Sulla questione morale. Storia e politica, non antropologia.

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Sulla questione morale. Storia e politica, non antropologia.
Daniele Balicco
Sulla questione morale. Storia e politica, non antropologia.
Tra il 7 e il 31 marzo del 1824 Leopardi interrompe le Operette morali per scrivere
un breve articolo sull’Italia. È il noto Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degl’italiani. La tesi di fondo del suo ragionamento è abbastanza semplice. L’Italia
si trova in una condizione morale difficile perché ha subito il potere del disincanto
della modernità senza però godere dei bilanciamenti creati dalle società europee
più avanzate. Secondo Leopardi, in Italia non è esistita infatti una “società ristretta”
simile a quella francese, inglese o americana, vale a dire una élite politica
legittimata ad imporre norme e consuetudini moderne. Il popolo italiano è stato
lasciato solo di fronte al “nudo vero” senza filtri e senza protezione alcuna. Così, se
nella vita quotidiana è il più filosofico fra i popoli europei, per la stessa ragione è
anche il più cinico e disilluso. A differenza di Spagna, Portogallo o Russia non è
infatti riuscito a conservare del tutto la propria identità protettiva premoderna; e,
nello stesso tempo, non ha conosciuto le forme istituzionali, e le illusioni morali,
dei paesi avanzati. Leopardi però non conclude l’articolo. “Si deve essere stancato”
commenta ironicamente Franco Cordero nella nuova edizione del Discorso da poco
pubblicata per le edizioni Bollati Boringhieri (Giacomo Leopardi/ Franco Cordero,
Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. Seguito dai pensieri
d’un italiano d’oggi, Bollati Boringhieri). Si deve essere stancato anche perché è
difficile immaginarlo difensore entusiasta dei punti alti della modernità
occidentale. La lucidità implacabile del suo pensiero non lo consente. “Gli uomini
soffrono sotto ogni forma di governo” scriverà infatti di lì a qualche anno a Fanny
Targioni Tozzetti. Tuttavia l’impostazione del ragionamento del Discorso è
interessante e ha fatto bene Cordero ad accettare l’invito dell’editore Boringhieri:
usare Leopardi per provare a ragionare sull’Italia e la sua problematica questione
morale. Il risultato è un’analisi impietosa della qualità delle nostre classi dirigenti.
Con il suo puntiglioso sguardo indiziario da giurista, Cordero avvicina gli snodi più
importanti della storia del nostro paese: politica post-unitaria, impresa libica,
guerre mondiali, fascismo, regime democristiano, telecrazia berlusconiana. Il
quadro generale è sconfortante: la scena pubblica è stata quasi sempre sequestrata
da personaggi di moralità dubbia. Nella nostra “società ristretta” hanno
imperversato mitomani, truffatori, retori, avventurieri, corrotti, egolatri. Cordero li
immortala con definizioni sprezzanti. Mussolini è un “egomane impulsivo ed
estremista equivoco”; Andreotti un “negromante sommesso”; Togliatti “potendo
reincarnare qualcuno, sarebbe un Cavour rosso”; Bettino Craxi è un “condottiero di
un soi-disant socialismo davanti al quale Filippo Turati inorridirebbe”; D’Alema è
un “clericocrate” che intende la politica “come arte esoterica”; Berlusconi un
“pirata con patente governativa” ma soprattutto “un demiurgo che alleva animali
umani”. Anche Roberta De Monticelli torna alle pagine del Leopardi del Discorso
nel suo fortunato pamphlet “La questione morale” (Roberta De Monticelli, La
questione morale, Cortina). Ma la direzione della sua analisi è molto diversa. Di
fronte al degrado morale dell’Italia contemporanea, la De Monticelli compie due
precise mosse teoriche. Anzitutto sposta lo sguardo sul lunghissimo periodo. Nella
prima parte del libro infatti, le pagine di Leopardi, ma soprattutto le note di
Guicciardini sugli «interessi particulari», possono illuminare le aberrazioni del
berlusconismo nostrano: «sembra incredibile, ma questo bel prontuario di regole
immorali fa parte del nostro comune Dna, a quanto pare, fin dai primi albori della
modernità. Molto prima che fosse fatta l’Italia, gli italiani – o almeno quelli di loro
che contavano e si esprimevano – erano già fatti così». La De Monticelli decifra i
mali che soffocano la società italiana attraverso l’individuazione di una continuità
antropologica. L’ultimo ventennio berlusconiano porterebbe dunque a perfezione
sistemica niente meno che una somma di tare, servilismi, ritardi storici e distorsioni
culturali che l’Italia avrebbe accumulato nei secoli. Il problema di fondo è dunque
l’endemico ritardo della società italiana. Il suo soggettivo non adeguamento agli
standards morali propri delle grandi democrazie europee, le cui istituzioni liberali
andrebbero con tutta forza imitate, essendo niente meno che “ragione pratica
incarnata”. Come si vede, siamo molto lontani da Leopardi. La seconda mossa
teorica del libro è invece squisitamente filosofica. Il problema questa volta è lo
scetticismo etico e la sua incontrastata egemonia culturale. Due le scuole teoriche
imputate, non senza ragioni: il nichilismo filosofico e la razionalizzazione
scientista. Entrambe avrebbero tolto consistenza alle forme comuni della vita
quotidiana generando un’astratta e anomica equivalenza di valori all’interno della
quale perfino la fondamentale distinzione etica fra bene e male non s’involve in
aporia, ma in irrilevanza. Forse però entrambi gli imputati potrebbero anche essere
letti in modo diverso. Non tanto come causa di quell’enorme processo di
sradicamento che è stata la modernità occidentale; quanto come sua reazione, come
freudiana soluzione di compromesso di fronte ad un mondo che sempre più ha reso
l’umano un essere antiquato. Le pagine più convincenti del libro sono altrove.
Quando le De Monticelli difende con forza la centralità dell’intelligenza morale
come fine ultimo di qualsivoglia pedagogia. Si diventa adulti solo quando si accede
ad una dimensione cosciente di responsabilità e di autonomia. Questo però è anche,
o forse soprattutto, un problema politico. Perché se è vero che “siamo un paese con
troppi individui non formati” questo dipende – molto banalmente – da quanti soldi
vengono investiti nella formazione degli insegnanti, nella pubblica istruzione, nella
ricerca scientifica, e così via. L’indisciplina e la minorità morale di ampi strati
sociali di un’intera nazione possono anche essere letti come l’esito ultimo di un
conflitto, sempre aperto, fra oligarchie, “società stretta” e masse.