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Direttore: Pier Luigi Amata
IL CENTRO BIOS DELLA CHIRURGIA E MEDICINA ESTETICA A ROMA
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n. 3 - 2010
Ipereosinofilie: un profilo diagnostico
in citofluorimetria a flusso
PSA, PSA ratio, PCA3
La celiachia
Sistema immunitario e teoria dei sistemi
Una strana difterite da fagiolini...
mal conservati
Edizioni bIoS S.p.A.
SISTEMA QUALITÀ CERTIFICATO UNI EN ISO 9001:2000
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DIRETTORE SANITARIO: Dott. Francesco Leone
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Direttore Tecnico Prof. Giovanni Peruzzi
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Direttore Tecnico Prof. Vincenzo Di Lella
Direttore Sanitario Dott. Francesco Leone
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Direttore Sanitario Dott. Francesco Leone
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Direttore Sanitario Dott. Francesco Leone
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SESSUALMENTE TRASMESSE
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N. 3/2010
Bimestrale
di informazione e aggiornamento scientifico
Periodico della bIoS S.p.A. fondata da Maria Grazia Tambroni Patrizi
L’editoriale
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Fernando Patrizi
Direttore Responsabile
Fernando Patrizi
Direzione Scientifica
Giuseppe Luzi
Ipereosinofilie: un profilo diagnostico in citofluorimetria a flusso
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Gabriele Rumi
PSA, PSA ratio. PCA3
Segreteria di Redazione
Gloria Maimone
Coordinamento Editoriale
Licia Marti
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Alessandro Amici
Comitato Scientifico
Armando Calzolari
Carla Candia
Vincenzo Di Lella
Francesco Leone
Giuseppe Luzi
Gilnardo Novellli
Giovanni Peruzzi
Augusto Vellucci
Anneo Violante
Hanno collaborato a questo numero:
Giuseppe Luzi, Augusto Vellucci,
Gabriele Rumi, Alessandro Amici,
Anna Simonetta Battiato,
Alessandro Ciammaichella.
La celiachia
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La responsabilità delle affermazioni
contenute negli articoli è dei singoli
autori.
Direzione, Redazione, Amministrazione
BioS S.p.A. Via D. Chelini, 39
00197 Roma Tel. 06 80964245
[email protected]
Anna Simonetta Battiato
Grafica e Impaginazione
Vinci&Partners srl
Impianti e Stampa
ArtColorPrinting srl
via Portuense, 1555 - 00148 Roma
Sistema immunitario e teoria dei sistemi
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Giuseppe Luzi
Edizioni bIoS S.p.A.
Autorizzazione del Tribunale di Roma:
n. 186 del 22/04/1996
In merito ai diritti di riproduzione la BIOS S.p.A.
si dichiara disponibile per regolare eventuali
spettanze relative alle immagini delle quali
non sia stato possibile reperire la fonte
Pubblicazione in distribuzione gratuita.
Finito di stampare nel mese di luglio 2010
Una strana difterite da fagiolini... mal conservati
Augusto Vellucci
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bIoS SpA
Struttura Sanitaria Polispecialistica
Via D. Chelini, 39 - 00197 Roma
Dir. Sanitario: Dott. Francesco Leone
CUP 06.809.641
Un punto di forza per la vostra salute
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EDItoRIALE
Fernando Patrizi
2
L’EDItoRIALE
Una prospettiva del “fare” nell’ambito dell’iniziativa privata: quale futuro?
L'Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle
Regioni Italiane, nato per iniziativa dell'Istituto
di Igiene dell'Università Cattolica del Sacro
Cuore, rappresenta un’istituzione di carattere
scientifico sotto forma di Centro di Eccellenza
in collaborazione con le istituzioni accademiche,
scientifiche e tecnologiche nazionali ed internazionali, con particolare riferimento all'European
Observatory on Health Care Systems dal quale
mutua i meccanismi istituzionali. è opera meritoria di questa istituzione produrre documenti aggiornati sulla “salute nelle regioni italiane” con
lo scopo di controllare gli aspetti organizzativi e
gestionali delle varie strutture sanitarie.
Il recente rapporto riferito al 2009, nella sua
estensione completa accessibile su internet, fornisce un quadro interessante sul tema, tenuto
conto che la gestione del Servizio Sanitario Nazionale avrà un futuro sempre più correlato alle
strutture regionali. Molti sono gli elementi che
emergono dal voluminoso lavoro. Nel comunicato stampa del 16 marzo 2010 relativo alla presentazione del Rapporto “Osservasalute 2009” si
legge: “La crisi morde anche la salute: Nord bene
e soddisfatti, Sud male e rassegnati, soprattutto
donne e anziani”. Le prime note del comunicato
identificano immediatamente l’essenza della ricerca: “La salute degli italiani, ancorché complessivamente buona, sta subendo duramente anche i colpi della crisi economica, i cui effetti si
riscontrano su più fronti e tendono a colpire soprattutto le fasce più deboli di popolazione, anziani e donne.
Sotto il peso della scarsa disponibilità economica si spegne il sorriso degli italiani, infatti il
ricorso alle cure odontoiatriche, quasi sempre a
carico delle famiglie, è stato un “lusso” che solo
poco più di una famiglia su tre (il 39,7%) si è potuto permettere”.
Partendo da queste importanti premesse la sanità privata e convenzionata come si inserisce nel
cambiamento strutturale in corso del nostro Paese? Sappiamo che il costo dell’assistenza sanitaria e delle sue varie articolazioni, per esempio nel
Lazio, rappresenta la voce fondamentale della spe-
sa regionale. Gran parte del dibattito che ha preceduto le elezioni regionali, pur nella confusione talora generata dalla diversità delle opinioni a
confronto, ha riguardato solo in parte la sanità nella nostra regione. Dobbiamo chiederci: si vuole
veramente attivare una collaborazione omogenea
tra strutture pubbliche e private? La regione Lazio si trova di fronte a un cambiamento importante
dal punto di vista politico.
Negli anni recenti il disagio delle strutture
private, soprattutto nel settore delle analisi cliniche di laboratorio, si è manifestato secondo varie
modalità e molti laboratori hanno chiuso.
La nostra BIOS, malgrado stia subendo da
circa tre anni una consistente riduzione del budget assegnato per le analisi di laboratorio in convenzione con il S.S.N., ha continuato a garantire
ininterrottamente il servizio alla clientela.
I politici, nel Lazio, regione non certo virtuosa per il controllo della spesa sanitaria, sono
di fronte a scelte di programma che non possono
più eludere. L’assistenza pubblica da sola non ce
la fa. L’assistenza privata garantita da servizi
controllati e qualificati dalla stessa regione non è
un optional funzionale ma fa parte essenziale di
questo settore dell’economia e dell’assistenza.
Il territorio, alla luce delle esigenze del singolo
cittadino, rappresenta una realtà quotidiana dove
c’è necessità di riferimenti certi, di fiducia. Il laboratorio privato è spesso il laboratorio di fiducia, quello presente nel territorio, che offre credibilità nel risultato, nei tempi di attesa, nella
possibilità di discutere punti critici.
La BIOS SpA è un importante realtà del territorio non solo romano ma del Lazio; per questo
vuole farsi parte attiva per la difesa della propria
realtà aziendale e per offrire un servizio qualificato all’utenza, nella chiarezza del ruolo regionale. La regione deve inoltre rispettare i tempi di
pagamento e non essere di ostacolo a chi impegnandosi con investimenti e rischio imprenditoriale fornisce un supporto essenziale a deficit di
assistenza non altrimenti superabili.
IPEREoSINofILIE:
UN PRofILo DIAGNoStICo
IN CItofLUoRImEtRIA A fLUSSo
Gabriele Rumi
Gli eosinofili sono granulociti che originano
dal midollo osseo, dotati di funzioni in diverse patologie ed esplicanti un ruolo chiave nelle fasi tardive e croniche delle reazioni infiammatorie e allergiche. Le granulazioni dei granulociti eosinofili furono osservate per la prima volta nel 1846
da Wharton, in preparazioni di cellule di sangue
periferico non sottoposte a colorazione. Il termine “eosinofilo” fu introdotto successivamente da
Paul Ehrlich (1879) che ne descrisse l’intensa colorazione dei granuli indotta dall’eosina.
Il coinvolgimento degli eosinofili è stato dimostrato in alcune condizioni cliniche come le malattie parassitarie, le malattie allergiche e l’asma,
le alterazioni cutanee e alcune malattie neoplastiche. In condizioni normali il numero degli eosinofili è inferiore a 0.4 x 10 /l. L’ipereosinofilia
si accompagna a situazioni patologiche nelle
quali è in atto una risposta correlata a linfociti definiti Th2 spesso accompagnata da iper-IgE, anche se l’ipereosinofilia può manifestarsi isolata.
L’ipereosinofilia è comunque presente in diverse situazioni patologiche a patogenesi non sempre ben definita (malattie dell’apparato digerente, malattie del sistema immunitario, malattie reu9
matiche, malattie dell’apparato urinario, malattie
cutanee). Gli eosinofili sono in grado di esprimere,
“de novo”, particolari recettori dopo prolungata
coltura con alcune citochine. Il ciclo vitale dell’eosinofilo è ripartito in tre fasi: midollare,
ematica e tessutale. Sebbene sia un elemento pienamente formato nel sangue periferico, l’eosinofilo
è una cellula che dimora nei tessuti. Nell’uomo
il rapporto tra eosinofili tessutali ed eosinofili del
sangue è di circa 100:1. Gli eosinofili risiedono
a livello dei tessuti esposti ad agenti ambientali
(intestino e vie respiratorie). La stimolazione “in
vitro” con varie citochine del sangue periferico induce l’espressione del marker precoce di attivazione, CD69, dell’α-catena del recettore per
l’IL-2 (CD25) e della β2 integrina, CD113. Negli eosinofili presenti nell’espettorato di soggetti asmatici si osserva una regolazione verso l’alto di CD11b, CD11c, CD67, CD69, CD137,
HLA-DR. Pertanto, gli eosinofili di individui
asmatici, specialmente quelli derivati dal polmone
(BAL), presentano alcuni fenotipi di attivazione,
relativi a particolari funzioni biologiche.
Le reazioni di ipersensibilità immediata, cioè
quelle che avvengono in tempi molto rapidi, minuti, sono scatenate dall'interazione di un antigene
con anticorpi specifici di classe IgE legati a recettori di membrana presenti su mastociti, granulociti basofili e granulociti eosinofili attivati.
Mentre la reazione immediata è riferibile all'azione
dei mediatori chimici preformati contenuti nei granuli dei mastociti e dei basofili, la reazione ritardata è dovuta a mediatori mastocitari neosintetizzati e alle conseguenze di un processo infiammatorio sostenuto da linfociti T e da eosinofili che
infiltrano l'organo bersaglio. L'arruolamento e l'attivazione degli eosinofili completa il quadro della cosiddetta "flogosi allergica" che, in forma più
o meno marcata, rappresenta il comune deno-
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minatore di tutte le forme cliniche a patogenesi
allergica. Gli eosinofili sono direttamente responsabili delle modificazioni strutturali dei tessuti ove vengono reclutati. Attraverso la liberazione
della proteina basica maggiore (MBP), delle
proteasi e di radicali dell'ossigeno i granulociti eosinofili inducono vari tipi di danno. Gli eosinofili sono particolarmente coinvolti nella fagocitosi
di complessi antigene-anticorpo. Essi aumentano
durante alcune infezioni parassitarie e in individui con allergie. Alcune delle sostanze contenute nei granuli eosinofilici reagiscono con prodotti
provenienti dai basofili, dalle mastcellule e dai
linfociti (l’enzima istaminasi, per esempio, inattiva l’istamina). Il netto effetto dei fattori rilasciati
dagli eosinofili è un generale decremento nell’infiammazione e una riduzione della migrazione granulocitaria nei siti di invasione dei microrganismi. Gli eosinofili hanno la capacità di secernere un eccesso di citochine, fattori di crescita e altri mediatori che possono essere coinvolti nelle interazioni autocrine, paracrine o endocrine che
sono in grado di colpire molti altri tipi di cellule. Alcuni mediatori sono prodotti costitutivamente,
altri sono prodotti solo dopo l’attivazione cellulare. Inoltre, essi esprimono numerosi recettori che
permettono loro di rispondere alle citochine.
Cambiamenti funzionali sono associati alla stimolazione degli eosinofili, all’attivazione e alla
conversione al fenotipo ipodenso. Cambiamenti
fenotipici negli eosinofili sono il risultato di attivazioni acute o croniche. HLA- DR, CD25, CD54
(molecola di adesione cellulare) e CD69 appaiono
“de novo”. Altri marker di superficie sono rapidamente incrementati da gruppi preformati presenti nei granuli o rapidamente ridotti come risultato della scissione proteolitica. Molti di questi cambiamenti dovuti all’attivazione sono stati
evidenziati su eosinofili isolati dai siti extravascolari dell’infiammazione. Solo la presenza di
CD69 e CD25 ha mostrato una correlazione con
l’ipodensità o l’attività della malattia allergica. Studi cinetici hanno evidenziato 2 popolazioni con
differenti attività proliferative, una più rapida a dismissione midollare di circa 10 ore e una seconda popolazione a dismissione più lenta di circa 80 ore.
Una volta entrato nel sangue l’eosinofilo ha
una emivita di 8-18 ore, nei tessuti da 2 a 5 giorni. Negli eosinofili la modalità meglio caratterizzata di degranulazione è quella anafilattica che
si osserva durante la fase di secrezione cellulare,
dove i granuli si fondono perifericamente con la
membrana plasmatica e successivamente avviene l’estrusione della matrice e del “core” del granulo. In alternativa, i granuli possono fondersi a
livello intracitoplasmatico in ampie camere di degranulazione che si aprono all’esterno della cellula attraverso pori di degranulazione (esocitosi).
Di osservazione più comune è la cosiddetta degranulazione piece-meal, in cui le vescicole contenenti le proteine granulari si staccano dai granuli secondari determinando il loro graduale
svuotamento. Gli eosinofili hanno la capacità di
secernere un certo numero di potenti mediatori rappresentati da proteine granulari (MBP, ECP,
EPO, EDN), lipidi neoformati dalla membrana cellulare (leucotrieni, prostaglandine, PAF), citochine
(IL3, IL4, IL5, GM-CSF, IL10, IL12, NGF,
SCF), varie proteasi (CLC) e prodotti del metabolismo ossidativo.
Proprio per l’importanza che hanno assunto
gli eosinofili in diverse condizioni patologiche
ne è derivato un approccio di grande rilievo diagnostico e clinico. In particolare è possibile tramite particolari tecniche citometriche riconoscere il fenotipo di membrana e citoplasmatico dei granulociti eosinofili (foG method) allo
scopo di mettere in evidenza particolari
markers immunologici e controllare lo stato di
attivazione cellulare notoriamente correlabile
al processo patologico in atto e alla risposta terapeutica.
Il “test di attivazione dei basofili” (bAt) può essere eseguito, su appuntamento,
con un semplice prelievo ematico presso la bIoS S.p.A. di Via D. Chelini n. 39
in Roma; informazioni e prenotazioni - INfo CUP tEL. 06 809641
PSA, PSA RAtIo, PCA3
Alessandro Amici
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Il PSA o antigene prostatico specifico è una
proteina prodotta dell'epitelio ghiandolare della
prostata che viene riversato nel lume dei dotti
ghiandolari al momento dell'eiaculazione. La sua
funzione è quella di fluidificare il liquido seminale contenente gli spermatozoi nel loro viaggio
verso l’apparato femminile della riproduzione.
Il PSA venne identificato nel 1979 nel siero
umano come una glicoproteina appartenente alla
famiglia delle callicreine e, da più di trenta anni,
grazie a un semplice prelievo di sangue, rappresenta uno strumento insostituibile nelle mani dell’urologo sia per la diagnosi precoce di cancro
della prostata sia nel follow-up dei pazienti già
trattati per cancro prostatico.
Il tumore della prostata è un nemico silenzioso che dà segno di sé solo negli stadi più
avanzati di malattia. Pertanto, come sempre più
spesso accade, in assenza di segni clinici, il PSA
è l’unico test in grado di indirizzare le decisioni
dell’urologo e il paziente verso la biopsia prostatica.
Il PSA viene esclusivamente prodotto dalla
prostata, pertanto le modificazioni dei livelli di
PSA nel sangue sono da ricondurre a modificazioni di questo organo e non di altri. Ecco perché
il PSA è considerato un marcatore “organo specifico” e non “cancro-specifico”: ciò significa
che un aumento del livello di PSA può essere associato sia alla presenza di un tumore della prostata sia a condizioni benigne quali l’ipertrofia
prostatica benigna o un’infiammazione della
ghiandola prostatica.
Pertanto il solo dosaggio del PSA non prescinde dalla visita con l’ urologo il quale ha compito di discriminare tra un PSA “ pericoloso” o un
PSA “tranquillo” attraverso la raccolta della
anamnesi, un’accurata esplorazione digito-ret-
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tale ed eventuali esami strumentali aggiuntivi.
L’incidenza di tumore della prostata è drammaticamente aumentata negli ultimi venti anni in
Europa, ma con sorpresa la mortalità legata al tumore della prostata non sembra significativamente modificata.
Ciò rende ancora aperto il dibattito sulla necessità di programmi di screening basati sul dosaggio del PSA in grado di ridurre realmente la
mortalità cancro-specifica evitando un “overtreatment” di quei pazienti con malattita tumorale
non clinicamente significativa. In un recente studio ( ERSPC) lo screening basato sul PSA diminuirebbe il rischio di morte per tumore alla prostata del 20%.
In generale, tutti gli uomini dai 50 anni in su
dovrebbero sottoporsi a un dosaggio del PSA e
una visita urologica una volta l’anno. Esistono
numerosi PSA test in commercio ma ancora oggi
non esiste un “cut-off” universalmente accettato.
Ad un livello di PSA inferiore a 1 ng/ml il rischio tumore prostatico è molto basso, vicino al
2%; un livello di PSA superiore a 4 ng/ml è considerato da molti urologi il limite oltre il quale
vale la pena considerare il rischio di tumore alla
prostata in quanto, per livelli compresi tra 4 e 10
ng/ ml, la probabilità di essere affetti da tumore
della prostata è del 26%, cioè circa 1 paziente su
4. Per livelli superiori a 10 ng/ml tale rischio arriva anche al 57%, cioè 1 paziente su 2.
Occorre altresì dire che, come dimostrano
numerosi studi epidemiologici, non è raro il riscontro di cancro prostatico per livelli di PSA inferiori a 4ng/ml.
Come accennato in precedenza, il PSA può
aumentare nel siero anche in corso di patologie
benigne quali l’infiammazione della prostata o
l’ipertrofia prostatica benigna (IPB). Al fine di
migliorare la specificità del test PSA per il cancro della prostata, sono stati proposti negli ultimi
anni altri test, alcuni dei quali come il PSA velocity o il PSA doubling time che non hanno riscosso grande successo tra gli urologi, mentre altri come il PSA ratio sono di grande utilità
nell’assegnazione di un rischio neoplastico ad
un PSA elevato.
Il “free/ total PSA ratio” o più semplicemente PSA ratio si ricava dal rapporto tra la parte
“free” del PSA, quella che circola libera nel siero
non legata a proteine plasmatiche e il PSA totale
dosato. Le linee guida europee attribuiscono al
f/T PSA ratio un ruolo importante nella stratificazione del rischio di cancro in quei pazienti con
PSA totale compreso tra 4 e 10 ng/ml con esplorazione digito-rettale negativa: infatti una biopsia
prostatica positiva ovvero la presenza di tumore
alla prostata si trova nel 56% dei pazienti con f/T
PSA ratio inferiore a 10%, mentre è dell’ 8% in
quei pazienti con f/T PSA ratio superiore a 25%.
In altre parole, quando si vuole interpretare la
“natura” di un PSA elevato, più è basso il valore
della f/T PSA ratio tanto più si attribuirà un rischio neoplastico a quel PSA elevato. D’altra
parte, l’Associazione Europea di Urologia (EAU)
giudica clinicamente inutile il calcolo della f/T
PSA ratio in pazienti con PSA superiore a 10
ng/ml : ciò è da imputare al fatto che questi pazienti sono inevitabilmente candidati all’esecuzione di una biospia prostatica. Occorre infine tener conto che alcuni fattori pre-analitici e clinici
possono alterare il calcolo della f/T PSA ratio. Ad
esempio valori alterati possono derivare da una
“cattiva” conservazione dei campioni: il PSA
free risulta infatti instabile sia alla temperatura di
4° C sia a temperatura ambiente. Inoltre un valore
erroneamente alto può derivare da un effetto “diluizione” in concomitanza di IPB con prostate di
largo volume.
La diagnosi di tumore prostatico è istologica: questo significa che ogni paziente con sospetto
di neoplasia prostatica deve sottoporsi a una biopsia prostatica con prelievo di alcuni frammenti
di tessuto che verranno poi analizzati dall’ anatomo-patologo.
Purtroppo, non sempre una biopsia prostatica porta a un risultato conclusivo, poiché, tranne
che in rari casi, i prelievi non sono mirati su una
zona sospetta per tumore ma a campione su tutto l’ambito prostatico .
Molto spesso ci troviamo di fronte ad un paziente che avendo già subito una biopsia prosta-
tica risultata negativa continua ad avere un PSA
elevato. Il dilemma in questi pazienti è se sottoporli o meno ad una nuova biopsia gravata come
noto da non trascurabili possibili complicanze e
stress per il paziente.
La PCA3 è un test molecolare di ultima generazione che risponde all’esigenza degli urologi
nell’ indirizzare i pazienti verso una nuova biopsia prostatica o re-biopsia.
Per capire meglio il significato di questo
nuovo test diagnostico per la diagnosi precoce del
tumore della prostata occorre fare un passo indietro: l’iter diagnostico per questa malattia,
come precedentemente spiegato, si avvale, in
prima istanza, del dosaggio del PSA e dell’esplorazione digito-rettale della prostata.
Qualora sussistano i sospetti della presenza di
una neoplasia prostatica solo una biopsia eco-guidata con esame istologico del materiale prostatico
prelevato potrà confermare o fugare tali sospetti.
Nella maggioranza dei casi, la biopsia viene
eseguita prelevando frustoli prostatici “a campione” cercando di comprendere durante i prelievi tutte le regioni prostatiche.
Pertanto, non si potrà escludere che il risultato
negativo di una biopsia dipenda non dall’assenza
di tumore ma da una sua mancata individuazione.
Quando ci si trova quindi di fronte a pazienti
che esprimono un PSA elevato dopo una biopsia
risultata negativa occorre riconsiderare l’opportunita di una re-biospia.
Nel 1999 alcuni ricercatori olandesi trovavano che l’ mRNA di un gene chiamato DD3 o
PCA3 veniva over-espresso nelle cellule tumorali
prostatiche. Da allora sono stati sviluppati molti
test in grado di misurare l’mRNA del PCA3 su
campioni di urine. Alcuni studi mostrano che la
misura dei livelli di PCA3 nelle urine di pazienti
con PSA> 2,5 ng/ ml e precedente biopsia negativa è più accurata del PSA sierico nel predire il
risultato di una seconda biopsia. In tempi ancora
più recenti in uno studio prospettico su 463 pazienti, i livelli medi di PCA3 risultavano più alti
in quei pazienti a cui sarebbe stato diagnosticato
un tumore della prostata.
Nella pratica clinica il test del PCA3 viene
eseguito su un campione di urine (15-20 ml),
emesse dopo massaggio prostatico, che viene inviato in laboratorio per la determinazione del
PCA score, calcolato dal rapporto tra le copie di
PCA3mRNA e le copie di PSAmRNA: valori
superiori a 35 si correlano ad una maggiore probabilità di biopsia prostatica positiva per adenocarcinoma.
Valori di PCA3 score o, più semplicemente,
PCA3 compresi tra 50-100 indicano un 50% di
probabilità di avere una biopsia positiva.
Positività che supera il 70% in quei casi di
PCA3 superiore a 100. Negli ultimi anni, dato
l’incremento del suo utilizzo, alcuni studi cercano
di ampliare il ruolo della PCA3 non solo nel predire la presenza di tumore prostatico, ma anche
di predirne l’aggressività: sembrerebbe, infatti,
che alti valori di PCA3 si correlino a tumori prostatici con Gleason score più alto (espressione del
grado di differenziazione/aggressività delle cellule tumorali) come pure a tumori di stadio più
alto.
I prossimi anni ci consegneranno ulteriori studi per definire correttamente il campo di utilizzazione del PCA3, ma siamo certi di avere già tra
le mani uno strumento di grande utilità sia nella
diagnosi precoce di tumore della prostata sia nell’evitare inutili biopsie prostatiche ai nostri pazienti.
La bios S.p.A di Via Chelini 39 di Roma in collaborazione con l’Istituto Nazionale tumori
Regina Elena esegue il test del PCA 3 su urine raccolte dopo massaggio prostatico. Quest’ultimo
può essere eseguito direttamente dall’urologo del paziente o presso la stessa bios di Via D.
Chelini previo appuntamento.
Per ulteriori informazioni anche sulle modalità di raccolta e conservazione del campione e
prenotazione - INfo CUP tEL 06 809641
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LA CELIACHIA
Anna Simonetta Battiato
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La malattia celiaca (MC) o morbo celiaco è una
malattia cronica di origine autoimmune, che
coinvolge l'intestino tenue, caratterizzata da atrofia dei villi, iperplasia delle cripte della mucosa
intestinale e aumento dei linfociti intestinali (cellule deputate all'immunità cellulare). Colpisce soggetti predisposti geneticamente, che esposti al glutine sviluppano una intolleranza caratterizzata da
malassorbimento.
ma 6; in particolare è stata dimostrata l'associazione con i geni che codificano per gli alleli DQ2
e DQ8. Il 90% dei celiaci presentano l'allele DQ2,
mentre nella maggior parte dei restanti celiaci è
presente l'allele DQ8. Questi stessi alleli sono presenti anche nel 25-30% dei parenti sani dei celiaci,
il che suggerisce la probabile coesistenza di altri
fattori genetici, non ancora ben studiati, che predispongono alla manifestazione della malattia.
Cause
La celiachia è dovuta al concorso di tre processi che portano al danno intestinale:
• la predisposizione genetica
• i fattori ambientali
• l’infiammazione su base immunologica.
fattori ambientali
Il principale fattore ambientale della MC è
l'assunzione di glutine. Con il termine di glutine
si comprende una famiglia di proteine vegetali,
le prolamine, presenti in diversi cereali:
• frumento (gliadine)
• orzo (ordeine)
• segale (secaine).
Esistono ancora dubbi sulla tossicità delle
prolamine contenute nell'avena (avenine), mentre mais e riso, non contenendo glutine, possono
Predisposizione genetica
La MC è associata con specifici alleli del complesso maggiore di istocompatibilità o HLA (human leukocyte antigen) di classe II del cromoso-
essere utilizzate nell'alimentazione dei celiaci.
Le prolamine sono proteine di riserva presenti
nei semi dei cereali, ricche di due aminoacidi,
glutamina e prolina, che sono potenti attivatori
della risposta immunitaria del paziente celiaco.
Esistono anche altri fattori come infezioni virali, chirurgia addominale, gravidanza, assunzione massiccia di glutine, che sembrano avere
un ruolo precipitante nella sintomatologia della
malattia, aumentando la risposta immunologica
al glutine.
fattori immunologici
La MC è una malattia infiammatoria su base
immunitaria, che induce uno stato infiammatorio
cronico dell'intestino tenue, con modificazioni
strutturali della mucosa. Si pensa che il processo
infiammatorio sia anche in relazione ad una aumentata permeabilità della mucosa intestinale
alle macromolecole, come le proteine del glutine.
Recenti studi mettono in relazione la comparsa di diverse malattie autoimmuni, come il
diabete di tipo I e la celiachia, con l’aumentata
produzione a livello della mucosa intestinale di
una molecola, la zonulina, coinvolta nell’immunità innata: l’aumentata secrezione di questa sostanza comporta un incremento della permeabilità intestinale.
Il passaggio attraverso la barriera intestinale
di macromolecole esogene, tra cui il glutine, stimolerebbe, nei soggetti geneticamente predisposti, la produzione inappropriata di autoanticorpi.
La risposta infiammatoria al glutine consiste
nell'aumento e attivazione di diverse linee cellulari immunitarie: aumentano, infatti, i T linfociti (risposta immunitaria cellulare), le plasmacellule (risposta anticorpale) e i macrofagi, al di sotto dell'epitelio della mucosa; i T linfociti si trovano nello strato superficiale dell'epitelio.
I T linfociti in particolare, producono una
serie di sostanze tossiche come le citochine e il
TNF (Tumor Necrosis Factor), che danneggiano
le cellule epiteliali della mucosa, causando l'appiattimento e perdita dei villi intestinali (fig. 1).
Il danno interessa maggiormente l'intestino tenue
prossimale; in alcuni casi non tutta la mucosa è
interessata e il danno è presente solo in alcune
zone con lunghezza variabile del tratto colpito.
La potente risposta anticorpale presente nei
celiaci non a dieta priva di glutine (Gluten Free
Diet: GFD) è dovuta alle plasmacellule presenti
in gran numero nella mucosa intestinale.
Queste cellule producono anticorpi IgA, IgG,
IgM diretti contro le proteine del glutine (AGA;
anticorpi anti-gliadina) e autoanticorpi diretti
contro alcune componenti del tessuto connettivo
(EMA: anticorpi anti-endomisio; anti tTG; anticorpi anti-transglutaminasi tissutali). Gli anticorpi tessutali, soprattutto, sono altamente specifici per la malattia celiaca (tab. 1).
Epidemiologia
La MC è una patologia molto diffusa, ma
poco diagnosticata. Si stima che nei paesi europei, in particolare in Italia, la percentuale dei pazienti affetti da MC sia di 1:100/1:200, con una
popolazione stimata di circa 500.000 individui,
contro i circa 50.000 attualmente diagnosticati:
l'attuale stato diagnostico della MC viene, quindi,
efficacemente descritto con l'immagine di un iceberg, nel quale solo una piccola porzione dei pazienti affetti da questa patologia emerge alla superficie grazie ad una corretta diagnosi.
Diagnosi
La diagnosi si basa sui dosaggi sierologici
degli anticorpi anti-gliadina (AGA), degli anticorpi anti-endomisio (EMA) e degli anticorpi
anti-transglutaminasi tissutali (anti tTG). In particolare il dosaggio degli anti-tTG è un test molto
sensibile per la diagnosi di MC.
Ottenuta la positività dei test sierologici, è
comunque indispensabile per la conferma della
diagnosi, eseguire una biopsia intestinale, che
evidenzi l'atrofia della mucosa.
Sintomatologia
Il tipico quadro clinico della MC, con tutti i
sintomi riconducibili al malassorbimento, come
perdita di peso, difetto di crescita, steatorrea
(presenza di grassi indigeriti nelle feci), gonfiore,
flatulenza, irritabilità e varie deficienze nutrizio-
9
tab. 1 - tESt SIERoLoGICI
Anticorpi anti-endomisio EmA: sensibilità 85%-98%; specificità 97%-100%
Anticorpi anti-anti-transglutaminasi ttG: sensibilità 93%; specificità 99%
I rischi di una diagnosi non precocemente effettuata sono strettamente legati all'instaurarsi di
severe complicanze non reversibili, anche se
viene attuata la dieta priva di glutine: diabete di
tipo I, infertilità nell'uomo e nella donna, sprue
collagenosica, complicanze neurologiche, cirrosi
epatica, linfoma intestinale (tab. 2).
fig.1
10
nali (ferro, acido folico,vitamina K, vitamine liposolubili) è facilmente riconosciuto dal medico.
Però, si è visto che la malattia si presenta il
più delle volte con tutta una serie di sintomi non
tipici, mimando, spesso, altre patologie o nella
forma silente con sintomi sfumati o del tutto assenti (tab. 2).
Questi modi atipici possono essere singole carenze di micronutrienti (ferro, acido folico, ecc.);
disturbi gastrointestinali non specifici come gonfiore, flatulenza, diarrea, stipsi, dolore addominale, intolleranza al lattosio, disturbi che spesso
vengono genericamente etichettati come “sindrome dell'intestino irritabile”; affaticabilità, depressione, osteoporosi, anemia sideropenica; malattie del sistema endocrino, come diabete di tipo
I, tiroidite autoimmune; ipertransaminasemia;
malattie neurologiche, come epilessia, neuropatia periferica ecc...
Tra questi sintomi sfumati quelli maggiormente riportati nell'ambulatorio del medico di
famiglia sono anemia, stanchezza cronica e sintomi riferibili alla cosiddetta “sindrome dell'intestino irritabile”.
Per questo motivo molto spesso la diagnosi
viene formulata dopo anni dall'inizio della sintomatologia, aumentando i rischi connessi alla
mancata diagnosi.
terapia
Attualmente l'unica terapia è la dieta priva di
glutine; in genere la risposta sintomatologica è
molto rapida, mentre la mucosa intestinale riacquista la normalità dopo mesi o anni.
La dieta deve essere osservata per tutta la vita
e deve essere rigorosa; non è tollerata nemmeno
la presenza di contaminazioni di glutine, che scatenano di nuovo la sintomatologia e il danno
della mucosa.
Peraltro i pazienti celiaci che seguono una
dieta priva di glutine, hanno una qualità ed una
aspettativa di vita sovrapponibile a quella della
popolazione generale, sempre che non siano già
presenti complicanze non reversibili come il diabete di tipo I.
è importante anche valutare attentamente la
presenza di allergie o intolleranze crociate ad
altre componenti della dieta, perché spesso il paziente celiaco mostra un quadro clinico complesso, sviluppando ipersensibilità nei confronti
anche di uova, latte, additivi chimici.
Risulta in questo caso necessaria l'attenta
adesione a una dieta con alimenti a basso potere
allergizzante.
Con le recenti scoperte sul ruolo patogenetico
della barriera intestinale nella malattia celiaca, si
aprono comunque nuove possibilità terapeutiche
per il suo trattamento, attraverso l’utilizzo di cereali trattati, la degradazione enzimatica del glutine, il ripristino della barriera intestinale con
un’eventuale terapia farmacologica.
tab. 2 - PAtoLoGIE CoRRELAtE
Apparato Gastrointestinale
Apparato Renale
Ipertransaminasemia
Nefropatia da IgA
Steatosi epatica
Apparato Emopoietico
Epatite
Anemia
Cirrosi biliare
Disordini della coagulazione
Ulcere aftose della bocca
Deficit di IgA
Sindrome dell'intestino irritabile
Iposplenismo
Ulcera digiunale
Linfoma T-cell
Apparato Nervoso
Apparato osteoarticolare
Neuropatie periferiche
Osteoporosi
Epilessia
Osteopenia
Atassia
Artralgie - Artrite
Psichiatrici
Apparato Cardiovascolare
Depressione
Cardiomiopatia
Schizofrenia
Genetici
Apparato Endocrino
Sindrome di Down
Diabete di tipo I
Dentali
Infertilità
Ipoplasia dello smalto dentale
Aborti ricorrenti
Apparato cutaneo
Tiroidite autoimmune
Dermatite erpetiforme
Pigmentazione bruna della faccia e della
mucosa orale
La bIoS SpA esegue tutti i test di laboratorio utili ad un corretto inquadramento
della malattia celiaca: anticorpi anti endomisio IgA ed IgG, antitransglutaminasi IgA ed IgG, antigliadina IgA ed IgG, HLA di II classe.
INfo CUP. tEL. 06 809641
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SIStEmA ImmUNItARIo
E tEoRIA DEI SIStEmI
12
L’oPINIoNE
Giuseppe Luzi
Gli sviluppi sostanziali dell’Immunologia
nel corso della seconda metà del XX secolo hanno fornito un contributo prezioso di conoscenze
esteso non solo all’interpretazione di meccanismi
patogenetici causa di alcune malattie ma fondamentale per giungere a un efficace inquadramento
delle interazioni chimico-fisiche e cellulari che regolano la vita.
Ai nostri giorni molti farmaci sono in grado
di interferire sul sistema immunitario, in prevalenza con azione immunosoppressiva, e da alcuni
anni molecole ottenute per mezzo delle biotecnologie (anticorpi monoclonali, farmaci così
detti “biologici”) consentono una migliore gestione di malattie autoimmuni o disreattive come
accade per l’artrite reumatoide e altre gravi
forme morbose. Meno brillante è stato il successo ottenuto dagli studi immunologici per
quanto riguarda il controllo e il miglioramento
delle sindromi da immunodeficienza (sia in
forma congenita sia per quanto riguarda le patologie acquisite). Il problema è piuttosto complesso e ben si comprende che risolvere un
difetto congenito dell’immunità significa riuscire
a condizionare o sostituire una risposta genetica
incompleta o inesistente.
La complessità del sistema immunitario non
è “inferiore”, se sono lecite graduatorie di questo
tipo, a quanto si osserva nel sistema nervoso centrale.
Nel corso dell’evoluzione un complesso integrato di cellule e molecole si è costituito non
solo per difendere l’organismo da aggressioni
esterne ma per fornire una rete di controllo in
grado di distinguere bersagli differenti, anche interni all’organismo, senza danneggiarlo.
Nel XIX secolo gli studi che hanno dato
maggiore soddisfazione hanno riguardato la scoperta dei batteri, la colorazione di preparati microbiologici, l’identificazione “operativa” degli
antisieri come primi strumenti di difesa (pensiamo al siero antidifterico). Gli antibiotici, ma
solo dopo la seconda guerra mondiale, hanno
consentito l’altro salto di qualità, mentre le conoscenze sul sistema immunitario sono state limitate originariamente ad applicazioni tecniche
di laboratorio per finalità esclusivamente diagnostiche.
In realtà sin dai primi anni del XX secolo il
pensiero immunologico aveva inquadrato l’essenza della risposta immunitaria (basti pensare
che il Nobel per i loro studi sulla risposta sierologica e cellulare rispettivamente venne conferito a Paul Ehrlich ed Elie Metchnikoff già nel
1908).
Quando oggi si parla di neurologia clinica non
si può fare a meno di pensare a Camillo Golgi e
a Santiago Ramon y Cajal. Acerrimi avversari Golgi e Cajal hanno comunque costruito le basi sulle quali è stato possibile interpretare i momenti essenziali della struttura anatomo-funzionale del sistema nervoso.
Ma esiste un padre dell’Immunologia? Esiste una figura che si impone sulle altre in grado
di delineare un’immagine sintetica delle conoscenze in quest’area della ricerca biologica?
è assai difficile dare una risposta convinta e
convincente perché mai il contributo di studi diversi è stato così ricco di implicazioni pratiche,
sia nel settore diagnostico sia nell’ambito della
clinica.
Chi ha studiato gli anticorpi tutto sommato
aveva già un compito arduo per definire le loro
caratteristiche strutturali e funzionali, ma poi era
necessario capire come gli anticorpi nascevano,
quali segnali e quali proprietà della cellula erano
in grado di operare la sintesi di queste molecole
così complesse e così variabili. E questo, ovvia-
mente, vale per molti altri aspetti.
Chi si occupa di Immunologia in realtà corre
il rischio di studiare, anche se con grandiosi risultati, solo una frazione del sistema. Prima che
la meccanica quantistica venisse ad agitare le
acque della fisica sembrava che tutto fosse abbastanza coerente, ma poi ci si è resi conto che
bisognava riesaminare molti punti in prima approssimazione considerati acquisiti. Ecco: oggi
forse abbiamo strumenti matematici e informatici, una certa esperienza di modellistica di laboratorio, che possono aiutarci in modo innovativo
a comprendere il sistema immunitario o almeno
a interpretare alcune fasi della sua risposta proprio come sistema, come una struttura non rigidamente integrata.
Alcuni autori già parlano di Immunologia
come scienza combinatoriale. Come riporta G.
Villani, del CNR di Pisa, in un suo scritto:
Monod dopo aver definito gli esseri viventi
“macchine chimiche” aggiunge: “Come ogni
macchina, ogni organismo, anche il più semplice, rappresenta un’unità funzionale coerente e
integrata. è ovvio che la coerenza funzionale di
una macchina chimica tanto complessa, e per di
più autonoma, esige l’intervento di un sistema cibernetico che controlli in più punti la sua attività”.
è probabile che molte delle conoscenze sul
sistema immunitario abbiano un futuro non solo
strettamente legato alla sperimentazione clinica
e/o di laboratorio ma si basino sull’adozione di
modelli matematici, come del resto già accade
da qualche anno sebbene i cultori di questo modo
di trattare il problema siano visti un po’ come
personaggi eccentrici.
L’interdipendenza delle parti componenti il
tutto esprime una realtà diversa da quella delle
singole componenti: questa è la sfida del XXI secolo, sfida della teoria dei sistemi applicata al
mondo della Biologia in generale e dell’Immunologia in particolare.
Il Servizio di Immunologia Clinica si avvale della collaborazione del prof. Giuseppe Luzi, prof. associato - immunologo clinico e della prof.ssa Roberta Di Rosa,
prof. aggregato, specialista in Immunologia Clinica; informazioni e prenotazioni
INfo CUP tEL 06 809641
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UNA StRANA DIftERItE DA fAGIoLINI…
mAL CoNSERVAtI
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ImPARARE DALLA CLINICA
Augusto Vellucci
Giunge al Reparto, nel quale prestavo servizio come aiuto di Malattie Infettive, una ragazza
ventenne, inviataci dalla Divisione di Oculistica;
l’interessata aveva riferito che, appena sveglia,
aveva tentato di leggere il giornale, ma non ci era
riuscita perché non vedeva più bene da vicino,
mentre la visione da lontano rimaneva normale.
Si accorgeva anche di un fastidio nel guardare
dove c’era molta luce e di un senso di secchezza
del faringe. Unico dato anamnestico di rilievo
era quello di una tonsillite acuta con essudato faringeo, episodio del quale la ragazza aveva sofferto circa un mese prima. Nell’ ipotesi di una
polinevrite difterica, comparsa a distanza di qualche settimana dall’impegno faringo-tonsillitico,
l’oculista inviava la ragazza nel nostro reparto e
l’assistente di accettazione, condividendo la diagnosi, la ricoverava e decideva di somministrarle
con urgenza il siero antidifterico.
Un attento esame obiettivo della paziente mi
faceva confermare il quadro clinico descritto,
quello cioè di una incapacità bilaterale all’accomodazione nella visione di oggetti vicini, as-
sociata a persistente midriasi (pupille dilatate,
che giustificavano il fastidio a guardare in ambienti molto luminosi), ad un torpido riflesso pupillare alla luce con scomparsa dei riflessi alla
convergenza e all’accomodazione, e a un rilievo di secchezza del faringe, che si presentava
asciutto e deterso. Non esisteva alcun deficit
motorio, non alterazione nei movimenti dei
globi oculari, non diplopia (visione doppia), né
nistagmo (movimenti oculari involontari). Non
vi era febbre né altra sintomatologia rilevabile,
salvo una lieve debolezza generalizzata. Rimettevo in frigorifero il siero preparato per la somministrazione e mi chiedevo se potesse essere
accettabile la diagnosi di polinevrite difterica.
La difterite è una malattia infettiva causata da
un Corinebatterio che si moltiplica nel faringe,
dove si viene a formare una pseudo-membrana di
colore grigiastro associata a una notevole tumefazione linfonodale laterocervicale; qui il batterio produce una potente esotossina che, entrata in
circolo, determina un blocco della sintesi proteica di tutte le cellule che colpisce, causandone la
morte. Si verificano effetti dannosi soprattutto a
carico delle cellule cardiache, epatiche e renali.
L’impegno delle vie nervose è usualmente
una complicanza tardiva (dopo alcune settimane
dalla faringite). Prima si ha paralisi del palato
molle e del retrofaringe con rigurgito e rinolalia
(voce nasale), successivamente compare paralisi
di alcuni nervi cranici e, dopo altri giorni, segni
di polinevrite agli arti inferiori, con progressiva
debolezza muscolare, fino alla paralisi totale (andamento discendente).
Nel caso in esame non esisteva nulla di tutto
ciò. E poi, sapevo bene che nella polinevrite difterica non è presente alcun interessamento del sistema nervoso autonomo, quello che innerva i
movimenti dei muscoli dell’occhio che risultavano impegnati nella nostra paziente.
Infatti l’accomodazione visiva è regolata dal
piccolo muscolo ciliare, il quale, contraendosi, fa
sì che il cristallino accentui la sua curvatura anteriore, permettendo la messa a fuoco di oggetti
a distanza sempre più ravvicinata. La paresi del
ciliare si manifesta perciò con un deficit accomodativo, dapprima solo per la visione vicina
(quella infatti che richiede una completa contrazione e quindi un maggiore sforzo muscolare) e
poi, con l’intensificarsi della sintomatologia, anche della visione a distanza, fino alla scomparsa
del potere di accomodazione. Analogo comportamento presenta il piccolo muscolo costrittore
dell’iride, la cui azione fa restringere lo sfintere
irideo (miosi) e la paralisi lo fa dilatare (la midriasi della paziente). I suddetti muscoli oculari
sono innervati dal parasimpatico mesencefalico,
con fibre colinergiche che decorrono con il 3°
paio dei nervi cranici e che, giunte a destinazione, stimolano i piccoli muscoli, rilasciando
una sostanza (acetilcolina) che ne permette l’eccitazione. Queste fibre non sono aggredite dalla
tossina difterica. La diagnosi di difterite non
aveva più diritto di domicilio! Ma l’astenia si
stava rapidamente accentuando, cominciando a
interessare i muscoli respiratori, segno evidente
dell’inizio dell’ intossicazione anche delle sinapsi colinergiche dei muscoli striati.
bisognava fare presto a chiarire il problema.
Quale tossina poteva essere la causa della patologia della nostra paziente?
Quale tossina è selettivamente dotata di una
azione anticolinergica, inibendo la produzione di
questo mediatore chimico, azione che evidentemente inizia nelle sedi più delicate, come in
quelle oculari, e poi può bloccare il funzionamento anche dei muscoli scheletrici? Escludendo
per varie ragioni la possibilità di un’intossicazione da tossine con azione atropino-simile,
come ad esempio quella da Amanite (la malata
non aveva mai mangiato funghi in vita sua), la
diagnosi non poteva che essere una: botulismo!
Nel botulismo l’avvelenamento è determinato dalla ingestione di cibo (soprattutto conserve
domestiche) contaminato da spore del Clostridium
botulinum in ambiente anaerobico (senza ossigeno), nel quale le spore germinano, crescono e
producono la tossina; questa è termolabile (viene distrutta dal calore oltre gli 80 gradi e quindi
non si ritrova nei cibi bolliti), ma resiste ai succhi gastrici. Ingerita con alimenti non sottoposti
a bollitura, la tossina penetra in circolo e attacca una proteina della giunzione neuromuscolare
a livello delle terminazioni nervose, impedendo
il rilascio proprio dell’acetilcolina e determinando il quadro clinico da noi osservato.
La diagnosi era fatta!
Iniziava allora una corsa contro il tempo, sia
per ottenere con estrema urgenza che ci venisse
inviato il siero antibotulinico, che in quel momento non era disponibile presso la nostra farmacia, e sia per trovare ulteriori riscontri alla
diagnosi. Telefonai allora all’istituto di suore
dove la paziente consumava i pasti, e la superiora
candidamente mi riferiva che un’altra ragazza,
dalla mattina, aveva disturbi visivi e da poco non
riusciva a respirare bene; ma era noto che soffriva di asma bronchiale! E che forse una terza
ragazza cominciava ad avere gli stessi sintomi.
Risposi, forse spaventando un poco la mia interlocutrice, chiedendo ad alta voce di inviarle ambedue in ospedale con estrema urgenza.
Dopo poco si ricoveravano le due nuove pazienti; la seconda mostrava un quadro clinico ancora più intenso di quello della prima, con
sempre più evidente paresi dei muscoli respiratori (per essa fu necessario un lungo periodo di
ventilazione assistita). Somministravo immediatamente a tutte il siero antibotulinico, appena arrivato, e avvertivo l’Ufficio di Igiene per una
immediata inchiesta presso l’istituto dove le ragazze consumavano i pasti. L’indagine, subito
effettuata, permetteva di individuare l’alimento
incriminato in un grosso barattolo di fagiolini
conservati, di produzione familiare, nel quale venivano trovate le spore del Botulino e la tossina,
riconosciuta di tipo A.
Il decorso clinico fu per le tre pazienti lungo
e impegnativo, ma alla fine guarirono completamente. La diagnosi corretta effettuata solo sul ragionamento clinico aveva impedito di somministrare il siero antitossico sbagliato e aveva permesso di salvare la vita di tre giovani donne.
15
IL PIede dIABeTIco
16
mIxING
Alessandro ciammaichella
Si tratta di un’entità clinica dovuta a due momenti patogenetici fondamentali, quali l’angiopatia e la neuropatia diabetiche: a seguire, nei
casi più complicati, compaiono spesso l’infezione e le lesioni ossee distruttive.
La microangiopatia diabetica ne è responsabile quale causa diretta dell’ischemia dei tessuti
e della conseguente gangrena. Ma essa opera anche tramite la compromissione dei “vasa nervorum” che comporta l’altro meccanismo patogenetico fondamentale, quale la neuropatia.
La neuropatia diabetica coinvolge - oltre al sistema neurovegetativo o autonomo, con multiformi
sintomi viscerali - anche il sistema nervoso periferico: i correlati disturbi della sensibilità interessano prevalentemente gli arti inferiori. Si distinguono una forma primitiva, di tipo metabolico, dovuta soprattutto ai danni arrecati dal sorbitolo (le lesioni anatomo-patologiche comprendono
la frammentazione della guaina mielinica, la degenerazione walleriana delle fibre nervose e la degenerazione dendritica dei gangli simpatici) e una
forma secondaria alla microangiopatia, per la chiusura, come detto, dei “vasa nervorum”.
I sintomi ipertermia, iperidrosi, cianosi ed
edema sono da riportare a una sindrome di de-
nervazione simpatica. Molto varia la sintomatologia neurologica: crampi, parestesie e dolori,
più spesso di notte; talora dolori folgoranti di
tipo pseudotabetico. All’esame obiettivo: iposensibilità profonda con ipo-apallestesia, ipoestesia completa o solo termoanalgesica, areflessia rotulea. L’elettromiografia confermerà il
sospetto clinico.
Il mal perforante plantare è strettamente connesso con la neuropatia diabetica: si caratterizza
per una necrosi tessutale della pianta del piede,
soprattutto nei tre punti dove è maggiore la pressione del peso corporeo in ortostatismo: prima e
quinta articolazione metatarso-falangea e calcagno. Tale pressione può essere bene quantificata
con la baropodometria. L’analgesia diabetica è responsabile della “penetrazione” della necrosi in
profondità in quanto il paziente - non avvertendo
dolore - non si accorge della necrosi cutanea né
soprattutto del suo approfondimento, che può arrivare fino alle ossa, provocando anche una
osteomielite. Caso di osservazione personale:
mentre medicavo un mal perforante plantare, inviatomi da un ortopedico, mi caddero in mano
frammenti di ossa (da osteomielite) senza che il
paziente avvertisse nulla.
Il piede è quasi sempre secco, per perdita
dell’innervazione neurovegetativa (i piedi con
normale sudorazione di rado si ulcerano): la cheratina secca si rompe e ne consegue ulcerazione.
In questi casi pertanto il piede deve essere immerso in acqua per 10 - 20 minuti e asciugato: si
applicherà poi olio minerale, per prevenire l’evaporazione dell’acqua assorbita.
L’infezione - oltre che con un’accurata toilette va trattata con antibiotici mirati con antibiogramma, in loco e per via sistemica.
L’osteoartropatia diabetica, oltre al mal
perforante plantare, è un’altra forma con la quale
può essere interessato il sistema scheletrico. Essa,
secondaria alla neuropatia, colpisce il piede più
spesso rispetto alla caviglia e al ginocchio. Compare osteolisi di una o più ossa. Il piede è deformato, quasi mai dolente, nonostante la severità
dei danni anatomici, ed edematoso. Compromessa la motilità.
Il Servizio di Diabetologia è diretto dalla Dr.ssa Rita Amoretti, già responsabile del Servizio di Diabetologia dell'ospedale “San Giovanni e Addolorata” di Roma; informazioni e prenotazioni - INfo CUP tel. 06 809641
UnA “TIGRe” FASTIdIoSA neLL’eSTATe UMIdA
Giuseppe Luzi
Il suo nome scientifico è Aedes albopictus, ha
dimensioni di pochi millimetri (più o meno come
la zanzara comune che ben conosciamo), il suo
aspetto cromatico è caratteristico con un corpo nero
e una banda bianca che attraversa longitudinalmente il corpo stesso e linee bianche sulle piccole
zampe. I maschi sono più piccoli delle femmine.
è la zanzara tigre che, originaria dell’Asia, è
giunta nel nostro paese più o meno una decina di
anni or sono trovando spazio in pneumatici d’importazione all’interno dei quali erano state deposte le uova.
Nella seconda metà del ventesimo secolo la
zanzara si è diffusa in numerosi paesi africani e
si trova negli USA, in Australia, in diverse aree
del Sud America e nelle isole del Pacifico. In Italia è ormai presente su tutto il territorio nazionale
ed è stata individuata anche in diverse nazioni eu-
ropee. Quando punge fa male: si forma una bolla
con insorgenza di prurito e dolore. Particolarmente sensibili alla puntura i bambini. Numerose
punture sono in grado di provocare una reazione
allergica significativa, anche se di solito localizzata.
è interessante sapere che la sua attività è diurna, carattere che la distingue dalla zanzara comune.
Le prede sono cercate di solito al di fuori delle abitazioni, all’aria aperta, ma non vengono disdegnati i comuni appartamenti. Inoltre la zanzara
tigre ha una capacità di puntura rapidissima e sfugge velocemente alla “cattura”. L’Aedes albopictus si giova di piccole raccolte d’acqua, acqua stagnante di pioggia o accumulata con comuni annaffiature di giardini o balconi. Poiché la sua capacità di adattamento è molto alta praticamente
qualunque contenitore, anche piccolo, può rappresentare un’utile riserva per la riproduzione.
La zanzara tigre depone le sue uova sulla superficie dell’acqua. Con l’innalzarsi del livello dell’acqua le uova deposte vengono completamente sommerse: in questo ambiente esse si schiudono
e si possono osservare le larve. In circa una settimana le larve diventano adulte.
La nostra zanzara ha un raggio d’azione che
non supera di solito i 200 metri e questo fatto ci
può aiutare nel localizzare i luoghi di deposizione delle uova che risultano abbastanza vicini alla
sede dove vengono individuate le stesse zanzare.
Tuttavia questa osservazione va presa con il
beneficio di inventario perché osservazioni recenti dimostrano che la “tigre” si sposta anche oltre gli 800 - 1000 metri.
Pneumatici usati “a rischio” di zanzara tigre, nei quali possono trovarsi uova di Aedes albopictus
17
piegato durante un'epidemia in Tanzania nel
1952, a causa delle gravi limitazioni articolari dovute alle importanti artralgie che caratterizzano la
malattia. La febbre può essere accompagnata da
brividi molto forti. Può essere anche presente
una linfoadenopatia coinvolgente numerosi distretti.
Uova di Aedes albopictus
18
L’adattamento climatico non è un problema
perché l’Aedes albopictus, sebbene derivi da zone
tropicali e subtropicali, tende a riprodursi con
successo anche in territori più freddi. In Italia ha
fatto la sua prima comparsa nella città di Genova.
Sotto il profilo medico dobbiamo tenere presente che la zanzara tigre punge diversi ospiti (anche gli animali, oltre l’uomo). In particolare può
essere trasmessa la dirofilariasi dal cane all’uomo.
Tuttavia vari agenti patogeni possono essere
trasmessi: il virus della febbre del Nilo, della febbre gialla, dell’encefalite di St. Louis, del dengue
e il virus chikungunya (non molto tempo fa, tra
il 2005 e il 2006, nell’isola francese di Riunione,
furono circa 300.000 le persone contagiate e ci furono 248 morti). In Italia un’ epidemia di chikungunya è stata segnalata nella zona di Ravenna, nell’estate del 2007. Durante questo evento furono
colpite circa 200 persone.
Il chikungunya è causata da un Alphavirus
che induce un quadro clinico caratteristico: l’incubazione è in media di 2 - 4 giorni ma può arrivare a dodici. La forma più tipica è una sindrome
febbrile acuta, con esordio brusco, febbre elevata
e poliartralgie.
Il termine chikungunya, in makonde, significa
“ciò che curva” o “induce contorsioni” e fu im-
Di particolare rilievo è l’intensità della sintomatologia dolorosa che si estende ai muscoli,
alle spalle e al rachide. La manifestazione cutanea è possibile in circa la metà dei casi e si presenta con rash cutaneo, con eritema al tronco e
alla faccia, associato ad enantema ed eritema
palmare e plantare. In generale l’evoluzione è benigna e il ricovero in ambiente ospedaliero non
sembra essere necessario nella maggior parte dei
casi. Tuttavia la convalescenza può essere lunga
con il persistere dei dolori anche per tre, quattro
mesi. Forme rare sono un’epatite talora a carattere fulminante, una forma di mielo-meningo encefalite, la forma di poliradiculoneurite tipo sindrome di Guillain-Barré, la pericardite con
miocardite.
La lotta all’Aedes si fa bonificando l’ambiente e tenendolo sotto controllo. Bisogna considerare la stagione più a rischio, un’estate umida,
come spesso è quella romana, ma anche la grande
capacità delle uova che possono sopravvivere in
forma quiescente durante l’inverno.
Di particolare interesse è il ricorso a nuove
tecnologie che utilizzano sistemi satellitari di
sorveglianza. Infatti ricorrendo al sistema GPS
dovrebbe essere possibile monitorizzare l’emergere di focolai di uova degli insetti in diverse aree
topograficamente distinte, utilizzando quindi una
tattica anti-zanzara più efficace e mirata.
Una semplice precauzione consiste semplicemente nel non generare pozzanghere, di qualsiasi tipo.
La Consulenza Infettivologica viene svolta dal prof. Augusto Vellucci, specialista in malattie Infettive, già Primario ospedaliero di malattie infettive; informazioni e prenotazioni - INfo CUP tEL. 06 809641.
L’aggiornamento sulle cause di morte in età pediatrica nei bambini al di sotto dei cinque anni è
stata valutata per il 2008. Di particolare interesse
i nuovi dati dalla Cina e dall’India.
Sono state prese in esame 193 nazioni. Il numero dei decessi è stato calcolato per nazioni, regioni e a livello globale. Sulla stima di 8, 795 milioni di morti in bambini al di sotto dei 5 anni le
malattie infettive hanno provocato circa 6 milioni di decessi (68%). Le percentuali più ampie riguardano le polmoniti (18%), la diarrea (15%), la
malaria (8%).
Nei neonati le cause di morte includono le complicazioni nelle nascite pretermine (asfissia, sepsi,
polmoniti). Circa il 50% dei morti (4,294 milioni) si collocano in cinque nazioni: India, Nigeria,
Repubblica Democratica del Congo, Pakistan e
Cina.
2) The Lancet 2010; 375: 1704 – 1720
Worldwide mortality in men and women
aged 15-59 years from 1970 to 2010: a systematic analysis
Rajaratnam J.K. et al.
Molte ricerche studiano le cause di morte nell’età infantile e giustamente tendono a definire parametri in grado di formulare ipotesi per migliorare l’assistenza sanitaria.
Risulta al contrario che la mortalità degli
adulti sia un po’ meno considerata, ovviamente nell’ambito dei grandi numeri e delle strategie planetarie. In questo lavoro lo scopo degli autori è stato quello di calcolare una stima della mortalità negli uomini e nelle donne tra i 15 e 59 anni.
Usando un particolare metodo di analisi statistica con lo scopo di evitare errori di interpretazione
grossolani gli autori dello studio hanno identificato
alcuni punti interessanti; per esempio le nazioni che
nel 2010 hanno il rischio più basso di mortalità per
le donne e per gli uomini, rispettivamente, sono
Islanda e Cipro.
Al contrario il più alto rischio di mortalità per
gli uomini si colloca nello Swaziland, nello Zambia per il sesso femminile. Nell’arco di un quarantennio (1970-2010) un incremento della mortalità si è osservato fra gli adulti nell’area subsahariana, a causa dell’epidemia di AIDS. Crescita
della mortalità fra gli adulti anche nelle aree correlate alla vecchia Unione Sovietica.
Al contrario molto forte il declino della mortalità fra le donne nell’Asia del Sud. Questi dati possono essere considerati talora come aggiornamenti
poco significativi, quasi curiosità, nella realtà geopolitica, ma al contrario rappresentano un tentativo di approccio globale al problema.
La prevenzione di morte prematura negli
adulti è di grande importanza, non inferiore a
quanto si deve fare per la prevenzione nell’età pediatrica. Ne deriva una base strategica per l’impostazione di politiche igienico-sanitarie e per
scelte territoriali di intervento in grado di fornire
indicatori sull’efficacia delle azioni da intraprendere o da evitare.
3) J cell Physiol 2010; 9999:
cancer stem cells: a stride towards cancer
cure?
Sengupta A, Cancelas JA.
Gli sviluppi della ricerca oncologica dimostano
il ruolo importante che possono avere le cellule
staminali nell’evoluzione metastatica.
In sostanza la teoria della cancer stem cell si
basa sull’esistenza di una popolazione di cellule
responsabile dell’evoluzione iniziale del cancro,
fRom bENCH to bEDSIDE
1) The Lancet, early online Publication
2010 - doi:10.1016/S0140-6736
Global, regional, and national causes of child
mortality in 2008: a systematic analysis
Black R. E. et al.
19
della stabilizzazione evolutiva in grado di accumulare mutazioni e pertanto di resistere ai trattamenti chemioterapici.
Dal postulato iniziale si sono ottenute varie dimostrazioni che identificano questa rara popolazione cellulare dotata della capacità di iniziare l’evoluzione neoplastica. Nella leucemia mieloide i
dati hanno ricevuto notevoli supporti, mentre meno
chiaro si presenta il problema quando trattiamo tumori solidi (soprattutto ruolo del microambiente,
nicchie cellulari, attivazione dell’espansione neoplastica).
Questa revisione del problema tratta in modo
utile e sintetico le evidenze che supportano la teoria della cellula staminale cancerosa, mettendo in
luce alcune apparenti contraddizioni e la posizione
della comunità scientifica, talora scettica sulla possibilità di ricondurre a questa teoria una visione
unitaria per la genesi dei tumori.
Senza dubbio un argomento per specialisti ma
dalle consistenti ricadute culturali sul tema della
cancerogenesi, ancora ben lungi dall’essere risolto
malgrado ottimismi di maniera.
20
4) n engl J Med 2007; 357:266-281.
Vitamin d deficiency
Holick, M.F.
Ai nostri giorni “ripescare” un lavoro pubblicato nel 2007 sembra quasi una sorta di modernariato bibliografico. Errore.
Esistono articoli che conservano un ruolo
operativo per lungo tempo, in funzione del messaggio che lanciano o dei concetti che vengono
rivisitati. Si pensava di conoscere molto, forse
tutto, sulla vitamina D ma le cose stanno cambiando.Nell’articolo di Holick viene riassunto il
quadro complessivo della fisiopatologia della vit.
D e del suo ruolo in diverse condizioni patologiche.
Il contesto si è ravvivato partendo dall’osservazione che la maggior parte dei tessuti e
delle cellule possiedono recettori per la vit. D e
che alcuni hanno il complesso pool chimico che
forma il macchinario enzimatico che permette al
nostro corpo di convertire la forma circolante di
vit. D nella variante chimica attiva (1,25-diidrossivitamina D).
Sembra ormai acquisito il ruolo di questa
molecola nel diminuire il rischio di diverse malattie croniche, compreso il cancro e alcune
forme di autoimmunità.
Ma l’estensione del ruolo biologico si amplia
sia nell’ambito dell’infettivologia sia in quello
delle malattie cardiovascolari.
Di particolare interesse sembra il ruolo svolto
dalla vit. D nella regolazione di alcune fasi della
risposta immunitaria.
Per esempio grazie ad alcuni recettori che
possono essere attivati da lipopolisaccaridi o in
corso di infezione tubercolare coinvolgendo i
macrofagi, un’adeguata presenza di vit. D consente di modulare la risposta linfocitaria con segnali che coinvolgono i linfociti T e la sintesi
delle immunoglobuline.
G. L.
HANNo CoLLAboRAto IN QUESto NUmERo
Prof. Gabriele Rumi
Unità di Allergologia Complesso Integrato Columbus
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore Roma
Prof. Giuseppe Luzi
Immunologo Clinico
Prof. associato di Medicina Interna
Prof. Alesssandro Amici
Direttore UOC Urologia - Ospedale Fatebenefratelli
Isola Tiberina - Roma
Prof. Augusto Vellucci
Specialista in Malattie Infettive
Medico Responsabile del Servizio Check-Up BIOS S.p.A.
Dr.ssa Anna Simonetta Battiato
Medico specialista in Scienza dell'Alimentazione
Prof. Alessandro ciammaichella
già Primario Medico
ENOLOGIA
LA PREVENZIONE
DEDICATA ALLE DONNE
La bIoS S.p.A. di Via D. Chelini, 39, con esperienza pluridecennale nel campo della radiologia e della prevenzione
si occupa da sempre della diagnostica senologica.
Grazie a questa esperienza offre alle donne
una struttura mutidisciplinare dedicata alla
senologia per realizzare un percorso completo, diagnostico e terapeutico per le
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statisticamente alto: in Italia colpisce una
donna su dieci e circa il 25% ha meno di cinquant’anni di età.
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Esistono protocolli di controllo che utilizzano strumenti e
metodi aggiornati per acquisire dati in grado di fornire un
inquadramento corretto.
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uno specialista, particolarmente esperto in senologia,
a completamento della visita senologica dopo i 20 anni,
o della mammografia, dopo i 40 anni.
Inoltre presso la BIOS S.p.A., è possibile eseguire:
La visita senologica curata da uno specialista senologo, una volta l’anno, a partire dai 25-30 anni.
L’agobiopsia, prelievo sotto guida ecografica di cellule e frammenti di tessuto eseguiti su indicazione del
senologo da parte di un patologo dedicato, per definire
la natura di un nodulo.
Un eventuale intervento chirurgico sarà eseguito
dai nostri Specialisti, a livello di esclusiva eccellenza.
Ogni necessario trattamento adiuvante diretto e
coordinato dall’equipe multidisciplinare.
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