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Etica e cristianesimo nel pensiero di Dostoevskij
Anna Mola
Sommario
Etica e fede sono argomenti strettamente correlati nel pensiero di
Dostoevskij. Raskol’nikov, che uccide l’usuraia per migliorare il
mondo, fallisce perché non comprende che la sua falsa solidarietà
lo porta a decidere della vita e della morte degli altri individui,
prerogativa concessa solo a Dio. Allo stesso modo, Ivan Karamazov non accetta le ingiustizie umane e rifiuta il mondo creato da
Dio. La sua “mente euclidea” non gli permette di comprendere
le finalità divine, che vanno al di là delle capacità dell’intelletto
umano.
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ITIN ER A – R ivista di F ilosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
N
. Berdjaev, uno tra i più importanti, nonché influenti, interpreti
di Dostoevskij sosteneva che le vere protagoniste dei romanzi dell’autore russo erano le idee1 . In generale, è possibile affermare che
Dostoevskij appartiene a quel tipo di scrittori che narrano e scoprono se stessi
nelle loro opere. Se è vero, inoltre, che non è possibile parlare propriamente
di questo scrittore come di un teologo, è altrettanto vero che i suoi romanzi,
in particolare i cosiddetti “grandi romanzi”, sono spesso definiti “teologici”,
perché il tema di fondo costante è il rapporto tra uomo e Dio. Parlare degli aspetti religiosi dell’opera dostoevskiana equivale ad analizzare l’intero
mondo di questo scrittore. Questi due aspetti, uniti a una riflessione profondissima sull’etica, trovano massima espressione in due fondamentali romanzi
dell’autore: Delitto e castigo e I fratelli Karamazov. Vediamo, innanzitutto,
in particolare per la prima opera, come la maggior parte della narrazione non
consti di azioni, ma di pensieri, pensieri orgogliosi, utopici, grandiosi e poi
infinitamente pieni di angoscia e di disperazione; pensieri sempre e comunque
umani, su cui ciascuno è invitato a riflettere. In secondo luogo, notiamo che,
in entrambi i romanzi, il rapporto tra i personaggi e Dio è costantemente
analizzato e, in alcuni casi, costituisce il punto di svolta delle vicende.
La storia di Delitto e castigo è, dal punto di vista dell’intreccio narrativo,
piuttosto semplice: in una Pietroburgo enorme e, allo stesso tempo soffocante, vive un giovane studente di legge, Raskol’nikov, estenuato dalla povertà e
dai debiti che deve pagare a una vecchia usuraia senza scrupoli. È un ragazzo intelligente e perspicace, non è assolutamente di natura malvagia, anzi,
è generoso e sensibile, tuttavia, egli non accetta la condizione umana: non
sopporta le ingiustizie di questo mondo, in particolare, non riesce a tollerare
il fatto che un individuo avido e spregevole come la vecchia usuraia rovini la
sua vita e quella di tanti altri studenti. Oppresso dalle condizioni disagiate
e rattristato da una lettera in cui la sorella gli comunica di accettare il matrimonio con Lužin, un ricco uomo d’affari, che non ama, per poterlo aiutare
a finire gli studi, Raskol’nikov si decide a un terribile atto: uccide l’usuraria
e la deruba delle sue, peraltro misere, ricchezze. Ma egli non ha ucciso per
soldi, ed è qui che compare l’idea centrale del romanzo: il suo non è delitto
compiuto per necessità, ma per convinzione, come lo definisce Gasparini2 .
L’idea che lo conduce all’atto finale è maturata nella sua testa per un lungo
periodo, fino ad ottenere una forma concreta: non tutti sono degni di vivere
allo stesso modo, ci sono individui più dannosi che utili per la società, la cui
esistenza rende il mondo peggiore; è, dunque, legittimo che vengano eliminati per fare del bene all’intera umanità. Chi avrà il coraggio di compiere
quest’atto mostrerà la propria natura superiore rispetto agli altri, a lui sarà
concesso ignorare le comuni leggi morali, che impongono di non uccidere,
1
N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, tr. it. di B. Del Re, Einaudi, Torino 2002,
p. 5.
2
E. Gasparini, Dostoevskij e il delitto, Montuoro, Milano 1946, p. 67.
2
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perché il suo fine è superiore e sarà ricordato nella storia come benefattore
dell’umanità. Raskol’nikov vuole capire se possiede questo coraggio o se è
un uomo comune. Il suo delitto è, quindi, una sorta di “esperimento”; un
esperimento che fallisce, in quanto, non appena compiuto l’omicidio, egli
viene colto da un senso di colpa paralizzante, l’angoscia cresce in lui fino a
diventare disperazione e più cerca di giustificare a se stesso l’atto più viene pervaso da un malessere devastante. Inizia così il vero e proprio delirio
del protagonista: soffre di improvvisi e fortissimi attacchi di febbre, crisi di
sonnolenza alternate a lunghissime notti insonni. Lo schiacciante senso di
colpa lo induce a vivere in isolamento dalla madre e dalla sorella, che lo
hanno raggiunto a Pietroburgo, e dagli amici, sconvolti dal suo atteggiamento. Perfino la città sembra trasformarsi e riflettere la sua angoscia, ogni cosa
perde la sua oggettività e assume la forma della sua ossessione. La situazione
di Raskol’nikov è peggiorata, inoltre, dal fatto che le indagini della polizia
si indirizzano vieppiù sulle sue tracce e che l’investigatore che si occupa del
caso, Porfirij Petrovi?, è certo della sua colpevolezza e cerca di esasperarlo,
negli interrogatori, in modo da indurlo a confessare.
Alla fine, sopraffatto dalla gravità del gesto compiuto, il protagonista decide di confidarsi con Sonja, la figlia di Marmeladov costretta dalla matrigna
a prostituirsi per guadagnare qualche soldo e di cui egli si innamora profondamente. La confessione di Raskol’nikov è profonda e totale, egli ammette di
non aver ucciso, in realtà, per i soldi o per essere il benefattore dell’umanità,
ma per sapere se egli avesse coraggio, se fosse «un pidocchio, come tutti, o
un uomo»3 . Attraverso la figura di Sonja e la lettura, che lei gli propone
del brano evangelico della resurrezione di Lazzaro, egli scopre la possibilità
della conversione, la via della croce, che conduce alla piena ammissione di
colpa e all’umile accettazione della legge comune a tutti gli uomini, che non
permette a nessuno di decidere arbitrariamente della vita e della morte di
un altro. Il suo non è ancora un pentimento completo, tuttavia sceglie di
pagare per il delitto commesso e di aprirsi a una nuova opportunità di vita: l’accettazione della croce regalatagli da Sonja e il prostrarsi a baciare la
terra, dopo il colloquio con lei, sono i simboli di tale apertura.
Il romanzo termina con un incubo di Raskol’nikov, che, intanto, è stato
condannato in Siberia ai lavori forzati: egli sogna una sorta di apocalissi
mostruosa, in cui l’umanità era devastata da una terribile pestilenza, che
rendeva gli individui arroganti e presuntuosi. Ognuno si sentiva l’unico in
grado di giudicare il bene e il male, cosa che portava a infiniti scontri e
induceva gli uomini a distruggersi l’uno con l’altro. Solo una ristretta classe
di persone poteva salvarsi, cioè gli eletti, i più puri, destinati a iniziare una
nuova stirpe e una nuova era, a rinnovare e a redimere la terra. Il sogno
permette a Raskol’nikov di vedere chiaramente, per la prima volta, a cosa
3
F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo, tr. it. di S. Polledro, Rizzoli, Milano 2004, p. 446.
Delitto e castigo venne pubblicato a puntate sulla rivista “Russkij vestnik” nel 1866.
3
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avrebbe portato, in prospettiva, la realizzazione del suo ideale. Da poco è
trascorsa la Pasqua, le giornate erano serene e miti, egli prende il Vangelo
che Sonja gli ha regalato, e, per la prima volta, lo apre e comprende che la
via dell’espiazione consiste nel cercare la convivenza con gli altri, nell’offrire
al prossimo, come fa Sonja, che lo ha seguito nei lavori forzati, un amore
semplice e totale, fatto di silenziosa dedizione.
Questa la storia narrata nel romanzo, a cui molte definizioni sono state
attribuite: romanzo giallo, romanzo sociale e romanzo “filosofico”; ma Delitto e castigo è soprattutto la storia del suo protagonista, della sua ribellione
a un mondo in cui ci sono troppe ingiustizie e sofferenze, un mondo in cui
una ragazzina è costretta a prostituirsi per non morire di fame, in cui una
giovane donna decide di sposare un uomo che non ama e non stima per poter
assicurare un futuro al fratello, in cui, infine, un’avida usuraia trae soddisfazione dalla sofferenza dei suoi creditori. Raskol’nikov non accetta il mondo
in cui si trova a vivere, ma, anziché “restituire il biglietto d’ingresso”, come
farà Ivan Karamazov, preferisce tentare di cambiarlo, di renderlo migliore,
per questo adotta l’idea “napoleonica”, l’idea, cioè, per cui l’uomo “superiore” (Napoleone ne è il simbolo) sia legittimato nell’infrangere le leggi della
comune morale, che impongono il rispetto di ciascuna vita, senza eccezione
alcuna.
L’idea “napoleonica” si riduce a questo: l’omicidio è permesso nel caso
in cui la vittima sia un individuo inutile, malvagio e se dalla sua eliminazione è possibile derivare azioni buone, oneste e capaci di cancellare il delitto.
Certamente non a tutti è consentito realizzare quest’ideale, ma soltanto agli
uomini superiori, i dominatori, coloro che hanno il compito di rendere migliore l’umanità. «I legislatori e i fondatori dell’umanità [. . . ] Licurghi, Soloni,
Maometti»4 hanno dato nuove leggi all’umanità e distrutto quelle antiche
e non l’hanno fatto pacificamente, ma con grandi spargimenti di sangue; i
loro delitti, però, sono relativi, in quanto giustificati da un fine superiore.
Se Napoleone, per esempio, per edificare il suo impero non avesse dovuto
affrontare sanguinose battaglie, ma semplicemente uccidere una sordida vecchia, l’avrebbe fatto con lo stesso rimorso che si potrebbe avere nel tagliare
un ramo che ostacola il cammino5 . Oppure se grandi geni come Keplero o
Newton, per rendere note le loro scoperte, non avessero avuto altra scelta,
per assurdo, che sacrificare la vita di una, cento, mille persone, avrebbero
avuto il diritto, persino l’obbligo di ucciderle, perché le loro invenzioni sono
state utili a milioni di persone6 .
Esistono, dunque, due tipi di uomini, secondo Raskol’nikov: quelli inferiori, che servono solo a riprodurre il genere umano, e uomini veri e propri,
i soli che siano in grado di portare avanti la storia. I primi amano ubbidire
4
Ibid., p. 276.
Ibid., p. 441.
6
Ibid., p. 275.
5
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ed è necessario che lo facciano, mentre i secondi sono sovversivi, sconvolgono
il sistema sociale in cui vivono. La prima categoria, costituita dalla massa,
condanna gli uomini veri, li disprezza, a volte arriva addirittura a giustiziarli,
salvo poi, nel corso delle generazioni, rivalutarli come eroi e metterli su un
piedistallo.
Raskol’nikov vuole far parte della prima classe di uomini, vuol essere,
in senso davvero nietzschiano, un “Superuomo”, un individuo a cui tutto è
permesso, che si pone “al di là del bene e del male”. Egli sceglie l’omicidio
per dimostrare a se stesso la propria libertà illimitata e assoluta, trasgredisce deliberatamente la legge religiosa e morale per provare la sua legittima
appartenenza a quel ristrettissimo numero di esseri eccezionali ai quali tutto è permesso. Attraverso questi pensieri, egli diventa orgoglioso e superbo
e, pur dicendo di voler fare del bene all’umanità, in realtà, la disprezza7 .
L’uomo del sottosuolo – prima ed essenziale figura nella “svolta filosofica” di
Dostoevskij – che rinunciava a un benessere mediocre e sceglieva il dolore e la
pazzia per dimostrare il predominio della volontà e dell’arbitrio sulla ragione,
si eleva ora a Superuomo e decide non solo di ignorare la morale comune, ma
di vivere solo secondo i suoi principi, togliendo all’uomo la posizione di fine e
riducendolo a mezzo per raggiungere la felicità. Se la libertà è la più grande
forza dell’uomo, la conseguenza più immediata non sta forse nel principio del
“tutto è permesso”? Si tratta di una pura e semplice deduzione logica. «Una
morte, cento vite in cambio»8 , dice il protagonista, prima di commettere il
delitto: è un puro calcolo matematico.
Il peccato di Raskol’nikov, come nota Cantoni, è proprio questo: aver
fatto prevalere l’intelletto sulla morale, aver pensato che la ragione, chiusa nel ciclo dei suoi processi, possa risolvere con le sue forze finite tutti i
problemi esistenziali. È lo stesso errore che commetterà Ivan Karamazov, è
l’etica degli atei, dei nichilisti, dei cospiratori dei Demoni, del Grande Inquisitore. Sia Ivan che Raskol’nikov sono personaggi di animo nobile, dotati
di un’intelligenza brillante e profonda, ma la loro filosofia va in una direzione contraria rispetto alle leggi della vita. Essi vorrebbero risolvere l’enigma
dell’esistenza nei suoi fondamenti ultimi e modificare l’iniquità e la crudeltà
presenti nel mondo per mezzo di una razionalità colpevole, e la colpa non
sta nell’irrazionalità constatata, ma nella pretesa di poter sostituire, con il
loro intelletto finito, alla forza misteriosa e infinita che governa l’universo9 .
Come ogni grande ribelle e ogni Superuomo, Raskol’nikov è un solitario
7
Secondo, R. Girard, attraverso Raskol’nikov, Dostoevskij esprime l’idea per cui le
dottrine etiche che vogliono porsi come garanti del bene e dell’armonia tra gli interessi
personali e quelli generali, finiscono, in realtà, per imporre l’egoismo di pochi. R. Girard, Dostoïevski du double à l’unité, in Critique dans un souterrain, l’Age d’homme,
Lausanne 1976, p. 61.
8
F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo, cit., p. 72-3.
9
R. Cantoni, Crisi dell’uomo. Il pensiero di Dostoevskij, Arnoldo Mondadori,
Milano 1948, pp. 108 e 114.
5
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– non a caso raskol’ in russo, significa “scisma”, “scissione” – le sue idee lo
portano a staccarsi dal resto della società dei suoi simili, che giudica inferiori,
abbandonandosi alla seduzione delle sue costruzioni mentali. Si può dire, con
Malcovati10 , che questo personaggio cede alla tentazione di Lucifero: quella,
cioè, di stabilire per sé una legge diversa dalle norme morali che seguono
gli altri; quella di agire contro il “gregge”, sentendosi unici e autorizzati alla
diversità. Ma la sicurezza che egli ha raggiunto nelle sue fantasticherie non è
definitiva, occorre un atto estremo, “titanico” che ne comprovi la veridicità.
Per questo Raskol’nikov decide di compiere il delitto; ormai l’aspetto morale,
per lui, è diventato secondario, quel che conta è solo riuscire, attuare la
decisione presa e passare definitivamente dalla parte dei “Napoleoni”. Così
il protagonista, in uno stato di esaltazione, muovendosi come un automa,
ruba un’accetta, si reca a casa dell’usuraia e le infligge tre colpi mortali.
Egli è alla ricerca di una prova che consacri e legittimi ai suoi occhi l’alta
idea che, nella solitudine, egli ha concepito di sé e sceglie l’assassinio perché
non esiste qualcosa di più estraneo alla sua indole e che richieda maggiori
energie per essere compiuto. Lo sforzo al quale egli si sottopone conferisce
un aspetto quasi eroico alla sua impresa; d’altra parte, se fosse stato meno
in contraddizione con il suo animo, non gli avrebbe permesso di mettersi
alla prova, di capire se era davvero degno di entrare nel novero degli esseri
superiori o se era destinato a rimanere tra “i pidocchi”. In quel momento
egli non può prevedere le conseguenze del suo atto11 .
Ma l’esperimento di Raskol’nikov fallisce completamente: egli perde la
sicurezza, non soltanto nel suo ideale, ma proprio in se stesso: «Me stesso
ho ucciso, e non la vecchiuccia!»12 , ammetterà egli stesso, confidandosi con
Sonja. Lo stato di profondo sconforto, in cui cade al ritorno dal luogo del
delitto, non è sintomo solo della stanchezza nervosa, ma anche della distruzione che egli sente essersi consumata dentro di lui. Egli ha perduto per
sempre quel sogno di superiorità e grandezza, senza il quale la vita gli pare
abietta13 . Tuttavia è ancora lontano dal riconoscere la sua colpa e l’errore
insito nel suo ideale; non riesce, per ora, ad ammettere che nessuno ha il diritto di raggiungere il proprio fine con il delitto, anche se il fine non fosse la
felicità individuale, ma il miglioramento della vita dell’intera umanità. Dal
suo punto di vista, Raskol’nikov ha ucciso senza aver acquistato il coraggio
di uccidere, senza esser riuscito a valicare quel limite invisibile che separa gli
uomini veri da quelli comuni e spregevoli, quelli, cioè, che hanno il diritto di
impadronirsi del potere da quelli che, invece, devono soccombere. Il terribile senso di colpa che lo tormenta testimonia, secondo lui, il fatto che non
aveva quel diritto; ma che questo diritto, in realtà, non esista è qualcosa che
imparerà più tardi, in Siberia. Se avesse sopportato il peso del suo crimine,
10
F. Malcovati, Introduzione a Dostoevskij, Laterza, Bari 1995, p. 63.
E. Gasparini, op. cit., pp. 77-78.
12
F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo, cit., p. 446.
13
Cfr. L. Pareyson, Il pensiero etico di Dostoevskij, Giappichelli, Torino 1967, p. 74.
11
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avrebbe avuto ragione sulla storia dell’umanità, ma egli non ha avuto quella
forza d’animo e il sentimento di sconfitta che prova è la punizione più severa
che si possa immaginare.
L’espiazione, in Dostoevskij, è una legge di natura; quando questa non
agisce convincendo il colpevole del suo errore, produce, tuttavia, delle alterazioni così forti nella sua coscienza, da costringerlo a sottomettersi alla sua
osservanza anche contro volontà e contro ragione. È questa legge che isola
il protagonista di Delitto e castigo dagli altri individui, che distrugge i suoi
affetti familiari e lo costringe a dichiararsi vile pur proclamando l’altezza e
la giustizia dell’idea ispiratrice del suo delitto. Egli subisce, di fatto, la legge
dell’espiazione, ma non è disposto ad ammetterne la superiorità14 .
Il pentimento autentico di Raskol’nikov avviene per mezzo di Sonja, peccatrice come lui, ma portatrice di una fede semplice, che lo guida nella presa
di coscienza del fatto che la legge morale è valida per tutti allo stesso modo e
che nessuno ha il diritto di porsi al di sopra di essa. L’ideale del Superuomo
si è sgretolato alla sua prima impresa e a lui, che lo incarnava, non rimangono che la solitudine e la vergogna. Una sola via gli rimane, escludendo quella
rapida ma vile del suicidio, ed è la via della croce, cioè della piena responsabilità. Questa via è rappresentata proprio da Sonja, figura tanto pura quanto
sfortunata e indifesa, che non disprezza il mondo, ma si fa carico, insieme a
Raskol’nikov, della sofferenza e della colpa da espiare. La croce che ella gli
dona e la lettura del racconto evangelico della resurrezione di Lazzaro sono i
simboli del nuovo cammino da intraprendere. Attraverso Sonja, la sua dedizione e il suo conforto, Raskol’nikov comprende che la felicità non è terrena,
egoistica, individuale, ma soprannaturale e infinita e che si raggiunge con la
sofferenza, il sacrificio di se stessi, l’umile dedizione al prossimo. La forza
per sostenere tali sacrifici è data dalla fede in Dio e dall’amore per Lui e per
gli uomini.
L’idea “napoleonica” e il dono della croce da parte di Sonja sono, nella
loro totale contrapposizione, i due elementi più importanti del romanzo; e
il gesto silenzioso di Sonja riesce ad agire sull’ideale di Raskol’nikov, denunciandone la superbia e l’ambizione malvagia che vi si nascondono, e, alla fine,
aprendolo alla conversione. In questo modo, Dostoevskij mostra la sconfitta
della morale del Superuomo, del titano, del nuovo Prometeo; una morale che
dovrebbe essere assolutamente libera e che si rivela, alla fine, come il suo
contrario, cioè come arbitrio illimitato, come negazione della libertà stessa e
annullamento della volontà.
Raskol’nikov ha sperimentato su se stesso l’impossibilità di una vita guidata soltanto dall’intelletto privo di amore, il superamento della sua posizione avviene attraverso una profonda e radicale esperienza interiore, che
14
E. Gasparini, op. cit., pp. 86-87: “L’idea più profonda e più originale del romanzo
resta quella di una espiazione come legge di natura, di un germe di moralità gettato nel
cuore dell’uomo da una mano terribile e misericordiosa”.
7
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lo condurrà, alla fine, alla possibilità del ripristino di legami autentici con
l’umanità, legami spezzati nel suo tragico gesto di rivolta.
Delitto e castigo pone di fronte a grandi temi etici, primo fra tutti il valore assoluto dell’essere umano in quanto tale, a prescindere dalla su utilità
o dannosità all’interno della società. A questo proposito, lo studioso TuganBaranovskij, nel suo saggio La visione etica di Dostoevskij15 , rintraccia una
possibile comparazione tra l’autore russo e Kant sul tema della morale e sul
fondamento di essa, cioè Dio. Senza il principio di un’entità soprannaturale,
l’idea del valore supremo della persona umana diventa negativa, perché, non
solo non è in grado di costruire la vita, ma, al contrario, conduce alla distruzione della vita stessa, all’omicidio. Ponendosi al di fuori del bene assoluto
rappresentato dalla divinità, l’uomo non può acquistare un valore supremo:
l’idea di uomo e l’idea di Dio sono, dunque, inscindibilmente legate e l’utopia
della persona fine a se stessa è semplicemente un’assurdità.
Tutto ciò che può assumere un valore assoluto, lo acquista solo presupponendo l’esistenza di Dio; così come l’uomo, anche la legge morale, per il solo
fatto di esistere, esige il riconoscimento di Dio. In tal modo, Dostoevskij si
avvicina molto alle posizioni di Kant, il quale postula Dio come fondamento
ultimo della morale. Nella coscienza etica dell’uomo, si riflette un barlume
di divinità, che gli conferisce un valore infinito.
Tuttavia, non tutti gli individui possiedono nella stessa misura una coscienza morale e qui sorge un nuovo problema: come conciliare il valore
infinito dell’uomo e la sostanziale uguaglianza che ne deriva con le differenze oggettive, sul piano etico, degli individui, che sembra condurre al riconoscimento di una diversità di valore? Questo problema, chiamato da
Tugan-Baranovskij “problema dell’umanità”, è pienamente rappresentato da
Raskol’nikov. Da un punto di vista utilitaristico, la sua visione etica è inoppugnabile: se la moralità o immoralità di un comportamento è determinata
solo dall’utilità o dal danno che ne può derivare, allora, una grande scoperta
scientifica, che può salvare la vita a milioni di persone, merita, se necessario,
il sacrificio di qualche individuo. È stata proprio questa logica la causa della
perdizione di Raskol’nikov. Il suo errore consiste nel fatto di voler motivare
logicamente ciò che, per sua natura, non ammette una razionalizzazione. Egli
cercava la dimostrazione logica della morale, ma non si rendeva conto che la
legge morale non è passibile di dimostrazione, in quanto è, kantianamente,
un principio a priori, che, quindi, non riceve una legittimazione dall’esterno,
bensì dall’interno di ogni individuo.
Non esiste altra motivazione che imponga all’uomo il rispetto della vita
di ogni altro essere, se non un “devi perché devi”, che si fonda sul principio
infinito della divinità e non ammette un fondamento logico. La legge morale
15
M. Tugan-Baranonvskij, “La visione etica di Dostoevskij”, in Il dramma della libertà, saggi su Dostoevskij, a cura di Centro studi Russia Cristiana, La casa di Matriona,
Milano 1991, pp. 21-37.
8
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non può essere oggetto di indagine razionale, così come non può esserlo tutto
ciò che esiste per forza propria, indipendentemente dalla nostra volontà. Sta
di fatto che la nostra coscienza morale afferma la sacralità della vita, tale
è la legge morale. Qualunque sia l’origine di questa legge, essa esiste con
tanta realtà quanta ne hanno le leggi di natura. Il protagonista di Delitto e
castigo tenta di negarla e per questo cade, ed è, allo stesso modo, destinato
a cadere, chiunque, violerà tale legge.
La vera possibilità di riscatto si offrirà a Raskol’nikov, alla fine del romanzo, quando, dopo vari anni di lavori forzati, grazie anche all’appoggio
di Sonja, avviene nel suo animo un cambiamento: riconosce il suo delitto e
rinasce così a nuova vita. La coscienza morale ha vinto e ciò gli permette di
riconciliarsi con se stesso, con gli altri uomini e con l’infinito, che di nuovo
sente dentro di sé.
Dilaniato quanto Raskol’nikov, prima della conversione, o forse in maniera ancora più disperata, è Ivan Karamazov, probabilmente il più combattuto
tra i personaggi dostoevskiani.
Egli si presenta come un ragazzo dotato di lucida intelligenza, ma dal
carattere chiuso, inquieto e scostante; il suo cuore è pieno di disprezzo per
un padre violento e cinico, e di rabbia nei confronti di un mondo ingiusto e
crudele. La sofferenza delle creature innocenti costituisce la sua motivazione
per accusare Dio di malvagità e di mancanza di vero amore per gli uomini. Il
tormento di Ivan è il tormento per un interrogativo che si è posto, e continua
a porsi, in ogni epoca, l’umanità che cerca di conciliare l’esistenza di un Dio
buono e giusto con la realtà innegabile del male in tutti i suoi aspetti. Finché
il male è la conseguenza di una colpa si può trovarne una giustificazione, ma
quando colpisce immeritatamente creature incapaci di reagire, vulnerabili e
innocenti, nasce la ricerca, nell’uomo, di una soddisfacente e comprensibile
risposta da parte della ragione umana e, poiché sembra impossibile trovarla,
sorge, a questo punto, il dramma, rappresentato dalla figura di Ivan, che si
trasforma, nel suo caso, in rivolta.
Se per Raskol’nikov il delitto era un atto individuale, un esperimento
simbolico della ribellione personale, sostenuto dalla dottrina del Superuomo, in Ivan Karamazov l’atteggiamento di sdegno per il mondo e di rivolta
raggiunge proporzioni metafisiche, in quanto comporta, in ultima analisi, la
negazione di Dio e del significato del mondo. Come l’assassino di Delitto e
castigo, Ivan ha una grande voglia di vivere, ma si chiude poi in una dimensione costituita solo dai suoi pensieri, in cui si pone problemi filosofici. Il suo
interessamento alle vicende esterne è sempre condizionato dalla posizione intellettuale che ha assunto. Come Raskol’nikov, anch’egli è un peccatore, ma
il suo peccato è di natura mentale: non ha ucciso nessuno, pur avendo desiderato e permesso la morte del padre, ma ha rinnegato il mondo in quanto
non corrisponde a un sistema logico comprensibile per l’uomo. Il rifiuto del
mondo terreno da parte di Ivan implica la rottura con l’aldilà, con il mondo
della trascendenza. L’intelletto rimane ancorato a ciò che riscontra nell’e9
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sperienza e nella storia, che dà prova, secondo Ivan, del fatto che il creato
non può essere governato da Dio, poiché in esso regnano il disordine e la contraddizione. La logica terrestre si attiene ai fatti, è la logica della certezza
e non della speranza, della razionalità e non del mistero. Per il credente, la
fede arriva là dove l’intelletto non può arrivare, mentre per la ragione che
ha fiducia solo in se stessa, ciò che è incomprensibile, rimane tale. Se l’idea
di mondo si dissocia da quella di Dio e segue un suo corso irrazionale, le
nozioni di giusto e ingiusto, fondate sulla credenza nella divinità, attraverso
la tradizione religiosa, non hanno più alcun significato. All’uomo che ha distrutto i legami con il trascendente e ha rinnegato la teocrazia, non resta che
inventare nuovi valori. Se l’“idea napoleonica” di Raskol’nikov rispecchia
l’idea del Superuomo di Nietzsche, nel rifiuto della fede di Ivan possiamo
intravedere un riferimento a un altro modello filosofico, quello dell’homo homini deus, di stampo feuerbachiano. La filosofia atea del pensatore tedesco
si poneva, infatti, l’obiettivo di liberare l’amore dalla credenza nella divinità,
in modo da indirizzarlo completamente all’uomo, privandolo, quindi, della
sua connotazione trascendentale. Ma in una dialettica del rovesciamento di
soggetto e predicato divini, come, appunto, quella di Feuerbach, l’uomo che
si affida esclusivamente alle infinite possibilità dell’intelletto e all’amore che
può provare per i suoi simili, rinnegando qualcosa di superiore, finisce per
smarrirsi nell’incertezza16 .
Ivan è stato più volte definito un “ateo credente”, nel senso che egli
non nega l’esistenza di Dio, può accettare l’idea di riconoscerlo come Essere
onnipotente e buono, ammette l’inevitabilità del male come conseguenza del
peccato originale dei primi genitori; non rifiuta neppure la responsabilità di
tutto il genere umano nella colpa e la solidarietà nell’espiazione per giungere
all’armonia universale, tuttavia trova scandaloso e inaccettabile il fatto che,
per il conseguimento di tale armonia, sia necessario anche il sacrificio dei
bambini. Il momento cruciale della ribellione di Ivan inizia con la terribile
scissione che sente al proprio interno: da una parte avverte la necessità di
Dio e ama il mondo, dall’altra non riesce ad accettare la sua imperfezione
macchiata dal sangue degli innocenti.
Tra tutti gli eroi dostoevskiani, Ivan è senz’altro quello la cui coscienza è
più divisa tra fede e ateismo, in quanto i suoi dubbi hanno origine nell’ambito della fede. Per Dostoevskij, l’uomo trova la propria verità in Dio, questo
è innegabile, ma l’itinerario che conduce alla fede è tutt’altro che semplice e
deve passare per la fase dell’incredulità. Ivan giunge allo stadio più crudele
del dubbio religioso, ma il suo ateismo assoluto è il «penultimo scalino della
fede perfetta, mentre l’indifferente non ha nessuna fede, tranne una cattiva
paura»17 . La fede, dunque, per Dostoevskij, non può diventare completa
16
R. Cantoni, op. cit., pp. 108-119.
Così parla il monaco Tichon a Stavrogin, alla fine de I demoni. Cfr. F.M. Dostoevskij,
I demoni, tr. it. di R. Küfferle, Mondadori, Milano 2005, p. 701. Il romanzo I demoni fu
pubblicato a puntate sulla rivista “Russkij vestnik” nel 1871.
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se non scomparendo nel suo contrario per riapparire fortificata al grado superiore. Nel processo di sviluppo, l’alternativa diventa sempre più penosa,
cosicché a una fede perfetta si oppone un ateismo altrettanto completo. Ivan
vive con tale passione l’affermazione ateista che sembra essere quasi pronto a
convertirsi nel suo opposto. Ma, se, da un lato, l’incredulità dei grandi ribelli, come Raskol’nikov, Stavroghin, Kirillov e Ivan, sembra essere prossima al
raggiungimento della fede, attraverso le terribili esperienze del delitto e della
follia, dall’altro, l’apertura alla credenza è scossa dalle pretese dell’intelletto
di interpretare il mondo secondo i suoi canoni logici. La fede autentica, per
Dostoevskij è un fine a cui si arriva tramite un percorso faticoso; un percorso
in cui l’affermazione e la negazione si alternano drammaticamente18 .
Il rischio “eterno” dell’uomo, in cui Ivan cade, è quello di ridurre la concezione di Dio alla portata dell’uomo. Su questa via, egli decide di seguire il
suo intelletto, piuttosto che ammettere la logica del mistero di Dio e tenta,
quindi, di creare una sua teodicea. Accettare il mondo così com’è significherebbe, per lui, dare scacco alla propria intelligenza, ma egli non ha intenzione
di farlo; intende proprio questo, quando dichiara al fratello Alëša: «Non è che
io non accetti Dio, intendi bene questo punto: è il mondo da lui creato, questo mondo di Dio, che io non accetto e non posso piegarmi ad accettare»19 .
Non è ammissibile, nella sua ottica, il fatto che l’armonia universale si debba
ottenere anche con la sofferenza inutile e gratuita. Interpretare questa sofferenza come conseguenza della colpa originaria e come una ferita non sanabile
(per lo meno su questa terra) significa affermare l’assurdità dell’esistenza e
questo diventa per Ivan motivo di profonda inquietudine. La creazione, che
dovrebbe essere la gloria di Dio ed essere prova della sua onnipotenza e bontà, diventa, nel giudizio di Ivan, la negazione di queste ultime, in quanto
non è conforme alle condizioni poste dalla “mente euclidea”, che conosce il
mondo attraverso le tre dimensioni spaziali della geometria classica.
La constatazione del dolore dei più deboli conduce Ivan a mettere in
dubbio l’esistenza di Dio; o meglio, per il suo intelletto, la sofferenza nel
mondo e l’esistenza di Dio si elidono a vicenda. Secondo il critico A. Penke,
lo sbaglio di Ivan consiste nel concentrarsi sul fatto della sofferenza stessa
e non sulla ricerca del suo significato; per lui il male non è l’effetto di una
responsabilità personale, quindi di un atto di libertà, ma di un Dio cattivo
o impotente, che, in ogni caso, non merita di essere adorato20 . La protesta
innalzata verso Dio da Ivan è originale, come nota Rozanov21 , rispetto alla
18
Cfr. R. Cantoni, op. cit., pp. 110-11, ed E. Gasparini, op. cit., p. 95.
F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, tr. it. di A. Villa, Einaudi, Torino 1976, p. 315.
Il romanzo I fratelli Karamazov fu pubblicato a puntate sulla rivista “Russkij vestnik” nel
1879-80.
20
A. Penke, Percorsi cristologici in Fëdor M. Dostoevskij, a cura di G. Lorizio, P. Coda,
A. Joos, Pontificia Universitas Lateranensis, Roma 1999, p. 19-24.
21
V. Rozanov, La leggenda del Grande Inquisitore, tr. it. a cura di N. Caprioglio,
Marietti, Genova 1989, p. 74 sg.
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letteratura universale e, nello stesso tempo, molto pericolosa per la religione. Si tratta, infatti, di una prova di attribuzione di un carattere divino al
senso della giustizia presente nell’uomo. Secondo il critico, Ivan è un uomo devoto alla religione e la sua ribellione mette in luce ciò che è divino
nell’animo umano, cioè il sentimento di giustizia e il senso della sua dignità. Forse, come osserva Guardini, a questo personaggio manca l’umiltà del
cuore, che potrebbe aprirlo all’amore per Dio e risanare la frattura nata in
lui22 . Non potendo essere risanata, questa frattura viene compensata con
la rivolta. Ivan sceglie l’esaltazione della legge della ragione, che si pone in
contrapposizione all’apertura al mistero divino.
Gli interrogativi che Ivan si pone rimangono, dunque, senza risposta:
la sofferenza dei bambini non riesce a trovare un senso. Ma Ivan non può
accettare di vivere in un mondo di cui non concepisce il senso, in cui è
impossibile la conciliazione tra razionale e irrazionale e preferisce, quindi,
“restituire il biglietto d’ingresso”:
Non voglio l’armonia: – confessa ad Alëša – per amore stesso dell’umanità non la voglio. Voglio che si rimanga, piuttosto, con le sofferenze
invendicate. Preferisco, io, di rimanere nel mio stato di invendicata
sofferenza e d’implacato scontento, dovessi pure non essere nel giusto.
Troppo caro, in conclusione, hanno valutato l’armonia: non è davvero
per le tasche nostre, pagar tanto d’ingresso. Quindi, il mio biglietto
d’ingresso, io m’affretto a restituirlo. [. . . ] Non è che non accetti Dio,
Alëša: ma semplicemente Gli restituisco, con la massima deferenza, il
mio biglietto.23
Il suo ragionamento lo ha portato ad attribuire la colpa del male a Dio;
ma non si può accettare un Dio ingiusto, non resta che negarlo e vivere
secondo le leggi della ragione. La libertà “intellettuale” a cui aspira Ivan,
conduce, in realtà, per Dostoevskij, al libero arbitrio, che è negazione della
libertà autentica, concepita dallo scrittore come un atto di obbedienza e di
riconoscimento verso il Creatore. Per questo motivo la sofferenza di Ivan
è davvero “inutile”, in quanto non conduce alla redenzione, ma allo smarrimento di sé e alla morte spirituale. Come sostiene Berdjaev, l’arbitrio e la
rivolta di Ivan sono ciò in cui culmina il concetto di libertà senza grazia.
L’idea di Ivan Karamazov coincide con quella del vecchio cardinale protagonista del suo piccolo poema, cioè il Grande Inquisitore, e con questo
personaggio raggiungerà l’esito più catastrofico: la libertà, trasformatasi in
arbitrio, diventerà costrizione. La logica del Grande Inquisitore è il punto di
arrivo della “mente euclidea”. Essa cerca di razionalizzare il mondo, liberandolo, per quanto è possibile, dal dolore e dal male. Alla base delle convinzioni
del cardinale e di Ivan c’è la sincera volontà di aiutare la debolezza umana;
22
R. Guardini, Il mondo religioso di Dostoevskij: studi sulla fede, tr. it. di M.L. Rossi,
Morcelliana, Brescia 2000, p. 153.
23
F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 328.
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entrambi non sono mossi dalla ricerca di beni personali o solo materiali, ma
mirano alla felicità degli uomini. Il loro fine è nobile, ma cerca di realizzarsi al di fuori dell’ottica divina; vogliono sostanzialmente sostituirsi a Dio,
per correggere un’opera per loro troppo imperfetta, ma, esercitando una libertà illimitata, finiscono per togliere all’uomo ogni possibilità di scegliere
liberamente il proprio destino.
Attraverso Ivan Karamazov e il Grande Inquisitore, Dostoevskij simboleggia la tesi per cui, se si ritiene che Dio sia ingiusto o addirittura che non
esista, allora non ha più senso distinguere comportamenti morali e immorali,
perché l’uomo può sostituirsi a Dio e decidere arbitrariamente del destino
degli uomini. La ribellione di Ivan si traduce nella filosofia del “tutto è permesso”: l’eliminazione di Dio dalla vita dell’uomo toglie senso alla vita stessa
e permette la legittimazione di ogni delitto, così Raskol’nikov uccide l’avida
usuraia, Ivan è il responsabile ideologico della morte del padre e il Grande
Inquisitore minaccia Cristo di farlo bruciare vivo. La “mente euclidea”, che
non sopportava la sofferenza dei bambini, finisce, così, per tollerare i crimini
più efferati. Per Dostoevskij, la filosofia del “tutto è permesso” è in realtà la
negazione di ogni principio morale, anzi, è il simbolo della più alta immoralità, è la realizzazione di ciò cui aspira il diavolo, che, infatti, a un certo punto
del romanzo, appare in un incontro visionario a Ivan e viene a identificarsi
con i suoi pensieri più segreti, costringendolo ad ammettere il fatto che crede
in lui.
Ivan possiede una coscienza autonoma, come tutti i personaggi di Dostoevskij, incarna un’idea e ha la possibilità di esprimere ciò che pensa e
vive nel suo stato d’animo. La questione che si è posta la critica a questo
riguardo è se il Dio di Ivan coincida con quello dello scrittore o se rappresenti
la sua opposizione. La disputa è stata inizialmente sollevata da Rozanov, che
nell’opera dedicata allo scrittore, sosteneva che l’idea di Ivan e la creazione
del Grande Inquisitore coincidessero con i pensieri di Dostoevskij24 . Un’opinione diametralmente opposta sosteneva, invece, la critica esistenzialista,
che ebbe un notevolissimo peso nelle successive interpretazioni dello scrittore nei confronti del tema della fede. In particolar modo, il filosofo russo
Berdjaev affermava una corrispondenza tra gli eroi dostoevskiani e le varie
fasi della vita dell’autore, fino ad arrivare a una sostanziale divaricazione tra
l’idea del Grande Inquisitore e la sua; divaricazione che equivale alla scelta
tra l’uomo-Dio e il Dio-uomo.
Secondo S. Frank, nella figura di Ivan, Dostoevskij non intravede soltanto
la minaccia del nichilismo, ma avverte un nuovo tipo di credente ateo, che
sorgerà in Europa dopo la sua morte. Per lo studioso, la critica dell’autore
russo coinvolge, attraverso questo personaggio, tutta la civiltà occidentale.
La condanna dello scrittore si rivolgerebbe a tutta la corrente umanistica
del XIX secolo – movimento nato nell’Illuminismo – che attraverso la fede
24
V. Rozanov, op. cit., p. 121.
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dell’uomo in quanto tale, abbandona l’individuo a se stesso, cancellando il
concetto cristiano che coglie l’uomo in rapporto con Dio25 .
Questi autori converrebbero nell’affermare che l’unica risposta che Dostoevskij può dare a Ivan Karamazov e ai seguaci della sola intelligenza
umana consiste nella riproposizione del modello del Cristo sofferente. In altre parole, per Dostoevskij, l’umanità è liberata dal dolore, da una parte
perché esso è sublimato in Dio, dall’altra perché diventa partecipazione alla
sofferenza di Cristo, che, nella crocifissione, ha ricondotto a sé tutta la sofferenza del mondo. Nella sua rivolta, quindi, Ivan non nega il mistero di Dio
soltanto come creatore, ma anche come redentore; il dolore per l’ingiustizia
del mondo, allora, attraverso cui giudica l’operato di Dio, diventa qualcosa
di inutile e destinato a non potersi trasformare nel suo opposto attraverso la
redenzione. Ciò che Ivan non comprende è che il Figlio di Dio non è venuto
sulla terra per spiegare il male, ma per assumere su di sé questo male. Il senso del sacrificio di Cristo è invece compreso da Dmitrij Karamazov, il fratello
accusato e condannato ingiustamente per la morte del padre. Egli, pur essendo innocente, non rinnega Dio, ma accetta la sofferenza come solidarietà
nell’espiazione per tutte le creature. In forza del vincolo che lega tutta l’umanità, occorre essere solidali anche con i criminali peggiori e mostrare pietà
verso i più colpevoli, come fa l’umile Sonja nei confronti di Raskol’nikov26 .
La rigenerazione e il riscatto dell’uomo avvengono, in Dostoevskij, sempre
attraverso il dolore, perché esso è l’elemento in cui Dio e uomo possono
sentirsi accomunati, unendo i loro sforzi.
A tutte queste interpretazioni fa da contraltare l’ipotesi di Cantoni, forse
la più aderente al testo, secondo cui Dostoevskij è prima di tutto un “filosofo
della crisi”: della crisi di ideali, della crisi di una società che stava cambiando
sempre più velocemente. Lo scrittore non offre soluzioni edificanti, non si
trova in lui l’apologia di una fede pacificata, piuttosto quella della libertà
di coscienza, che è apertura alla conversione alla fede più pura quanto alla
perdizione più diabolica. «L’uomo vivo [. . . ] è quello in cui senso e intelletto,
con tutta la loro demonicità, non si subordinano come potenze inferiori e
colpevoli alla sublimità dell’amore religioso»27 .
25
Cfr. S. Frank, “Dostoevskij e la crisi dell’umanesimo”, in Il dramma della libertà, saggi
su Dostoevskij, cit., pp. 193-99.
26
Cfr. L. Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi,
Torino 1993, p. 79: «Bisogna assumersi la responsabilità anche delle colpe non commesse,
in virtù della solidarietà che lega gli uomini fra di loro», corsivo nel testo.
27
R. Cantoni, op. cit., p. 128.
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Anna Mola
Anna Mola è nata a Novara l’11 giugno 1981. Si è laureata il 26 aprile 2007, col massimo dei voti con una tesi dal titolo Il problema morale e la fede. L’ateismo antropologico
di L. Feuerbach e l’etica cristiana di F.M. Dostoevskij, relatore prof. Gianfranco Mormino, correlatrice prof.ssa Maria Cristina Bartolomei. Si occupa principalmente di filosofia
morale, di letteratura e d’arte, con un’attenzione particolare per la fotografia.
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