Il dibattito sul multiculturalismo

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Il dibattito sul multiculturalismo
Il dibattito sul multiculturalismo
Che cosa è il multiculturalismo? E come lo scenario delle città interculturali interpella la scuola.
Proviamo a rispondere a partire da due importanti volumi che affrontano in modo
estremamente approfondito la questione. Si tratta di un volume curato da Stefano Zamagni e
Carmelo Vigna per la casa Editrice Vita e Pensiero (Multiculturalismo e identità) e del volume
numero 312 della rivista filosofica Aut Aut tutto dedicato a "Gli equivoci del multiculturalismo".
Il volume di Aut Aut, diretta da Pier Aldo Rovatti, è curato dai filosofi Giovanni Leghissa e
Davide Zoletto.
Multiculturalismo e identità
Il volume di Vita e Pensiero raccoglie saggi di diversi autori che mettono in evidenza come le
sfide che la nostra società ha oggi di fronte siano sfide sconosciute ai nostri progenitori.
Intanto va chiarito che quando diciamo "nostra società" non intendiamo solo la società europea
o italiana o locale, quanto piuttosto la società globale che, come abbiamo più volte sostenuto,
è per definizione multiculturale, ovvero vede "compresenti" una pluralità di culture, di ricerche
identitarie, di soggetti che a loro volta interagiscono, anche in modo conflittuale, con la propria
oltre che con le altre culture
Nella storia dell’occidente le culture altre, le differenze, sono state gestite sino ad oggi in base
a due modelli che, per semplificazione, possiamo così definire:
a. soluzione per sottrazione: le molteplici differenze vengono tolte o rimosse al fine di
ricercare una radice comune, ciò che unisce tutti gli uomini e tutte le culture.
Attualmente questa soluzione tende ad identificare nei diritti dell’uomo (o meglio nella
retorica dei diritti universali dell’uomo) ciò che unisce tutti gli uomini. Si tratta di una
soluzione alla francese, universalista, che negli ultimi decenni ha mostrato più volte il
limite dell’etnocentrismo. Ne abbiamo parlato spesso anche su questa rubrica: i diritti
universali dell’uomo sono stati (e continuano ad essere) al centro del dibattito
sull’etnocentrismo, ovvero sulla "presunzione" tutta occidentale di aver elaborato una
radice comune che ingloba anche quanti non appartengono alla propria tradizione
culturale, al proprio orizzonte.
b. soluzione per addizione: le differenze sono riconosciute e spesso sommate fra loro
(accostate e non messe in relazione) entro una cornice di regole procedurali di
convivenza. Evidentemente qui il problema è propriamente la definizione della cornice,
ovvero delle modalità di definizione delle "regole di convivenza". Anche questa
posizione, che nel momento in cui esaspera il relativismo rischia di rendere impossibile
la stessa convivenza (oltre che porre complessi problemi etici), risulta oggi più che mai
etnocentrica. Infatti la cornice entro cui addizionare le differenze non è quasi mai
l’agorà politica quanto piuttosto il mercato economico. Oggi le differenze sono
"riconosciute" dalla logica del profitto in quanto esse concorrono al perseguimento degli
obiettivi del mercato neoliberista. In questo caso la somma delle differenze coincide con
la loro sostanziale negazione: non vi è relazione creativa, non vi è costruzione ma solo
utilizzo funzionale.
Entro questo quadro il volume curato da Vigna e Zamagni propone un superamento sia della
logica dell’integrazione che della assimilazione per indicare nella strada del sostegno all’alterità
e nel reciproco riconoscimento l’unico percorso possibile per costruire una società dove le
differenze siano creatrici di nuova socialità.
Più volte abbiamo già ragionato attorno a posizioni simili. Ricordo ad esempio il saggio di
Habermas (L’inclusione dell’altro) che contiene una specifica dichiarazione a riguardo del fatto
che "inclusione non significa accapparamento assimilatorio né chiusura contro il diverso.
Inclusione dell’altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti: anche - e
soprattutto – a coloro che sono reciprocamente estranei e che estranei vogliono rimanere".
Gli equivoci del multiculturalismo
Passiamo al numero di Aut Aut.
Annotazione personale: anni fa (molti a dire il vero) lavorando alla mia tesi di laurea sulla
filosofia della nonviolenza, avevo deciso di inserire come esergo del lavoro una famosissima
citazione di Hegel: "Die Eule del Minerva begiinnt erst mit der ein brechenden Dammerung
ihren Flug".
Leggendo il numero di Aut Aut dedicato agli equivoci del multiculturalismo mi è tornata in
mente proprio quella Civetta (o nottula) di Minerva che si alza in volo al crepuscolo (il
crepuscolo degli dei di nietzchiana memoria?). Come a dire: al tramonto arriva la filosofia,
dopo anni e anni di studi sociologici, antropologici, psicologici scende in campo la filosofia. E la
fa, nel caso di Aut Aut, mettendo direttamente i piedi nel piatto.
Il multiculturalismo come retorica
Zoletto e Leghissa, i curatori del lavoro, chiariscono nell’introduzione che lo studio è
interamente dedicato alle retoriche del multiculturalismo: "nel dire retorica intendiamo
sottolineare non solo il carattere discorsivo, d’uso, che quasi inconsapevolmente finiamo per
fare nostro negli scambi e nelle interazioni culturali (quotidiane ma anche di ricerca, cioè
prevalentemente disciplinari) centrate sulla questione della/e differenza/e, ma anche il fatto
che non si tratta di una semplice mascheratura che nasconderebbe una realtà fatta di rapporti
di forza e di lotte per il controllo e la produzione dei simboli e delle narrazione che danno senso
al nostro vivere quotidiano. Se è vero infatti, ed è il punto di partenza di questo fascicolo, che
dell’alterità o dell’altro non si può mai davvero fare una teoria, perché sarebbe il modo più
sicuro di incorporarlo e metterlo a tacere, allora non possiamo che parlarne, cioè produrre un
discorso grazie a cui poterlo dire – ed è per questo che noi parliamo di retorica. Il problema
allora sarà: che tipo di retorica è quella del multiculturalismo? Come funziona? Come è fatta? A
chi serve? Quale accesso ha l’altro ai luoghi discorsivi e istituzionali in cui essa viene
costruita?"
Da Said a Spivak: si può incontrare l’altro?
La posizione è chiarissima. Ed i diversi ed interessanti saggi di Aut Aut ne sondano le diverse
implicanze sia a livello teorico (con i saggi di degli antropologi Hannerz e Clifford e gli studi di
Said e Spivak) che a livello di concreta e quotidiana interazione (tra questi studi di caso spicca
l’analisi di Aihwa Ong sulla "Cittadinanza flessibile dei cinesi in diaspora" mentre, ad esempio,
lo studio di Roberta Altin su "Reti e riti" è di grande interesse quando si rivolge all’analisi
antropologica della comunità ghanese in Friuli ma di una scontata e pregiudiziale banalità
quando, senza alcun riferimento empirico, pontifica su nuove tecnologie, internet e
multiculturalismo).
Non è qui possibile riassumere la ricchezza del fascicolo quanto piuttosto solo indicarne i punti
chiavi rispetto al discorso sugli equivoci multiculturali. Prima di ciò credo tuttavia necessario
sottolineare la ricchezza e completezza del saggio di Giovanni Leghissa che presenta e discute
sia la posizione di Edward Said [noto in Italia per i volumi "Orientalismo" (Bollati Boringhieri
1991) e "Culture e imperialismo" (Gamberetti, 1998)] e di una studiosa indiana che lavora
negli Stati Uniti e che è poco nota in Italia: Gayatri C. Spivak.
Una frase della Spivak costituisce del resto il perno attorno cui gira non solo un suo recente
volume ( A Critique of Postcolonial Reason. Toward a History of the Vanishing Present, Harvard
Univ. Press)quanto anche buona parte del numero di Aut Aut: "la conoscenza dell’altro
soggetto è teoricamente impossibile".
Commenta Leghissa: occorre "liberarsi dall’equivoco secondo cui sarebbe possibile ‘restituire la
voce all’altro’: in realtà, all’altro non si ha nessun acceso, l’alterità dell’altro/a sussiste sempre
solo come ciò che viene forcluso, come ciò che opera fantasmaticamente entro le
rappresentazioni del medesimo e dell’altro, del maschile e del femminile, dell’Europeo e del
non europeo, del biano e del nero. Presa nel gioco della differenza, l’alterità si pone e si dà a
vedere solo entro (e in virtù) di quelle rappresentazioni dell’altro che servono a legittimare le
pratiche concrete di incontro con l’altro/a, siano esse volte a perpetuarne la condizione di
subalternità, siano esse, invece, animate dalla volontà di sopprimere proprio tale condizione".
Alcuni esempi di equivoco multiculturale
Il saggio di Davide Zoletto, grande conoscitore di Bateson e Derrida, permette di comprendere
meglio, grazie a esempi concreti, alcuni degli equivoci multiculturali più diffusi.
Si tratta di "modi di pensare-agire-dire" piuttosto tipici. Ne elenco alcuni:
a. le culture sono pensate come qualcosa di definito che si concretizza in
individui che ne diventano così rappresentanti o portatori. Nulla di più falso:
l’individuo non è sovradeterminato sino a questo punto dalla cultura. Provare per
credere: immaginate di trovarvi in Giappone e di dover rispondere a chi, giapponese,
applicasse nei vostri confronti proprio questa modalità di pensiero considerandovi
ambasciatore e portatore della cultura italiana. Un brivido vi percorrerà la schiena:
quale cultura italiana? Pizza, spaghetti, gondola e mandolino oppure strudel e parlata
ladina?
b. Le culture sono sostanze o essenze già predeterminate e identificate. Idem per
"identità". Scrive Zoletto: siamo di fronte ad un errore epistemologico di fondo.
"L’utilizzo di categorie astratte come quelle di cultura o identità che, attraverso una
generalizzazione e una sostanzializzazione di supposte caratteristiche etniche, sorvolano
quelle che sarebbe meglio invece descrivere come singolarità e pluralità di
appartenenze e modi di essere".
c. L’equivoco dell’omogeneità linguistica: spessissimo noi vediamo nella omogeneità
linguistica il principale indicatore dell’identità etnica o culturale secondo la seguente
equazione: "lingua = cultura = etnia " (a cui si potrebbe aggiungere anche = religione).
Nulla di più falso come testimoniano gli studi di antropologia, ed in particolare di
antropologia dei flussi e dei confini.
E qui mi fermo anche se Zoletto approfondisce altri tre equivoci (1. nella società multiculturale
alla presupposta parità fra culture corrisponde una radicale differenza di potere; 2. gli effetti
controintuitivi e di stigma provocati dalle politiche tese al protagonismo degli immigrati e della
loro rappresentanza; 3. la concezione normativa delle culture e delle lingue) prima di
concludere applicando la teoria degli equivoci alla figura del mediatore e della mediazione
culturale.
A lezione dal trickster:
il buffone malandrino ed i suoi trucchi
In estrema sintesi tutti i saggi di Aut Aut girano attorno a pochi concetti cardine:
•
L’impossibilità di incontrare l’altro ( se non incorporandolo e addomesticandolo)
•
L’impossibilità di una teoria pura della differenza
•
La consapevolezza che identità e cultura sono realtà complesse non riducibili alla logica
essenzialista (e questo mi pare l’elemento maggiormente acquisito nell’interculturalismo
critico italiano)
•
La necessità di mantenere una dose di equivoci e la correlata necessità di imparare a
conviverci (tipo educazione all’incertezza di Morin)
•
Il trickster
Ma chi è il trickster? Scrive Zoletto: è il più nobile degli imbroglioni, colui che proprio perché
equivoco diventa un eroe interculturale, e lo diventa in particolare nei luoghi di confine che, in
quanto tali sono luoghi di flussi ed incroci multiculturali.
Insomma, dice Davide Zoletto, non si può vivere senza equivoci (e pensare di liberarsene una
volta per tutte è il peggiore degli errori possibili). Le stesse competenze e capacità
interculturali, se esistono, solo un frutto degli equivoci e della capacità di trovarli e sopportarli
in pratica e in teoria.
Ovvero: "l’ospitalità, quando riesce, è fatta sempre anche di equivoci."
Come si può vedere un dibattito di grande interesse. Con molti aspetti da discutere (non ultimo
il punto di partenza di Aut Aut, ovvero che "non possiamo mai davvero incontrare l’altro se non
addomesticandolo, incorporandolo, riducendolo in qualche modo al medesimo" e che quindi
non ci rimane altro che incontrarci sotto forma di retoriche, cioè sotto forma di reciproche
rappresentazioni).
E rimane poi da indagare meglio la figura del trickster come elemento chiave del
multiculturalismo.