Educazione linguistica in matematica

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Educazione linguistica in matematica
Milano, Sacro Cuore, nov. 2007
Anna Paola Longo
Educazione linguistica in matematica
Di cosa trattiamo
Quanto dirò sull’educazione linguistica in matematica nella scuola elementare si inserisce nella
preoccupazione complessiva di una formazione efficace, con due punti di uguale interesse: fare una
buona matematica, depurata da mode e luoghi comuni, e tenere conto delle caratteristiche del
bambino e del suo bisogno di educazione.
La matematica ha un suo linguaggio che lentamente bisogna introdurre ed imparare, ma l’ottica che
qui voglio presentare è più ampia: il linguaggio (comune, verbale, grafico, ecc.) ha una funzione
mediatrice nella formazione del pensiero matematico, cioè nel passaggio dall’esperienza all’idea e
dunque bisogna riflettere su come utilizzare tutte le forme linguistiche per produrre un’efficace
formazione matematica. Riassumo in breve i punti che chiarificano i passaggi di questa formazione.
1) Prima della conoscenza formale, esplicita, esiste una conoscenza implicita, fatta di
rappresentazioni mentali e schemi, che si vanno lentamente formando e consolidando. E’
compito della scuola sia favorire la formazione della conoscenza implicita che favorirne
l’esplicitazione, in continuità con l’esperienza quotidiana.
2) Nella scuola elementare, il lavoro scolastico sul piano concreto è soprattutto esperienza
consapevole di azioni, fino alla produzione di schemi mentali.
3) Il passaggio dall’osservazione/esperienza all’apprendimento si intreccia con il linguaggio in
tutte le sue forme espressive. Nella matematica, la lingua madre si unisce al linguaggio
specifico, fatto sia di simboli che di parole comuni che acquistano un significato codificato;
la padronanza nell’uso del linguaggio comune, in tutte le sue forme, compresa la
composizione e il controllo sui testi, è indispensabile per la comprensione e
l’apprendimento della matematica; l’uso di rappresentazioni grafiche favorisce le
rappresentazioni mentali.
4) L’intervento dell’insegnante non deve interrompere, ma incrementare il cammino della
reinvenzione guidata (e qui si pone la domanda su come intervenire o quanto anticipare).
5) Secondo Vigotskij, il livello prossimale di apprendimento è “ciò che il bambino non sa fare
da solo, ma sa fare con l’appoggio dell’adulto”. Tale livello è personale e servirsene implica
una didattica fatta di osservazione e tentativi (sia da parte dell’insegnante che dell’allievo),
che mette in gioco in modo mirato l’attività del bambino, accompagnata da relazioni scritte
e orali, dialoghi, conversazioni, discussioni che favoriscono la consapevolezza.
Inizio a descrivere i passi che riguardano l’uso del discorso e del testo, lasciando per ultime le
esemplificazioni sulla costruzione dei significati specifici del lessico.
Prima parte: discorso e testo
1) La narrazione.
Raccontare è un catalizzatore dell’interiorizzazione e della consapevolezza e perciò in senso
psicologico precede la discussione, su cui non mi soffermo perché è un tema già conosciuto.
Il racconto può essere sia orale che scritto, non è solo fatto di parole, ma anche di gesti, di linguaggi
non verbali, come ad esempio il mimo e la rappresentazione grafica. Può capitare che un allievo
sappia raccontare il suo pensiero solo se è sollecitato da domande particolari dell’insegnante, che
incanalano la sua attenzione.
2) Sintesi orali e scritte
Per arrivare alla condivisione del sapere, il racconto personale si trasforma in un lavoro comune
nella classe, producendo l’elaborazione di un’unica sintesi, prima orale e poi scritta, che si avvale
dei contributi più significativi, vagliati e riorganizzati insieme all’insegnante.
Esperienza
G.Avataneo (Torino) ha utilizzato metodicamente la relazione elaborata in comune, affinché
l’intuizione di alcuni bambini potesse diventare patrimonio di tutti.
Per introdurre l’idea di equivalenza di frazioni, dopo aver usato materiale di uso comune (caffè,
mais, ecc), la maestra è passata ad un materiale più astratto: pezzetti di carta.
L’esperienza che segue si è svolta a piccole tappe, in alcuni giorni diversi. La rielaborazione scritta
ha posto in luce la continuità del lavoro svolto nei diversi momenti. Per brevità non sono riportati i
disegni dei bambini.
Prima parte
Questa mattina abbiamo giocato a pesare sulla bilancia quantità di pasta, granoturco, caffè ed altro.
Abbiamo pesato i chicchi di caffè portati da Manuela M. e pesavano 260 grammi.
(disegno della bilancia)
Li abbiamo divisi in due parti uguali (cioè dello stesso peso):
(nuovo disegno)
Ogni parte rappresenta ½ del mucchietto iniziale di caffè.
Abbiamo ancora diviso a metà ognuna delle due parti e abbiamo ancora ottenuto 4 parti più piccole, uguali
tra loro:
(nuovo disegno )
Ogni parte rappresenta ¼ del mucchietto iniziale.
La maestra ha preso in mano due di queste parti, poi ha chiesto: “quale frazione rappresentano?” Alcuni
hanno risposto 2/4, altri ½, chi era d’accordo alzava la mano. Serena ha alzato la mano tutte e due le volte ed
Erika si è quasi arrabbiata. Allora Serena ha spiegato che secondo lei 1/2 vale come 2/4 perché se prendi 2
parti su 4 è come se prendessi la metà.
Abbiamo così scoperto e verificato che 1/2 e 2/4 si equivalgono perché indicano la stessa parte di un intero,
cioè di tutti i chicchi di caffè.
Poi la maestra ha ancora diviso ogni quarto a metà e abbiamo ottenuto 8 parti più piccole ancora, uguali tra
loro.
(disegno)
Ne ha prese 4, che rappresentano 4/8 oppure 2/4 oppure 1/2, così:
(qui c’è un disegno riassuntivo, in cui si vedono tutte le successive suddivisioni)
Allora 4/8, 2/4, 1/2 sono equivalenti.
Seconda parte
Giocando con i foglietti (cioè con un intero diviso in più parti uguali), abbiamo cercato insieme quali frazioni
erano equivalenti. Eccole:
4/8, 1/2 e 2/4 sono tra loro equivalenti,
3/16 non è equivalente alle precedenti;
6/6 e 3/8 non sono equivalenti,
1/3 e 3/9 sono equivalenti,
1/2, 3/6, 9/18 sono equivalenti.
Erika, Davide ed Emanuela hanno tagliato i pezzettini in modo diverso ed hanno trovato che anche la
frazione 6/12 è equivalente a 1/2.
3) Se i bambini non sanno scrivere?
La cronaca (elaborata in classe con la partecipazione di tutti) può essere scritta dalla maestra e
incollata sul quaderno. Diventa una memoria del lavoro fatto da riprendere successivamente ed uno
strumento di comunicazione con i genitori.
Prima esperienza
Dalla ricerca della dott. A. Davoli , riguarda l’introduzione del problema in prima elementare.
Cronaca 1
Stamattina ci siamo fatti questa domanda: mangiamo di più quando la mela ci viene data intera o quando ci
vengono date due metà?
Abbiamo segnato sulla lavagna una crocetta per ogni bambino che dava una risposta, dopo averci pensato.
Al nostro problema abbiamo risposto così: 16 bambini hanno detto che si mangia di più se la mela è intera,
1 bambino ha detto che si mangia di più con due metà, 6 bambini hanno detto che si mangia uguale. Ora
dobbiamo scoprire chi ha ragione.
Prendiamo una bilancia. Mettiamo in un piatto la mela intera e sull’altro dei pennarelli finché i due piatti
stanno in equilibrio. Quando succede, contiamo i pennarelli, sono 13.
Ora tagliamo la mela in due parti, la mettiamo su un piatto della bilancia e sull'altro i pennarelli. Quando
raggiungiamo l'equilibrio contiamo i pennarelli, sono ancora 13. Quindi hanno ragione i 6 bambini che
hanno detto che si mangia la stessa quantità.
Cronaca 2
Cronaca di un gioco fatto per ragionare.
Questa mattina in aula noi alunni ci siamo messi in riga. Eravamo in 20 poiché una compagna non ha voluto
partecipare. Ciascuno di noi ha preso una figurina da una scatoletta. La scatoletta è rimasta vuota. Poi la
maestra ha ritirato le figurine e ha chiesto se c’era ancora una figurina per ciascuno di noi. Alcuni di noi
hanno risposto sì, altri no. Abbiamo trovato due modi per verificare quale risposta era esatta.
Primo modo: abbiamo distribuito di nuovo le figurine e la scatoletta è rimasta vuota.
Secondo modo: abbiamo contato i bambini, erano 20. Abbiamo osservato che le figurine erano tante quanti i
bambini.
Conclusione: la risposta esatta è allora sì.
Seconda esperienza
La classe (prima elementare, insegnante G.Avataneo) ha lavorato molto sulle azioni che conducono
all’addizione (aggiungere, aumentare, comporre, ecc.). Il primo racconto delle esperienze è
avvenuto usando la lingua italiana, come nel caso precedente. Si è svolto in parallelo un lavoro
intenso sull’idea di rappresentazione, nella quale ciascun bambino ha scoperto l’utilità di inventare
simboli personali, ed infine la classe è stata guidata a scoprire l’esistenza di convenzioni. E’ un
processo di reinvenzione guidata, in cui si vede bene sia l’atteggiamento di ricerca ed invenzione di
ciascuno, sia la guida lungimirante dell’insegnante, che non decide personalmente se accettare la
proposta di Roberto, ma crea la strada perché si riconosca la convenienza di tale accettazione,
rendendola così condivisibile da tutti. Il racconto è stato scritto dall’insegnante, fotocopiato ed
incollato da ciascun bambino sul proprio quaderno.
Racconto sintetico
Roberto ha proposto di usare il segno + al posto del segno “a”. Abbiamo invitato due bambini di una classe
quarta. La nostra maestra ha scritto sulla lavagna: 3 a 1 , poi ha chiesto loro: “Secondo voi, cosa vuol dire
ciò che ho scritto alla lavagna?”
Hanno discusso sottovoce e hanno risposto: “E’ il risultato di una partita di calcio!”
Ci siamo messi a ridere.
Allora la maestra ha scritto: 3 + 1 ; i due bambini hanno esclamato: “Questa è un’addizione!”. Questa volta
avevano indovinato.
Ci siamo così accorti che il simbolo “a” era chiaro solo per noi, mentre il simbolo + era capito anche da altri
bambini. La maestra ha spiegato che il segno + era usato e capito dai bambini di tutto il mondo. Abbiamo
deciso di usarlo anche noi per farci capire da tutti.
Terza esperienza
La maestra (Maria Cristina Costa, scuola “Il seme” di Fidenza) si trova davanti un bambino che ha
difficoltà espressive. Gli pone domande aiutandolo a dipanare il senso, poi scrive lei stessa ciò che
lui non sarebbe capace di scrivere: in questo modo gli permette di chiarificare il suo pensiero e di
documentarlo.
Racconto della maestra
All’inizio di questo anno scolastico mi sono resa conto che alcuni dei miei alunni (seconda elementare)
mostravano diverse difficoltà nell’affronto e nella risoluzione dei problemi: comprendere il testo, riconoscere
e trattenere le informazioni utili, capire la domanda, utilizzare un disegno efficace.
Per aiutarli nella comprensione dei testi dei problemi, ho proposto brani descrittivi e argomentativi che non
avevano nessun “aggancio” immediato con la matematica ed ho chiesto di andare alla ricerca di tutte le
informazioni che erano contenute nei brani stessi. Abbiamo poi rifatto lo stesso “gioco” con il testo dei
problemi: i bambini hanno notato che alcune informazioni erano molto importanti e degne di essere
trattenute (dati) ed alcune parole erano fondamentali (alcuni, tutti, ogni…).
Siccome i bambini sono abituati ad iniziare la risoluzione mediante una rappresentazione grafica, ho chiesto
di scrivere sotto al disegno la spiegazione e raccontare il ragionamento fatto.
Questa richiesta è stata particolarmente impegnativa per gli alunni più insicuri, i quali, pur avendo intuito la
risoluzione, non riuscivano ad esporre il proprio pensiero con chiarezza, ordine e tranquillità.
C’era poi chi, dovendo compiere un grande sforzo di concentrazione e ragionamento, non riusciva proprio a
descrivere il percorso fatto (giusto o sbagliato che fosse) e si “perdeva”. Per aiutare questi alunni ho
concordato con la classe una strategia: “voi mi raccontate a voce il vostro ragionamento ed io ve lo scrivo
sotto al disegno”. Questa modalità li ha facilitati ed aiutati a diventare via via sempre più consapevoli di sé.
Un’esperienza particolarmente arricchente e liberatoria per tutti, è stata guardare assieme alla classe, uno ad
uno, i vari disegni utilizzati per la risoluzione dei problemi assegnati: oltre al disegno veniva letta anche la
spiegazione relativa. Per ciascuno dei miei ragazzi è stata una piacevole scoperta constatare che ciascuno di
loro ha in testa la propria strada, la quale a volte può essere simile, uguale o addirittura diversa da quella
degli altri: l’importante è riuscire a mostrare e motivare con chiarezza i passi fatti per arrivare alla propria
risoluzione. Ho constatato con grande piacere che anche gli eventuali errori venivano pian piano accettati
con più tranquillità ed i bambini si rimettevano in modo sereno e tenace alla ricerca della soluzione giusta.
4) Avvio al metodo scientifico
Le attività linguistiche in cui si educa all’osservazione, alla sintesi ed al controllo dei propri testi
introducono al metodo scientifico.
Se si chiede ai bambini (ma fino a che età?) di raccontare un’esperienza appena fatta a scuola, si
osserva sempre che ciascuno parla inizialmente solo di alcuni particolari, quelli che lo hanno più
colpito, e difficilmente riesce da solo a produrre un quadro completo, corredato magari anche da
osservazioni. Raccontare bene un’esperienza vuol dire infatti riconoscerne l’inizio (talvolta casuale,
talvolta dovuto ad un motivo specifico o ad un quesito prefissato), evidenziare la conclusione,
vagliare i passi fatti distinguendo quelli costruttivi, cioè ben mirati allo scopo (da trattenere) e quelli
che si sono dimostrati inefficaci o poco significativi, per tralasciarli o metterli in secondo piano.
Il racconto è dunque frutto di cernita ed organizzazione di informazioni, impossibile senza
esercitare un giudizio. Lavorando in questo modo si impara il punto di vista della matematica, che
non è meccanica, nonostante questa sia la convinzione più comune sulla sua natura. Possiamo
generalizzare dicendo che ci si introduce lentamente nel metodo scientifico. citare
La relazione scientifica: esperienze sulla misura in terza elementare
L’insegnante Lucia Radaelli (Milano) racconta alcune esperienze per documentare come le relazioni scritte
dagli alunni al termine di attività didattiche (individuali o di gruppo) e le successive discussioni in classe
siano state significative come testimonianza dei procedimenti seguiti, dei risultati raggiunti e dei problemi
lasciati aperti, e abbiano fornito all’insegnante una quantità di informazioni e spunti preziosi per
l’impostazione del lavoro didattico successivo.
L’esperienza riportata si riferisce ad un lavoro di gruppo condotto in terza con lo scopo di far emergere, in
un’attività di confronto tra grandezze, la necessità di utilizzare uno strumento intermediario, per avviare gli
alunni alla comprensione del concetto di “unità di misura”.
Ad un gruppo era stato chiesto di stabilire se fosse stata messa più acqua in una bottiglia o in una vaschetta e
gli alunni hanno prodotto questa relazione:
“ Oggi dovevamo vedere se c’era più acqua nella vaschetta o nella bottiglia. All’inizio non riuscivamo a
capire, perché la vaschetta era più larga della bottiglia. Allora abbiamo fatto un segno con lo sbianchino al
livello dell’acqua della vaschetta, poi in bagno l’abbiamo svuotata. Abbiamo travasato l’acqua della
bottiglia nella vaschetta e ci siamo accorti che la bottiglia conteneva più acqua della vaschetta perché
l’acqua della bottiglia superava il segno della vaschetta”.
Come sempre, la relazione è stata letta in classe e commentata dai compagni, che però non hanno suggerito
di utilizzare un terzo recipiente, più piccolo, per svuotare i contenitori e confrontare le due quantità d’acqua.
Inoltre anche gli altri gruppi avevano effettuato i confronti richiesti senza utilizzare unità di misura da loro
scelte, come mi sarei aspettata, perciò ho deciso di proporre a tutti una situazione più “forzata”:
Problema. La mamma ha raccolto un bel mazzo di rose in giardino. Potrebbe sistemarle nel vaso di cristallo
che ha in soggiorno oppure nel grosso fiasco impagliato che ha in taverna. Decide di sistemarle nel
recipiente che può contenere più acqua, ma non vuole spostare né il vaso né il fiasco perché sono molto
pesanti. Come può fare?
La classe ha lavorato divisa in gruppi, ma nessun gruppo ha trovato una soluzione e le risposte sono state le
più fantasiose (aspetta suo marito, si fa aiutare da una vicina…) perché per tutti l’unico modo di arrivare ad
un confronto era quello di travasare l’acqua da un recipiente all’altro e verificare così quale fosse il più
capiente, oppure travasare l’acqua di entrambi in due recipienti più grandi e uguali tra loro per confrontare il
livello. Non solo, tale convincimento era così radicato che l’unico bambino che ha osato proporre di riempire
i due recipienti con una bottiglia e vedere per quale dei due ci volesse un maggior numero di bottiglie, non è
riuscito a convincere gli altri componenti del gruppo e la proposta non è stata registrata (anche perché il
bambino in questione, dal senso pratico ben sviluppato, ma dai risultati scolastici disastrosi, non godeva della
considerazione dei compagni).
A questo punto abbiamo ricreato la situazione in classe utilizzando due contenitori vuoti e diversi tra loro
chiesti alla cuoca e cercando tutti insieme la soluzione; al termine abbiamo sintetizzato così:
• Abbiamo messo un contenitore sulla cattedra e uno sulla mensola e abbiamo immaginato di essere
la mamma del problema (che non poteva spostare i recipienti).
• Osservando i contenitori abbiamo pensato a due modi per scoprire quale contenesse più acqua:
I
II
Riempire i due contenitori con un bicchiere, Riempire i due contenitori, versare l’acqua in due
contando quanti bicchieri occorrono per riempirli
contenitori più grandi e uguali, confrontare il livello
dell’acqua nei due nuovi recipienti
Scegliamo il primo modo perché ci sembra più comodo.
Il contenitore del tonno contiene 8 bicchieri d’acqua;
Il contenitore della mozzarella contiene 7 bicchieri d’acqua.
La mamma aveva il problema di misurare la capacità dei due recipienti. Per farlo aveva bisogno di un altro
recipiente.
Nel problema della mamma: vaso e fiasco sono gli oggetti da confrontare; la loro capacità è la
caratteristica da misurare; il bicchiere è lo strumento, cioè l’unità di misura che noi avremmo utilizzato
per misurare la capacità dei due recipienti.
Concludo con queste osservazioni:
- per i bambini non è assolutamente scontato l’uso di strumenti di misura, anche arbitrari; riuscire ad
arrivare a confronti diretti tra oggetti li “convince” di più;
- l’insegnante, che magari non prevedeva una resistenza così tenace, non può non tenerne conto, dovrà
adeguare il percorso ideato in origine sia rispetto ai tempi previsti (rallentando se un concetto è
ancora troppo astratto per la classe in quel momento e accelerando quando le condizioni saranno più
favorevoli) sia rispetto alle tappe del percorso stesso: potrebbero essere utili alcune “deviazioni” per
affrontare o riprendere aspetti che non si prevedeva di dover considerare.
Conclusione
In matematica e nell’educazione scientifica il racconto orale si deve trasformare via via in un
racconto scritto e portare alla composizione di un testo scientifico. In questa attività, di cui abbiamo
dato esempi, si pone la questione di insegnare ad esercitare il controllo sulla produzione dei propri
testi, atto che comporta anche il controllo critico sul proprio pensiero, oltre che sulla trasparenza e
adeguatezza del testo. La difficoltà di comporre un testo scientifico non è solo legata a sintassi e
grammatica, ma anche alla rielaborazione critica di un processo dinamico reale, quello di
un’esperienza e quello dell’attività del proprio pensiero. E’ una questione da affrontare fin
dall’inizio della scuola primaria.
Il pensiero è presente in ogni essere umano, anche se è un bambino piccolo ed anche se è
svantaggiato. La scuola primaria permette di iniziare un cammino di crescita solo se sollecita
ciascuno a mettere in atto il proprio pensiero. Nessuno ha mai pensato con la testa di un altro, così i
bambini non possono pensare con la testa degli insegnanti. Avviarli, aiutarli, non è mai fare passi di
pensiero al posto loro e la cura del linguaggio favorisce la personalizzazione dei processi. L’autorità
prende il suo senso pieno nell’indicare la strada, provocare, sostenere, senza però sostituirsi al
lavoro personale dei bambini.
Seconda parte: considerazioni sul lessico
Ogni linguaggio scientifico si forma a partire dal linguaggio comune. In matematica, oltre ai
simboli specifici, esistono anche le parole. Tra queste alcune, come monomio e polinomio, sono
tipiche del linguaggio matematico, altre invece sono usate anche nel linguaggio comune: solido,
simmetria, prodotto, figura, punto, trasformazione, ecc.
Il loro significato diventa specifico e rigido: mentre il linguaggio comune ama la polisemia, il
linguaggio matematico tende all’unicità del significato, almeno in ciascun contesto d’uso. Si può
parlare quindi di nuovo significato acquistato in matematica dai termini comuni.
Prima esperienza : La mia altezza…. l’altezza del triangolo…
(F. Rabaglia, Fidenza)
Prima media, altezza in un triangolo. Esperienze precedenti su questo argomento si sono svolte nella scuola
elementare e nelle ore di educazione tecnica
Una lezione di geometria: osservazione di vari triangoli con lo scopo di definire e calcolare il perimetro.
Ragazzi: nella scuola elementare abbiamo imparato a calcolare non solo il perimetro, ma anche l’area dei
triangoli: “Si fa…base per altezza diviso due!” (velocissimi!)
Insegnante: chiede a ciascuno di tracciare l’altezza sul triangolo che stava osservando.
Fatto imprevisto: nessuno riusciva, come se le esperienze fatte in scuola elementare e nelle ore di
educazione tecnica non avessero avuto attinenza con la questione posta.
Insegnante: chiede di specificare a parole cosa sia l’altezza in un triangolo.
Molti hanno risposto in modo formalmente corretto, ma nonostante questo e nonostante avessero tutti a
disposizione riga e squadra, nessuno riusciva ad utilizzare la definizione per fare il disegno.
Questo suggerisce l’ipotesi che le parole contenute nella definizione non rimandassero ad un significato
operativo e perciò l’insegnante pensa di verificare la mancanza di ancoraggio dei termini, nei ragazzi, ad
esperienze significative.
Insegnante: riporta l’attenzione dei ragazzi sul significato comune della parola altezza, con l’intento di
verificare l’eventuale interferenza del significato comune con quello della geometria.
La risposta è unanime e considera l’altezza come qualcosa che li caratterizza personalmente: “ ciò che va dai
piedi alla testa”.
Insegnante: “ ..e l’altezza di un oggetto?”
I ragazzi sapevano indicare con i gesti l’altezza di oggetti che era possibile staccare dal piano orizzontale per
disporli in verticale, ad esempio una matita o una gomma disposte come torri appoggiate sul banco. Era
evidente che essi identificavano in quel modo l’oggetto con la propria persona.
Osservazione: la geometria ha espulso il riferimento preferenziale alla direzione verticale, che è invece del
tutto naturale quando descriviamo la nostra esperienza dello spazio.
L’insegnante riconosce che per gli allievi la parola “altezza” è ancora legata alla propria esperienza dello
spazio, ancorata alla verticalità, e che questo ostacola il passaggio al significato del termine in geometria.
Immagina un’esperienza che permetta la specificazione del significato attraverso passi successivi:
1) Primo passo: far uscire dal piano i triangoli che i ragazzi stavano osservando: fa appoggiare sul
banco lungo uno dei lati triangoli di vario tipo ritagliati su cartoncino; il lato finalmente diventa
base anche in senso fisico.
2) Secondo passo: appoggiando i triangoli sulla “base”, i ragazzi non hanno avuto difficoltà a
descrivere con i gesti, e poi ad esprimere a parole, cosa fosse l’altezza, cioè il segmento che unisce
perpendicolarmente il vertice con la base.
3) Terzo passo: “Bisognava disegnarla, utilizzando gli strumenti del disegno tecnico. Presa la squadra,
ho chiesto a ciascuno di appoggiarla in piedi sul banco davanti al suo cartoncino, di farli scorrere
entrambi finché il vertice di ciascun triangolo non fosse perfettamente allineato col bordo della
squadra e di tracciare poi sul triangolo con la matita, mediante l’uso della squadra, l’altezza così
individuata. La stessa cosa è stata ripetuta per ciascun lato di ogni triangolo. In questo modo si
comprendeva bene, rientrando in significati più quotidiani dei termini, che ciascun lato poteva
essere chiamato base relativamente alla sua altezza.” Nota bene. Questa è stata un’esperienza attiva,
implicante l’uso del corpo, e perciò utilissima dal punto di vista dell’apprendimento.
4) Quarto punto: ciascun bambino ha incollato ad occhi chiusi sul quaderno i triangoli su cui aveva
disegnato l’altezza.
5) Quinto punto: osservazione sui triangoli appena incollati delle altezze che avevano
precedentemente tracciato e che sono messe in posizione qualsiasi rispetto ai bordi del foglio.
Avendo suscitato una situazione problematica ricca, i ragazzi erano pronti a recepire alcune parole
conclusive: “le linee che avete tracciato, in geometria si chiamano altezze del triangolo, indipendentemente
dalla posizione spaziale. Esse restano tali anche se ruotate il quaderno sopra la testa o se lo chiudete nello
zaino”.
L’insegnante ha concluso approdando, attraverso le osservazioni fatte, alla conoscenza di un
termine/concetto secondo le convenzioni della geometria.
Conclusione
Per giungere al significato autentico della parola “altezza” in geometria, bisogna fare un’operazione
di forte astrazione, arrivando ad attribuirle un senso parzialmente diverso da quello della nostra
percezione fisica. Attribuire questo significato alla parola è anche, contemporaneamente,
impadronirsi in modo esplicito del concetto designato dal termine.
Seconda esperienza: la “differenza” in matematica
Esperienza didattica svolta in una classe seconda elementare di Fidenza; F. Ramaglia è presente
come insegnante; P.Longo è presente in qualità di esperta. Scopo: introdurre l’uso del termine
“differenza” in matematica, e collegarlo successivamente con la sottrazione, a partire dall’uso del
termine nella lingua comune. citazione
Prima fase: l’esperienza diretta di ciascun bambino
E’ stato consegnato a ciascun bambino un foglio con due vignette apparentemente simili, fotocopiate da un
giornalino, chiedendo di ricercare le sette differenze esistenti.
F. Rabaglia si è soffermata brevemente sul significato comune della parola “differenza” ricordando ai
bambini esperienze già incontrate, poi i bambini hanno confrontato le due vignette segnando tutte le
differenze che erano in grado di rilevare. In questa fase non si fa ancora riferimento al significato
matematico del termine.
Seconda fase: racconto e discussione
Concluso il lavoro personale di osservazione, ciascun bambino ha comunicato a tutti le differenze
individuate. Per approfondire l’idea di differenza, si è discusso come suddividerle in gruppi.
Terza fase: riflessione sul linguaggio comune
E’ stato chiesto ai bambini se avessero mai utilizzato, nel linguaggio corrente, la parola “differenza”. Ad una
loro immediata risposta negativa, è stato suggerito un mezzo per verificare se ciò fosse proprio vero: provare
a scrivere ciascuno una frase che contenesse questa parola.
Ecco le frasi scritte dai bambini con notevole facilità:
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Io sono diversa da mia sorella.
Guarda, questi quadri sono diversi.
Io ho 4 anni, invece mia sorella ne ha 16.
Ci sono due classi seconde, ma sono differenti: in una ci sono 16 bambini e nell'altra ce ne sono 20.
Un fiore è differente da un albero perché il fiore è più piccolo.
Sono andato al museo e ho visto due quadri: sembravano uguali, invece erano differenti.
Queste due macchine sono diverse.
Il suono delle maracas è diverso da quello del tamburo.
Cristina è differente da me perché è più alta di me.
Nelle due vignette, le due sveglie sono diverse perché una è rotonda e l'altra è quadrata.
Io sono diversa da mia mamma.
L’abete è diverso dal ciliegio.
La balena è diversa dallo squalo.
Una quaderno è a righe, l'altro è a quadretti, cioè sono differenti.
Io ho una bicicletta diversa dalla tua.
Conclusione: non era vero che non avessero mai utilizzato nella vita quotidiana la parola “differenza”,
piuttosto non si erano mai accorti di utilizzarla.
Quarta fase: la matematica
I bambini, sapendo che Paola insegna al Politecnico, le hanno chiesto se il lavoro appena fatto riguardasse
anche la matematica. Si sono stupiti della risposta affermativa, dal momento che non erano stati usati
quasi mai i numeri.
Paola, allora, ha precisato che il termine “differenza” si usa in matematica secondo lo stesso significato
generale (da riportare sempre ad un confronto), ma quando la caratteristica in questione può essere valutata
attraverso l’uso dei numeri.
Ha portato come esempio il diverso numero di pesci in due acquari, il primo con 10 pesci, il secondo con 20
pesci, appoggiandosi ad un disegno fatto alla lavagna.
Ha precisato che non solo possiamo dire che è diverso il numero dei pesci nei due acquari, ma possiamo
anche specificare meglio la differenza esprimendoci in questo modo:
Il primo acquario contiene 10 pesci meno del secondo.
Il secondo acquario contiene 10 pesci più del primo.
Prendendo in considerazione un terzo acquario contenente 30 pesci si può specificare:
Il primo acquario contiene 20 pesci meno del terzo. Il secondo acquario contiene 10 pesci meno del
terzo.
Il terzo acquario contiene 10 pesci più del secondo.
Il terzo acquario contiene 20 pesci più del primo.
Alla fine dell’esperienza, Paola ha sintetizzato così: quando esaminiamo la differenza tra situazioni che
contengono numeri, possiamo specificare attraverso un numero, in modo preciso, la differenza della quantità.
Gli insegnanti della classe hanno poi proseguito nei giorni successivi il lavoro su questa tipo di problema
arrivando a scrivere le operazioni adeguate. Tra questi problemi rientrano tutti i confronti di misure, quindi
anche moltissimi problemi di geometria.
Conclusione
Sarebbe stato possibile limitare l’esperienza a qualche frase sulla differenza detta dai bambini più
svelti. In questo modo però proprio i bambini più lenti sarebbero stati privati della riflessione
personale sulla propria esperienza, collegata al fatto che per produrre un esempio erano obbligati a
ripescare nella propria memoria una situazione di confronto. Il punto essenziale del lavoro svolto è
nel far cogliere che quando si usa la parola “differenza” in matematica, non si ha più uno sguardo
globale sulle situazioni o oggetti che si confrontano, ma si seleziona l’attenzione solo ad alcuni
aspetti collegati con numeri e misure.
Bibliografia di riferimento
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D’Amore B., 1999, Elementi di didattica della matematica, Pitagora, Bologna
Ferrari P.L., 2004, Matematica e linguaggio. Quadro teorico e idee per la didattica, Pitagora, Bologna
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Longo P.. Radaelli L.:, 2006, Laboratori nella scuola primaria: introduzione alla misura, spunti per un
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