Verso il partito riformista

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Verso il partito riformista
Documento politico per il Congresso nazionale dello Sdi
Fiuggi 2,3 e 4 aprile 2004
Verso il partito riformista
Qui di seguito il testo del documento politico approvato dal Comitato esecutivo nazionale che si è
riunito giovedì 26 febbraio a Roma, presso l’Hotel Exedra. I lavori sono stati introdotti da una
relazione del vicepresidente Roberto Villetti, che anche a nome della Commissione politica ha
presentato il documento per il terzo congresso nazionale del partito che si terrà a Fiuggi il 2, 3 e 4
aprile prossimi. Nel dibattito sono intervenuti Enrico Boselli, Antonio Landolfi, Enzo Ceremigna,
Raffaele Gentile, Roberto Biscardini e Pia Locatelli. Durante i lavori non sono stati presentati, e
neppure annunciati, documenti alternativi e dunque questo è il testo che sarà alla base del dibattito
congressuale.
Gli antichi valori di libertà, di giustizia sociale e di pace, che hanno caratterizzato sin dalle origini il
movimento socialista, socialdemocratico e laburista, sono tuttora validi. Le grandi trasformazioni,
quelle avvenute nello scorso secolo e quelle in atto, non ne hanno intaccato i principi fondamentali.
Ciò è avvenuto perché il socialismo democratico ha saputo rinnovarsi, non è rimasto impigliato in
un corpo dottrinario fisso e immodificabile, è riuscito a interpretare bisogni e esigenze di società in
continuo mutamento.
Nello scorso secolo il socialismo democratico ha vinto la doppia sfida che aveva di fronte: verso il
capitalismo autoritario e verso il totalitarismo comunista. I socialisti hanno costituito la forza
politica più coerente e cosciente. Ferma, vigorosa e straordinaria è stata la partecipazione del
socialismo democratico alla lotta antifascista e contro il nazismo. L’olocausto, nel suo profondo
orrore, ha smosso le coscienze, ha rimosso inerzie e apatie, ha spinto verso l’affermazione dei diritti
umani contro ogni sorta di discriminazioni di etnia, di religione o di concezione di vita, di sesso, di
reddito, di status sociale.
L’affermazione della dignità di ciascun essere umano è il fondamento del socialismo democratico.
Mantenendo inalterati i principi essenziali, i socialisti democratici non sono restati, però, arroccati
dentro un fortino ideologico, difeso da dogmi sacri e inviolabili. Al contrario, il socialismo
democratico è stato permeato dall’influenza di nuove e antiche correnti politiche e di pensiero: dal
liberalismo al cristianesimo sociale fino all’ambientalismo. Questa caratteristica aperta e pluralistica
costituisce la maggiore garanzia sulla possibilità che il socialismo democratico possa svolgere
ancora un ruolo importante nel futuro.
Il socialismo democratico non è stato mai – e non ne ha neppure preteso l’esclusiva – l’unica
corrente politica e di pensiero che si sia impegnata sul fronte della libertà, della giustizia sociale e
della pace. Già nello scorso secolo liberali progressisti, cristiano sociali e ambientalisti riformisti
hanno condiviso con i socialisti democratici i medesimi obiettivi politici e programmatici. Questa
convergenza di fondo non è, quindi, una novità. Del resto, il grande progetto del Welfare State non
si è nutrito solo delle idee socialdemocratiche, ma è stato alimentato da indicazioni ed elaborazioni
di provenienza e di origine tra le più diverse (gli apporti più significativi alla definizione di una
politica economica progressista e alla costruzione dello stato sociale sono stati quelli di due liberali
inglesi, Keynes e Beveridge).
Un nuovo internazionalismo progressista
All’apertura del nuovo secolo, si pone il tema assai rilevante di una sempre più stretta cooperazione
a livello internazionale e – per quanto ci riguarda più da vicino – su una scala europea di tutti i
movimenti, le associazioni e i partiti che condividono valori e principi comuni. Questa, del resto, è
stata l’aspirazione che ha avuto l’Internazionale Socialista sotto l’impulso di Willy Brandt e che
oggi si è in larga parte realizzata: nell’Internazionale convivono, infatti, formazioni che non
possono essere ricondotte all’antica matrice socialdemocratica: da movimenti di liberazione
nazionale a partiti ex comunisti e a forze generalmente progressiste. Proprio in occasione
dell’ultimo Congresso dell’Internazionale Socialista a Sao Paulo in Brasile, si è stabilito un legame
di collaborazione con una importante associazione, radicata nel partito democratico americano e si
sono realizzate ulteriori rapporti con partiti progressisti, esistenti nel terzo mondo ed esterni alla
socialdemocrazia come quello diretto dal presidente Lula. Si tratta di ulteriori passi in avanti che
tuttavia non sono ancora risolutive per dare una nuova fisionomia dell’Internazionale, come
organizzazione di tutti i progressisti.
Questo processo è destinato a svilupparsi, e l'Internazionale socialista è destinata ad ampliarsi,
poiché i cambiamenti avvenuti hanno assai ridotto le distanze tra le varie forze progressiste nel
mondo. Ora, tuttavia, non è sufficiente che questo rapporto resti solo sul piano delle alleanze
politiche e delle solidarietà internazionali. Il socialismo democratico è pronto a ulteriori innovazioni
che lo mettano in sintonia con le grandi trasformazioni in atto e consentano una crescita della sua
influenza e dei suoi rapporti politici: con il superamento di una vecchia concezione statalista il
socialismo democratico ha sposato i principi del liberalismo; andando oltre un’antica visione
industrialista, ha abbracciato i valori dell’ambientalismo; con l’abbandono di un angusto
clericalismo ha riscoperto l’importanza dei valori religiosi nell’ambito di una visione laica della
società, accettata da tutti i cittadini, credenti e non credenti.
L’incontro tra i diversi riformismi e i differenti riformisti è avvenuto, innanzitutto, all’interno dei
grandi partiti socialdemocratici, socialisti e laburisti. Questo pluralismo interno ha cambiato la
stessa natura tradizionale dei partiti socialdemocratici: l’adesione non è data più sulla base di un
accettazione di una visione ideologica e classista della società, ma di una condivisione di principi
generali di libertà e di giustizia sociale. Personalità, provenienti da mondi distanti e distinti da
quello tradizionale del movimento operaio, hanno assunto funzioni di leadership nei partiti
socialdemocratici: l’ingresso nei partiti socialdemocratici non è stato avvertito come una perdita
della propria identità culturale o religiosa da uomini come Francois Mitterrand o Jacques Delors. In
questo contesto in rapido cambiamento sono ormai maturi i tempi per un mutamento del nome
all’internazionale, che superi l’antica denominazione “socialista” al fine di aprire le porte a tutti i
partiti che condividono gli stessi valori e gli stessi principi, a cominciare da quello democratico
americano, che è la più grande formazione progressista storicamente estranea alla socialdemocrazia.
Verso un gruppo europarlamentare progressista
Su scala europea questo processo di allargamento richiede tempi e modi più graduali che su scala
mondiale. Il Partito Socialista Europeo non ha, infatti, lo stesso pluralismo che esiste
nell’Internazionale. Ciò è dovuto al fatto che la socialdemocrazia ha avuto la sua origine proprio in
Europa. Tuttavia, la situazione è in piena e intensa evoluzione. Il Partito Popolare europeo ha da
tempo superato i legami con l’antica radice cristiano-democratica per divenire, a tutti gli effetti, la
Casa dei conservatori. Ne è stato un segno evidente l’ingresso di Forza Italia di Berlusconi. Questa
situazione ha creato una sempre più difficile coabitazione per i cristiano-democratici che sono
rimasti fedeli alle proprie tradizione e che sul piano sociale hanno una posizione progressista e di
centro sinistra. Tra i liberali europei vi sono nette diversità tra chi sposa posizioni di destra radicale
e chi invece si pone su una sponda di riformismo progressista. I Verdi, con la recente costituzione a
Roma di un partito europeo, sono interlocutori naturali per i socialisti. Del resto, in Italia alle ultime
elezioni politiche è stata presentata una lista tra lo Sdi e i Verdi, che – se non avesse registrato un
insuccesso dovuto anche all’improvvisazione che ha caratterizzato questa iniziativa – avrebbe
potuto rappresentare l'avvio di una stretta cooperazione rosso-verde. Purtroppo, i Verdi in Italia
hanno abbracciato, soprattutto dopo le elezioni politiche, posizioni che li rendono più vicini a
formazioni estreme che si proclamano “comuniste” come i Comunisti Italiani e Rifondazione
comunista. In questo contesto il rapporto tra i Verdi e i socialisti, che in altri paesi come la Germani
è particolarmente stretto, è invece attualmente assai difficile. I tempi per la costruzione di un grande
partito progressista e democratico comunque sono abbastanza maturi.
In queste condizioni si può realizzare una più forte convergenza tra socialisti, cristiano-democratici
di centro sinistra, liberali progressisti e Verdi, che dia vita ad un gruppo europarlamentare dopo il
prossimo voto di giugno, in grado di contrapporsi al partito popolare europeo. Così si potrebbe
costruire la Casa dei riformisti europei. Lo Sdi s’impegnerà nell’ambito del Partito socialista
europeo affinché questa prospettiva sia perseguita. Resta, comunque, evidente che, in attesa che si
possa realizzare un’aggregazione dei progressisti, gli eletti dello Sdi nella lista Prodi, come –
riteniamo – quelli dei Ds, si collocheranno nel gruppo europarlamentare socialista.
Da questo panorama in evoluzione si può facilmente dedurre che l'opera in corso per costruire in
Italia un partito riformista e riformatore, capace di unire socialdemocratici, liberali progressisti,
cristiano democratici di centrosinistra e ambientalisti riformisti, non rappresenta un’ulteriore
anomalia del nostro paese, ma una novità che è in sintonia con i profondi mutamenti in corso al
livello europeo e su scala internazionale.
Del resto, qualsiasi partito deve fare i conti con la nuova velocità della politica, che non ammette il
ristagno in vecchie idee, il puro e semplice mantenimento di antiche tradizioni, la ripetizione di
schemi politici e programmatici, validi nel passato e ormai obsoleti nel tempo presente, pena
l'emarginazione e, a lungo andare, l'estinzione.
Un secolo di incertezze e paure
Il nuovo secolo si è aperto all’insegna dell’incertezza, dell’ansia e del timore per il futuro. L’ondata
terroristica, con il suo apice nel crollo delle Twin Towers a New York, ha dato l’impressione che
d’ora in poi si debba vivere in un mondo continuamente esposto a qualsiasi improvviso e devastante
atto di violenza. Persino i cambiamenti scientifici e tecnologici, che stanno avvenendo con grande
rapidità e che una volta erano accorti con sollievo e speranza, oggi provocano una grande
inquietudine. Non è la prima volta che la paura si diffonde di fronte all’avvento di grandi
trasformazioni. È già avvenuto nella seconda metà del secolo XVIII, agli albori del capitalismo
industriale, quando divenne di moda il mito del “buon selvaggio” contro le gravi conseguenze che
comportava il nuovo modo di produzione industriale. Rosseau, che ne fu il principale epigono, ebbe
un grande successo nei circoli intellettuali e nell'opinione pubblica dell'epoca. Non mancarono,
inoltre, filosofi e filantropi che, in nome di una maggiore giustizia sociale, si opposero strenuamente
alla grande trasformazione capitalista industriale, proprio quella – come comprese Marx – che
avrebbe cambiato il volto del mondo. In effetti allora si determinarono rotture profonde di equilibri
che peggiorarono il livello di vita della stragrande parte della popolazione. Solo ristrette cerchie di
menti illuminate, come furono gli illuministi scozzesi, a cominciare da quello che è considerato il
capostipite dell'economia politica, Adam Smith, ebbero un approccio al grande cambiamento che ai
giorni nostri potremmo definire “riformista”. Oggi, sta accadendo, sia pure in condizioni assai
diverse, una situazione analoga: tutti sembrano temere, salvo qualche rara eccezione, che il
progresso prepari un'epoca nella quale appariranno mostruose creature, generate dalle invenzioni di
nuovi dottor Faust, che si vada incontro a una catastrofe ambientale, che si esauriscano le fonti di
energia con il conseguente blocco della crescita. Di fronte alla globalizzazione, si mobilitano i “no
global”; di fronte all'utilizzazione delle cellule staminali, tratte da embrioni, e in generale di fronte
alla nuova ingegneria genetica, si ergono nuovi fondamentalisti; di fronte ai nuovi lavori e alle
nuove regole che si impongono nel mercato, cresce la nostalgia per il vecchio operaio-massa,
costretto però ad essere una pura e semplice appendice animale delle macchine. Gli stessi
rivoluzionari che, dopo l'89 hanno perso qualsiasi riferimento a modelli alternativi di società
rispetto a quello fondato sull’economia di mercato, si propongono come meta di tornare ai “gloriosi
trent'anni” del dopoguerra, nei quali vi fu nella generalità dei paesi europei la costruzione dello
Stato sociale e durante i quali si conobbe un formidabile sviluppo.
Le ansie dei giovani, le paure degli anziani
Generale è ormai la sfiducia verso il futuro che non appare garantito come una volta. Le nuove
generazioni temono che il loro futuro sia peggiore di quello che avevano davanti le generazioni
precedenti: lavoro precario e previdenza incerta o del tutto insufficiente sono i maggiori motivi di
ansia. Lavorare in modo intermittente disincentiva non solo la costruzione di una nuova famiglia ma
anche la definitiva separazione dai propri genitori. Neppure tra gli anziani, che dovrebbero essere
confortati dall'allungamento delle attese di vita e che percepiscono una pensione certa, vi è una
condizione di serenità: si teme l’isolamento, la solitudine e la non autosufficienza che non sia
accompagnata neppure dai servizi essenziali per vivere o comunque per sopravvivere. Per tutti i
cittadini il futuro si presenta denso di incognite. In queste condizioni, è forte per la sinistra
riformista la tentazione di difendere lo status quo che appare il programma più popolare da
propagandare e da perseguire.
Libertà e sicurezza
Libertà e sicurezza appaiono oggi come valori contrapposti. Non fu così in larga parte nello scorso
secolo quando questa coppia era strettamente interdipendente. La libertà, alla fine del settecento, si
contrappose alle monarchie assolute, all'autarchia economica e alle corporazioni chiuse con un forte
contenuto di progresso. La libertà del nascente proletariato si contrappose ai primi dell'ottocento,
quando si sviluppava la grande fabbrica, al capitalismo selvaggio. La libertà dei liberali e dei
socialisti si contrappose ai vari e diversi totalitarismi. La sicurezza discendeva, quindi, da un assetto
istituzionale di libertà. Erano i sistemi dispotici a mettere in discussione la libertà come la sicurezza,
come un tutto unico di diritti. La stessa criminalità, che è sempre esistita, veniva interpretata
principalmente come un derivato delle disuguaglianze sociali.
Questa interdipendenza si è incrinata nell’ultimo quarto dello scorso secolo: la coppia libertà e
sicurezza si è scissa definitivamente con l’‘89. Così, si è venuto a creare un rapporto inversamente
proporzionale: se si vuole più sicurezza, bisogna ridurre la libertà. Se si vuole più libertà, bisogna
ridurre la sicurezza. Questo schema si è trasferito dal livello dell’ordine pubblico a quello più
generale dei rapporti sociali ed economici: più libertà si traduce in meno Stato, in meno burocrazia
e, in generale, in meno tasse; più sicurezza in più Stato, in più burocrazia e, in generale, in più tasse.
Si tratta di un micidiale combinato ideologico che ha rimesso in discussione lo Stato sociale. Il
rilancio delle teorie neoliberiste si è fondato, quindi, su un assioma di cui non ci si è neppure curati
di dare una qualsiasi dimostrazione tanto lo si è considerato evidente.
L’11 settembre sembrava che avesse scandito l’apogeo di questo schema ideologico, ma invece ne
ha segnato la crisi definitiva. Nella patria della libertà individuale, come sono gli Stati Uniti, si è
avviato un pericoloso processo di involuzione che ha messo in discussione diritti fondamentali dei
cittadini, da sempre considerati inviolabili. Dal prevalere delle esigenze di sicurezza è venuta
nuovamente crescendo la necessità di più Stato. Il neoliberismo è entrato, così, in una crisi che solo
qualche anno fa era imprevedibile. La destra non può più inalberare la bandiera della libertà
assoluta, come simbolo di un nuovo mondo senza regole e senza costrizioni. Anzi, questa bandiera,
agitata come un’arma contro i riformisti tardo statalisti, è spesso ammainata non solo in nome della
sicurezza e in quello di un'etica pubblica fondamentalista, ma anche in nome dell’economia. La
caduta delle dottrine neoliberiste non poteva essere più verticale.
Far ripartire lo sviluppo
L’impulso necessario per riavviare la crescita economica, al fine di superare la fase di ristagno, ha
richiesto massicci investimenti pubblici. Di nuovo “burro e cannoni” sono gli ingredienti per
riavviare lo sviluppo. È la resurrezione di Lord Keynes. La moneta non è più una componente da
mantenere neutrale nei confronti dell'economia, ma un prezioso strumento per stimolare la crescita.
La destra americana ha cavalcato sul piano economico ricette che possono apparire simili a quelle
della vecchia sinistra. Rimane, tuttavia, una differenza che non è di poco conto: la destra va
all’assalto dello Stato sociale per mantenere le sue promesse di riduzione delle tasse; la sinistra
difende il livello della spesa sociale.
Nel corso dell’ultimo quarto di secolo scorso, la sinistra riformista aveva dovuto accettare lo
schema “meno tasse, meno Stato, più libertà”, che ormai si era rivelato vincente nell’opinione
pubblica. E in effetti, la pressione fiscale aveva raggiunto livelli talmente elevati da essere percepita
come una vera e propria vessazione da parte della maggioranza dei cittadini, a fronte delle
inefficienze e delle insufficienze mostrate dai servizi pubblici. Dovrebbe essere evidente che tanto
più si diminuiscono le risorse per lo Stato sociale, tanto più i servizi pubblici funzionano peggio. In
questo modo si entra in un circolo vizioso nel quale, pezzo dopo pezzo, si smonta lo Stato sociale.
Certo, i disservizi pubblici, lamentati da tutti i cittadini, utenti, consumatori o clienti, non sono solo
imputabili al livello delle risorse disponibili che sono impiegate nei diversi settori: in assenza di
concorrenza e di mercato, nel pubblico vengono infatti inesorabilmente a prevalere le resistenze
corporative, fonte primaria di ogni inefficienza. Lo Stato sociale sembra così stretto nella morsa
costituita, da un lato, da risorse decrescenti e, dall'altro lato, dal prevalere degli interessi di chi è
addetto ai servizi. Non sembrerebbe, quindi, esserci alcuna via d’uscita per portare avanti un
programma riformista che non solo mantenga ma modifichi ed estenda – com’è necessario – in
forme nuove la rete di sicurezza sociale esistente, richiamando ciascun cittadino alla propria
responsabilità individuale ed evitando di costruire nuove bardature statalistiche e burocratiche.
Alle prese con le tre rivoluzioni
A peggiorare la situazione, invece che a migliorarla, sembrano contribuire le tre rivoluzioni che
dominano il secolo appena aperto: quella demografica, quella sessuale e quella digitale. La
rivoluzione demografica, infatti, tende sempre di più a spostare la maggior parte delle risorse,
destinate allo Stato sociale, a favore della previdenza; la rivoluzione sessuale mette in campo una
nuova forza lavoro femminile proprio nel momento in cui sembra che diminuisca l’offerta di lavori;
la rivoluzione digitale porta con sé una ristrutturazione della divisione del lavoro a livello mondiale
con una delocalizzazione fisica e virtuale delle imprese. Si apre così un conflitto tra generazioni, tra
genders e tra popoli sviluppati e popoli in via di sviluppo. La sinistra riformista non sembra essere
più in grado di tenere insieme élite intellettuali, giovani ed anziani, uomini e donne, ceti medi
qualificati, proletariato residuale ed emarginate poiché non riesce ad offrire un progetto capace di
rendere compatibili valori e interessi, sia quelli già consolidati sia quelli emergenti. La scelta dei
riformisti, almeno finora, si è mossa in difesa: si è attestata sul mantenimento dell’assetto sociale
esistente. A tutti i cittadini la sinistra spesso cerca di offrire il mondo di ieri dove tutti si sentivano
più tranquilli invece che il mondo di domani nel quale vi sono troppe variabili imprevedibili.
Da questo stato di cose sembra che da parte della sinistra si tutelino i potentati: da quelli delle
grandi corporazioni a quelli dei poteri forti. Ciò è dovuto anche al fatto che ogni volta che si discute
una riforma la sinistra ha come esclusivi interlocutori gli addetti ai servizi o comunque i gestori del
comparto che si vuole modificare: per la sanità i medici e gli infermieri, per la scuola gli insegnanti
e per l’università i professori, per la rete distributiva i commercianti, per la giustizia i magistrati e
gli avvocati, per i trasporti gli autisti, i macchinisti e i piloti, per il risparmio i banchieri e così via.
Restano invece tagliati fuori dal confronto e dalla contrattazione i cittadini come pazienti, clienti,
utenti, consumatori, risparmiatori, studenti, imputati o vittime di reati etc. Questa situazione deriva
non solo dal fatto che nella società pesano molto di più gli interessi organizzati, lobbies o
corporazioni che siano, rispetto a quelli atomizzati; discende, almeno per la sinistra, anche da una
trasposizione del vecchio schema del proletariato come “classe generale”, nella cui concezione gli
interessi di classe coincidono con quelli generali, a tutti i lavoratori comunque e ovunque siano
collocati nella piramide sociale. Questa contiguità della sinistra nei confronti delle corporazioni
provoca un effetto di lontananza dal “popolo”. Questa immagine deformata ha consentito alla destra
populista di presentarsi con una forza di cambiamento e, quindi, di valorizzazione tutti gli interessi,
sia quelli emergenti sia quelli emarginati. Non solo in Italia ma anche in Europa la destra riesce a
mietere consensi negli strati a più basso reddito e e a meno elevata istruzione. Sembra andare in
frantumi l’antico paradigma che faceva muovere insieme un intero blocco sociale, relativamente
omogeneo e composto innanzi tutto da classi deboli, verso orizzonti di sempre maggiore
uguaglianza.
La coppia libertà-uguaglianza non si traduce più automaticamente in quella libertà-sicurezza che era
alla base dello Stato sociale. Solo un ripensamento critico di quanto è accaduto nell’ultimo quarto di
secolo può permettere alla sinistra riformista di ricostruire un progetto. Tentativi in questa direzione
sono stati fatti da correnti socialdemocratiche particolarmente innovative, com'è stata quella che ha
propugnato la cosiddetta ”terza via", elaborata e sviluppata dal sociologo inglese Anthony Giddens
e da quello tedesco Ulrich Beck. I risultati pratici di questa impostazione – vedi l'esperienza del
New Labour di Tony Blair e quella socialdemocratica del “nuovo centro” di Gerard Schroeder –
non hanno però convinto la stragrande parte delle socialdemocrazie europee. In Gran Bretagna – a
dire il vero – non manca il consenso , mentre in Germania la SPD dopo la vittoria insperata alle
elezioni politiche sta andando incontro ad un insuccesso dopo l’altro. C'è qualche cosa che non
funziona nella traduzione programmatica della “terza via”: nonostante ciò appare resta uno schema
innovativo di tipo analitico che appare tuttora valido di fronte alle grandi trasformazioni in corso.
Riforme socialiste e riforme borghesi
Il nuovo riformismo, portato avanti dalle socialdemocrazie, non è diverso da quello perseguito da
altre formazioni progressiste. Una volta il riformismo socialista si differenziava nettamente da
quello borghese: lo scopo dei socialisti riformisti, sin dal primo revisionismo di Eduard Bernstein,
era quello di arrivare gradualmente a un superamento pacifico e democratico del sistema capitalista.
L’uso della violenza, come ben mise in evidenza Filippo Turati nel suo discorso profetico al
Congresso socialista di Livorno, era il principale discrimine tra riformisti e rivoluzionari.
Da tempo le socialdemocrazie hanno accettato l’economia di mercato, escludendo esplicitamente di
perseguire un modello radicalmente alternativo. Certo, persiste tra i socialdemocratici un rifiuto
della società di mercato, come disse Lionel Jospin quando era ancora premier della Francia, nel
senso che i socialdemocratici non devono accettare una completa mercificazione di tutti i rapporti
sociali. Tuttavia questa affermazione, che ha innanzi tutto un forte contenuto etico, non è solo fatta
propria da correnti della socialdemocrazia, ma anche da settori del cristianesimo sociale,
dell’ambientalismo ed anche del liberalismo progressista. Anzi oggi i socialdemocratici,
abbandonando l’equivalenza – a suo tempo sostenuta – tra intervento pubblico ed espansione della
democrazia – si pongono nell’affrontare il tema delle riforme sullo stesso piano dei progressisti che
non sono socialdemocratici.
Resta invece valida la distinzione tra sinistra e destra: la prima tende a realizzare maggiore
uguaglianza anche a detrimento di una maggiore crescita economica; la seconda tende a mantenere
un ampia gamma di disuguaglianza poiché in tal modo si favorirebbe meglio la concorrenza e lo
sviluppo. Da ciò si può dedurre che le riforme dei riformisti, socialisti o progressisti che siano, sono
quelle che vogliono maggiore uguaglianza senza tuttavia ad arrivare a irrigidire la società in una
totale uniformità e a un generale appiattimento.
La debolezza storica dei riformisti
In Italia i problemi della sinistra sono per ragioni storiche molto più complessi e difficili da
affrontare e risolvere. Il riformismo ha avuto sempre una tradizionale debolezza. Manca tuttora oggi
in Italia un grande partito socialdemocratico. Non ha più una forte consistenza elettorale il partito
che trae origine dal movimento socialista italiano com’è lo Sdi, erede di quanto è rimasto di vivo e
vitale del Psi e del PSdi. Lo Sdi è riuscito spesso a spingere verso l’innovazione il centro sinistra,
ma non può certo pensare di essere in grado da solo d’imporre il rinnovamento che sarebbe
necessario. I Ds, che nascono da una profonda trasformazione del Pci, e che appartengono da tempo
all'Internazionale socialista e sono stati cofondatori del partito socialista europeo, non riescono
ancora a esprimere tutto il loro potenziale riformista, ostacolato dalle forti resistenze esistenti nel
loro mondo di riferimento, soprattutto quello intellettuale. Nella storia d’Italia, come a suo tempo
osservò Norberto Bobbio, gli intellettuali siano restati spesso affascinati da avventure e da regimi di
tipo autoritario. Comunque, è positivo che molti intellettuali italiani, che appartengono alla
generazione del sessantotto, siano passati dalla contestazione del sistema a posizioni di strenua
difesa dei principi liberali. Il riformismo ha avuto in Italia, comunque e sempre, una vita difficile.
Minoranze particolarmente attive sul piano politico si presentano spesso, proprio per il antagonismo
ai “politici di professione” e ai partiti, come autentici interpreti della cosiddetta società civile.
Attraverso questa “maschera”, che tra la gente comune assume l’aspetto puro e semplice del
qualunquismo, portano avanti posizioni radicali, se non estreme, che non sono affatto condivise
dalla “zona grigia”, quella degli indecisi, che vorrebbero rappresentare. In questo modo la società
civile apolitica o spoliticizzata viene rappresentata da élite iperpoliticizzate che hanno spesso
militato negli stessi partiti tradizionali e che in taluni casi hanno assunto ruoli dirigenti e comunque
di rilievo. In questo modo si determina una distorsione ottica nella quale i riformisti appaiono
ancora più isolati di quanto in realtà lo siano nei confronti della società civile. Non ha, quindi, tutti
torti Ernesto Galli della Loggia quando sul “Corriere della Sera” registra così questa situazione:
“Ciò che colpisce non è tanto la solitudine politica del riformismo, quanto la solitudine sociale”. Per
comprendere queste difficoltà, basta riflettere sulla stessa storia della sinistra italiana.Nel nostro
Paese, esistono ancora ben due partiti che si richiamano al comunismo: i Comunisti italiani di
Cossutta e Diliberto, che rivendicano l'ortodossia più dogmatica del vecchio Pci, e Rifondazione
Comunista di Fausto Bertinotti, che cerca di raccogliere le istanze libertarie dei movimenti di
contestazione. A questa situazione, per complicare le cose, si aggiunge un partito attorno all'ex pm
di “Mani pulite” che si è presentato alle ultime elezioni politiche in una posizione autonoma rispetto
all'Ulivo e a Berlusconi e che oggi cavalca, con la partecipazione di Achille Occhetto, non solo i
suoi tradizionali temi, giustizialismo e “legge e ordine”, ma anche le istanze più estreme del
movimento pacifista, soprattutto per fare concorrenza ai Ds.
La novità della Margherita
L'unica novità, che si è prodotta finora, è costituita dalla Margherita, formazione nata dalla
confluenza del Ppi di Pierluigi Castagnetti e Franco Marini, dei Democratici di Romano Prodi, di
Rinnovamento italiano dell'ex presidente del consiglio Lamberto Dini, di autorevoli esponenti
repubblicani come Antonio Maccanico ed Enzo Bianco, nonché dell’Udeur di Clemente Mastella
che però dopo le elezioni politiche ha abbandonato questa formazione. La Margherita ha svolto un
ruolo positivo, nonostante risenta ancora dell'influenza del cattolicesimo post democristiano su temi
assai delicati come il finanziamento delle scuole confessionali, l'inquadramento degli insegnanti di
religione, dipendenti tuttora dalla Curia, e la fecondazione assistita. Tuttavia, bisogna riconoscere
che la Margherita con la sua presenza politica ha permesso di realizzare all'interno dell'Ulivo una
reale pluralismo che non consente oggi a nessuno di esercitare forme di egemonia.
Se non ci fosse la Margherita, non si sarebbe neppure potuto mettere in cantiere la creazione di un
nuovo soggetto politico che raccolga tutti i riformisti e tutti i riformatori.
L’appello di Romano Prodi
Con questa articolazione politica, il centrosinistra non avrebbe potuto darsi una forte guida che
serve non solo di sconfiggere la coalizione al governo, ma anche a governare nel segno
dell'innovazione e della stabilità. Per questo motivo, l'appello di Romano Prodi, rivolto a creare una
lista dell'Ulivo per le prossime elezioni europee, ha raccolto un’esigenza di fondo che era molto
sentita. I Il segretario dei Ds e il presidente della Margherita,, di fronte al rifiuto dei Comunisti
italiani, dei Verdi e dell’Udeur a raccogliere l'invito di Prodi, hanno compiuto una scelta innovativa
sostenendo comunque che bisognava presentare una lista unitaria alle prossime elezioni europee
assieme allo Sdi.
Dal congresso di Genova, lo Sdi aveva indicato come prospettiva strategica da perseguire la
costruzione della Casa dei riformisti. Allora questa nostra indicazione, che traeva origine da una
suggestione espressa da Romano Prodi, fu considerata una sorta di fuga in avanti. I fatti, come
diceva Pietro Nenni, si sono incaricati di darci ragione. Ciò che appariva una vaga utopia è oggi una
prospettiva concretamente realizzabile: con la lista Prodi, formata dai Ds, dalla Margherita, dallo
Sdi e dai Repubblicani europei, e con il concorso di numerose associazioni appartenenti alla società
civile, si è aperta una strada nuova. Nel prossimo congresso di Fiuggi, lo Sdi confermerà e
approfondirà la scelta strategica compiuta a Genova. Siamo per primi consapevoli che la lista Prodi
è solo una prima tappa che realizza una “cooperazione rafforzata” tra riformisti e riformatori. Lo
sviluppo di questa strategia, che fa perno sull’Ulivo, è tuttavia, come è giusto che sia, nelle mani
delle elettrici e degli elettori che voteranno nella prossima consultazione elettorale europea del
prossimo giugno. Diventa essenziale, come ha ripetutamente sottolineato Michele Salvati, che la
lista Prodi si presenti con un forte respiro ideale e strategico, condizione essenziale per essere
promossa dal voto dei cittadini. Da parte nostra, puntiamo alla costruzione di un vero e proprio
nuovo soggetto politico. Se l'operazione avrà successo elettorale, si vedranno quali dovranno essere
le forme che dovrà assumere: una federazione di partiti, ciascuno dei quali deleghi una quota della
propria sovranità ad una leadership comune; oppure un vero e proprio partito che si dia una struttura
completamente innovativa rispetto a quelle tradizionali, conosciute finora nel nostro Paese. Tutta
questa costruzione strategica si fonda sull'Ulivo che è diventato il simbolo dell'innovazione,
dell'unità e delle riforme. Si tratta di una prospettiva che da tempo Romano Prodi porta avanti con
coerenza e determinazione e nella quale lo Sdi si ritrova. Questo disegno politico si fonda innanzi
tutto sul riconoscimento dei cittadini e degli eletti dell'Ulivo come soggetti fondamentali del
processo unitario che si vuole sviluppare e sull'accettazione di regole che consentano l'assunzione di
decisioni a maggioranza tra tutte coloro che ne fanno parte. Questa prospettiva può realmente
cambiare la geografia politica del centrosinistra dando più forza politica, più credibilità e più vigore
di governo all’alternativa alla destra. Lo Sdi, una volta superato lo schema di una volta, “la Quercia
più i cespugli”, si è impegnato a fondo per portare avanti e rafforzare l’Ulivo. Noi non abbiamo
posto alcun veto, come pure si è pure detto e scritto nei confronti di alcuna forza politica. Lo Sdi
non ha mai frapposto ostacoli neppure all’Italia dei valori. Sin da quando Di Pietro ha manifestato
la sua volontà di far parte dello schieramento di centro-sinistra, lo Sdi è stato favorevole alla
realizzazione di uno schieramento più ampio di centro sinistra. Sappiamo bene, infatti, che nel
sistema maggioritario è necessario costruire le alleanze più estese al fine di sconfiggere l'avversario.
Lo Sdi ha avanzato, però, un problema eminentemente politico: la necessità di dare alla lista
unitaria, una volta accertata la defezione dei comunisti italiani, dei Verdi e dell’Udeur, una precisa
fisionomia che per noi non poteva che essere quella riformista e riformatrice. È solo in questo
ambito che abbiamo considerato l'Italia dei valori come una formazione estranea al progetto che
stava prendendo corpo. Non avremmo sollevato alcun problema politico se si fosse formata una
lista che avesse raccolto tutto per le formazioni aderenti all'Ulivo, nella quale, quindi, poteva
trovare posto anche l'Italia dei valori.
Noi siamo comunque convinti che il campo d’applicazione fondamentale dell’Ulivo sia oggi
rappresentato dall’unità dei riformisti e dei riformatori per dare un timone alla coalizione, in modo
tale da assicurare uniformità, continuità e stabilità a Romano Prodi come premier e al suo governo,
una volta vinte le elezioni politiche, cosa oggi probabile ma che mai deve essere data per scontata.
Consideriamo la formazione della lista Prodi, così come è strutturata, non solo una nostra vittoria
politica, ma un successo di tutti i riformisti e i riformatori del centrosinistra e dell'Ulivo. A questo
esito si è giunti per la scelta coraggiosa che è stata fatta dal segretario dei Ds, Piero Fassino, un
leader di cui abbiamo sempre apprezzato l'identità chiaramente socialdemocratica. Non
sottovalutiamo, certo, l'apporto che alla conclusione raggiunta è stato dato dal presidente della
Margherita, Francesco Rutelli, e dal vicepresidente Arturo Parisi. In questa direzione, del resto, si
sono mossi positivamente anche i “Repubblicani europei” di Luciana Sbarbati che rappresentano
una importante tradizione della storia d'Italia, con la quale i socialisti hanno avuto intensi legami sin
dalle origine del movimenti operaio.
La lista Prodi offre alle elettrici e agli elettori un terreno assai impegnativo, com’è quello della
costruzione dell'Unione Europea: si tratta di un progetto che è stato definito dal presidente della
commissione europea nel suo manifesto “L’Europa, un sogno, le scelte”. Questo progetto sarà
tradotto in un programma da Giuliano Amato attraverso un gruppo di lavoro cui daremo il nostro
contributo di idee e di proposte. Questa iniziativa, che rivolta innanzitutto ai cittadini, si colloca in
un momento in cui appare sempre più evidente il declino dell'esperienza del governo Berlusconi.
La difficile situazione dell’Italia
Il quadro generale del nostro Paese è tutt'altro che rassicurante: dopo il collasso del vecchio sistema
politico, è iniziata una transizione che appare davvero infinita. Le istituzioni, le regole, le forze
politiche sono inadeguate alla nuova situazione del Paese. I tentativi in atto da parte dei partiti al
governo, per arrivare ad una riforma della nostra costituzione a colpi di maggioranza, non possono
che aggravare la situazione, determinando ulteriori tensioni politiche. Occorrerebbe, invece,
un'intesa tra maggioranza e opposizione per riscrivere insieme le regole del gioco.
Noi ci troviamo in una situazione che non è certo quella di un paese che ha solide istituzioni e
regole certe.. Dal cambio di sistema politico, avvenuto con una vera e propria rottura rispetto al
passato e con un impatto piuttosto violento, si è sicuramente sprigionata una spinta alla
modernizzazione e alla moralizzazione della vita pubblica, ma anche un gravissimo discredito della
democrazia, dei partiti e, in generale, della politica che ha arato il terreno nel quale ha germogliato
ed è cresciuto il populismo berlusconiano. Non era affatto inevitabile che la sanzione di
comportamenti illegali e irregolari dovesse provocare la distruzione dei partiti democratici, come
purtroppo è avvenuto. Il modo in cui si è affrontato in Germania un caso simile, anche se non
equivalente ed esteso come quello italiano, dimostra che la politica poteva giocare un ruolo
eminentemente positivo per evitare una negativa destabilizzazione del sistema-paese. Oggi
avremmo potuto avere una democrazia bipolare fondata, sul centro sinistra, su un grande partito
socialdemocratico, formato dall’unione del Psi, del Psdi e del Pci e, sul centro destra, su una
Democrazia Cristiana profondamente rinnovata. La geografia italiana sarebbe diventata simile a
quella europea, senza che insorgesse il fenomeno Berlusconi e senza i drammi che abbiamo
purtroppo vissuto.
Le insufficienze del governo
Queste riflessioni devono servire oggi affinché vi sia una assunzione di responsabilità da parte della
politica, nel momento in cui si profila sul terreno economico e finanziario un vero e proprio
terremoto che non risparmia più nessuno, neppure la Banca d’Italia che, assieme al Capo dello Stato
e all’Arma dei Carabinieri, è stata sempre considerata dai cittadini un’istituzione altamente
affidabile. L’insegnamento che si deve trarre da tangentopoli è ben chiaro: sanzionare i singoli
comportamenti evitando di travolgere le istituzioni. Ciò significa che dopo il crack della Parmalat si
deve evitare di colpire la credibilità complessiva del nostro sistema finanziario, rappresentato
innanzitutto dalla Banca d'Italia e, in generale, dalle banche. Da una destabilizzazione del nostro
sistema finanziario non può che derivare una crisi del Paese, forse ancora più profonda e devastante
di quella provocata dal discredito gettato sulla democrazia, sui partiti e sulla politica. Occorre, al più
presto adeguare il sistema di controlli per ridare fiducia ai risparmiatori: più poteri alla nuova
Consob in materia di trasparenza per le società per azioni quotate in borsa; compiti di controllo sulla
concorrenza, compresi quelli relativi alle banche, affidati all’Autorità antitrust; conferma del ruolo
della Banca di Italia nella tutela della stabilità del nostro sistema finanziario. L’Italia ha già troppi
problemi per permettersi una prolungata fase di diffidenza, se non di sfiducia, tra banche, imprese e
risparmiatori.
L’Italia, purtroppo, non può essere considerata in nessun campo una moderna ed avanzata
democrazia liberale come lo sono la Francia, la Gran Bretagna e la Germania. L’Italia non è un
paese normale: è invece un’anomalia tra i paesi democratici e liberali. Infatti, non può essere
considerata normale una situazione nella quale il presidente del Consiglio in carica controlla, in
quanto proprietario, tre reti televisive di Mediaset e, in quanto leader della maggioranza, tre reti
della Rai. Questo stato di cose costituisce un gravissimo attentato al pluralismo che è alla base della
democrazia liberale. Non è assolutamente valida la giustificazione secondo la quale l’assetto
dell’informazione televisiva in Italia sarebbe stato avallato dal voto dei cittadini italiani che hanno
dato la maggioranza in Parlamento alla coalizione guidata da Berlusconi. Il pluralismo nel mondo
dell’informazione, infatti, non può essere ridotto o annullato neppure da un voto di maggioranza. È
sempre bene ricordare che a maggioranza non possono essere soppressi fondamentali diritti di
libertà.
L'ostinazione del presidente del consiglio a non voler risolvere il suo conflitto di interessi,
particolarmente grave nel campo dell'informazione televisiva, rende fragile la nostra democrazia
bipolare e ostacola la realizzazione di qualsiasi accordo bipartisan. Eppure, le nostre istituzioni
avrebbero bisogno di una profonda riforma, realizzata con un larghissimo consenso politico e
parlamentare.
Vivere ne l sistema maggioritario
L’avvento della democrazia dell’alternanza non deriva in Italia dal tipo di sistema elettorale.. La
stragrande parte dei paesi europei, nei quali vi è una democrazia bipolare, è retta da sistemi
proporzionali. Se mai, si può affermare che il maggioritario uninominale a un turno tenda a
trasformare la democrazia bipolare da multipartitica a bipartitica. In questo quadro si comprende la
forza che ha avuto il disegno prodiano dell’Ulivo, nonostante le fortissime resistenze che si sono
manifestate all’interno dello stesso centro sinistra. Lo Sdi, che è stato sempre per un sistema
proporzionale con premio di maggioranza, si è adeguato a questa nuova situazione cercando di
coglierne gli aspetti positivi. Lo Sdi ha fatto proprio in questa materia il motto enunciato
recentemente da Joshka Fischer: “È bello stare dalla parte giusta della storia, ma se la storia va dalla
parte sbagliata, allora sono guai”.
Il maggioritario richiede comunque riforme. È evidente che va riformata la nostra stessa
Costituzione poiché essa è stata ideata e realizzata avendo in mente un sistema retto da una legge
elettorale proporzionale. Diverse e più forti dovrebbero essere le garanzie riservate alle minoranze
in un sistema nel quale si può conquistare la maggioranza dei seggi parlamentari senza avere la
maggioranza assoluta dei consensi elettorali. L’Ulivo, il centrosinistra e la sinistra – sotto l'impulso
di Giuliano Amato – si sono ritrovati in una proposta di mediazione, accettata anche dallo Sdi, che
tenendo innanzitutto conto del nuovo quadro maggioritario individua proprio nuove garanzie da
introdurre nel nostro sistema politico.
Il governo e la maggioranza non sembrano affatto disponibili ad aprire un vero dialogo: al contrario
appaiono tanto più arroccati in se stessi tanto più si accorgono di perdere l consenso tra i cittadini. Il
presidente del consiglio descrive un’Italia che si arricchisce, ma gli italiani sono però consapevoli
che le proprie tasche si sono alleggerite con il carovita indotto da sfrenate speculazioni che il
ministro dell'economia Tremonti si sta apprestando ad arginare con colpevole ritardo, dopo aver
accollato irresponsabilmente la responsabilità di quanto stava accadendo alla nuova moneta
europea.
Un programma per l’Italia
L’Italia vive in un clima di incertezza e di inquietudine che in molti settori sociali e, soprattutto, tra
i giovani diventa vera e propria ansia per i futuro. Berlusconi ha deluso profondamente, appare
ormai un uomo incerto e indeciso su ciò che deve fare, è preoccupato soprattutto della difesa dei
suoi interessi: un giorno attacca l’euro e l’Europa; un giorno gioca la carte della difesa del vecchio
sistema politico; un giorno invece punta sull’antipolitica attaccando tutti, dentro e fuori della sua
maggioranza. Ormai, appare una sorta di “re travicello”.
Di fronte a questo stato di cose occorre una coalizione di centro sinistra che sappia trovare la strada
dell’unità. Non è un impegno facile poiché è del tutto evidente che l’Ulivo, il centro sinistra e la
sinistra sono un mondo dalle mille voci, dalle mille idee, dai mille campanili, dalle mille anime.
Trovare un terreno comune, politico e programmatico è la sfida che ci attende. Per sfidare al meglio
Berlusconi, dobbiamo innanzitutto sfidare noi stessi nella prova più difficile che abbiamo di fronte:
essere uniti.
Sul progetto, sul programma, sulle cose da fare dobbiamo ritrovare una convergenza di fondo:
evitare di esasperare i toni, di accentuare le divisioni, di approfondire i solchi. Di fronte alle
differenze bisogna cercare le convergenze. Sui temi più specificatamente programmatici dobbiamo
fare una scelta preliminare che è di principio e di metodo: le soluzioni che si offrono ai cittadini,
quali che esse siano, per essere credibili e non assomigliare a alle illusorie e irrealizzabili promesse
elettorali fatte da Berlusconi a “Porta a porta”, come il drastico taglio delle tasse, devono essere
sempre accompagnate dall’individuazione delle risorse che occorrono per realizzarle. Questo è il
nucleo essenziale del riformismo: concretezza, gradualità e innovazione. Si tratta di conciliare
principi che in sé sono validi: sicurezza ambientale, sicurezza sociale, sicurezza interna e
internazionale con libertà, crescita e pace. Questo è il terreno sul quale dobbiamo ricercare una
sintesi programmatica.
Lo Sdi considera come obiettivo prioritario la valorizzazione e lo sviluppo della scuola pubblica e
laica, che deve essere aperta a tutti senza distinzioni di reddito, di status sociale, di appartenenza
religiosa, di etnia o di sesso. La scuola deve essere, assieme all’innovazione e alla ricerca, il cardine
portante del nuovo programma di governo dell'Ulivo, del centrosinistra e della sinistra. In netta
alternativa alle modifiche portate avanti dall'attuale ministro della pubblica istruzione Moratti, si
deve cercare – in sintonia con la grande riforma realizzata con la scuola media unica – di allungare
a complessivi dieci anni, a partire dai cinque anni di età, il periodo nel quale tutti i ragazzi e ragazze
possano frequentare un medesimo corso di studi, rinviando a un momento di maggiore
consapevolezza le scelte per l'ultimo triennio di istruzione superiore. Questo è il modo migliore per
contrastare le discriminazioni dovute al reddito o allo status culturale delle famiglie cui
appartengono ragazze e ragazzi. In questo modo, si ripristinerebbe il tradizionale assetto di studi,
formulato allora solo per le classi privilegiate, dalla fondamentale legge Casati all’inizio dell’unità
d’Italia. Per quanto riguarda l'università, ci sembra giusto che il costo complessivo degli studi
ricada su chi la frequenta. È infatti evidente che l'acquisizione di una laurea rappresenta tuttora una
chance in più per acquisire un maggiore reddito e un migliore stato sociale. Tuttavia, non devono
essere creati sbarramenti di tipo economico all'ingresso nell'università. I più meritevoli saranno
comunque esenti da oneri. Il pagamento delle spese sostenute dallo Stato per la formazione
potrebbe essere diluito in rate mensili da versare nel corso di venti anni con un vero e proprio mutuo
a tasso zero posto a carico dei futuri laureati. Quanto si ricavererebbe in questo modo dal contributo
degli studenti, una volta inseriti nel mondo del lavoro e delle professioni, andrebbe reinvestito nel
sistema di istruzione e nella ricerca. La scuola è la vera chiave per assicurare pari opportunità, per
quanto è possibile, a tutti. È questo un principio che è stato sostenute da liberali progressisti e che
deve essere portato avanti dai socialisti riformisti e da tutto il centrosinistra.
La riforma dello Stato sociale è attesa da tutti cittadini: da chi teme che vengano meno le
tradizionali sicurezze e da chi, invece, spera che se ne creino di nuove. Il primo dato fondamentale,
dal quale partire, è costituito dal mantenimento del livello della spesa sociale rispetto al prodotto
interno lordo. Va nettamente contrastato qualsiasi tentativo di ridurre le risorse che sono
attualmente destinate allo Stato sociale. Il punto più controverso è costituito dalla necessità di un
ulteriore aggiustamento del nostro sistema pensionistico, tanto più importante in presenza di una
continua crescita della spesa sanitaria. Il governo aveva presentato una proposta che appariva tanto
iniqua quando inefficaci, incentivando con una politica di annunci la rincorsa al pensionamento
anticipato e rinviando al futuro una riforma del tutto improvvisata e sicuramente iniqua.
Successivamente, è stato corretto il tiro. Innanzitutto, si è accantonata l'ipotesi di una
decontribuzione che avrebbe minato alla fonte il sistema previdenziale. Si è accettato che il
versamento della liquidazione ai fondi pensione avvenga attraverso un meccanismo di silenzioassenso. È rimasta, invece, la scelta di far scattare tutti insieme nel 2008 gli effetti di una nuova
riforma che appare assai meno draconiana. Noi siamo stati sempre convinti che il primo atto da
compiere, per riformare ulteriormente il sistema previdenziale, sia l'abolizione delle pensioni di
giovinezza, quelle al di sotto del compimento del sessantesimo anno di età. A questo principio, che
ci appare accettabile, devono essere poste deroghe che siano pienamente giustificate. Si può andare
in pensione quando sono stati acquisiti quarant'anni di contributi; quando vi sia una situazione di
cronica disoccupazione (qualche cosa di diverso dai cosiddetti prepensionamenti a carico dell’Inps
poiché bisogna accettare che il disoccupato non rifiuti in un consistente periodo di tempo i lavori
che gli vengano eventualmente offerti); infine, quando si svolgano lavori manuali disagiati che
vanno definiti con una migliore e più ampia definizione di quelli già considerati usuranti. L’età di
pensionamento e il numero di contributi non possono essere gli stessi per chi fa lavori
profondamente diversi. Vi sono infatti professioni che possono essere svolte ben oltre i 70 anni di
età; vi sono invece mestieri che è difficile, se non impossibile, esercitare ancor prima del
compimento dei sessanta anni.. Introdurre differenziazioni a secondo dei lavori che sono stati svolti
può essere la chiave di volta di una riforma equa e giusta, verso la quale anche il mondo sindacale
potrebbe assumere un atteggiamento di maggiore apertura. A questo ulteriore aggiustamento si può
aggiungere la generalizzazione del “contributivo” pro rata e l’innalzamento dell’età pensionabile
commisurata al tipo di lavoro che si svolge, cosa che già oggi in parte avviene. Questa riforma,
tuttavia, richiede un serio ed efficace confronto con i sindacati su tutto l’impianto dello stato sociale
per creare nuove e più efficaci tutele per la disoccupazione e l’emarginazione. Solo nell’ambito di
una riforma dello Stato sociale è possibile affrontare l’aggiustamento ulteriore del sistema
previdenziale con un raggiungimento di un accordo con i sindacati. Occorre attivare il secondo
pilastro costituito dalla previdenza integrativa realizzata attraverso i fondi pensione; creare nuovi
ammortizzatori sociali finalizzati innanzi tutto a coprire i ricorrenti periodi di disoccupazione e di
mancanza di stipendio che ci sono nei lavori intermittenti; integrare i contributi del tutto
insufficienti degli ex Co.co.co (i cosiddetti “collaboratori”); fornire nuovi servizi per gli anziani non
autosufficienti. Fuori da questo contesto, qualsiasi tipo di intervento è inaccettabile perché è rivolto
solo a ridurre la spesa sociale e – come si dice – a fare cassa. Lo scopo complessivo deve essere
quello di tenere insieme la crescita economica e la sicurezza sociale.
L’Italia sta affrontando un periodo irto di difficoltà.La nostra economia risente fortemente della fase
di ristagno che ha caratterizzato la congiuntura internazionale e da cui gli Stati Uniti stanno uscendo
con una nuova forte spinta allo sviluppo. Non c'è bisogno di addossare al governo la mancata
crescita per formulare un giudizio complessivamente negativo sulle politiche che sono finora state
adottate. Il ministro dell'economia Tremonti è andato avanti con una politica caratterizzata da
condoni a ripetizione, tra i quali quello fiscale sembra destinato a far perdere di credibilità
dell'amministrazione dello Stato e quello ambientale a intaccare gravemente la tutela del nostro
patrimonio ambientale, artistico e naturale. Manca al Governo qualsiasi visione complessiva che
non sia quella di tappare i buchi che si vengono via via creando nei conti pubblici. Nulla, o quasi
nulla, ha fatto il governo nel campo decisivo della scuola, dell'università, della ricerca e
dell'innovazione. Di fronte a questa situazione, poca cosa appare il grandioso disegno di realizzare
un istituto di alti studi tecnologici e scientifici a Genova sulla base di modelli americani. Nella
coalizione che ci governa prevale la compassione, ma è assente una reale politica verso i ceti e le
aree deboli del nostro Paese. Il governo, prigioniero di Umberto Bossi, ha completamente
dimenticato di incentivare lo sviluppo nelle aree depresse del centro sud, nelle quali i precedenti
governi di centrosinistra avevano iniziato una positiva opera di promozione. La questione
meridionale è stata cancellata dall’agenda programmatica del governo. Neppure nel campo della
sicurezza e dell'ordine pubblico sono stati conseguiti risultati significativi. La presenza del
“poliziotto di quartiere”, che è stata tanto propagandata, non si avverte in nessun luogo. È cambiato
solo l’atteggiamento dei telegiornali che non danno più molta evidenza alla cronaca nera. La lotta
alla micro e alla macro criminalità è proseguita, ma con una minore efficacia rispetto al passato,
nonostante il ministro degli interni Pisanu – cosa che noi riconosciamo – si sia impegnato su questo
fronte.
La crisi della giustizia
La crisi più grave sta avvenendo nel mondo della giustizia. I socialisti hanno sempre criticato
l'eccessiva politicizzazione che si è sviluppata in alcuni settori della magistratura. Oggi, con non
minore intensità, lo Sdi denuncia le continue interferenze che l'esecutivo porta avanti nei confronti
dell'autonomia e dell'indipendenza della giustizia. Proprio su questo delicato terreno più che su altri
si avverte che a Palazzo Chigi, come tra i deputati e i senatori, esiste un comitato – spesso formato
da eccellenti professionisti – che cura gli interessi economici, giudiziari e personali del presidente
del consiglio. Noi contestiamo, assieme a tutte le opposizioni, i comportamenti gravissimi messi in
atto dal Governo. Queste nostre critiche – ed è bene ricordarlo – provengono da una formazione, lo
Sdi, che in più occasioni ha dimostrato di – non cavalcare, ed anzi ha ostacolato apertamente, la
tentazione di sconfiggere Berlusconi attraverso una via giudiziaria, invece che con il voto come è
giusto e corretto che avvenga in una democrazia liberale. Lo Sdi è comunque allarmato di fronte a
iniziative che suonano come vere e proprie intimidazioni nei confronti della magistratura. Questo
atteggiamento del governo ha provocato un’esasperazione degli animi. Solo in questo contesto si
può comprendere come sia stato possibile che nell’associazione dei magistrati si sia arrivati a
considerare lo sciopero come una possibile arma di “resistenza” nei confronti del governo. Lo Sdi
ritiene per i magistrati, come altre categorie nevralgiche dello Stato, non sia corretto usare tutti i tipi
di agitazione sindacale al pari di altri lavoratori. Non è in discussione il diritto di sciopero, ma la sua
opportunità.
Per quanto riguarda la riforma della giustizia, lo Sdi ritiene che l'Italia si debba adeguare ad un
modello europeo, con la netta esclusione del caso francese dove la Pubblica accusa è ancora alle
dipendenze del ministro della giustizia: ciò significa separazione delle carriere, come avviene in
quasi tutte le democrazie liberali, comprese quelle rette dal common law. Tuttavia, nel caso della
giustizia come su altri temi fondamentali, lo Sdi si atterrà nel voto alle Camere alle decisioni che
saranno assunte in comune nella lista Prodi..
La guerra in Iraq
Quanto sia difficile trovare la via dell'unità nell'Ulivo, nel centrosinistra e nella sinistra è evidente a
tutti. Non si possono certo ignorare le divisioni che si sono create soprattutto sul caso Iraq. Tuttavia,
anche su questo terreno i fattori di unità sono maggiori di quelli di divisione. L’aspirazione alla
pace costituisce, infatti, un dato di fondo del movimento socialista, socialdemocratico e laburista
che è largamente in comune con il mondo cattolico e con le associazioni dei “non violenti”. Le
divisioni drammatiche e traumatiche, che nel corso della storia sono avvenute nel movimento
operaio sul tema fondamentale della pace e della guerra, hanno riguardato soprattutto il rapporto tra
nazionalità e internazionalismo. Tutti ricordano la drammatica crisi dell’Internazionale socialista
alla vigilia della I guerra mondiale. Oggi la questione si pone in termini molto diversi: le divisioni
avvengono sul rapporto che vuole stabilire tra pace e sicurezza, il che implica di conseguenza
ammettere o non ammettere che vi possano essere “guerre giuste”.
Vi sono settori nel mondo pacifista che rifiutano in linea di principio l’uso della forza, ovunque e
dovunque. Vi sono, però, settori del mondo pacifista che contestano la violenza solo se è usata dagli
Stati Uniti o dai suoi alleati,i ma non quando è rivolta contro il cosiddetto l’imperialismo
americano. Pesa, infatti, ancora troppo nella sinistra e nel pacifismo un forte sentimento
antiamericano e una persistente e generico terzomondismo.
Un grande movimento per la pace si è sviluppato contro l’intervento militare in Iraq, nel quale si
sono raccolti cittadini, associazioni e partiti con convincimenti assai diversi: ci sono stati quelli che
erano contrari, sia che l’intervento avesse e sia che non avesse l’avallo dell’Onu (cioè senza “se” e
senza “ma”); sia coloro che lo avrebbero accettato se fosse stato compiuto sotto l’egida dell’Onu.
Questo movimento, comunque, ha avuto una tale ampiezza che se ne è parlato come la “seconda
potenza mondiale”.
È, comunque, positivo che l’opinione pubblica mondiale sia ispirata a sentimenti di pace piuttosto
che a velleità di guerra. Per tutti i governanti è sicuramente meglio essere condizionati da
movimenti pacifisti piuttosto che da movimenti bellicisti.
Sull’Iraq tutto il centro sinistra e la sinistra si sono ritrovati in un “no” assai netto e forte
all’intervanto unilaterale degli Stati Uniti. Tutti si sono espressi contro il regime sanguinario di
Saddam Hussein. Tutti sono contro una sorta di protettorato politico, economico e militare degli
Stati Uniti in Iraq. Tutti sono per arrivare al più presto ad affidare il destino dell’Iraq allo stesso
popolo iracheno. Tutti sono per internazionalizzare la gestione della transizione sotto l’egida
dell’ONU. Queste posizioni comuni dimostrano chiaramente che sono maggiori i punti di unità
rispetto a quelli che ci trovano divisi. Non vi è neppure divisione sul giudizio da dare sul mandato
che hanno ricevuto di fatto dal Governo le nostre forze armate: siamo, infatti, passati da una
missione che aveva solo compiti di pace e di assistenza civile a una missione che assolve anche a
ruoli strettamente militari.
Ciò che è stato in discussione e ha creato dissensi e polemiche è la richiesta da fare o no di un ritiro
immediato delle forze armate italiane dall’Iraq. Su questo aspetto, come in generale, il centrosinistra si deve comportare come forza di governo. E’ evidente che, se è stato un gravissimo errore
l’intervento unilaterale degli Stati Uniti, oggi un ritiro di tutte le forze armate – come ha ricordato
Felipe Gonzalez al recente Consiglio dell’Internazionale socialista a Madrid – farebbe piombare
l’Iraq nel caos e potrebbe rimettere in discussione la stessa unità del Paese. La presenza delle forze
armate italiane deve essere, quindi, collegata ad una iniziativa da parte del Governo per arrivare ad
una gestione della transizione con l’avallo delle Nazioni Unite. Se da parte degli Stati Uniti non ci
sarà una volontà di aprire alle NU, allora si potrà chiedere il ritiro delle forze armate italiane senza
cadere in atteggiamenti privi della necessaria responsabilità. Oggi, comunque, l’astensione verso il
rifinanziamento di tutte le missioni militari all’estero ha soprattutto il significato di una solidarietà,
la più larga possibile, delle Camere verso le nostre forze armate.
La politica estera dell’Ulivo
Sulla politica estera, sull'Europa, sul Medio Oriente e in generale sui rapporti tra Nord e Sud del
mondo c’è una larghissima convergenza nell'Ulivo, nel centrosinistra e nella sinistra. Soprattutto
nella crisi mediorientale si è riusciti ad assumere posizioni comuni e condivise come la condanna di
tutti gli atti terroristici da parte degli estremisti palestinesi e di tutte le violenze commesse dalle
forze armate israeliane dirette dal governo Sharon. Come Sdi abbiamo sempre detto che in Israele e
in Palestina si confrontano due popoli che hanno entrambi ragione e che entrambi aspirano alla
sicurezza e alla pace. Abbiamo criticato il governo italiano che ci è sembrato incerto nel condannare
ogni tipo di violenza in quel territorio martoriato, deviando così da una linea tradizionale della
politica estera italiana.
I socialisti sono ovunque per la difesa della pace, dei diritti di libertà dei cittadini e di indipendenza
dei popoli. Questo nostro atteggiamento vale per la Cecenia, come per Cuba o per la Cina, per
Guantanamo come per l'Iran. Noi siamo contro ogni forma di dispotismo e di totalitarismo, contro
ogni sopraffazionee intolleranza, contro ogni mancanza di rispetto verso la persona. Siamo per una
società multietnica nella quale tutti, per appartenendo a nazionalità, a religioni e a concezioni di vita
diverse, possano convivere pacificamente. Per tradizione abbiamo sempre sostenuto le battaglie per
la libertà portate avanti da Amnesty International. Siamo socialisti riformisti, liberali e libertari.
Libertà e diritti civili
Siamo stati sempre – e continuiamo ad esserlo – per il rispetto scrupoloso delle differenze: quelle di
sesso, di religione, di visione filosofica, di etnia. Sposiamo interamente le lotte condotte dal
movimento femminile e femminista, di cui vogliamo sempre più farci portavoce e ci impegniamo in
Italia affinché sia affermato un nuovo ruolo delle donne nella politica, a cominciare da una più
ampia rappresentanza nelle assemblee elettive. In questo contesto lo Sdi sostiene pienamente la
“democrazia paritaria” nella quale si afferma il principio che nessuno dei generi, maschile o
femminile, possa avere una presenza dominante, ad esempio superiore ai 2/3 dei posti nelle liste
elettorali. Questa nostra posizione corrisponde a una più ampia concezione che riconosce il valore
delle differenze sessuali. Siamo, perciò, per il rispetto degli omosessuali e a favore del
riconoscimento delle “unioni di fatto”. Siamo contrari ad una campagna che voglia ridurre il danno
derivato dalle droghe, facendo intendere falsamente che quelle leggere siano equivalenti a quelle
pesanti. Abbiamo combattuto, con Loris Fortuna ed assieme a Marco Pannella, per introdurre il
divorzio e una legge civile sull'aborto in Italia. Con la stessa coerenza ci siamo impegnati affinché
fosse affidata alla scelta individuale delle donne se utilizzare o meno fecondazione assistita,
omologa o eterologa che sia. La nostra difesa della laicità parte dalla consapevolezza che nel nostro
stesso partito militano credenti e non credenti, e tra i credenti vi sono tra di noi cattolici con una
profonda fede religiosa che è rispettata da tutti. Difendiamo il valore della politica contro la
antipolitica, essendo convinti che in questo modo facciamo una scelta di sostegno pieno alla
democrazia liberale.
Lo Sdi con il suo simbolo al voto amministrativo
Lo Sdi è impegnato con tutte le energie per l'affermazione della lista Prodi. Questo obiettivo
corrisponde, come abbiamo detto e ripetiamo, ad una strategia nella quale ci identifichiamo. Non
consideriamo lo Sdi come una formazione transitoria che ormai, di fronte alla formazione di una
lista unitaria, prepara unicamente il suo autoscioglimento. Il processo, che parte dalla lista Prodi,
non implica infatti lo scioglimento di un singolo partito, ma l’eventualità della creazione di un unico
soggetto politico con la confluenza di tutti coloro che hanno aderito alla lista Prodi. Quindi, tutto il
partito deve essere consapevole che lo Sdi, svolge oggi un ruolo insostituibile di innovazione, come
si è visto pure nel processo che ha condotto alla realizzazione della lista Prodi. Lo Sdi va comunque
rafforzato nelle proprie strutture organizzative, nella propria presenza politica nel territorio e
nell'acquisizione di nuovi consensi elettorali. Non c'è nel panorama politico altra forza se non lo Sdi
che, collocandosi a sinistra come è sempre avvenuto nella nostra storia,possa vantare di poter
rappresentare con coerenza e continuità gli ideali di un grande movimento come stato e com’è
quello socialista. Tante formazioni politiche sono scomparse travolte dalla storia ma non il
socialismo europeo che è più che mai presente e influente.
Il nostro partito deve attrezzarsi ed essere pronto ad affrontare nuovi compiti e nuove iniziative.
Allo stato delle cose tutti i partiti che hanno dato vita alla lista Prodi continueranno a presentarsi
con le proprie insegne e i propri candidati, ad eccezione delle elezioni europee. Lo Sdi deve essere
consapevole di questa situazione evitando una avventurosa deriva che ci conduca a indebolire il
nostro ruolo politico ed elettorale, mentre gli altri partiti lavorano per il proprio rafforzamento. Alle
elezioni amministrative, quindi, presenteremo la lista e il simbolo dello Sdi. Non siamo, affatto
usciti dalla competizione elettorale ma siamo presenti con la volontà di rafforzarci come partito.
Non consideriamo, comunque, l'adesione alla lista Prodi come una abdicazione dal nostro impegno
di riaffermare i valori e principi del socialismo democratico. Riformismo e socialdemocrazia sono
facce della stessa medaglia. Noi ci impegniamo per dare forza ai riformisti. Questo scopo, come
diceva Pietro Nenni, si può ottenere risolvendo insieme la questione socialista, quella cattolica e
quella comunista con una nuova unità di tutti i riformisti. La nostra aspirazione è per un centro
sinistra che non sia più composto da ex e da post ma si ritrovi più forte in una nuova formazione
politica, equivalente per aspirazione e per consistenza alle grandi socialdemocrazie europee.
Il congresso di Fiuggi non segnerà una svolta. Solitamente i partiti si apprestano alle svolte dopo
aver constato il fallimento della linea decisa dal precedente congresso. Noi svolgeremo, invece, un
congresso che si propone di continuare e sviluppare la linea di Genova, poiché la nostra iniziativa
ha avuto successo. Tutti dovremmo impegnarci perché dal congresso di Fiuggi si dimostri ancora
una volta che lo Sdi è una realtà viva e vitale del Paese, al servizio dei principi di libertà e giustizia
sociale, di sicurezza e di pace, tutti i principi che hanno sempre portato avanti i socialisti italiani.