Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Dopo Il ragazzo con la bicicletta e This is England, ancora un film che propone un protagonista
bambino: questa volta, anzi, una bambina, e a dirigerla è una giovane regista francese, che distilla con
estrema delicatezza e sobrietà una piccola storia commovente, fatta di sguardi, incertezze e di una
forza di volontà che nonostante le difficoltà riesce a ritagliarsi uno spazio di crescita e di confronto con
il mondo.
scheda tecnica
durata:
84 MINUTI
nazionalità:
FRANCIA
anno:
2011
regia:
CÉLINE SCIAMMA
sceneggiatura:
CÉLINE SCIAMMA
fotografia:
CRYSTEL FOURNIER
montaggio:
JULIEN LACHERAY
suono:
BENJAMIN LAURENT, SÉBASTIEN SAVINE, DANIEL SOBRINO
scenografia:
THOMAS GRÉZAUD
distribuzione:
TEODORA
interpreti:
ZOÉ HÉRAN (Laure/Mickäel), MALONN LÉVANA (Jeanne), JEANNE DISSON
(Lisa), SOPHIE CATTANI (Madre di Laure), MATHIEU DEMY (Padre di Laure), RYAN BOUBEKRI
(Rayan), YOHAN VÉRO (Vince), NOAH VÉRO (Noah), CHEYENNE LAINÉ (Cheyenne).
premi:
Teddy Award - Premio della giuria - Céline Sciamma, Festival Internazionale del
Cinema di Berlino (2011)
Torino International Gay & Lesbian Film Festival, 2011, miglior film.
Céline Sciamma
Céline Sciamma nasce nel 1978 e cresce nella periferia di Parigi in una famiglia di origine italiana.
Dopo la laurea specialistica in letteratura francese segue i corsi di sceneggiatura alla prestigiosa scuola
di cinema La Femis. Su consiglio dell’attore e regista Xavier Beauvois, membro della sua commissione
d’esame, utilizza lo script di fine corso per esordire come regista con Naissance des pieuvres (2007). Il
film viene presentato nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes 2007 e riscuote subito un
grande interesse, facendo ottenere a Céline il Prix Delluc come migliore opera prima e una candidatura
ai César nella stessa categoria.
Dopo alcuni lavori come sceneggiatrice, anche per la televisione, gira il cortometraggio Pauline (2009),
realizzato grazie alla vittoria del concorso “Jeune et homo sous le regard des autres”, presieduto da
André Téchiné e istituito per combattere l’omofobia.
Tomboy è il suo secondo lungometraggio, vincitore del Teddy Award all’ultimo Festival di Berlino e dei
premi del pubblico e della giuria al 26° Torino GLBT Film Festival.
la parola ai protagonisti
note di regia
Tomboy è stato realizzato in tempi incredibilmente brevi. Ho scritto la sceneggiatura in 3 settimane e
pochi mesi dopo stavamo girando. Le riprese sono durate 20 giorni, con un budget iniziale di 500.000
euro e una troupe di 15 persone. Questi numeri riflettono bene lo spirito del film, radicale e dinamico.
Volevamo credere che fosse possibile lavorare in una prospettiva diversa da quella consueta, con i
tempi di scrittura e di ricerca di finanziamenti molto lunghi. Questo progetto è stato concepito in questo
modo, è la sua filosofia.
Il film è costruito intorno a un argomento molto semplice e forte, ossia la storia di un personaggio con
un’identità segreta. Si tratta di un tema classico, molto usato nel cinema americano (il poliziotto
infiltrato, la doppia vita), che permette una narrazione forte, ricca di suspense e empatia. Il personaggio
ha un obiettivo ben definito e gioca attivamente su due fronti. Partendo da questo efficiente
meccanismo di scrittura, ho avuto quindi anche il tempo e la libertà di comporre un ritratto vivido
dell’infanzia. Naturalmente, ero anche molto interessata al tema dell’identità sessuale e del genere:
l’infanzia è spesso dipinta come un’età dell’innocenza, ma io credo che sia una stagione della vita
piena di sensualità e emozioni ambigue. Ed è così che volevo raccontarla.
La nostra prima preoccupazione era il casting, poiché il ruolo di Laure rappresentava una sfida davvero
ardua. Inoltre, avevamo pochissimo tempo per i provini e solo 3 settimane a disposizione prima della
scadenza per ottenere il permesso di girare con dei bambini durante l’estate. Il casting director ha
accettato la sfida, pur sapendo che non avremmo avuto il tempo di andare a cercare volti nuovi nelle
scuole o nei giardini pubblici, ma avremmo dovuto considerare solo i piccoli attori già iscritti alle
agenzie. So che quello che sto per raccontare sembra il solito aneddoto romantico da tirar fuori in
queste occasioni, ma questa storia è vera. Abbiamo incontrato la protagonista, Zoé Héran, il primo
giorno di provini e ha avuto la parte. È arrivata con quell’aria da ragazzo, con il suo vero amore per il
calcio e dei capelli lunghissimi. Girando qualche scena è stato chiaro che aveva quello che serviva: una
forte emotività naturale e un viso molto fotogenico. Insomma, dal primo giorno avevamo la nostra
protagonista. Non avevamo ancora i soldi, è vero, ma dal momento che l’ho incontrata sapevo che per
lei avrei girato il film a qualunque costo.
Per quanto riguarda il personaggio di Jeanne, la sorellina di Laure, occorreva che ci fosse una chimica
tra le due, un legame di fiducia reale. Presto il nostro interesse si è focalizzato su Malonn Lévana. Mi
piace il suo viso e il modo in cui parla. Può sembrare molto matura ed era una bambina davvero
intelligente, quando l’ho incontrata siamo entrate subito in sintonia, mi ha emozionato. Il legame tra le
sorelle nel film è ispirato alle mia vita reale e nutrivo grandi aspettative a riguardo.
La scelta di Jeanne Disson, che interpreta Lisa, è stata l’unica fatta al di fuori delle agenzie. Non ero
convinta delle altre, erano troppo consapevoli della propria bellezza, mentre io volevo una ragazzina
impacciata, non una principessa. Per il resto dei bambini, invece, si è deciso di includere nel cast gli
amici reali di Zoé, senza fare una selezione. La sceneggiatura non era ancora completa, quindi i singoli
membri della comitiva non erano ancora stati delineati. Prendendoli tutti insieme speravano nella loro
amicizia reale e nel legame speciale che li univa. Sentivo che qualcosa di buono poteva scaturirne.
Benché il film non avesse un budget alto, volevo assicurarmi una buona qualità visiva. Insieme al
direttore della fotografia e allo scenografo abbiamo lavorato su scelte cromatiche forti e essenziali.
Occorreva girare due o tre scene ogni giorno, con poco tempo a disposizione per non far perdere la
concentrazione ai bambini. Normalmente la scelta adatta sarebbe la camera a spalla, ma ho deciso
altrimenti, lavorando molto sulla messinscena e con inquadrature stabili e precise.
C’è sempre molte pressione quando sei al secondo film. Si dice sia il più difficile. Ero abbastanza
preoccupata di passare a un budget più alto e a un cast più importante, come sempre succede. Come
se le cose dovessero farsi più impegnative. Mi piaceva invece l’idea di un secondo film più economico
del primo, più leggero, l’idea che fare film porti sempre più autonomia, libertà, alternative, permettendo
di sperimentare nuovi modi di dirigere e produrre.
Intervista a Céline Sciamma
Colpisce, nel film, la reazione brusca della madre di fronte al comportamento della figlia. Cosa l'ha
spinta a far reagire l'adulto in modo tanto sbrigativo e indelicato?
Volevo fare un film su una famiglia nella quale c’è amicizia, dialogo, tenerezza e le cose vanno bene.
La madre non è più rigida del padre, in realtà. La bambina è già un ragazzo mancato, le è permesso di
vestirsi da maschio, di tenere i capelli corti: la famiglia è accogliente verso questo suo comportamento.
Il padre, se mai, può apparire più permissivo: la fa guidare e le fa assaggiare la birra, che è una cosa
che ho messo anche un po' per divertirmi. La decisione violenta, nel mio pensiero, non è solo della
madre: dopo la rivelazione sulla sua vera identità sessuale, c’è la scena in cui le due sorelle dormono
insieme e in un primo montaggio si sentivano i genitori parlare del da farsi. Poi l'ho tolta, ho preferito
concentrarmi sulle due sorelle, ma si può ancora supporre che i genitori abbiano deciso insieme
durante la notte cosa fare l'indomani, anche se poi è solo la madre che se ne occupa. Non volevo fare
un film con gli adulti eroi e i bambini di contorno, ma nemmeno il contrario. Per me la madre reagisce
soprattutto alla bugia della figlia, non al fatto che la figlia sia un maschiaccio. All'inizio prende una
decisione goffa – l'imposizione del vestito - poi però viene anche il dialogo – "capiscimi, non ho altra
scelta"- perché è un genitore normale, umano, che può sbagliare. Non m'interessava redigere un
manuale del perfetto genitore, e mi muovevano anche delle scelte di cinema: volevo vedere la
protagonista con un vestito da femmina, perché sembra più mascherata di quanto non lo sembri prima
con i pantaloncini e la maglietta.
Come ha lavorato con i bambini?
Il film è stato fatto molto velocemente. Ma per me è stata una cosa molto positiva, non un
compromesso. Non fare prove mi ha permesso di catturare l’energia dell'infanzia, del presente, di fare
un film del presente, anche se è stato indubbiamente angosciante. Lavorare con i bambini è
contraddittorio: bisogna lavorare come con dei veri attori, riportarli al lavoro, alla concentrazione,
all'impegno e soprattutto al loro personaggio, continuamente. E allo stesso tempo dev'essere un
grande gioco. Io ho annullato dunque i soliti dettami del set: il silenzio imposto, i tanti stop. Non fermavo
mai la macchina da presa, entravo in scena, ballavo, parlavo, non fermavo mai. E poi è diverso
lavorare con una ragazzina di 10 anni, che può concentrarsi, e con una di 6, che invece guarda sempre
in macchina e non sembra naturale. Per questo già in sceneggiatura le ho messe sempre a fare
qualcosa – un puzzle, il pongo, un disegno - e ho girato come fosse un film d'azione.
Ti sei ispirata ad un romanzo o ad un racconto?
Non ci sono libri che raccontano quello che volevo raccontare io: una ragazzina che mette il suo piccolo
fallo di pongo nella scatolina dei dentini! Ma certamente ho pensato all'Argent de poche (Gli anni in
tasca di Francois Truffaut) e ai film di Spielberg, nei quali crescere è una grande avventura. E poi tanto
è frutto dei miei ricordi personali dell’infanzia.
La sua famiglia è italiana. Che rapporto ha con l’Italia?
Si, i miei nonni erano italiani e da loro ho ereditato il calore, la tenerezza e l'abitudine ad esprimere
apertamente le emozioni in famiglia. La cosa più intima e che mi appartiene di più del film, infatti, è la
relazione tra le due sorelle, più ancora dell’aspetto del maschiaccio, anche se ero un po' così. La mia
famiglia era tutta composta di italiani, italiani d'Egitto, ebrei, che con la guerra si sono sparpagliati:
qualcuno è venuto in Francia, altri in Italia, qualcuno in Australia e altri in America. I miei nonni sono
diventati francesi e cattolici, mia sorella vive a Roma, sposata con un romano, e poi ho parenti in
Toscana e a Milano. Per questo spero con tutto il cuore che il film andrà bene anche in Italia, o me ne
vergognerò molto.
Che tipo di eco sta avendo il film all'estero?
Tomboy è già stato venduto in 30 paesi. È francese per l’argomento (l’infanzia) e il modo tenero e
misurato di abbordarlo, ma c'è anche qualcosa di anglosassone, specie nell'estetica. È una sorta di film
ponte tra queste due culture cinematografiche.
Fare un film in tre mesi in Italia sarebbe impossibile. Come ha fatto a trovare i finanziamenti in un
tempo tanto breve?
Volevo farlo subito e dunque non avevamo il tempo per chiedere i soldi allo Stato e passare dai soliti
circuiti di finanziamento, dunque insieme alla produttrice del mio primo film, ci siamo impegnate per
trovare solo i soldi che servivano per girare, vale a dire 500 mila euro. La maggior parte sono venuti da
Canal plus, che li ha erogati sulla base del successo del mio film precedente, poi un distributore,
qualche banca. Dunque soldi privati, all'inizio. Poi, girato e montato, il film ha ottenuto altri soldi, ma è
costato comunque meno di un milione di euro in tutto. Farlo così è stato anche un gesto politico: volevo
dimostrare che è possibile. Le cose sono complicate quando il film costa tanto e non ci sono
abbastanza soldi, ma non era questo il caso. Un film che ci mette tanto ad essere realizzato diventa
una mummia e c'è qualcosa di quasi morboso in un film che non è più contemporaneo. Un secondo film
non deve essere fatto, secondo me, con più soldi ma con maggior libertà. Non ho sacrificato nulla ma
l'ho scritto mettendomi dei limiti: 50 sequenze in tutto, due ambienti soltanto. Con grande libertà e
grande ambizione: è stato questo il gesto politico. E il pubblico è ricettivo a questa pratica alternativa,
tanto che in Francia ha venduto già 300mila biglietti.
Recensioni
Silvia Nugara, Cultframe
Dopo essersi aggiudicato il premio della Giuria ai Teddy Awards della Berlinale 2011 (riconoscimenti per
film a tematica GLBTQ), il premio del pubblico e il premio Ottavio Mai al 26° Torino GLBT Film Festival,
Tomboy esce finalmente nelle nostre sale grazie alla casa di distribuzione Teodora Film di Vieri Razzini.
Il pubblico italiano potrà così apprezzare un lavoro che riesce a coniugare una delicatezza tematica e
stilistica priva di compiacimento con la capacità di tenere costantemente vivo l’interesse dello
spettatore.
Il titolo è la parola usata in inglese per chiamare “maschiaccio” quelle ragazze che vestono, agiscono e
si presentano in modi solitamente tipici della mascolinità tradizionale: abiti sportivi, passione per il
calcio, modi rudi. La protagonista di Tomboy è un “maschiaccio” di dieci anni chiamata Laure. Con la
fine dell’estate, la sua famiglia trasloca in un nuovo quartiere e lì Laure coglie l’occasione di un
malinteso per presentarsi ai coetanei con il nome di Mikaël. Seguiranno omissioni, mezze bugie,
sotterfugi anche molto spassosi, sorprese e delusioni che dimostreranno a Laure/Mikaël, alla sua
famiglia e ai nuovi amici il peso e i vincoli che derivano dal dirsi/essere/fingersi maschio o femmina.
Il film si serve perciò di un topos del cinema d’azione, quello della spia, dell’infiltrato che rischia
costantemente di essere scoperto e sanzionato, e lo riadatta ad un milieu di pre-adolescenti per trattare
in modo non convenzionale il periodo della crescita e gli interrogativi legati a quell’ambito complesso e
affascinante che è l’identità di genere. Il risultato è efficace e costellato di momenti di vera e propria
suspence.
Di formazione letteraria prima e cinematografica poi, la giovane regista Céline Sciamma giunge a
questa opera seconda dimostrando di saper padroneggiare sia gli strumenti della strutturazione
narrativa sia quelli del “dare a vedere” e quindi del mostrare tanto quanto del nascondere. La sua è
infatti una riflessione che chiama in causa proprio lo sguardo e il modo in cui la cultura lo condiziona.
Profondamente sensibile alle questioni legate al genere e alla sessualità, Sciamma ha esordito
felicemente nel 2007 con un film intitolato La naissance des pieuvres, proiettato al Festival Sottodiciotto
di Torino e incentrato su adolescenza e primi amori ma anche più direttamente sull’omosessualità.
Tomboy, invece, non tratta l’omosessualità, interroga in modo semplice ma più ampio il complicato
rapporto tra natura e cultura chiamando in causa l’arbitrarientà della distinzione nettamente dicotomica
tra maschile e femminile e soprattutto delle pratiche che ne assicurano la perpetuazione (tagli di capelli,
colori degli abiti e degli accessori, toillettes separate, giochi sessuati, etc.).
Nella scena iniziale, la regista mette astutamente alla prova le percezioni dello spettatore il quale di
fronte alla creatura protagonista, che insieme al padre sta al volante di un’automobile, sembra portato a
pensare si tratti di un maschio, salvo poi ricredersi una volta scopertone il nome di battesimo. In
seguito, per tutto il film, lo spettatore vede Laure laddove gli ignari amici vedono Mikaël: un’amichetta
trucca Mikaël, per cui ha una cotta, rimanendo incantata e sorpresa dal risultato. Tornando a casa la
madre di Laure trova che il trucco le doni molto: il soggetto è lo stesso ma l’effetto è diverso.
Capiamo così che quando alla nascita veniamo dichiarati “maschio” o “femmina”, questi nomi hanno un
effetto radicale sul nostro modo di agire nel mondo, sulle aspettative che la società nutre nei nostri
confronti, sullo sguardo che gli altri portano su di noi e su quello che noi portiamo sugli altri. Se nel
1997 l’eccentrico La mia vita in rosa trattava il rapporto infanzia-identità di genere scegliendo i toni
sgargianti del paradosso e della favola, Tomboy opta per una messa in scena spoglia e dialoghi
essenziali aderenti al realismo con cui Sciamma ha scelto di trattare il tema e di risolvere la vicenda
della piccola Laure.
Federico Ponitggia. Cinematografo.it
Maschiaccio, anzi, no. 10 anni, un trasloco e un nuovo quartiere parigino da vivere con i genitori e la
sorella più piccola Jeanne: si chiama Laure (Zoé Héran), ma per i nuovi amichetti si chiama Mickaël. Si
veste e si pettina come un maschiaccio (tomboy, in inglese), gioca calcio da Dio, mena le mani: se per
fare il bagno c’è del pongo da infilare nel costumino, per coprire la sua vera identità può contare su
Jeanne. Ci scappa anche un bacetto con l’amica Lisa, ma l’inizio della scuola è dietro l’angolo: che
fare, come continuare la “finzione”?
Domande buone per un piccolo grande film: 260mila spettatori in patria, Teddy Award a Berlino e due
premi al 26° festival GLBT di Torino, è Tomboy della francese Céline Sciamma, classe 1980. Che
manda a memoria l’Io è un altro di Rimbaud, affidandone onore e oneri a Laure e al suo Mickaël
chiamato desiderio: esplorazione della sessualità, ricerca dell’identità, libero arbitrio, chi più ne ha più
ne metta, ma la misura non è mai colma, l’occhio dello spettatore è il benvenuto, l’enfasi – a parte
qualche sbavatura di pongo e qualche manicheismo parentale - relegata nel fuoricampo e la
costruzione a tesi - seppur non del tutto - scongiurata.
E che dire dei piccoli interpreti? Formidabili, su tutti la Malonn Lévana di Jeanne, e diretti con una levità
magistrale dalla Sciamma, che garantisce briglia sciolta e fissa su pellicola espressioni e smorfie,
segreti, bugie e serietà, perché si può essere seri – troppo? – a dieci anni. Insomma, siamo anni luce
distanti dai bambini saputelli e troppo - drammaturgicamente - pasciuti del cinema italiano: i cugini ci
danno l’ennesima lezione infantile, ma non drammatizziamo, è solo una questione di poetica, al di là
del gender e dell’età.
Tomboy sfiora il cuore, ibridando sensibilità e leggerezza, introspezione e geometrie relazionali, fino al
primo privilegio dell’uomo: dare un nome alle cose, anzi, dare un nome a se stesso. “Mi chiamo Laure”,
e sono un altro.
Paolo Mereghetti. Corriere della Sera
A volte il cinema sa compiere il miracolo di cogliere la realtà, se non nella sua complessità per lo meno
nelle sue sfumature e diversità. Altre volte, più raramente, riesce addirittura a darci l’impressione di
entrare nell’anima dei suoi personaggi, di cogliere i segreti e le ambiguità dei sentimenti. E senza
neppur aver bisogno dei dialoghi per «spiegare» quello che può sembrarci nello stesso momento
impalpabile e complicatissimo, intuitivo e insieme di difficile decifrazione.
È il piccolo miracolo che succede in Tomboy, opera seconda della regista francese Céline Sciamma (il
film d’esordio, Naissance des pieuvres, è inedito da noi), che racconta la strana estate dell’adolescente
Laure nel quartiere in cui si è appena trasferita con la famiglia: madre incinta, padre affettuoso, sorella
minore Jeanne un po’ troppo invadente.
Come tutti gli adolescenti, Laure non sta molto bene nella sua pelle. Forse non si sente abbastanza
bella per essere una bambina, forse vorrebbe solo godere delle «libertà» - di gioco, di movimento, di
intraprendenza - dei maschi (è per questo che ha voluto che la sua stanza nella nuova casa fosse
dipinta di azzurro?), forse è solo un’involontaria conseguenza di un taglio di capelli e di vestiti più
maschili che femminili. Forse tutte queste cose insieme e altro ancora, fatto sta che quando si presenta
- piuttosto timidamente - ai ragazzi che giocano nei giardini sotto casa, alla domanda «Come ti
chiami?» risponde decisa: «Michael».
Una bugia detta d’istinto, senza pensarci molto, probabilmente per farsi accogliere meglio in un gruppo
quasi tutto maschile, che però giorno dopo giorno costringe chi l’ha detta a piccoli, continui
«aggiustamenti » della propria identità sessuale. Perché per giocare a calcio deve mettersi a torso
nudo oppure correre ai ripari quando un bagno collettivo rischia di rivelare le curve del suo pube o
ancora sfoderare una grinta tutta «maschile» ed esibirsi nell’immancabile prova di lotta. Senza parlare
delle attenzioni che Lisa gli dimostra, prima con piccoli piaceri e poi addirittura con un furtivo ma
inequivocabile bacio. Tanti, piccoli «spostamenti» (c’è anche una scena in cui Lisa trucca Michael,
ammirata dalla sua ambigua bellezza) intorno a un tema impalpabile ma concretissimo. Non a caso il
titolo è una parola inglese che vuol dire «ragazzo mancato»...
Non è certo la prima volta che il cinema affronta questo tema. Tanto per non tornare troppo indietro nel
tempo potremmo citare almeno Boys Don’t Cry di Kimberly Peirce (che fruttò un Oscar alla protagonista
Hilary Swank) e XXY di Lucia Puenzo. Ma il fascino e la bellezza di questo film nascono proprio dalla
decisione della regista (autrice anche della sceneggiatura) di tenersi lontanissima sia dalla lettura
sociologica del film americano che da quella psicologica del film argentino. Céline Sciamma non cerca
mai facili spiegazioni o giustificazioni. L’indeterminatezza geografica dell’ambientazione - una periferia
anonima e tranquilla come tante - e le poche scene dedicate alla famiglia (affettuosa e non certo
latitante) non permettono di dedurre nessun tipo di «condizionamento» sociale o di immaginare chissà
che retrogusto melodrammatico. E nemmeno un dialogo realistico ma ridotto ai minimi termini offre
appigli narrativi particolari. No, la forza e i meriti - tanti - del film nascono tutti dalla capacità della
regista (e della sua capo operatrice Chrystel Fournier) di cogliere il mistero e l’ambiguità di un’identità in
formazione senza il bisogno di discorsi o particolari colpi di scena, ma osservando (con pudore e
delicatezza) i piccoli sussulti adolescenziali.
Certo, alla fine un «colpo di scena» c’è anche qui, ma è quasi «soffocato» da una messa in scena che
rifugge da ogni eccesso e preferisce i silenzi ai dialoghi. È il trionfo di un’economia di mezzi come unica
possibile scelta di regia per restituire sullo schermo il pudore di uno sguardo adulto (quello della regista
- e dello spettatore - che «spiano» cose che i ragazzi di solito non rivelano) e insieme le titubanze di un
comportamento così misterioso e ambiguo. Una «delicatezza di tocco», poi, che le prove dei piccoli
attori (a partire dalla Laure-Michael di Zoé Héran) fanno risaltare con una inusitata intensità, capace di
cogliere - per bravura, per direzione registica, forse anche per immedesimazione - il mistero della
formazione della propria identità sessuale.
Fabio Ferzetti. Il Messaggero
Sarà un caso, sarà solo un’impressione, ma il cinema di oggi registra una crescita esponenziale di
talenti femminili. È una sensazione, non un dato statistico. Però film come il notevole Tomboy (cioè
Maschiaccio), della 33enne francese Céline Sciamma, 250.000 spettatori in Francia, fanno pensare che
dopo un secolo di strapotere maschile la settima arte abbia individuato un vasto terreno inesplorato.
E che registe molto diverse come Sylvie Verheyde (Stella), Lucrecia Martel (La cienaga), Alice
Rohrwacher (Corpo celeste) o Susanne Bier (In un mondo migliore), per fare solo pochi esempi, siano
le più indicate a dissodarlo. Perché capaci di legare con grande evidenza fisica un corpo ai suoi
sentimenti, alla sua storia segreta, al dialogo silenzioso ma fondante fra interiorità e apparenza.
Al centro di Tomboy c’è una ragazzina di dieci anni che potrebbe tranquillamente sembrare un maschio
e ne approfitta, un po’ per gioco un po’ per ragioni più complesse che scopriremo poco a poco con lei.
La sua famiglia, una famiglia calorosa e felice, ha appena cambiato quartiere. E quando una coetanea
le chiede “Sei nuovo qui, come ti chiami?”, Laure senza pensarci un attimo risponde: Michaël.
Tutto il resto discende da questa scelta, minima e gigantesca insieme.
Perché è ancora estate, le scuole sono chiuse e Michaël/Laure, capelli corti e abiti maschili, affronta
con la sua nuova identità il gruppo di coetanei del quartiere; passando attraverso un crescendo di
giochi e di prove calcio, rubabandiera, un primo castissimo bacio che innescano un’infallibile suspense.
Ma intanto, mentre in platea tratteniamo il fiato, la macchina da presa di Céline Sciamma accarezza
con pari discrezione e intensità il corpo androgino e i pensieri segreti di Laure/Michaël. Concentrando in
dettagli quasi impercettibili tempeste di emozioni e conflitti invisibili ma violentissimi.
Con una disinvoltura, una leggerezza, un’esattezza sentimentale che attraverso il prisma dell’infanzia
disegnano con precisione rara il campo di battaglia dell’identità, anche adulta. Segno di un talento fuori
dal comune, a cui forse non è estranea la storia personale della regista, nipote di «italiani d’Egitto»,
parole sue, cioè ebrei d’Alessandria, costretti a riparare a Parigi «dove diventarono francesi e cattolici».
Una minoranza nella minoranza, insomma. E in fatto di sensibilità minoritaria, le donne spesso hanno
una marcia in più.
Giona A. Nazzaro. Micromega
A volte sono i cosiddetti piccoli film che segnano il passo di una cinematografia. Film retti da un rigore
espressivo e una qualità priva di qualsiasi accenno a compromessi tale da porsi immediatamente come
modello praticabile di un’alternativa politica ed espressiva concreta.
Tomboy, di Céline Sciamma, è uno di questi film. Un film che s’innesta nella tradizione della postnouvelle vague senza dimenticare, anzi accentuandolo, un forte piacere del racconto (e a tratti, non
sembri un’eresia, si pensa persino alle atmosfere del miglior cinema di Claude Miller come La piccola
ladra). Nel mettere in scena la storia di una bambina che vorrebbe invece essere un maschio, la regista
riesce a muoversi con grande attenzione in un territorio fatto di fantasmi dove la linea che separa
gender e identità oscilla morbidamente tra le pieghe della carne.
Ciò che Tomboy riesce a raccontare con una partecipazione magistrale, è il danzare del principio
d’individuazione. Io non sono io. Io, ovviamente, è un altro; un altro che mi presta le sue vestigia come
in un movimento di possessione permettendomi di mettermi in scena come altro da me ma soprattutto
come altro da… voi. È questo gioco del differire la propria persona e immagine il nocciolo politico del
film di Céline Sciamma. L’immagine è pensata e vissuta come potenzialmente limitativa, chiusa.
Pertanto è attraverso il gioco dell’identità, che si muove e danza inquieta e sensuale, che l’immagine
può essere riscattata ed essere nuovamente aperta. Non punto d’arrivo, ma punto di transito perenne
verso altre immagini anch’esse di passaggio. Le immagini servono per passare, per pensare tutte
quelle che non sono state ancora viste. Che non sono state ancora pensate.
Tomboy è un film sulla sensualità dell’effimero e della potenza del passaggio. Sarebbe tristemente
limitativo della potenza del film ridurne la complessità alle problematiche della psicologia infantile.
Ciò che è in gioco in Tomboy, sono le strategie del passaggio e di come mi racconto – agli altri e me
stesso – mentre passo. Ciò che sorprende del film è l’acuta maturità attraverso la quale la regista
riesce a coniugare il racconto che la protagonista fa del proprio corpo mentre si offre allo sguardo come
immagine altra che, mentre la guardi, senza che tu te ne renda conto, sta già passando oltre.
L’immagine, dunque, come principio attivo di un erotismo della conoscenza e del rischio.
Ed è questo erotismo del passare, questa vertigine assoluta di un presente vissuto attraverso l’assoluto
di un corpo transitorio, nel quale ogni singolo istante è eterno nel suo bruciarsi in avanti rifiutando di
lasciare tracce dietro di sé.
Racconto di fantasmi che s’inventano un proscenio sul quale agire il proprio corpo, vissuto come aurora
di un divenire intuito come snodo politico in quanto luogo narrazione privilegiato delle proprie mutazioni,
Tomboy è anche il racconto, attendibile, di uno spazio sociale condiviso vissuto come verifica costante
dei propri equilibri attraverso la partecipazione (la fisicità estrema attraverso la quale la regista filma le
partite di calcio è il segno di una verifica che si pratica attraverso l’esserci del corpo non solo come
possibilità di primeggiare ma anche come un offrirsi allo sguardo dell’altro per ottenerne – o verificare –
il proprio attestato di esistenza).
Unendo in una linea ideale il cinema insurrezionale di Jean Vigo, il cupo romanticismo di Truffaut e
l’intensità di certo Doillon (Ponette), Celine Sciamma riesce a dare vita a un film personale e inquieto
che riesce a guardare ad altezza d’occhi bambini trattandoli come tali, come esseri umani a tutti gli
effetti, evitando con estrema facilità il paternalismo di chi osserva sempre l’altro attraverso la lente della
propria immagine (ritenuta erroneamente unica).
Roberto Nepoti. La Repubblica
Dimostrazione esemplare che "piccolo film" non vuol dire sempre "film piccolo". Céline Sciamma ha
realizzato Tomboy (come dire "ragazzo mancato") con un minimo di mezzi: una telecamera Canon 5D,
troupe ridotta all¿osso, venti giorni di lavorazione, cinquanta scene in due-tre ambienti. Eppure il suo
piccolo film, una parabola intelligente e affettuosa sui labili confini dell'identità sessuale, riesce ad
appassionarti come si trattasse di un "suspenser". Trasferita con la famiglia – mamma in attesa, una
sorella più piccola, papà – Laura, col fisico ancora asessuato dei suoi dieci anni, decide di farsi passare
per maschio presso i coetanei del vicinato. La sua impostura genera effetti imprevisti: mentre la
sorellina la identifica col fratello maggiore che ha sempre sognato, la nuova amica Lisa si prende una
cotta per il sedicente Michael. L'inizio della scuola, però, è imminente; e farà cadere la maschera di
Michael rivelando il viso di Laura. Intessuta di eventi quotidiani, una storia pudica quanto coinvolgente,
diretta da un a regista poco più che trentenne ma che la sa già lunga sugli sguardi.
Mariarosa Mancuso. Il Foglio
Sono sorelle, cresciute nella stessa famiglia (che ora attende il terzo erede). La grande ha
atteggiamenti da maschiaccio, la piccola gira per casa in tutù rosa, con le idee chiarissime su cosa vuol
dire comportarsi da femmina. A sei anni Jeanne conosce e sfrutta le armi della seduzione, fa gli occhi
dolci per ottenere coccole, ha voglia di boccoli, trucchi, collane, scarpe con il tacco prese dall'armadio
della mamma. A dieci anni Laure si veste come capita, ama giocare a calcio, ha atteggiamenti protettivi
quando invita la ragazza della porta accanto a fare una passeggiata. Con i genitori si è appena
trasferita in un nuovo quartiere dove nessuno la conosce, e in un momento di grandiosa onnipotenza
dice agli amichetti di chiamarsi Mikael. Il gioco dà i brividi, a Laure e allo spettatore, perché il film è
originale e intelligente: sfuma il dramma e lo colora di ironia. La sorellina frou frou farebbe spettacolo da
sola. In un film che racconta un momento di incertezza sessuale (come il belga "Ma vie en rose" di
Alain Berliner, uscito nel 1997) è un capolavoro di invenzione e di sceneggiatura. Vale lo stesso giudizio
per la complicità tra le sorelle, anche contro i genitori che nulla sospettano. Bello era anche il primo film
della regista,"Naissance des Pieuvres", mai uscito in Italia e gran successo in Francia. Classe 1980,
Celine Sciamma era appena uscita dalla Femis, scuola che non somiglia per niente al Centro
Sperimentale di Cinematografia. Xavier Beauvois, regista di "Uomini di Dio", la convinse a ricavare un
film dal suo lavoro di diploma. Mentre cercavano un regista adatto (i francesi credono nella divisione del
lavoro), il produttore la convinse che aveva il talento necessario per dirigere la storia, ambientata in
piscina tra le ragazzine del nuoto sincronizzato. Ha girato "Tomboy" con pochi soldi e a gran velocità.
Ma nel film nulla è irrisolto, tirato via, spiegato, lasciato in sospeso: la bravura sta nei dettagli. Basta la
scena del primo giorno al fiume. Laure si guarda allo specchio con i calzoncini da bagno e li trova
desolatamente piatti. Serve un piccolo aiuto, modellato nella plastilina e nascosto nella scatolina dei
denti (c'è più psicoanalisi vissuta in questa inquadratura che nell'intero film di David Croneberg, "A
Dangerous Method"). Attori ragazzini bravissimi, senza ombra di leziosità. Durata perfetta per
mantenere alta la tensione.
Laura Putti. Repubblica
Arriva nei cinema italiani un piccolo fiIm divenuto un caso nella passata stagione cinematografi
-cafrancese.Siintitolarom6oy(inglese per maschiaccio), uscirà il 7 ottobre distribuito da Teodora Film, ed
è l'opera seconda di Celine Sciamma, classe '78. Scritto in tre settimane, girato in venti giorni con un
budget di 500 mila euro (quasi raddoppiati in postproduzione) Tomboy ha attirato in Franciaunpubblicodi280milaspetta-tori, senza attori famosi, senza risate e con azione meno che zero.
Racconta una storia interiore, tanto comune quanto personalissima: la fine dell'infanzia e l'inizio dell'età
adulta. Protagonista è Laure (Zoe Héran), 10 anni, che ha appena cambiato casa con la sua famiglia.
Un po' per caso, un po' per gioco, un po' forse per un bisogno inconscio, Laure si presenta ai nuovi
amici come Mickael. Del "tomboy" ha il piccolo corpo delicatamente androgino, una certa durezza nel
bellissimo sguardo trasparente e molta grinta. Come "garcon" viene accettata da un gruppo di ragazzini
e fa innamorare la coetanea Lisa (Jeanne Dissoni). Ma un giorno, dopo una rissa, la mamma del
bambino picchiato bussa alla porta di Laure cercando Mickael. L'inganno è scoperto, il segreto svelato:
Laure viene vestita di uno smilzo abitino azzurro e trascinata dalla mamma in casa del bambino che le
ha buscate. Sarà proprio Lisa, innamorata ferita, che davanti agli amici (nella scena più difficile del film,
risolta con estrema delicatezza) tirerà giù i pantaloni a chi le ha causato la prima delusione d'amore.
Celine Sciamma, origini italiane, è una ragazza bionda con un viso pulito. Parla con calma, ma fuma
moltissimo. Con Tomboy, acquistato in trenta paesi Stati Uniti compresi, ha vinto molti premi. Dice di
avere fatto un film «sulla fine di una bugia che è anche la fine dell'infanzia». Quando ha visto Zoe
Héran, attrice bambina, ha capito di aver trovato il suo "tomboy". Le ha fatto tagliare i lunghi capelli
biondi ed è spuntato il maschiaccio. A Lisa ha spiegato, invece, che avrebbe dovuto essere una
bambina innamorata; ai ragazzini della banda, tutti veri amichetti di Zoe («Non volevo un gruppo da
cartellone pubblicitario: un africano, un cinese, un algerino...»), ha chiesto di non fingere. «I bambini
non devono "lavorare", e soprattutto non devono confondere la vita con il cinema» dice la Sciamma.
Alla fine del film Lisa aspetta Laure, già non più Mickael, sotto un albero: "Come ti chiami?" le chiede
un po' accigliata. "Mi chiamo Laure" dice lei. «E' una fine aperta, ognuno la vede come vuole e in molti
si riconoscono. Ma di una cosa sono certa: il film non racconta la storia di un bambino omosessuale».