente presso
gli Albani, di mortifero morso, dai quali offesi gli uomini, di tal crudele peste sono infestati, che alcuni ridendo, altri
piangendo, ed altri con diverso affetto d’animo sono sospinti alla morte.
Maurizio Nocera
L’ombra della Taruntula s’allunga
tra le rocce di Torre Sant’Emiliano
là
dove sfiata aliti di mentastra ingannatrice.
Maria
e tutte l’altre Marie del Salento
non hanno più scampo
non hanno più orizzonti
prigioniere come sono
nella lingua tra i due mari.
Sorridono alle carezze di mani callose
intanto che gli occhi sprofondano
nell'incanto di tenerezze di muschio.
Aracne divora il tempo
all'angolo sinistro di Cerfignano
là
dove il danzatore di Lecce
e il tamburellista di Cutrofiano
impazzano sui ritmi della transe
su una tela di mussola intrigata
da un’alba hidruntina baciata.
Le tarantate non hanno più memoria di tante storie
ricordano solo il volto di un sole illuminato
e
una trappola infernale
il morso sincopato
e Aracne che se la ride.
È da quel tempo antico
che
danzatore e musico
ballano cantano amano
intanto che gira loro intorno
a cerchio chiuso
la ruota della vita
un po’ per non soffrire
e un po’
anche
per non morire.
Una volta ci fu una delle tante Marie
che di Sparta si sentì essere figlia
con ciò si mise a danzare
e danzò così tanto che
sul selciato di san Paolo di Galatina
la sentirono chiamare sorella la Tarantula
e Madonna di Galatina
l’Aracne anatolica.
Sul selciato della chiesa sconsacrata
la pizzicata sventagliò le bianche sottane
col suo sposo in lacrime
e le figlie intente
a filare aliti di mirto.
Fu così che
allora
le spade scintillarono nell'aria.
Nel Salento
la terra è sempre arsa
e gli uomini di malaffare
non hanno ancora deposto i coltelli
aspettano che una civetta
vecchia stupida cornuta e malridotta
dia loro il segnale
per uscire nella notte
e colpire ancora
colpire chi ama.
Qui
la disperazione non passa mai
e la Morte
Signora di nero indaco
è sempre più vogliosa di anime
soprattutto
dalle parti di Badisco
dove
si dice
si siano perse le tracce
dell'uomo dalla pancia straripante
e pure quell’altre
dell’anima dell’uomo dall’occhio sbilenco
che da tutti si fece indicare come uomo dei curli.
Maurizio Nocera
di
Federico Capone (il tarantismo nel tempo)
TARANTULA SALENTO
[In forma di canto per Giorgio Di Lecce (danzatore) e Uccio Aloisi (tamburellista)]
«Appena si avvicina l'estate le ragazze si avvicinano al mare, uomini e bambini entrano nelle onde con
precauzione ed escono saltando dal pericolo. Così consumano la danza millenaria dell'uomo di fronte al
mare, forse il primo ballo degli esseri umani»
Pablo Neruda, in Confesso che ho vissuto
«Sia benedettu ci fice lu mundu/ comu lu sippe bellu a situare/ fice la notte poi fice lu giurnu/ e poi l'ha fattu crìscere e
mancare./ Fice lu mare tantu cupu e fundu/ ogni vascello cu 'ppozza navigare./ Fice lu sole e poi fice la stella/ e poi fice
l'occhi toi, cara mia bella./ Fice lu sole e poi fice la luna/ poi fice l'occhi de la mia patruna».
Anonimo Salentino, da Canti di pianto e d'amore dell'antico Salento
Fila Maria fili d’Oriente
e filano pure
tutte l’altre Marie del Salento
nell’intreccio marino
di aquiloni bambini
di carta velina rossi al vento
tra nuvole cullanti
col blu che dipinge la vita.
Qui
il sole a giugno
spreme sangue
a nostra Magna Mater messapa
morsa e ri-morsa
dalla tessitrice implacabile
escavatrice inesorabile
nell’incavo delle cosce
bianco di calce
delle donne tabaccare
che di Xanti Yaca profumano.
Arde di furore
morde di ferocia
la Tarantula salentina
Aracne Messapica filatrice espertissima
che di Maria
e di tutte l’altre Marie del Salento
è mondo magico fatato
immane incendio d’estate
tra le assolate terre non più arate
dai tamburellisti.
Non c'è più rimedio
allo sgomento
al fremito
alla trappola degli inganni
per l’Aracne salentina
agguattata negli anfratti
con l'anima indrogata
e la mente che affumola.
Sono ormai spenti tutti i colori del cielo
e la carne
lì
nell’incavo di piume
non sente più calore.
La gente del vicinato
setaccia il cuore di Maria
e pure quello delle tant’altre Marie
cuore passato e trapassato
sull'aia di Giurdignano
là dove san Paolo dei serpenti
infilsa il suo spadone
nel ventre molle di nostra Magna Mater.
La Tarantula salentina non trova
più la corona della testa
e il petto peloso le è caduto a precipizio
la zampa smarrendo nella tana.
Il morso e il ri-morso portano tormento
sempre
alla donna velata di nero che
furiosa
corre sugli spalti marini di Badisco
per confondersi tra le pieghe di un’onda disperata
di sangue salato spruzzata.
Tutto questo scrisse dottissimamente Alessandro di
Alessandro della cura musicale fatta al morso delle
Tarantole, che il tutto è verissimo; questo noi
veggiamo ogni anno, ed osserviamo in questo Paese
nei tempi estivi ed autunnali; il medesimo dicono
Pietro Gellio, e Pietro Messia, trascrivendo dal
medesimo Alessandro. E nella Sacra Scrittura al
primo Libro de’ Re, capi 16 e 17, si legge che David
col suono della ceti a alleviava le passioni al Re Saul
del malo spirito che l‘affliggeva. Tanta è la simpatia
che ha l’umana natura colla musica! Onde il savio
Pitagora assimilò l’anima umana ad un’armonia
composta di numeri musicali, come nel Timeo
riferisce Platone, e Dioscoride nel I Libro,
maravigliandosi molto che questo morbo si sani con
la musica. Ma è gran cosa, egli dice, che il veleno di
questi animali si vinca universalmente, e mitighi con
la musica de’ suoni; perciocché ho io veduto tre, o
quattro di costoro assaliti da questi accidenti esser
menati dove si suona alcun istrumento, e subito
scemar loro l‘afflizione, e ballare ancor essi
gagliardamente, di modo che alcuno non avrebbe
pensato che fossero stati quelli, che erano stati
morsi dalle tarantole. Ma cessando il suono, ritornano ne’ loro primi moti, e rientrano pian piano ne’ medesimi accidenti. E
però si costuma di far sempre suonare dì e notte finché sanano, poiché il lungo suono, ed il lungo ballare provocando il
sudore, gagliardamente vincono alla fine la malattia del veleno di questi animali, come che in quel mezzo che si suona si dà
loro della teriaca, del mitridato, e delle altre cose, che universalmente valgono contro il morso de’ serpi e degli aspidi. Tutto
questo disse Dioscoride.
Si sogliono anco curare i tarantati, come dice il Mattioli, con dar loro a bere la teriaca/il mitridato, ed altri diversi antidoti
contro il veleno, e con fregar sopra la morsura l’aglio scarnificarla e suggerla, fomentandola prima col vino tepido, o caldo,
ove sieno decotti prima la mia, l’origano, il dittamo, il puleggio, il serpillo, e simili. Sogliono alcuni sommergere il languente
nel bagno di acqua tepida, e dargli altri rimedii che si leggono in Oieandro nelle sue Teriache, e in Dioscoride, in Galeno, in
Paolo Egineta, in Aezio, in Attuario, in Rasi, in Avicenna, in Serapione, in Cornelio Celso, in Arduino de venenis, in Niccolò
Fiorentino, ed in altri antichi e moderni scrittori di medicina. Alcuni malamente cercano curare e sanare la morsicatura delle
Tarantole con gl’incantesimi e i carmi, come quelle dello scorpione, delle vipere, degli aspidi, e di altri serpenti. Galeno di ciò
si rise in diversi luoghi delle sue opere, quantunque Alessandro Tralliano nel IX Libro dica avere a ciò dato credito in
quell’opera ch’egli scrisse de Medicina Homeri per averne viste alcune chiare esperienze. Le parole di Galeno appresso
Alessandro Tralliano sono queste: Nonnulti igitur putant incantationes anicularum fabulis esse persimiles quemadmodum
ego quoque diu existimavi, temporis autem processu ab his quae evidenter apparent persuasus sum vim in ipsis esse. Nam in
percussis a Scorpio adjumentum sum expertus, nihil autem minus etiam in ossibus gutturi infixis, quae incantationis vi statim
expuebantur, ac multa plaeclara singulae habent incantationes, cum institutum consequuntur. Fanno questo anche oggidì
alcune donnicciuole e circumforanei, i quali mentiscono dicendo essere della casa di S. Paolo. Vi furono alcuni popoli, che
per natura avevano una certa proprietà di guarire col solo tatto e la scialiva le morsicature degli animali velenosi, come si
legge in Plinio, Eliano, Lucano ed altri degli Psilli d’Africa, degli Otiogeni dell’Ellesponto, e de’ Marsi d’Italia. Si potrebbero
dire infiniti altri rimedii contro il veleno delle tarantole descritti dai medici; ma per non esser in questo luogo a proposito,
basta averne accennati gli autori. Chi più desia vederne, legga de’ moderni Epifanio Ferdinando nelle sue istorie mediche, ist.
81, il quale scrisse dopo noi, e mandò prima in luce la sua opera.
di
Federico Capone (il tarantismo nel viaggio)
Carlo Stasi
George Berkeley
La tarantola di Puglia
Barletta, 20 maggio
[...] N.B. Il padre Vicario ci parla della tarantola. Aveva guarito diverse persone con la lingua di un serpente impietrito trovato
a Malta1; si beve il vino, in cui è stata bagnata la lingua, dopo il nono ballo, cioè l’ultimo, dal momento che si fanno tre balli
al giorno per tre giorni. La malattia cessa solo con la morte della tarantola. Il male si contrae mangiando frutta morsa dalla
tarantola2. Il padre non crede che sia una finzione; ha guarito fra gli altri un cappuccino ed è inconcepibile che questi abbia
finto solo per il piacere di ballare. Ogni paziente ha delle preferenze per il colore degli addobbi. Tutto questo riferito dal
Padre Vicario.
N.B. Il contadino a Canosa ci ha spiegato il suo modo di catturare la tarantola: bagna di saliva la punta di un fuscello di paglia
e lo infila nel buco dove è rintanata la tarantola, così riesce ad estrarla. Un altro contadino aveva para dell’insetto; il
compagno rideva e ci diceva che aveva preso la tarantola in mano senza che gli fosse accaduto nulla.
Bari, 22 maggio
[…] Oggi, in serata, abbiamo fatto una passeggiata fuori città in cerca di tarantole. Ci sono stati indicati come tarantole dei
ragni rossi o rossastri. I dintorni della città sono deliziosi.
N.B. Abbiamo incaricato dei contadini a Canosa di trovarci le tarantole, ma invano, perché non era ancora cominciata la
stagione più calda. Al ritorno abbiamo incontrato un ufficiale francese che ci ha invitato a pranzo e che ha trascorso con noi
tutto il giorno successivo. Ci ha parlato a lungo della danza dei tarantati.
Molfetta, 23 maggio
L’ufficiale francese, l’abate Fanelli e un altro abate sono decisamente d’accordo sulla credenza della tarantola. Le donne
vengono colpite, sia che appartengano alla nobiltà che al popolo: una cugina dell’abate Fanelli e la moglie del Ricevitore di
Malta, per fare degli esempi. I tarantati non ricevono sussidi, la musica ognuno se la paga da sé3. I giorni della danza non
sono limitati a tre. La scelta degli strumenti musicali dipende dai pazienti. Muovono i loro corpi lasciandosi orientare dai
movimenti della tarantola che vedono riflessi nello specchio. L’ufficiale francese aveva visto una trentina di tarantati, a
Foggia, danzare tutt’insieme. Si diceva che la tarantola si trova anche nella campagna di Roma4. Don Alessio Dolone mi
raccontava che i tarantati preferiscono i colori della tarantola e che conosceva una vecchia sessantenne, addetta ai lavori in un
convento di monache, che ballava la tarantola, ecc. All’inizio non ci credeva, poi aveva finito per convincersi. Quanto al
giorno stabilito per cominciare la danza, era d’accordo, insieme a un tale che era con lui, che non sempre coincideva con
l’anniversario del morso dell’insetto; poteva cadere qualche giorno prima o qualche giorno dopo. Nessuna puntura si poteva
vedere sul corpo del paziente.
N.B. “ Mi darò fuoco come l’inglese”proverbio in uso, secondo Don Alessio Dolone.
Abbiamo assistito alla danza di un tarantato. Danzava in cerchio nella stanza e fissando ogni tanto lo specchio vi si dirigeva
dritto e poi tornava indietro.
Talvolta sguainava la spada e continuando a danzare faceva il giro puntandola sugli spettatori; mi si è fatto vicino più di una
volta (ero seduto accanto allo specchio). Altre volte si piantava la punta contro il fianco, senza farsi male. Poi si fermava a
danzare davanti agli accompagnatori musicali e faceva con la spada strani volteggi. Il tutto ci sembrava eseguito con troppa
abilità e regolarità per essere i gesti di un matto. Le guance scavate, gli occhi dilatati, con l’aria di chi fosse in preda a un
accesso di febbre. Si accorse che eravamo stranieri. La sala era addobbata di drappi di seta rossa e azzurra, in fondo lo
specchio su un tavolo e accanto la spada sguainata (che si deponeva regolarmente dopo l’uso). Piante nei vasi adorni di nastri
di diverso colore. Abbiamo assistito per mezz’ora alla danza, che durava da quattro ore e sarebbe continuata a intervalli fino
alla notte. C’era una folla di spettatori. Molti di loro partecipavano alla danza e probabilmente pagavano anche la musica. Noi
stessi abbiamo contribuito. L’inchino del tarantato, davanti a noi, non appena è entrato. Sembrava poco interessato ai colori
degli addobbi. Il pericolo della spada.
Abbiamo anche assistito alla danza di una tarantata, che era figlia di un ricco notabile della città. La sala era a addobbata
come l’altra, ma non aveva lo specchio e la spada. La ragazza danzava segnando il passo secondo la linea del cerchio. Un
uomo portava un ramo fiorito tutto ornato di nastri variopinti, ma sembrava che lei non si accorgesse affatto del ramo, dei
colori e degli astanti. Aveva l’aria assente e uno sguardo immobile e malinconico. Parenti e amici erano seduti tutt’intorno
alla sala. Era la sola a danzare. Suo padre era perfettamente convinto che avesse contratto la malattia della tarantola. Diceva
che era stata ammalata per quattro anni ed era rimasta a lungo a consumarsi senza che alcun medicinale potesse giovarle,
quando una notte, sentendo suonare per strada il ritmo della tarantola, era saltata dal letto e aveva cominciato a danzare.
Il passaggio nella trinciatrice fu terribile. Urla, lamenti, un dolore atroce. Ne uscii ridotta quasi in
polvere, non riuscivo più a sentire le altre parti del mio corpo un tempo virente e sano. Mi veniva da
piangere ma non avevo più neppure una goccia di liquido in corpo tanto ero secca e triturata. Mi
sentivo ridotta al lumicino, e con la mia flebile voce tentavo di resistere alla morte.
Fui messa in delle buste colorate insieme ad una miriade di altri pezzi di tabacco, e chiusa. Al buio
chiesi aiuto. Ebbi fortuna: mi rispose una voce che riconobbi subito:
- N...i...c...o !- balbettai con la poca gioia che si può avere in un momento di dolore.
Passò del tempo prima che i frammenti dei nostri corpi ormai secchi, vizzi come corpi di vecchi, si
mescolassero e potessero entrare in contatto all'interno di una specie di buco scavato nella radica di
un'erica arborea. E quando questo accadde, entrambi sentimmo un calore sempre più violento che ci
infiammava. Pensammo con gioia che fosse la passione che ci univa a farci sentire quell'immenso
calore.
- Nico !- lo chiamai prima di morire carbonizzata.
- Tina ! - mi chiamò lui col corpo incendiato.
E fu così che Nico ed io divenimmo un corpo ed un'anima sola, convinti che la nostra passione fosse
stata così potente da mandarci in fumo.
Ma cosa avremmo dovuto pensare quando, mentre le nostre anime fumose salivano al cielo quasi
danzando in giravolte di fumo, ci accorgemmo che non era stato il nostro amore ad incendiarci, ma un
cerino acceso dal proprietario della pipa... e fu così che il nostro amore andò in fumo.
Per nostra fortuna alcune volute di fumo contenenti particelle del nostro corpo, invece di disperdersi
nel cielo, entrarono nella bocca e nel naso del fumatore della pipa, si infilarono nei suoi polmoni dove
ci unimmo ai tanti residui di altre foglie di tabacco, e tutti insieme riuscimmo a provocare una serie di
forti colpi di tosse. Nei suoi polmoni Nico ed io riuscimmo finalmente a stare insieme in santa pace.
Insomma, era una pace interrotta sempre più frequentemente dalle violente scosse provocate dai suoi
colpi di tosse, quei terremoti, quegli sciami sismici non facevano che rafforzare la nostra unione e
proliferare. Il nostro amore, che credevamo andato in fumo, ora ardeva più forte che mai, e col passar
del tempo la famiglia che io ed il mio Nico avevamo creato aumentò, avevamo una moltitudine di
figli, nipoti e pronipoti sparsi dappertutto nei meandri dei polmoni. Ed ogni giorno nuovi simili
entravano nei polmoni a farci compagnia, e più particelle di tabacco venivano ad aumentare la
popolazione della nostra metropoli tentacolare, più la tosse del fumatore che ci aveva imprigionato
aumentava. Finchè un giorno, quelle scosse, quei terremoti esplosero in un tremendo cataclisma, e
quell'uomo morì. E tutti noi fummo travolti e distrutti con lui, definitivamente.
Fu questa la nostra vendetta, la vendetta di Nico e Tina..
Federico Capone (il tarantismo nel viaggio)
Carlo Stasi
di
Era il foglione galante, ed anche lui era stato raccolto. Mi sentii mancare la linfa nelle venature, e la
clorofilla, che mi dava quel sano aspetto virente, sbiancò di paura. Capii che non avrei mai più rivisto
quel foglione di cui ignoravo perfino il nome.
Da allora il padre si era accorto di quale male soffrisse. Ci assicurava che fino a quel momento la ragazza non aveva mangiato
niente per tre mesi, tranne qualche boccone che quasi sempre rimetteva. Ora, in base a quella esperienza, aspettava di vederla
mangiare e digerire il giorno dopo, per la danza, credeva, eseguita in quel periodo dell’anno. Non più tardi di questa mattina,
la ragazza era pallida come la morte. Tracce del morso dell’insetto non ce ne sono da nessuna parte, né si sa quando e come
sia stata morsicata. Aveva quindici o sedici anni ed era tutta rossa in viso mentre eravamo li a vederla danzare.
Era ormai piena estate ed era il tempo della raccolta. Fui accatastata in una cesta e schiacciata tra mille
altre foglie.
Scaricata senza complimenti in un sacco, passai al buio vario tempo, ero in agonia, la clorofilla e la
linfa rimasta nelle mie venature si andava via via esaurendo, ero seccata da quella situazione che mi
aveva rinsecchita terribilmente e, al solo pensiero di essere diventata brutta e vizza, mi sentivo morire.
Fui presa di nuovo ed infilzata da un ago che mi fece un buco per far passare una corda. Così, trafitta,
fui lasciata per giorni ad essiccare al sole ed al vento appesa ad un telaio insieme a tante altre infelici
foglie di tabacco.
- Ti...na... Tii...naa...- sentii come un lamento lontano, sembrava la voce del foglione, ma ormai ero
così denutrita che credevo di avere le traveggole.
- Chi sei ? - chiesi con quel filo di voce che mi rimaneva.
- Sono Nico...Nico...- rispose la voce.
- Nico chi ? - Quello dei fiori...Sentii come una scossa traversarmi tutta la nervatura, come se la linfa e la clorofilla fossero
improvvisamente tornare a circolare.
Ma anche questa gioia fu breve, anzi, accelerò la fine. Infatti quelle ultime gocce di linfa e di clorofilla
si consumarono subito e divenni completamente secca e senza vita.
Non passarono molti giorni che anche le altre foglie crocifisse come me si seccarono completamente
ed io fui finalmente staccata da quella incomoda posizione. Accatastata di nuovo in delle grandi casse
di legno con tutte le altre foglie, fui trasportata in un grande opificio. Ad ogni sobbalzo del camion mi
sentivo frantumare, ma il peggio non era ancora arrivato.
Mani abili e veloci sfilarono le corde cui noi foglie eravamo appese, ci separarono in base alla nostra
qualità e ci gettarono su un rullo che ci trasportò nella trinciatrice.
Casal nuovo (Manduria), 28 maggio alle 7e50
Convento francescano. Siamo ospitati qui. A mezzanotte un frate che bussa cantando alla porta. Tommaso e Scoto (si tratta
dei due filosofi Tommaso D’Aquino e Duns Scoto, il famoso doctor subtilis). I francescani, tranne i Cappuccini, non
vengono colpiti dalla tarantola e non la temono, perché l’insetto ha avuto la maledizione di San Francesco. L’abito
francescano indossato per ventiquattro ore, guarisce il tarantato.
29 maggio
In mattinata abbiamo fatto una passeggiata. Incontriamo un medico che raccoglie erbe medicinali in un campo alla periferia
della città. Era convinto che i disagi del tarantato fossero spesso simulati a scopi lascivi, ecc. come negli spiritati […].
Taranto, 30 maggio
Il tarantato che abbiamo visto danzare qui a Taranto non usava né lo specchio né la spada; batteva i piedi, urlava; pareva che
ogni tanto ridesse; danzava in cerchio come gli altri. Il console e gli altri ci dicevano che tutti i ragni tranne quelli con le
zampe lunghe, quando mordono, provocano i normali sintomi, non tanto violenti quanto quelli dei grandi ragni di
campagna. Il console mi ha anche detto che la tarantola causava dolori e un grande livido tutt’intorno alla puntura per una
parte estesa. Non credo che ci sia simulazione; si tratta di una danza molto faticosa. Si diceva che i tarantati fossero in preda
a una demenza febbrile e che talvolta dopo la danza si lanciassero in mare5. Annegherebbero se non venissero soccorsi.
Quando la tarantola muore nell’atto di mordere, il paziente balla soltanto per un anno; diversamente fino alla morte
dell’insetto. Il console diceva che anche lo scorpione faceva ballare. Tutti i ragni, tranne quelli con le zampe lunghissime e
quelli bianchi e neri che si trovano nelle case. Tirar fuori dal buco la tarantola non è niente di straordinario, si riesce a farlo
con un fuscello di paglia senza fischiare o sputare.
Faggiano, 31 maggio
[…] Il prete ci ha detto che se un braccio, ad esempio, è morso dalla tarantola, si gonfia. Ci ha inoltre confermato la credenza
che si guarisce solo alla morte della tarantola.
Un prete a Spinazzola ci ha detto che in questa campagna si trovano tarantole; che le vere tarantole sono solo quei ragni dai
colori particolari, che non lasciano segni e quindi il paziente non si accorge subito di essere stato morso [...].
Johan Hermann von Riedesel
Il Phalangium apulum e il tarantolismo
Ho visto adoperare un metodo molto singolare per battere i piselli e le fave: una cornamusa suona, e venti o venticinque
persone, con zoccoli, si mettono a ballare, vigorosamente, sopra questi legumi, ed in questa maniera li pestano. Fa meraviglia
vedere, in un clima così caldo, la gente, che lavora ballando, e guarirsi dalla morsicatura della tarantola ballando, ed avere un
gusto così spiccato pel ballo, che si manifesta in tutte le occasioni. A proposito della tarantola eccovi, credo, il luogo, in cui vi
possa comunicare, quanto ho veduto e notato, intorno a questo animale, ed alla sua morsicatura.
Questo aracnide, che si mostra in tutti i gabinetti di storia naturale, è effettivamente molto comune nei dintorni di Taranto,
da cui piglia il nome, né lo è meno in tutta l’estensione della Puglia. Tutto quello che se ne racconta è vero, cioè che le
persone, che ne sono morsicate, guariscono, per mezzo della danza, e che questa danza deve farsi, al suono di un’aria speciale
chiamata tarantella. Ma non è meno molto verosimile, che questa morsicatura non sia tanto dannosa, e che non produca
proprio i sintomi, che osservano, nelle persone, che se ne credono morsicate; che il mezzo usato non sia solo atto a guarire,
da questo male, e che, infine, l’abitudine e l’immaginazione vi entrino un po’ più della realtà.
È così che la pensano i medici, i più dotati di buon senso, di Taranto e delle province, ricordate su. Vi sono, del resto, delle
prove, che depongono a favore, e contro questa opinione dominante. È nei mesi di luglio, agosto e settembre che questi
aracnidi compaiono, in gran numero nei campi e nei vigneti, ed è precisamente in questi mesi che, d’ordinario, s’incontrano
queste persone che cercano di guarire delle loro punture, per mezzo della danza. La musica, sulla quale si balla, è sempre
dell’istessa melodia; è il ballo ordinario del paese; come ogni contrada ne ha uno speciale, p. e. in Germania il ballo dello
svevo, in provenza il rigaudon, il frascone in Toscana, le contradanze in Inghilterra e le fandango in Ispagna.
di
Federico Capone (il tarantismo nel viaggio)
Carlo Stasi
(Henry Swinburne)
Ecco, d’altra parte, i dubbi, che si fanno contro questo bisogno, indispensabile di ballare; si dice che, ben di rado, si trovano
le tracce della morsicatura, in coloro che si credono morsicati; il caldo eccessivo, un’aria greve e l’acqua piovana, che si
guasta, nelle cattive cisterne, inaspriscono e corrompono gli umori (specie a Taranto dove l’umore salso domina, con tanta
violenza) abbattono gli spiriti e producono la malinconia e la perdita dello stomaco. Gli esercizii, il sudore, e la gaiezza, sono,
senza dubbio, i rimedi più efficaci contro simili mali, che sono più frequenti, come le pretese morsicature, presso le donne,
che non presso gli uomini. Ci sarà da maravigliarsi quando si saprà che le malattie isteriche sono più ordinarie e violente in
questo paese che altrove e, talvolta, vanno fino al furore.
I movimenti violenti, che produce la danza, perché talvolta accade che una donna balla fino a trentasei ore di seguito, senza,
né mangiare né bere, scuotono tutta la macchina, mettono gli umori addensati in azione, li dividono e, per conseguenza, il
male si addolcisce od anche si può guarire. Da tutto ciò deriva, anche che il popolo è nella persuasione che le persone
morsicate sono costrette a ballare tutti gli anni, in questa stagione, perché effettivamente il grande caldo riproduce, spesso, i
sintomi della malattia, che si crede essere la morsicatura della tarantola. Infine, si può alligare contro i pretesi effetti di questa
morsicatura, che tutti coloro, ai quali la loro povertà vieta di pagare dei musici, soffrono, durante una parte dell’estate, ma si
sentono molto sollevati, all’avvicinarsi dell’inverno; e che le donne sono più spesso morsicate, e raramente li uomini. E,
d’altra parte, non è una forza irresistibile, che spinge a ballare, ma si ricorre a questo rimedio spesso a malincuore, e come se
si prendesse una medicina. […]
Eccovi, amico mio, quanto mi si è raccontato, e che io vi trasmetto, così come mi è stato dato: in quanto a me, sospendo il
mio giudizio, sebbene sia convinto che tutto ciò debba mettersi, tra i pregiudizii, che il tempo ha radicati, ed il cui numero è
così grande, e che verosimilmente, domineranno, ancora per lunga pezza, nel nostro debole mondo. Vi aggiungerò soltanto,
ancora, quello che ho visto, con i miei proprii occhi, dopo di che noi lasceremo, una volta per sempre, la tarantola con i suoi
difensori.
Ho veduto, ad Otranto, una giovane, di ventidue anni, ballare, per guarirsi da questa sedicente morsicatura. Era molto ben
vestita, per la sua condizione; il luogo della scena era una camera, ornata di piccoli specchi, di fiori, di abiti di seta, di ogni
sorta di colori. Non ballava in modo frenetico, né come una persona, che si abbandona interamente a questo piacere, ma,
piuttosto, con una certa freddezza, abbassando gli occhi che di tanto in tanto sollevava per guardarsi in uno degli specchi, per
pigliare un atteggiamento decente, ovvero per aggiustare la pettinatura, senza, per tanto, smettere di ballare. La musica
consisteva in due violini, ed in un tamburello. La danzatrice si lavò varie volte il viso, ballando, e faceva attenzione a quanto
accedeva attorno a lei. Mi scappò a dire, scherzando, ma a voce abbastanza alta, perché l’avesse potuto ascoltare, che, per una
danzatrice, aveva le calze non bene tirate. Appena ebbi ciò detto, si mise ad aggiustarle; in quanto alle scarpe la superstizione
popolare ha deciso che, in isimili casi, non bisogna averne. Ebbi la disgrazia di dispiacerle, perché avevo il mio cappello in
testa, ed essa aveva una grande avversione pel nero. […]
A Bari, ho visto ballare un’altra che, del pari, si credeva morsicata dalla tarantola. Era nubile, e sembrava di quarant’anni. Mi
si disse che era il settimo anno che ballava, nell’istessa stagione. Non metteva nel ballo, né maggiore attività, né maggiore
passione della precedente. Vi scorsi l’istesso sangue freddo, e la vidi dare i suoi ordini ballando, sul modo come voleva che si
ornasse l’appartamento, o piuttosto la oscura misera stamberga, in cui si svolgeva la scena: indicò il posto, nel quale doveva
mettersi lo specchio, e quello, in cui dovevano piazzarsi gli abiti di seta.
Ballava, come l’altra, mirandosi nello specchio, sebbene fosse brutta come il peccato, e dopo aver ballato da sola, prese una
ragazza di sedici anni, che ballò un pezzo con lei, e poscia volle, a forza, farmi partecipare all’istesso onore. Non mi parve
del tutto verosimile, che questa disgraziata fosse stata morsicata: attribuii piuttosto la sua mania, ad uno squilibrio del suo
spirito, prodotto dalla disperazione di non trovare un amico, od un amante, alla sua età, e con aspetto così sgradevole.
Eccovi tutto quello, che ho potuto osservare io stesso, circa questo aracnide, e gli effetti della sua morsicatura. Converrete
con me, mio caro amico, che il pregiudizio, il costume e l’immaginazione hanno maggior parte della realtà, in questo
fenomeno. Notate che non avendo nessun autore antico parlato della tarantola, nemmeno Plinio, che riporta, con tanta cura
ed esattezza, tutto quello, che la natura offre di straordinario ai suoi tempi, è chiaro che gli antichi non la conoscevano.
E poiché questo grosso aracnide esiste, anche in Sicilia, e nella Spagna1; nelle province meridionali della (Spagna?) e della
Francia, senza che si parlasse di un simile metodo, per guarire dalle morsicature, e del quale non si parla, neppure in Calabria,
non si può guardare la cosa, se non sotto l’aspetto di un delirio dell’immaginazione, ed una specie di stravaganza. E così
ripiglio il racconto del mio viaggio verso Napoli.
AMORE IN FUMO
Ero una foglia di tabacco seminata a marzo e cresciuta libera e spensierata in un vasto campo di terra
rossa.
Stiracchiavo la mia nervatura esponendo il mio lembo come una vela, ed affidavo il mio verde corpo
alla danza del vento ed al sole dell'estate in arrivo.
Mi piaceva guardare la miriade di altre piante disseminate attorno a me e vederle crescere insieme a me
più o meno alla stessa velocità. Insieme a loro giocavo col vento, e la loro presenza non solo mi faceva
compagnia, ma mi dava anche quel senso di protezione, di sicurezza, di familiarità di cui non potevo
ormai fare più a meno. Perdevo ore a chiacchierare con le foglie vicine, sia con quelle più in alto di me
che con quelle più in basso. Eravamo circondate da altre piante di tabacco e, a sentire le foglie che
stavano in cima, sembrava che le piante fossero talmente tante da riempire la pianura e perdersi
all'orizzonte.
Se all'alba rinfrescavamo le nostre facce con le fresche gocce della rugiada, durante il giorno restavamo
a dondolarci al sole nel tentativo di abbronzarci. Purtroppo il nostro colore era d'un verde così intenso
che sembrava impossibile che potesse cambiare.
Un giorno, presa dall'ossessione della tintarella, mentre stavo stesa al sole mezzo insonnolita a
godermi quel calore, sentii un sibilo, come un soffio di vento che mi fece traballare tutta. Mi svegliai
dal torpore ma, appena quel fischio prolungato ed insistente smise, tornai alla mia siesta. Non feci in
tempo ad appisolarmi che quel sibilo si ripetè, più forte, più intenso, più lungo, più simile ad un
fischio che, di nuovo, mi fece tremare tutta. Mi voltai per vederne l'origine e vidi un grande foglione
che si era steso come un ponte dalla pianta vicina fin sopra di me. Quel foglione robusto come un
fusto mi disse:
- Ciao, bellezza, come ti chiami ? Non che abbia l'abitudine di dare confidenza agli estranei, ma presa un po' alla sprovvista:
- Tina! - risposi quasi senza rendermi conto di essere così arrendevole.
- Tina, che bel nome! - esclamò il foglione. Mi sentii osservata, ammirata, carezzata e coccolata. Ed
aggiunse - posso farti omaggio dei fiori che porto in cima alla mia pianta ? - e così dicendo si scostò
per far vedere i fiori bianchi che la mole del suo corpo fino a quel momento aveva coperto alla mia
vista.
- Che meraviglia! - esclamai lusingata da quell'interesse, e se non arrossii era solo perchè ero di un
colore verde così intenso. - Grazie ! - aggiunsi riconoscente e felice.
Ma non ebbi il tempo di assaporare fino in fondo quella gioia. Un essere immenso passò velocemente e
con un gesto veloce della mano strappò tutte le foglie dal mio stesso fusto, e dai fusti vicini. Feci appena in
tempo a gridare aiuto, ma il mio grido si confuse con quello delle altre foglie. Riuscii tuttavia ad udire un
altro grido che si distingueva dalle altre richieste di aiuto:
- Tinaaa....ah ! -
Francesco Pasca
Non sai dell’attribuzione che è a te data dalle caratteristiche comportamentali e "psicologiche" di un
incontro.
Non supponi che potrai essere tu a trovarti ad interpretare il tuo stato con una danza, a dissotterrare
la tua ascia.
Tutto questo lo farai nell’inconsapevole incontro con il tuo ego primordiale e potrai giungere alla
sottile devianza di un morso che duole, che fa scantonare, ritrarre, sobbalzare, danzare per il falso
dolore arrecato o arrecabile o da superare con il tuo abituale fare ancestrale.
Nel tuo ancestrale sarai solo certo che, il Ragno nelle occasioni ravvicinate tiri le fila della perenne
creazione, governando il destino degli uomini e decidendo le derivazioni a sé adattabili e mirabili,
nonché creando il segreto il cui centro delle Cose può essere lì all’uopo adattato, fruito.
La danza è per te l’esorcismo come può esserlo il suo opposto, essere l’iniziazione.
Per te comunque è l’alternanza del positivo sul negativo.
È probabile che il quel momento tuo padre sia il Sole e la Luna di Giugno sia tua madre, che la tua
porta sia divenuta sensibile perché esposta al Vento caldo, così come il tuo ventre è divenuto la
stessa Terra, è probabile che il luogo per nascondere e per nutrire sia il tuo falciare.
È cosi che il Ragno in te ascende dalla Terra e si porta con il vento al Cielo, è così che ridiscende e
risale dalla Terra al Cielo e si raccoglie con la forza delle Cose a te e a lui superiori e inferiori.
Nell’ascendere sei certo che il tuo corpo traballi e si racconti con il suo Ta-Rà-Ta Ràn-ta-tatà e
Dirai: “Dov’è il vero Luogo delle leggende? È forse in Uno dei tanti Luoghi in cui si racconta di
Iktomi?, dell’ironico maestro della sapienza e della spiritualità Lakota tradotta in forma di Ragno la
cui ragnatela è una circonferenza perfetta, ma al cui centro vi è un buco?”
In te la voce dominante è della ragnatela che acchiapperà le tue idee buone e quelle negative ed altre
invece cadranno perse in quel buco.
Non lo sai, ma fu così che gli indiani Sioux, a quella tela, attribuirono la capacità di acchiappare i
sogni e di sostenere il proprio labile destino.
Otterrai anche tu la trappola per il tuo futuro, l’otterrai con lo stesso acchiappasogni di Iktomi.
È così che, infine, saprai come è stato creato il mondo, con quale espediente il Ragno è parte della
sua tela e del tuo corpo.
E poi ancora saprai di Athena, di Aracne e delle Parche che filano il tuo filo e ne decidono lo
svolgimento e l’opportuno recidere.
Saprai dell’ipotesi più probabile che è il risultato di una trasformazione in un’antica divinità femminile
adorata per una società di tipo matriarcale il cui legame con il Ragno ti lascia intendere di essere stata
Dea e non Dio nonché essere tua Madre, quindi la generatrice del Cosmo.
Saprai del prodotto che hai falciato e che è intercorso fra l’essere agricoltore o guerriero, saprai
quanto sarà utile, in quel momento, la tua conoscenza mitigata dalla sapienza, sebbene, per te, è Ares
il dio per la tua guerra.
Aracne la vedrai valente filatrice elogiata, vantata per essere la più brava fra i mortali, in grado di
gareggiare con gli Dei. Vedrai altri filatori, altri superbi, altri che ti guarderanno dall’alto che è il
basso, dal ciò che non è più simile all’alto. Vedrai Athea la protettrice di Ulisse gareggiare e ribadire
di essere lei la migliore, che non ammetterà mai la sconfitta, vedrai il Ragno, la Taranta costretta a
filare in eterno la sua tela e tu ad essere la conseguenza del suo morso e ballare al ritmo del Ta-Rà-Ta
Ràn-ta-tatà-tà-tarà--ZZà.
Del Tuo Ta-Rà-Ta Ràn-ta-tatà-tà-tarà--zZàaah.
Paolo Vincenti
BRIVIDO CALDO
E mentre il Dio ti ispira il sacro furore, e tu, dolce signora, balli al centro della notte, io intesso parole che
come giade possano il tuo petto inghirlandare e, come formule magiche, la sorte propiziare, mentre la
cerimonia tocca il suo apogeo.. e il mio amico mi parla di te, o meglio di quello che si dice di te, ma a me
interessa poco, forse perché la vita vera mi attrae di più stasera, di quella immaginata … mentre il Dio
che ti dà l’entusiasmo mistico ti fa roteare nella vertigine sacra, io intesso pensieri che, come diamanti,
possano il tuo volto incorniciare, mentre i tuoi occhi brillano nel buio, quando si alza quel profumo greve
e intenso che prelude alla ierogamia e invade le narici fino allo stordimento … io intreccio fili che, come
le carte che la maga ti legge, a me doppiamente ti legano.. e il mio amico mi dice di stare attento a te, o
piuttosto a quello che si teme di te, ma a me interessa poco, anche perché in questa sera borderline mi
attrae la vita vera, e questo motivo mi gira in testa come il refrain di una vecchia canzone, come il corto
circuito di una mente già malata, che esplode nel big bang emozionale di un’oreibasia tarantata, in cui tutti
ballano e bevono e si amano, in un’orgheia improvvisata … mentre mi vuoi rendere partecipe, astante
devoto, di questo spettacolo iniziatico, e ti girano intorno ai fianchi le mule, come i satiri intorno a
Semele, al suono dei sistri e della cetra, nella musica che invade la piazza, tu mungi il latte dalle leonesse,
dome ai tuoi piedi, e me lo fai bere, poi coaguli quello che resta in una ciotola e mi prepari una caciotta
tutta bianca che non posso rifiutare, ad onore e gloria di questa notte dionisiaca.. e nel vento caldo che
scopre il tuo seno e fa scintillare il sudore sulla tua schiena, simile a quella di una cavalla tracia, io non
voglio pensare a quel che si dice di noi, ma solo a quello che tu fai per scacciare le negatività della vita
malvoluta, carezzando quei mascheroni apotropaici con le tue ben esperte e tornite dita ..e mentre il Dio
che suscita scalpori ti ispira versetti che declami ad alta voce, e tu, dolce signora, ti agiti più forte, come
una folle baccante, io intesso notturni che, come canti orfici, ti possano trasportare in un’altra
dimensione, nel rapimento ancestrale … il ritmo ipnotico della danza accende i tuoi sensi e i miei piedi
tremano, mentre ai tuoi piedi freme la terra, che come una sensuale menade percuoti, mentre col tuo
molle incedere mi vieni incontro e le gioie dell’unione mistica mi fai pregustare, in un carnevale d’estate
che, come il desiderio proibito di destate reminescenze, mi fa eccitare fino in fondo … mentre le
castagnette scandiscono il tempo e mi avvolge la danza delle ore in questa piazza che tutta intorno a noi
gira, mentre il mondo fuori da questo cerchio magico può aspettare … e tutta la gente può anche
guardare stupita, perché ormai siamo nel vortice della passione e in questa notte inquieta nessuno ci può
fermare… quando il mio amico cerca di farmi capire che è ora di andare e che lo spettacolo deve
terminare, io non lo ascolto e non mi curo di niente che non sia il tuo sedere che gira tutto intorno alla
piazza, mentre si danza, e i nastrini multicolori sventagliano ai tuoi polsi e le tue cavigliere sonano come
un cembalo, che mi fa volare in alto, nella messa dionisiaca, che arriva al suo culmine quando, in uno
spasimo folle di bacchico entusiasmo, ti confesso il mio amore, signora delle ore estreme … e al centro
dell’attenzione di questa festa agostana, mi inginocchio davanti alla tua grazia, come il cavaliere con la sua
dama, e come con un omaggio feudale, ti offro il mio meglio, che è tutto da provare, e come con un patto
da servare, ti offro il mio profilo migliore, in questa notte da amare, in cui il mio meglio e il tuo si
confondono insieme e il peggio può anche aspettare … ma finché si può, godiamo insieme, in questa
vita sbalestrata,come le carte di una partita truccata, e il meglio deve ancora arrivare.. ma finché si può,
godiamo insieme, nella notte da amare..
Francesco Pasca
Francesco Pasca
È di questi giorni, alla fine di maggio, l’osservare il transito in cielo, di sera, ad Ovest, della costellazione
dei Gemelli nell’aura della Luna crescente. Appena poco prima la luce si è portata via la costellazione del
Cancro e, seguendo l’eclittica, si vede Giove e Venere tramontare. L’apparire del buio è con la breve
parentesi delle immagini di Marte e Saturno.
Un bel cielo quello osservato sul finire di maggio e i nostri vecchi già si odono raccontare l’avvento
dell’estate annunciandolo con il detto di sempre: “sta scarfa la petra”.
La pietra dunque ha già iniziato a scaldarsi e con il suo scaldarsi-scaldare ha rimosso dal sonno, anche per
quest’anno, la vita animale gelosamente conservatasi. Anche le piante da seme proseguono il loro già
risveglio e s’incamminano lungo il percorso dell’oro che dà il Sole.
Il grano oltre che cambiare colore cambia anche il rumore, è più colorito nel segno e nel suono.
Tutto inizia come nel primo libro del Codice Ermetico, Il Pimandro, inizia come la visione di Ermete. Vi
è il Dio-Creatore e Padre che ha necessità di rivelarsi alla sua creatura preferita. La sua presenza diventa
necessaria affinché l’uomo non si senta solo e abbandonato. Aggiungo alla sua la mia visione e mi chiedo:
Ma chi è Dio? Perché cosi indispensabile la sua rivelazione e in che modo, in quanti modi potrebbe
rivelarsi?
Come tutte le cose rivelate, queste, suppongo, si trasformino e, i prescelti, avranno gli strumenti per
coloro che sapranno ascoltarli.
Questo sarà il cammino, dunque, da intraprendere e sarà come quello dei passi di un suonatore di
tamburello. Sarà l’onomatopeico rappresentare retorico, tratto da un susseguirsi di suoni linguistici di un
rumore-suono associato all’i(dea) divenuta iconica, sarà il rimando al fono simbolismo, persino, diverrà il
rimando alle origini del mondo.
Il comune GrA-SssTr--BBBisb--Bum-bum--FrRi--t-Flat--FlaCc e così via, è da sempre la pioggia di suoni
che bagnano il nostro quotidiano.
Il Quotidiano di oggi è l’approssimarsi di Giugno, il mese detto della “falce in pugno” e, con la falce nello
stretto pugno di una mano e con la salda presa dell’altra vi è anche il fascio di spighe del grano che, ZacZac, andremo a raccogliere.
È grande il campo dapprima seminato ed ora è dorato e moltiplicato nel seme, e, in quel grande oro vi è il
piccolo-grande Ragno, il Dio che sbuca dalla terra calpestata e che è la malinconia distratta, estratta ed
attratta dal rumore del fare “zac-zac”.
Nell’oro, lì, è facile incontrare la “TARANTA”, è facile l’incontro di questo minuscolo-grande ottipede
con il tuo corpo, con le tue mani che frugano, con le tue braccia che fasciano, abbracciano, con le tue
gambe e i tuoi piedi che procedono e calpestano e con quant’altro di lì appresso si muove intorno nel e
con il ritmo del tagliare, del rumore moltiplicato dal Zac-zac.
Ma, il disturbo del Dio si paga, è pagato con una moneta da morso e con un altro suono ripaga, con un
più flebile suono,“ZZa”.
Ecco allora che quando si è lì nell’inconsapevole di quanto può accadere è come essere un indiano Sioux,
si porta la mano alla bocca ed inizia la danza di “guerra”.
A quel morso fuggito dalla tela, lì nascosta, attribuisci le stesse capacità di acchiappare i sogni e di
sostenere il tuo destino, adempiere al passo di danza.
La Tela di quel Ragno diventa la trappola
del tuo futuro, ottenuta con l’ausilio e la
capacità dell’acchiappasogni. Sei certo, in
quel momento, che fu così creato il
mondo, con l’espediente del Ragno e
della sua tela.
Nel profondo del tuo metabolismo
culturale, nell’ancestrale atavico e
nascosto ti appare anche Athena e
Aracne, vai a coniugare anche due mondi
lontanissimi, i pellerossa e tua madre
l’ellenica. Sebbene tu non conosca le
origini del tuo mondo e non aspetti che
tutto possa essere nato da una danza e,
sebbene tu non conosca come si è
raccontato il mondo, penserai: “Chissà da
che parte è iniziato il mondo”.
Tu sai che ognuno ha rivendicato il suo
Luogo, ma sei sicuro che dovrà pur
esserci il Mito dei Miti, il Luogo dei
Luoghi.
Forse è lì che si racconta dell’origine delle
Cose di questo mondo, forse è lì il Luogo
di quando vi era un grande ragno e quel
ragno tesseva la tela creando e attendendo
al centro dello svolgersi degli eventi.
Penserai alla grande galassia. Penserai ai
tanti mondi che vi appartengono e che
girano in tondo. Penserai alle tante
galassie, tutte nate per adempiere al loro
giro di tempo. Fra i tanti semi, in quel campo di grano, in tutto quel territorio, per te, in quel momento è
solo il tuo falciato e si collega con ogni altra Cosa di quella creazione. Non lo sai ma è l’uguale di quanto
si narra nella tavola Smeraldina [Verde]: “E’ vero senza menzogna, è certo e verissimo che ciò che è in
basso è simile a ciò che è in alto; e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per compiere i miracoli
della Cosa Una.” (tratto dalla tavola di smeraldo).
Sebbene tutto questo lo ignori, lo senti perché in te è iniziato “qualcosa” a scorrere, ti scorre tutto e
l’altrettanto ti appare.
È così, e non sai se quel Ragno è maschio o femmina, se in quel Ragno, come nel Serpente, si possono
alternare sia simbologie positive ed anche negative (così come è l’alternante tra la tabula smeraldina e la rubina, [tra il
Verde e il Rosso- tra il bene e il male, tra il disinganno del reale e l’inganno del tuo immaginario]) .
La Taranta -Ta
Che fa: Ta-Rà-Ta Ràn-ta-tatà-tà-tarà--ZZà.
Canto per Otto zampe e una mandibola.