Scarica il pdf
Transcript
Scarica il pdf
Direttore: Pier Luigi Amata IL CENTRO BIOS DELLA CHIRURGIA E MEDICINA ESTETICA A ROMA • VALUTAZIONE PRE-OPERATORIA CLINICO-STRUMENTALE • SOLUZIONI FINANZIARIE PERSONALIZZATE • ASSISTENZA POST-OPERATORIA FOLLOW-UP 1, 3, 6, 12 MESI • VISITE E CONSULTAZIONI: BIOS SPA - VIA D. CHELINI 39, ROMA • MEDICINA ESTETICA • PRIMO COLLOQUIO GRATUITO www.bioscultura.it PRENOTATE SUBITO UN COLLOQUIO CON LO SPECIALISTA AL CUP BIOS - 06 809641 n. 3 - 2010 Ipereosinofilie: un profilo diagnostico in citofluorimetria a flusso PSA, PSA ratio, PCA3 La celiachia Sistema immunitario e teoria dei sistemi Una strana difterite da fagiolini... mal conservati Edizioni bIoS S.p.A. SISTEMA QUALITÀ CERTIFICATO UNI EN ISO 9001:2000 CUP - CENTRO UNIFICATO DI PRENOTAZIONE - 06 809641 [email protected] www.bios-spa.it BIOS S.P.A. - STRUTTURA SANITARIA POLISPECIALISTICA FAX - 06 8082104 00197 ROMA - VIA D. CHELINI, 39 APERTO TUTTO L’ANNO. ANCHE IL MESE DI AGOSTO * • IN REGIME DI ACCREDITAMENTO PER TUTTI GLI ESAMI PREVISTI DAL SSR PER INFORMAZIONI SU TUTTI I SERVIZI E PRENOTAZIONI: INFO CUP 06 809641 DIRETTORE SANITARIO: Dott. Francesco Leone DIAGNOSTICA DI LABORATORIO Direttore Tecnico Prof. Giovanni Peruzzi • DIABETOLOGIA E MALATTIE DEL RICAMBIO • DIETOLOGIA • ENDOCRINOLOGIA * ANALISI CLINICHE ESEGUITE CON METODICHE AD ALTA TECNOLOGIA PRELIEVI DOMICILIARI • LABORATORIO DI ANALISI IN EMERGENZA (DEAL) - ATTIVO 24h su 24h - 365 GIORNI L’ANNO CON REFERTI DISPONIBILI DI NORMA ENTRO 2 ORE DAL RICEVIMENTO DEL CAMPIONE PRESSO LA STRUTTURA DIAGNOSTICA PER IMMAGINI Direttore Tecnico Prof. Vincenzo Di Lella Direttore Sanitario Dott. Francesco Leone • GASTROENTEROLOGIA • GENETICA MEDICA - DIAGNOSI PRENATALE • GINECOLOGIA - OSTETRICIA • IMMUNOLOGIA CLINICA • MEDICINA DELLO SPORT • MEDICINA INTERNA • NEFROLOGIA • NEUROLOGIA • OCULISTICA • ORTOPEDIA • OSTETRICIA - GINECOLOGIA • • • • • • • DIAGNOSTICA RADIOLOGICA * RADIOLOGIA GENERALE TRADIZIONALE E DIGITALE * ORTOPANORAMICA DENTALE DIGITALE * SENOLOGIA TAC SPIRALE (T.C) (TOTAL BODY) DENTASCAN MINERALOMETRIA OSSEA COMPUTERIZZATA (M.O.C.) • DIAGNOSTICA ECOGRAFICA • ECOGRAFIA INTERNISTICA: singoli organi e addome completo • DIAGNOSTICA ECOGRAFICA CARDIOLOGICA E VASCOLARE: ecocardiogramma, ecocolordoppler • ECOGRAFIA GINECOLOGICA: sovrapubica, endovaginale • ECOGRAFIA OSTETRICO-GINECOLOGICA IN 3D E 4D DI ULTIMA GENERAZIONE: - TRANSLUCENZA NUCALE O PLICA NUCALE - ECOGRAFIA MORFOLOGICA - FLUSSIMETRIA • ECOGRAFIE PEDIATRICHE DIAGNOSTICA SPECIALISTICA Direttore Sanitario Dott. Francesco Leone • • • • • • ALLERGOLOGIA ANDROLOGIA ANGIOLOGIA AUDIOLOGIA CARDIOLOGIA DERMATOLOGIA • OTORINOLARINGOIATRIA • PNEUMOLOGIA • PSICOLOGIA CLINICA • REUMATOLOGIA • UROLOGIA CENTRI E SERVIZI MULTIDISCIPLINARI Direttore Sanitario Dott. Francesco Leone • CHECK-UP PERSONALIZZATI - MIRATI: Sui principali fattori di rischio - VELOCI: Nell’arco di una sola mattinata - Convenzioni con le aziende • SERVIZIO DIAGNOSTICA RAPIDA: con referti e diagnosi in 24-48 ore • CENTRO ANTITROMBOSI: monitoraggio e counseling del paziente in terapia antitrombotica • CENTRO PER LA DIAGNOSI E CURA DELL’IPERTENSIONE • CENTRO PER LO STUDIO, DIAGNOSI E CURA DEL DIABETE • CENTRO PER LO STUDIO DELLE CEFALEE • SERVIZIO DI MEDICINA E BIOLOGIA DELLA RIPRODUZIONE: studio dell’infertilità di coppia, fecondazione assistita di I livello • SERVIZIO DI DIAGNOSTICA PRE E POST NATALE, MONITORAGGIO DELLA GRAVIDANZA • SERVIZIO DI ANDROLOGIA E PREVENZIONE DELLE MALATTIE SESSUALMENTE TRASMESSE • SERVIZIO VACCINAZIONI N. 3/2010 Bimestrale di informazione e aggiornamento scientifico Periodico della bIoS S.p.A. fondata da Maria Grazia Tambroni Patrizi L’editoriale 2 Fernando Patrizi Direttore Responsabile Fernando Patrizi Direzione Scientifica Giuseppe Luzi Ipereosinofilie: un profilo diagnostico in citofluorimetria a flusso 3 Gabriele Rumi PSA, PSA ratio. PCA3 Segreteria di Redazione Gloria Maimone Coordinamento Editoriale Licia Marti 5 Alessandro Amici Comitato Scientifico Armando Calzolari Carla Candia Vincenzo Di Lella Francesco Leone Giuseppe Luzi Gilnardo Novellli Giovanni Peruzzi Augusto Vellucci Anneo Violante Hanno collaborato a questo numero: Giuseppe Luzi, Augusto Vellucci, Gabriele Rumi, Alessandro Amici, Anna Simonetta Battiato, Alessandro Ciammaichella. La celiachia 6 La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli è dei singoli autori. Direzione, Redazione, Amministrazione BioS S.p.A. Via D. Chelini, 39 00197 Roma Tel. 06 80964245 [email protected] Anna Simonetta Battiato Grafica e Impaginazione Vinci&Partners srl Impianti e Stampa ArtColorPrinting srl via Portuense, 1555 - 00148 Roma Sistema immunitario e teoria dei sistemi 10 Giuseppe Luzi Edizioni bIoS S.p.A. Autorizzazione del Tribunale di Roma: n. 186 del 22/04/1996 In merito ai diritti di riproduzione la BIOS S.p.A. si dichiara disponibile per regolare eventuali spettanze relative alle immagini delle quali non sia stato possibile reperire la fonte Pubblicazione in distribuzione gratuita. Finito di stampare nel mese di luglio 2010 Una strana difterite da fagiolini... mal conservati Augusto Vellucci 13 bIoS SpA Struttura Sanitaria Polispecialistica Via D. Chelini, 39 - 00197 Roma Dir. Sanitario: Dott. Francesco Leone CUP 06.809.641 Un punto di forza per la vostra salute 1 EDItoRIALE Fernando Patrizi 2 L’EDItoRIALE Una prospettiva del “fare” nell’ambito dell’iniziativa privata: quale futuro? L'Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane, nato per iniziativa dell'Istituto di Igiene dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, rappresenta un’istituzione di carattere scientifico sotto forma di Centro di Eccellenza in collaborazione con le istituzioni accademiche, scientifiche e tecnologiche nazionali ed internazionali, con particolare riferimento all'European Observatory on Health Care Systems dal quale mutua i meccanismi istituzionali. è opera meritoria di questa istituzione produrre documenti aggiornati sulla “salute nelle regioni italiane” con lo scopo di controllare gli aspetti organizzativi e gestionali delle varie strutture sanitarie. Il recente rapporto riferito al 2009, nella sua estensione completa accessibile su internet, fornisce un quadro interessante sul tema, tenuto conto che la gestione del Servizio Sanitario Nazionale avrà un futuro sempre più correlato alle strutture regionali. Molti sono gli elementi che emergono dal voluminoso lavoro. Nel comunicato stampa del 16 marzo 2010 relativo alla presentazione del Rapporto “Osservasalute 2009” si legge: “La crisi morde anche la salute: Nord bene e soddisfatti, Sud male e rassegnati, soprattutto donne e anziani”. Le prime note del comunicato identificano immediatamente l’essenza della ricerca: “La salute degli italiani, ancorché complessivamente buona, sta subendo duramente anche i colpi della crisi economica, i cui effetti si riscontrano su più fronti e tendono a colpire soprattutto le fasce più deboli di popolazione, anziani e donne. Sotto il peso della scarsa disponibilità economica si spegne il sorriso degli italiani, infatti il ricorso alle cure odontoiatriche, quasi sempre a carico delle famiglie, è stato un “lusso” che solo poco più di una famiglia su tre (il 39,7%) si è potuto permettere”. Partendo da queste importanti premesse la sanità privata e convenzionata come si inserisce nel cambiamento strutturale in corso del nostro Paese? Sappiamo che il costo dell’assistenza sanitaria e delle sue varie articolazioni, per esempio nel Lazio, rappresenta la voce fondamentale della spe- sa regionale. Gran parte del dibattito che ha preceduto le elezioni regionali, pur nella confusione talora generata dalla diversità delle opinioni a confronto, ha riguardato solo in parte la sanità nella nostra regione. Dobbiamo chiederci: si vuole veramente attivare una collaborazione omogenea tra strutture pubbliche e private? La regione Lazio si trova di fronte a un cambiamento importante dal punto di vista politico. Negli anni recenti il disagio delle strutture private, soprattutto nel settore delle analisi cliniche di laboratorio, si è manifestato secondo varie modalità e molti laboratori hanno chiuso. La nostra BIOS, malgrado stia subendo da circa tre anni una consistente riduzione del budget assegnato per le analisi di laboratorio in convenzione con il S.S.N., ha continuato a garantire ininterrottamente il servizio alla clientela. I politici, nel Lazio, regione non certo virtuosa per il controllo della spesa sanitaria, sono di fronte a scelte di programma che non possono più eludere. L’assistenza pubblica da sola non ce la fa. L’assistenza privata garantita da servizi controllati e qualificati dalla stessa regione non è un optional funzionale ma fa parte essenziale di questo settore dell’economia e dell’assistenza. Il territorio, alla luce delle esigenze del singolo cittadino, rappresenta una realtà quotidiana dove c’è necessità di riferimenti certi, di fiducia. Il laboratorio privato è spesso il laboratorio di fiducia, quello presente nel territorio, che offre credibilità nel risultato, nei tempi di attesa, nella possibilità di discutere punti critici. La BIOS SpA è un importante realtà del territorio non solo romano ma del Lazio; per questo vuole farsi parte attiva per la difesa della propria realtà aziendale e per offrire un servizio qualificato all’utenza, nella chiarezza del ruolo regionale. La regione deve inoltre rispettare i tempi di pagamento e non essere di ostacolo a chi impegnandosi con investimenti e rischio imprenditoriale fornisce un supporto essenziale a deficit di assistenza non altrimenti superabili. IPEREoSINofILIE: UN PRofILo DIAGNoStICo IN CItofLUoRImEtRIA A fLUSSo Gabriele Rumi Gli eosinofili sono granulociti che originano dal midollo osseo, dotati di funzioni in diverse patologie ed esplicanti un ruolo chiave nelle fasi tardive e croniche delle reazioni infiammatorie e allergiche. Le granulazioni dei granulociti eosinofili furono osservate per la prima volta nel 1846 da Wharton, in preparazioni di cellule di sangue periferico non sottoposte a colorazione. Il termine “eosinofilo” fu introdotto successivamente da Paul Ehrlich (1879) che ne descrisse l’intensa colorazione dei granuli indotta dall’eosina. Il coinvolgimento degli eosinofili è stato dimostrato in alcune condizioni cliniche come le malattie parassitarie, le malattie allergiche e l’asma, le alterazioni cutanee e alcune malattie neoplastiche. In condizioni normali il numero degli eosinofili è inferiore a 0.4 x 10 /l. L’ipereosinofilia si accompagna a situazioni patologiche nelle quali è in atto una risposta correlata a linfociti definiti Th2 spesso accompagnata da iper-IgE, anche se l’ipereosinofilia può manifestarsi isolata. L’ipereosinofilia è comunque presente in diverse situazioni patologiche a patogenesi non sempre ben definita (malattie dell’apparato digerente, malattie del sistema immunitario, malattie reu9 matiche, malattie dell’apparato urinario, malattie cutanee). Gli eosinofili sono in grado di esprimere, “de novo”, particolari recettori dopo prolungata coltura con alcune citochine. Il ciclo vitale dell’eosinofilo è ripartito in tre fasi: midollare, ematica e tessutale. Sebbene sia un elemento pienamente formato nel sangue periferico, l’eosinofilo è una cellula che dimora nei tessuti. Nell’uomo il rapporto tra eosinofili tessutali ed eosinofili del sangue è di circa 100:1. Gli eosinofili risiedono a livello dei tessuti esposti ad agenti ambientali (intestino e vie respiratorie). La stimolazione “in vitro” con varie citochine del sangue periferico induce l’espressione del marker precoce di attivazione, CD69, dell’α-catena del recettore per l’IL-2 (CD25) e della β2 integrina, CD113. Negli eosinofili presenti nell’espettorato di soggetti asmatici si osserva una regolazione verso l’alto di CD11b, CD11c, CD67, CD69, CD137, HLA-DR. Pertanto, gli eosinofili di individui asmatici, specialmente quelli derivati dal polmone (BAL), presentano alcuni fenotipi di attivazione, relativi a particolari funzioni biologiche. Le reazioni di ipersensibilità immediata, cioè quelle che avvengono in tempi molto rapidi, minuti, sono scatenate dall'interazione di un antigene con anticorpi specifici di classe IgE legati a recettori di membrana presenti su mastociti, granulociti basofili e granulociti eosinofili attivati. Mentre la reazione immediata è riferibile all'azione dei mediatori chimici preformati contenuti nei granuli dei mastociti e dei basofili, la reazione ritardata è dovuta a mediatori mastocitari neosintetizzati e alle conseguenze di un processo infiammatorio sostenuto da linfociti T e da eosinofili che infiltrano l'organo bersaglio. L'arruolamento e l'attivazione degli eosinofili completa il quadro della cosiddetta "flogosi allergica" che, in forma più o meno marcata, rappresenta il comune deno- 3 4 minatore di tutte le forme cliniche a patogenesi allergica. Gli eosinofili sono direttamente responsabili delle modificazioni strutturali dei tessuti ove vengono reclutati. Attraverso la liberazione della proteina basica maggiore (MBP), delle proteasi e di radicali dell'ossigeno i granulociti eosinofili inducono vari tipi di danno. Gli eosinofili sono particolarmente coinvolti nella fagocitosi di complessi antigene-anticorpo. Essi aumentano durante alcune infezioni parassitarie e in individui con allergie. Alcune delle sostanze contenute nei granuli eosinofilici reagiscono con prodotti provenienti dai basofili, dalle mastcellule e dai linfociti (l’enzima istaminasi, per esempio, inattiva l’istamina). Il netto effetto dei fattori rilasciati dagli eosinofili è un generale decremento nell’infiammazione e una riduzione della migrazione granulocitaria nei siti di invasione dei microrganismi. Gli eosinofili hanno la capacità di secernere un eccesso di citochine, fattori di crescita e altri mediatori che possono essere coinvolti nelle interazioni autocrine, paracrine o endocrine che sono in grado di colpire molti altri tipi di cellule. Alcuni mediatori sono prodotti costitutivamente, altri sono prodotti solo dopo l’attivazione cellulare. Inoltre, essi esprimono numerosi recettori che permettono loro di rispondere alle citochine. Cambiamenti funzionali sono associati alla stimolazione degli eosinofili, all’attivazione e alla conversione al fenotipo ipodenso. Cambiamenti fenotipici negli eosinofili sono il risultato di attivazioni acute o croniche. HLA- DR, CD25, CD54 (molecola di adesione cellulare) e CD69 appaiono “de novo”. Altri marker di superficie sono rapidamente incrementati da gruppi preformati presenti nei granuli o rapidamente ridotti come risultato della scissione proteolitica. Molti di questi cambiamenti dovuti all’attivazione sono stati evidenziati su eosinofili isolati dai siti extravascolari dell’infiammazione. Solo la presenza di CD69 e CD25 ha mostrato una correlazione con l’ipodensità o l’attività della malattia allergica. Studi cinetici hanno evidenziato 2 popolazioni con differenti attività proliferative, una più rapida a dismissione midollare di circa 10 ore e una seconda popolazione a dismissione più lenta di circa 80 ore. Una volta entrato nel sangue l’eosinofilo ha una emivita di 8-18 ore, nei tessuti da 2 a 5 giorni. Negli eosinofili la modalità meglio caratterizzata di degranulazione è quella anafilattica che si osserva durante la fase di secrezione cellulare, dove i granuli si fondono perifericamente con la membrana plasmatica e successivamente avviene l’estrusione della matrice e del “core” del granulo. In alternativa, i granuli possono fondersi a livello intracitoplasmatico in ampie camere di degranulazione che si aprono all’esterno della cellula attraverso pori di degranulazione (esocitosi). Di osservazione più comune è la cosiddetta degranulazione piece-meal, in cui le vescicole contenenti le proteine granulari si staccano dai granuli secondari determinando il loro graduale svuotamento. Gli eosinofili hanno la capacità di secernere un certo numero di potenti mediatori rappresentati da proteine granulari (MBP, ECP, EPO, EDN), lipidi neoformati dalla membrana cellulare (leucotrieni, prostaglandine, PAF), citochine (IL3, IL4, IL5, GM-CSF, IL10, IL12, NGF, SCF), varie proteasi (CLC) e prodotti del metabolismo ossidativo. Proprio per l’importanza che hanno assunto gli eosinofili in diverse condizioni patologiche ne è derivato un approccio di grande rilievo diagnostico e clinico. In particolare è possibile tramite particolari tecniche citometriche riconoscere il fenotipo di membrana e citoplasmatico dei granulociti eosinofili (foG method) allo scopo di mettere in evidenza particolari markers immunologici e controllare lo stato di attivazione cellulare notoriamente correlabile al processo patologico in atto e alla risposta terapeutica. Il “test di attivazione dei basofili” (bAt) può essere eseguito, su appuntamento, con un semplice prelievo ematico presso la bIoS S.p.A. di Via D. Chelini n. 39 in Roma; informazioni e prenotazioni - INfo CUP tEL. 06 809641 PSA, PSA RAtIo, PCA3 Alessandro Amici 5 Il PSA o antigene prostatico specifico è una proteina prodotta dell'epitelio ghiandolare della prostata che viene riversato nel lume dei dotti ghiandolari al momento dell'eiaculazione. La sua funzione è quella di fluidificare il liquido seminale contenente gli spermatozoi nel loro viaggio verso l’apparato femminile della riproduzione. Il PSA venne identificato nel 1979 nel siero umano come una glicoproteina appartenente alla famiglia delle callicreine e, da più di trenta anni, grazie a un semplice prelievo di sangue, rappresenta uno strumento insostituibile nelle mani dell’urologo sia per la diagnosi precoce di cancro della prostata sia nel follow-up dei pazienti già trattati per cancro prostatico. Il tumore della prostata è un nemico silenzioso che dà segno di sé solo negli stadi più avanzati di malattia. Pertanto, come sempre più spesso accade, in assenza di segni clinici, il PSA è l’unico test in grado di indirizzare le decisioni dell’urologo e il paziente verso la biopsia prostatica. Il PSA viene esclusivamente prodotto dalla prostata, pertanto le modificazioni dei livelli di PSA nel sangue sono da ricondurre a modificazioni di questo organo e non di altri. Ecco perché il PSA è considerato un marcatore “organo specifico” e non “cancro-specifico”: ciò significa che un aumento del livello di PSA può essere associato sia alla presenza di un tumore della prostata sia a condizioni benigne quali l’ipertrofia prostatica benigna o un’infiammazione della ghiandola prostatica. Pertanto il solo dosaggio del PSA non prescinde dalla visita con l’ urologo il quale ha compito di discriminare tra un PSA “ pericoloso” o un PSA “tranquillo” attraverso la raccolta della anamnesi, un’accurata esplorazione digito-ret- 6 tale ed eventuali esami strumentali aggiuntivi. L’incidenza di tumore della prostata è drammaticamente aumentata negli ultimi venti anni in Europa, ma con sorpresa la mortalità legata al tumore della prostata non sembra significativamente modificata. Ciò rende ancora aperto il dibattito sulla necessità di programmi di screening basati sul dosaggio del PSA in grado di ridurre realmente la mortalità cancro-specifica evitando un “overtreatment” di quei pazienti con malattita tumorale non clinicamente significativa. In un recente studio ( ERSPC) lo screening basato sul PSA diminuirebbe il rischio di morte per tumore alla prostata del 20%. In generale, tutti gli uomini dai 50 anni in su dovrebbero sottoporsi a un dosaggio del PSA e una visita urologica una volta l’anno. Esistono numerosi PSA test in commercio ma ancora oggi non esiste un “cut-off” universalmente accettato. Ad un livello di PSA inferiore a 1 ng/ml il rischio tumore prostatico è molto basso, vicino al 2%; un livello di PSA superiore a 4 ng/ml è considerato da molti urologi il limite oltre il quale vale la pena considerare il rischio di tumore alla prostata in quanto, per livelli compresi tra 4 e 10 ng/ ml, la probabilità di essere affetti da tumore della prostata è del 26%, cioè circa 1 paziente su 4. Per livelli superiori a 10 ng/ml tale rischio arriva anche al 57%, cioè 1 paziente su 2. Occorre altresì dire che, come dimostrano numerosi studi epidemiologici, non è raro il riscontro di cancro prostatico per livelli di PSA inferiori a 4ng/ml. Come accennato in precedenza, il PSA può aumentare nel siero anche in corso di patologie benigne quali l’infiammazione della prostata o l’ipertrofia prostatica benigna (IPB). Al fine di migliorare la specificità del test PSA per il cancro della prostata, sono stati proposti negli ultimi anni altri test, alcuni dei quali come il PSA velocity o il PSA doubling time che non hanno riscosso grande successo tra gli urologi, mentre altri come il PSA ratio sono di grande utilità nell’assegnazione di un rischio neoplastico ad un PSA elevato. Il “free/ total PSA ratio” o più semplicemente PSA ratio si ricava dal rapporto tra la parte “free” del PSA, quella che circola libera nel siero non legata a proteine plasmatiche e il PSA totale dosato. Le linee guida europee attribuiscono al f/T PSA ratio un ruolo importante nella stratificazione del rischio di cancro in quei pazienti con PSA totale compreso tra 4 e 10 ng/ml con esplorazione digito-rettale negativa: infatti una biopsia prostatica positiva ovvero la presenza di tumore alla prostata si trova nel 56% dei pazienti con f/T PSA ratio inferiore a 10%, mentre è dell’ 8% in quei pazienti con f/T PSA ratio superiore a 25%. In altre parole, quando si vuole interpretare la “natura” di un PSA elevato, più è basso il valore della f/T PSA ratio tanto più si attribuirà un rischio neoplastico a quel PSA elevato. D’altra parte, l’Associazione Europea di Urologia (EAU) giudica clinicamente inutile il calcolo della f/T PSA ratio in pazienti con PSA superiore a 10 ng/ml : ciò è da imputare al fatto che questi pazienti sono inevitabilmente candidati all’esecuzione di una biospia prostatica. Occorre infine tener conto che alcuni fattori pre-analitici e clinici possono alterare il calcolo della f/T PSA ratio. Ad esempio valori alterati possono derivare da una “cattiva” conservazione dei campioni: il PSA free risulta infatti instabile sia alla temperatura di 4° C sia a temperatura ambiente. Inoltre un valore erroneamente alto può derivare da un effetto “diluizione” in concomitanza di IPB con prostate di largo volume. La diagnosi di tumore prostatico è istologica: questo significa che ogni paziente con sospetto di neoplasia prostatica deve sottoporsi a una biopsia prostatica con prelievo di alcuni frammenti di tessuto che verranno poi analizzati dall’ anatomo-patologo. Purtroppo, non sempre una biopsia prostatica porta a un risultato conclusivo, poiché, tranne che in rari casi, i prelievi non sono mirati su una zona sospetta per tumore ma a campione su tutto l’ambito prostatico . Molto spesso ci troviamo di fronte ad un paziente che avendo già subito una biopsia prosta- tica risultata negativa continua ad avere un PSA elevato. Il dilemma in questi pazienti è se sottoporli o meno ad una nuova biopsia gravata come noto da non trascurabili possibili complicanze e stress per il paziente. La PCA3 è un test molecolare di ultima generazione che risponde all’esigenza degli urologi nell’ indirizzare i pazienti verso una nuova biopsia prostatica o re-biopsia. Per capire meglio il significato di questo nuovo test diagnostico per la diagnosi precoce del tumore della prostata occorre fare un passo indietro: l’iter diagnostico per questa malattia, come precedentemente spiegato, si avvale, in prima istanza, del dosaggio del PSA e dell’esplorazione digito-rettale della prostata. Qualora sussistano i sospetti della presenza di una neoplasia prostatica solo una biopsia eco-guidata con esame istologico del materiale prostatico prelevato potrà confermare o fugare tali sospetti. Nella maggioranza dei casi, la biopsia viene eseguita prelevando frustoli prostatici “a campione” cercando di comprendere durante i prelievi tutte le regioni prostatiche. Pertanto, non si potrà escludere che il risultato negativo di una biopsia dipenda non dall’assenza di tumore ma da una sua mancata individuazione. Quando ci si trova quindi di fronte a pazienti che esprimono un PSA elevato dopo una biopsia risultata negativa occorre riconsiderare l’opportunita di una re-biospia. Nel 1999 alcuni ricercatori olandesi trovavano che l’ mRNA di un gene chiamato DD3 o PCA3 veniva over-espresso nelle cellule tumorali prostatiche. Da allora sono stati sviluppati molti test in grado di misurare l’mRNA del PCA3 su campioni di urine. Alcuni studi mostrano che la misura dei livelli di PCA3 nelle urine di pazienti con PSA> 2,5 ng/ ml e precedente biopsia negativa è più accurata del PSA sierico nel predire il risultato di una seconda biopsia. In tempi ancora più recenti in uno studio prospettico su 463 pazienti, i livelli medi di PCA3 risultavano più alti in quei pazienti a cui sarebbe stato diagnosticato un tumore della prostata. Nella pratica clinica il test del PCA3 viene eseguito su un campione di urine (15-20 ml), emesse dopo massaggio prostatico, che viene inviato in laboratorio per la determinazione del PCA score, calcolato dal rapporto tra le copie di PCA3mRNA e le copie di PSAmRNA: valori superiori a 35 si correlano ad una maggiore probabilità di biopsia prostatica positiva per adenocarcinoma. Valori di PCA3 score o, più semplicemente, PCA3 compresi tra 50-100 indicano un 50% di probabilità di avere una biopsia positiva. Positività che supera il 70% in quei casi di PCA3 superiore a 100. Negli ultimi anni, dato l’incremento del suo utilizzo, alcuni studi cercano di ampliare il ruolo della PCA3 non solo nel predire la presenza di tumore prostatico, ma anche di predirne l’aggressività: sembrerebbe, infatti, che alti valori di PCA3 si correlino a tumori prostatici con Gleason score più alto (espressione del grado di differenziazione/aggressività delle cellule tumorali) come pure a tumori di stadio più alto. I prossimi anni ci consegneranno ulteriori studi per definire correttamente il campo di utilizzazione del PCA3, ma siamo certi di avere già tra le mani uno strumento di grande utilità sia nella diagnosi precoce di tumore della prostata sia nell’evitare inutili biopsie prostatiche ai nostri pazienti. La bios S.p.A di Via Chelini 39 di Roma in collaborazione con l’Istituto Nazionale tumori Regina Elena esegue il test del PCA 3 su urine raccolte dopo massaggio prostatico. Quest’ultimo può essere eseguito direttamente dall’urologo del paziente o presso la stessa bios di Via D. Chelini previo appuntamento. Per ulteriori informazioni anche sulle modalità di raccolta e conservazione del campione e prenotazione - INfo CUP tEL 06 809641 7 LA CELIACHIA Anna Simonetta Battiato 8 La malattia celiaca (MC) o morbo celiaco è una malattia cronica di origine autoimmune, che coinvolge l'intestino tenue, caratterizzata da atrofia dei villi, iperplasia delle cripte della mucosa intestinale e aumento dei linfociti intestinali (cellule deputate all'immunità cellulare). Colpisce soggetti predisposti geneticamente, che esposti al glutine sviluppano una intolleranza caratterizzata da malassorbimento. ma 6; in particolare è stata dimostrata l'associazione con i geni che codificano per gli alleli DQ2 e DQ8. Il 90% dei celiaci presentano l'allele DQ2, mentre nella maggior parte dei restanti celiaci è presente l'allele DQ8. Questi stessi alleli sono presenti anche nel 25-30% dei parenti sani dei celiaci, il che suggerisce la probabile coesistenza di altri fattori genetici, non ancora ben studiati, che predispongono alla manifestazione della malattia. Cause La celiachia è dovuta al concorso di tre processi che portano al danno intestinale: • la predisposizione genetica • i fattori ambientali • l’infiammazione su base immunologica. fattori ambientali Il principale fattore ambientale della MC è l'assunzione di glutine. Con il termine di glutine si comprende una famiglia di proteine vegetali, le prolamine, presenti in diversi cereali: • frumento (gliadine) • orzo (ordeine) • segale (secaine). Esistono ancora dubbi sulla tossicità delle prolamine contenute nell'avena (avenine), mentre mais e riso, non contenendo glutine, possono Predisposizione genetica La MC è associata con specifici alleli del complesso maggiore di istocompatibilità o HLA (human leukocyte antigen) di classe II del cromoso- essere utilizzate nell'alimentazione dei celiaci. Le prolamine sono proteine di riserva presenti nei semi dei cereali, ricche di due aminoacidi, glutamina e prolina, che sono potenti attivatori della risposta immunitaria del paziente celiaco. Esistono anche altri fattori come infezioni virali, chirurgia addominale, gravidanza, assunzione massiccia di glutine, che sembrano avere un ruolo precipitante nella sintomatologia della malattia, aumentando la risposta immunologica al glutine. fattori immunologici La MC è una malattia infiammatoria su base immunitaria, che induce uno stato infiammatorio cronico dell'intestino tenue, con modificazioni strutturali della mucosa. Si pensa che il processo infiammatorio sia anche in relazione ad una aumentata permeabilità della mucosa intestinale alle macromolecole, come le proteine del glutine. Recenti studi mettono in relazione la comparsa di diverse malattie autoimmuni, come il diabete di tipo I e la celiachia, con l’aumentata produzione a livello della mucosa intestinale di una molecola, la zonulina, coinvolta nell’immunità innata: l’aumentata secrezione di questa sostanza comporta un incremento della permeabilità intestinale. Il passaggio attraverso la barriera intestinale di macromolecole esogene, tra cui il glutine, stimolerebbe, nei soggetti geneticamente predisposti, la produzione inappropriata di autoanticorpi. La risposta infiammatoria al glutine consiste nell'aumento e attivazione di diverse linee cellulari immunitarie: aumentano, infatti, i T linfociti (risposta immunitaria cellulare), le plasmacellule (risposta anticorpale) e i macrofagi, al di sotto dell'epitelio della mucosa; i T linfociti si trovano nello strato superficiale dell'epitelio. I T linfociti in particolare, producono una serie di sostanze tossiche come le citochine e il TNF (Tumor Necrosis Factor), che danneggiano le cellule epiteliali della mucosa, causando l'appiattimento e perdita dei villi intestinali (fig. 1). Il danno interessa maggiormente l'intestino tenue prossimale; in alcuni casi non tutta la mucosa è interessata e il danno è presente solo in alcune zone con lunghezza variabile del tratto colpito. La potente risposta anticorpale presente nei celiaci non a dieta priva di glutine (Gluten Free Diet: GFD) è dovuta alle plasmacellule presenti in gran numero nella mucosa intestinale. Queste cellule producono anticorpi IgA, IgG, IgM diretti contro le proteine del glutine (AGA; anticorpi anti-gliadina) e autoanticorpi diretti contro alcune componenti del tessuto connettivo (EMA: anticorpi anti-endomisio; anti tTG; anticorpi anti-transglutaminasi tissutali). Gli anticorpi tessutali, soprattutto, sono altamente specifici per la malattia celiaca (tab. 1). Epidemiologia La MC è una patologia molto diffusa, ma poco diagnosticata. Si stima che nei paesi europei, in particolare in Italia, la percentuale dei pazienti affetti da MC sia di 1:100/1:200, con una popolazione stimata di circa 500.000 individui, contro i circa 50.000 attualmente diagnosticati: l'attuale stato diagnostico della MC viene, quindi, efficacemente descritto con l'immagine di un iceberg, nel quale solo una piccola porzione dei pazienti affetti da questa patologia emerge alla superficie grazie ad una corretta diagnosi. Diagnosi La diagnosi si basa sui dosaggi sierologici degli anticorpi anti-gliadina (AGA), degli anticorpi anti-endomisio (EMA) e degli anticorpi anti-transglutaminasi tissutali (anti tTG). In particolare il dosaggio degli anti-tTG è un test molto sensibile per la diagnosi di MC. Ottenuta la positività dei test sierologici, è comunque indispensabile per la conferma della diagnosi, eseguire una biopsia intestinale, che evidenzi l'atrofia della mucosa. Sintomatologia Il tipico quadro clinico della MC, con tutti i sintomi riconducibili al malassorbimento, come perdita di peso, difetto di crescita, steatorrea (presenza di grassi indigeriti nelle feci), gonfiore, flatulenza, irritabilità e varie deficienze nutrizio- 9 tab. 1 - tESt SIERoLoGICI Anticorpi anti-endomisio EmA: sensibilità 85%-98%; specificità 97%-100% Anticorpi anti-anti-transglutaminasi ttG: sensibilità 93%; specificità 99% I rischi di una diagnosi non precocemente effettuata sono strettamente legati all'instaurarsi di severe complicanze non reversibili, anche se viene attuata la dieta priva di glutine: diabete di tipo I, infertilità nell'uomo e nella donna, sprue collagenosica, complicanze neurologiche, cirrosi epatica, linfoma intestinale (tab. 2). fig.1 10 nali (ferro, acido folico,vitamina K, vitamine liposolubili) è facilmente riconosciuto dal medico. Però, si è visto che la malattia si presenta il più delle volte con tutta una serie di sintomi non tipici, mimando, spesso, altre patologie o nella forma silente con sintomi sfumati o del tutto assenti (tab. 2). Questi modi atipici possono essere singole carenze di micronutrienti (ferro, acido folico, ecc.); disturbi gastrointestinali non specifici come gonfiore, flatulenza, diarrea, stipsi, dolore addominale, intolleranza al lattosio, disturbi che spesso vengono genericamente etichettati come “sindrome dell'intestino irritabile”; affaticabilità, depressione, osteoporosi, anemia sideropenica; malattie del sistema endocrino, come diabete di tipo I, tiroidite autoimmune; ipertransaminasemia; malattie neurologiche, come epilessia, neuropatia periferica ecc... Tra questi sintomi sfumati quelli maggiormente riportati nell'ambulatorio del medico di famiglia sono anemia, stanchezza cronica e sintomi riferibili alla cosiddetta “sindrome dell'intestino irritabile”. Per questo motivo molto spesso la diagnosi viene formulata dopo anni dall'inizio della sintomatologia, aumentando i rischi connessi alla mancata diagnosi. terapia Attualmente l'unica terapia è la dieta priva di glutine; in genere la risposta sintomatologica è molto rapida, mentre la mucosa intestinale riacquista la normalità dopo mesi o anni. La dieta deve essere osservata per tutta la vita e deve essere rigorosa; non è tollerata nemmeno la presenza di contaminazioni di glutine, che scatenano di nuovo la sintomatologia e il danno della mucosa. Peraltro i pazienti celiaci che seguono una dieta priva di glutine, hanno una qualità ed una aspettativa di vita sovrapponibile a quella della popolazione generale, sempre che non siano già presenti complicanze non reversibili come il diabete di tipo I. è importante anche valutare attentamente la presenza di allergie o intolleranze crociate ad altre componenti della dieta, perché spesso il paziente celiaco mostra un quadro clinico complesso, sviluppando ipersensibilità nei confronti anche di uova, latte, additivi chimici. Risulta in questo caso necessaria l'attenta adesione a una dieta con alimenti a basso potere allergizzante. Con le recenti scoperte sul ruolo patogenetico della barriera intestinale nella malattia celiaca, si aprono comunque nuove possibilità terapeutiche per il suo trattamento, attraverso l’utilizzo di cereali trattati, la degradazione enzimatica del glutine, il ripristino della barriera intestinale con un’eventuale terapia farmacologica. tab. 2 - PAtoLoGIE CoRRELAtE Apparato Gastrointestinale Apparato Renale Ipertransaminasemia Nefropatia da IgA Steatosi epatica Apparato Emopoietico Epatite Anemia Cirrosi biliare Disordini della coagulazione Ulcere aftose della bocca Deficit di IgA Sindrome dell'intestino irritabile Iposplenismo Ulcera digiunale Linfoma T-cell Apparato Nervoso Apparato osteoarticolare Neuropatie periferiche Osteoporosi Epilessia Osteopenia Atassia Artralgie - Artrite Psichiatrici Apparato Cardiovascolare Depressione Cardiomiopatia Schizofrenia Genetici Apparato Endocrino Sindrome di Down Diabete di tipo I Dentali Infertilità Ipoplasia dello smalto dentale Aborti ricorrenti Apparato cutaneo Tiroidite autoimmune Dermatite erpetiforme Pigmentazione bruna della faccia e della mucosa orale La bIoS SpA esegue tutti i test di laboratorio utili ad un corretto inquadramento della malattia celiaca: anticorpi anti endomisio IgA ed IgG, antitransglutaminasi IgA ed IgG, antigliadina IgA ed IgG, HLA di II classe. INfo CUP. tEL. 06 809641 11 SIStEmA ImmUNItARIo E tEoRIA DEI SIStEmI 12 L’oPINIoNE Giuseppe Luzi Gli sviluppi sostanziali dell’Immunologia nel corso della seconda metà del XX secolo hanno fornito un contributo prezioso di conoscenze esteso non solo all’interpretazione di meccanismi patogenetici causa di alcune malattie ma fondamentale per giungere a un efficace inquadramento delle interazioni chimico-fisiche e cellulari che regolano la vita. Ai nostri giorni molti farmaci sono in grado di interferire sul sistema immunitario, in prevalenza con azione immunosoppressiva, e da alcuni anni molecole ottenute per mezzo delle biotecnologie (anticorpi monoclonali, farmaci così detti “biologici”) consentono una migliore gestione di malattie autoimmuni o disreattive come accade per l’artrite reumatoide e altre gravi forme morbose. Meno brillante è stato il successo ottenuto dagli studi immunologici per quanto riguarda il controllo e il miglioramento delle sindromi da immunodeficienza (sia in forma congenita sia per quanto riguarda le patologie acquisite). Il problema è piuttosto complesso e ben si comprende che risolvere un difetto congenito dell’immunità significa riuscire a condizionare o sostituire una risposta genetica incompleta o inesistente. La complessità del sistema immunitario non è “inferiore”, se sono lecite graduatorie di questo tipo, a quanto si osserva nel sistema nervoso centrale. Nel corso dell’evoluzione un complesso integrato di cellule e molecole si è costituito non solo per difendere l’organismo da aggressioni esterne ma per fornire una rete di controllo in grado di distinguere bersagli differenti, anche interni all’organismo, senza danneggiarlo. Nel XIX secolo gli studi che hanno dato maggiore soddisfazione hanno riguardato la scoperta dei batteri, la colorazione di preparati microbiologici, l’identificazione “operativa” degli antisieri come primi strumenti di difesa (pensiamo al siero antidifterico). Gli antibiotici, ma solo dopo la seconda guerra mondiale, hanno consentito l’altro salto di qualità, mentre le conoscenze sul sistema immunitario sono state limitate originariamente ad applicazioni tecniche di laboratorio per finalità esclusivamente diagnostiche. In realtà sin dai primi anni del XX secolo il pensiero immunologico aveva inquadrato l’essenza della risposta immunitaria (basti pensare che il Nobel per i loro studi sulla risposta sierologica e cellulare rispettivamente venne conferito a Paul Ehrlich ed Elie Metchnikoff già nel 1908). Quando oggi si parla di neurologia clinica non si può fare a meno di pensare a Camillo Golgi e a Santiago Ramon y Cajal. Acerrimi avversari Golgi e Cajal hanno comunque costruito le basi sulle quali è stato possibile interpretare i momenti essenziali della struttura anatomo-funzionale del sistema nervoso. Ma esiste un padre dell’Immunologia? Esiste una figura che si impone sulle altre in grado di delineare un’immagine sintetica delle conoscenze in quest’area della ricerca biologica? è assai difficile dare una risposta convinta e convincente perché mai il contributo di studi diversi è stato così ricco di implicazioni pratiche, sia nel settore diagnostico sia nell’ambito della clinica. Chi ha studiato gli anticorpi tutto sommato aveva già un compito arduo per definire le loro caratteristiche strutturali e funzionali, ma poi era necessario capire come gli anticorpi nascevano, quali segnali e quali proprietà della cellula erano in grado di operare la sintesi di queste molecole così complesse e così variabili. E questo, ovvia- mente, vale per molti altri aspetti. Chi si occupa di Immunologia in realtà corre il rischio di studiare, anche se con grandiosi risultati, solo una frazione del sistema. Prima che la meccanica quantistica venisse ad agitare le acque della fisica sembrava che tutto fosse abbastanza coerente, ma poi ci si è resi conto che bisognava riesaminare molti punti in prima approssimazione considerati acquisiti. Ecco: oggi forse abbiamo strumenti matematici e informatici, una certa esperienza di modellistica di laboratorio, che possono aiutarci in modo innovativo a comprendere il sistema immunitario o almeno a interpretare alcune fasi della sua risposta proprio come sistema, come una struttura non rigidamente integrata. Alcuni autori già parlano di Immunologia come scienza combinatoriale. Come riporta G. Villani, del CNR di Pisa, in un suo scritto: Monod dopo aver definito gli esseri viventi “macchine chimiche” aggiunge: “Come ogni macchina, ogni organismo, anche il più semplice, rappresenta un’unità funzionale coerente e integrata. è ovvio che la coerenza funzionale di una macchina chimica tanto complessa, e per di più autonoma, esige l’intervento di un sistema cibernetico che controlli in più punti la sua attività”. è probabile che molte delle conoscenze sul sistema immunitario abbiano un futuro non solo strettamente legato alla sperimentazione clinica e/o di laboratorio ma si basino sull’adozione di modelli matematici, come del resto già accade da qualche anno sebbene i cultori di questo modo di trattare il problema siano visti un po’ come personaggi eccentrici. L’interdipendenza delle parti componenti il tutto esprime una realtà diversa da quella delle singole componenti: questa è la sfida del XXI secolo, sfida della teoria dei sistemi applicata al mondo della Biologia in generale e dell’Immunologia in particolare. Il Servizio di Immunologia Clinica si avvale della collaborazione del prof. Giuseppe Luzi, prof. associato - immunologo clinico e della prof.ssa Roberta Di Rosa, prof. aggregato, specialista in Immunologia Clinica; informazioni e prenotazioni INfo CUP tEL 06 809641 13 UNA StRANA DIftERItE DA fAGIoLINI… mAL CoNSERVAtI 14 ImPARARE DALLA CLINICA Augusto Vellucci Giunge al Reparto, nel quale prestavo servizio come aiuto di Malattie Infettive, una ragazza ventenne, inviataci dalla Divisione di Oculistica; l’interessata aveva riferito che, appena sveglia, aveva tentato di leggere il giornale, ma non ci era riuscita perché non vedeva più bene da vicino, mentre la visione da lontano rimaneva normale. Si accorgeva anche di un fastidio nel guardare dove c’era molta luce e di un senso di secchezza del faringe. Unico dato anamnestico di rilievo era quello di una tonsillite acuta con essudato faringeo, episodio del quale la ragazza aveva sofferto circa un mese prima. Nell’ ipotesi di una polinevrite difterica, comparsa a distanza di qualche settimana dall’impegno faringo-tonsillitico, l’oculista inviava la ragazza nel nostro reparto e l’assistente di accettazione, condividendo la diagnosi, la ricoverava e decideva di somministrarle con urgenza il siero antidifterico. Un attento esame obiettivo della paziente mi faceva confermare il quadro clinico descritto, quello cioè di una incapacità bilaterale all’accomodazione nella visione di oggetti vicini, as- sociata a persistente midriasi (pupille dilatate, che giustificavano il fastidio a guardare in ambienti molto luminosi), ad un torpido riflesso pupillare alla luce con scomparsa dei riflessi alla convergenza e all’accomodazione, e a un rilievo di secchezza del faringe, che si presentava asciutto e deterso. Non esisteva alcun deficit motorio, non alterazione nei movimenti dei globi oculari, non diplopia (visione doppia), né nistagmo (movimenti oculari involontari). Non vi era febbre né altra sintomatologia rilevabile, salvo una lieve debolezza generalizzata. Rimettevo in frigorifero il siero preparato per la somministrazione e mi chiedevo se potesse essere accettabile la diagnosi di polinevrite difterica. La difterite è una malattia infettiva causata da un Corinebatterio che si moltiplica nel faringe, dove si viene a formare una pseudo-membrana di colore grigiastro associata a una notevole tumefazione linfonodale laterocervicale; qui il batterio produce una potente esotossina che, entrata in circolo, determina un blocco della sintesi proteica di tutte le cellule che colpisce, causandone la morte. Si verificano effetti dannosi soprattutto a carico delle cellule cardiache, epatiche e renali. L’impegno delle vie nervose è usualmente una complicanza tardiva (dopo alcune settimane dalla faringite). Prima si ha paralisi del palato molle e del retrofaringe con rigurgito e rinolalia (voce nasale), successivamente compare paralisi di alcuni nervi cranici e, dopo altri giorni, segni di polinevrite agli arti inferiori, con progressiva debolezza muscolare, fino alla paralisi totale (andamento discendente). Nel caso in esame non esisteva nulla di tutto ciò. E poi, sapevo bene che nella polinevrite difterica non è presente alcun interessamento del sistema nervoso autonomo, quello che innerva i movimenti dei muscoli dell’occhio che risultavano impegnati nella nostra paziente. Infatti l’accomodazione visiva è regolata dal piccolo muscolo ciliare, il quale, contraendosi, fa sì che il cristallino accentui la sua curvatura anteriore, permettendo la messa a fuoco di oggetti a distanza sempre più ravvicinata. La paresi del ciliare si manifesta perciò con un deficit accomodativo, dapprima solo per la visione vicina (quella infatti che richiede una completa contrazione e quindi un maggiore sforzo muscolare) e poi, con l’intensificarsi della sintomatologia, anche della visione a distanza, fino alla scomparsa del potere di accomodazione. Analogo comportamento presenta il piccolo muscolo costrittore dell’iride, la cui azione fa restringere lo sfintere irideo (miosi) e la paralisi lo fa dilatare (la midriasi della paziente). I suddetti muscoli oculari sono innervati dal parasimpatico mesencefalico, con fibre colinergiche che decorrono con il 3° paio dei nervi cranici e che, giunte a destinazione, stimolano i piccoli muscoli, rilasciando una sostanza (acetilcolina) che ne permette l’eccitazione. Queste fibre non sono aggredite dalla tossina difterica. La diagnosi di difterite non aveva più diritto di domicilio! Ma l’astenia si stava rapidamente accentuando, cominciando a interessare i muscoli respiratori, segno evidente dell’inizio dell’ intossicazione anche delle sinapsi colinergiche dei muscoli striati. bisognava fare presto a chiarire il problema. Quale tossina poteva essere la causa della patologia della nostra paziente? Quale tossina è selettivamente dotata di una azione anticolinergica, inibendo la produzione di questo mediatore chimico, azione che evidentemente inizia nelle sedi più delicate, come in quelle oculari, e poi può bloccare il funzionamento anche dei muscoli scheletrici? Escludendo per varie ragioni la possibilità di un’intossicazione da tossine con azione atropino-simile, come ad esempio quella da Amanite (la malata non aveva mai mangiato funghi in vita sua), la diagnosi non poteva che essere una: botulismo! Nel botulismo l’avvelenamento è determinato dalla ingestione di cibo (soprattutto conserve domestiche) contaminato da spore del Clostridium botulinum in ambiente anaerobico (senza ossigeno), nel quale le spore germinano, crescono e producono la tossina; questa è termolabile (viene distrutta dal calore oltre gli 80 gradi e quindi non si ritrova nei cibi bolliti), ma resiste ai succhi gastrici. Ingerita con alimenti non sottoposti a bollitura, la tossina penetra in circolo e attacca una proteina della giunzione neuromuscolare a livello delle terminazioni nervose, impedendo il rilascio proprio dell’acetilcolina e determinando il quadro clinico da noi osservato. La diagnosi era fatta! Iniziava allora una corsa contro il tempo, sia per ottenere con estrema urgenza che ci venisse inviato il siero antibotulinico, che in quel momento non era disponibile presso la nostra farmacia, e sia per trovare ulteriori riscontri alla diagnosi. Telefonai allora all’istituto di suore dove la paziente consumava i pasti, e la superiora candidamente mi riferiva che un’altra ragazza, dalla mattina, aveva disturbi visivi e da poco non riusciva a respirare bene; ma era noto che soffriva di asma bronchiale! E che forse una terza ragazza cominciava ad avere gli stessi sintomi. Risposi, forse spaventando un poco la mia interlocutrice, chiedendo ad alta voce di inviarle ambedue in ospedale con estrema urgenza. Dopo poco si ricoveravano le due nuove pazienti; la seconda mostrava un quadro clinico ancora più intenso di quello della prima, con sempre più evidente paresi dei muscoli respiratori (per essa fu necessario un lungo periodo di ventilazione assistita). Somministravo immediatamente a tutte il siero antibotulinico, appena arrivato, e avvertivo l’Ufficio di Igiene per una immediata inchiesta presso l’istituto dove le ragazze consumavano i pasti. L’indagine, subito effettuata, permetteva di individuare l’alimento incriminato in un grosso barattolo di fagiolini conservati, di produzione familiare, nel quale venivano trovate le spore del Botulino e la tossina, riconosciuta di tipo A. Il decorso clinico fu per le tre pazienti lungo e impegnativo, ma alla fine guarirono completamente. La diagnosi corretta effettuata solo sul ragionamento clinico aveva impedito di somministrare il siero antitossico sbagliato e aveva permesso di salvare la vita di tre giovani donne. 15 IL PIede dIABeTIco 16 mIxING Alessandro ciammaichella Si tratta di un’entità clinica dovuta a due momenti patogenetici fondamentali, quali l’angiopatia e la neuropatia diabetiche: a seguire, nei casi più complicati, compaiono spesso l’infezione e le lesioni ossee distruttive. La microangiopatia diabetica ne è responsabile quale causa diretta dell’ischemia dei tessuti e della conseguente gangrena. Ma essa opera anche tramite la compromissione dei “vasa nervorum” che comporta l’altro meccanismo patogenetico fondamentale, quale la neuropatia. La neuropatia diabetica coinvolge - oltre al sistema neurovegetativo o autonomo, con multiformi sintomi viscerali - anche il sistema nervoso periferico: i correlati disturbi della sensibilità interessano prevalentemente gli arti inferiori. Si distinguono una forma primitiva, di tipo metabolico, dovuta soprattutto ai danni arrecati dal sorbitolo (le lesioni anatomo-patologiche comprendono la frammentazione della guaina mielinica, la degenerazione walleriana delle fibre nervose e la degenerazione dendritica dei gangli simpatici) e una forma secondaria alla microangiopatia, per la chiusura, come detto, dei “vasa nervorum”. I sintomi ipertermia, iperidrosi, cianosi ed edema sono da riportare a una sindrome di de- nervazione simpatica. Molto varia la sintomatologia neurologica: crampi, parestesie e dolori, più spesso di notte; talora dolori folgoranti di tipo pseudotabetico. All’esame obiettivo: iposensibilità profonda con ipo-apallestesia, ipoestesia completa o solo termoanalgesica, areflessia rotulea. L’elettromiografia confermerà il sospetto clinico. Il mal perforante plantare è strettamente connesso con la neuropatia diabetica: si caratterizza per una necrosi tessutale della pianta del piede, soprattutto nei tre punti dove è maggiore la pressione del peso corporeo in ortostatismo: prima e quinta articolazione metatarso-falangea e calcagno. Tale pressione può essere bene quantificata con la baropodometria. L’analgesia diabetica è responsabile della “penetrazione” della necrosi in profondità in quanto il paziente - non avvertendo dolore - non si accorge della necrosi cutanea né soprattutto del suo approfondimento, che può arrivare fino alle ossa, provocando anche una osteomielite. Caso di osservazione personale: mentre medicavo un mal perforante plantare, inviatomi da un ortopedico, mi caddero in mano frammenti di ossa (da osteomielite) senza che il paziente avvertisse nulla. Il piede è quasi sempre secco, per perdita dell’innervazione neurovegetativa (i piedi con normale sudorazione di rado si ulcerano): la cheratina secca si rompe e ne consegue ulcerazione. In questi casi pertanto il piede deve essere immerso in acqua per 10 - 20 minuti e asciugato: si applicherà poi olio minerale, per prevenire l’evaporazione dell’acqua assorbita. L’infezione - oltre che con un’accurata toilette va trattata con antibiotici mirati con antibiogramma, in loco e per via sistemica. L’osteoartropatia diabetica, oltre al mal perforante plantare, è un’altra forma con la quale può essere interessato il sistema scheletrico. Essa, secondaria alla neuropatia, colpisce il piede più spesso rispetto alla caviglia e al ginocchio. Compare osteolisi di una o più ossa. Il piede è deformato, quasi mai dolente, nonostante la severità dei danni anatomici, ed edematoso. Compromessa la motilità. Il Servizio di Diabetologia è diretto dalla Dr.ssa Rita Amoretti, già responsabile del Servizio di Diabetologia dell'ospedale “San Giovanni e Addolorata” di Roma; informazioni e prenotazioni - INfo CUP tel. 06 809641 UnA “TIGRe” FASTIdIoSA neLL’eSTATe UMIdA Giuseppe Luzi Il suo nome scientifico è Aedes albopictus, ha dimensioni di pochi millimetri (più o meno come la zanzara comune che ben conosciamo), il suo aspetto cromatico è caratteristico con un corpo nero e una banda bianca che attraversa longitudinalmente il corpo stesso e linee bianche sulle piccole zampe. I maschi sono più piccoli delle femmine. è la zanzara tigre che, originaria dell’Asia, è giunta nel nostro paese più o meno una decina di anni or sono trovando spazio in pneumatici d’importazione all’interno dei quali erano state deposte le uova. Nella seconda metà del ventesimo secolo la zanzara si è diffusa in numerosi paesi africani e si trova negli USA, in Australia, in diverse aree del Sud America e nelle isole del Pacifico. In Italia è ormai presente su tutto il territorio nazionale ed è stata individuata anche in diverse nazioni eu- ropee. Quando punge fa male: si forma una bolla con insorgenza di prurito e dolore. Particolarmente sensibili alla puntura i bambini. Numerose punture sono in grado di provocare una reazione allergica significativa, anche se di solito localizzata. è interessante sapere che la sua attività è diurna, carattere che la distingue dalla zanzara comune. Le prede sono cercate di solito al di fuori delle abitazioni, all’aria aperta, ma non vengono disdegnati i comuni appartamenti. Inoltre la zanzara tigre ha una capacità di puntura rapidissima e sfugge velocemente alla “cattura”. L’Aedes albopictus si giova di piccole raccolte d’acqua, acqua stagnante di pioggia o accumulata con comuni annaffiature di giardini o balconi. Poiché la sua capacità di adattamento è molto alta praticamente qualunque contenitore, anche piccolo, può rappresentare un’utile riserva per la riproduzione. La zanzara tigre depone le sue uova sulla superficie dell’acqua. Con l’innalzarsi del livello dell’acqua le uova deposte vengono completamente sommerse: in questo ambiente esse si schiudono e si possono osservare le larve. In circa una settimana le larve diventano adulte. La nostra zanzara ha un raggio d’azione che non supera di solito i 200 metri e questo fatto ci può aiutare nel localizzare i luoghi di deposizione delle uova che risultano abbastanza vicini alla sede dove vengono individuate le stesse zanzare. Tuttavia questa osservazione va presa con il beneficio di inventario perché osservazioni recenti dimostrano che la “tigre” si sposta anche oltre gli 800 - 1000 metri. Pneumatici usati “a rischio” di zanzara tigre, nei quali possono trovarsi uova di Aedes albopictus 17 piegato durante un'epidemia in Tanzania nel 1952, a causa delle gravi limitazioni articolari dovute alle importanti artralgie che caratterizzano la malattia. La febbre può essere accompagnata da brividi molto forti. Può essere anche presente una linfoadenopatia coinvolgente numerosi distretti. Uova di Aedes albopictus 18 L’adattamento climatico non è un problema perché l’Aedes albopictus, sebbene derivi da zone tropicali e subtropicali, tende a riprodursi con successo anche in territori più freddi. In Italia ha fatto la sua prima comparsa nella città di Genova. Sotto il profilo medico dobbiamo tenere presente che la zanzara tigre punge diversi ospiti (anche gli animali, oltre l’uomo). In particolare può essere trasmessa la dirofilariasi dal cane all’uomo. Tuttavia vari agenti patogeni possono essere trasmessi: il virus della febbre del Nilo, della febbre gialla, dell’encefalite di St. Louis, del dengue e il virus chikungunya (non molto tempo fa, tra il 2005 e il 2006, nell’isola francese di Riunione, furono circa 300.000 le persone contagiate e ci furono 248 morti). In Italia un’ epidemia di chikungunya è stata segnalata nella zona di Ravenna, nell’estate del 2007. Durante questo evento furono colpite circa 200 persone. Il chikungunya è causata da un Alphavirus che induce un quadro clinico caratteristico: l’incubazione è in media di 2 - 4 giorni ma può arrivare a dodici. La forma più tipica è una sindrome febbrile acuta, con esordio brusco, febbre elevata e poliartralgie. Il termine chikungunya, in makonde, significa “ciò che curva” o “induce contorsioni” e fu im- Di particolare rilievo è l’intensità della sintomatologia dolorosa che si estende ai muscoli, alle spalle e al rachide. La manifestazione cutanea è possibile in circa la metà dei casi e si presenta con rash cutaneo, con eritema al tronco e alla faccia, associato ad enantema ed eritema palmare e plantare. In generale l’evoluzione è benigna e il ricovero in ambiente ospedaliero non sembra essere necessario nella maggior parte dei casi. Tuttavia la convalescenza può essere lunga con il persistere dei dolori anche per tre, quattro mesi. Forme rare sono un’epatite talora a carattere fulminante, una forma di mielo-meningo encefalite, la forma di poliradiculoneurite tipo sindrome di Guillain-Barré, la pericardite con miocardite. La lotta all’Aedes si fa bonificando l’ambiente e tenendolo sotto controllo. Bisogna considerare la stagione più a rischio, un’estate umida, come spesso è quella romana, ma anche la grande capacità delle uova che possono sopravvivere in forma quiescente durante l’inverno. Di particolare interesse è il ricorso a nuove tecnologie che utilizzano sistemi satellitari di sorveglianza. Infatti ricorrendo al sistema GPS dovrebbe essere possibile monitorizzare l’emergere di focolai di uova degli insetti in diverse aree topograficamente distinte, utilizzando quindi una tattica anti-zanzara più efficace e mirata. Una semplice precauzione consiste semplicemente nel non generare pozzanghere, di qualsiasi tipo. La Consulenza Infettivologica viene svolta dal prof. Augusto Vellucci, specialista in malattie Infettive, già Primario ospedaliero di malattie infettive; informazioni e prenotazioni - INfo CUP tEL. 06 809641. L’aggiornamento sulle cause di morte in età pediatrica nei bambini al di sotto dei cinque anni è stata valutata per il 2008. Di particolare interesse i nuovi dati dalla Cina e dall’India. Sono state prese in esame 193 nazioni. Il numero dei decessi è stato calcolato per nazioni, regioni e a livello globale. Sulla stima di 8, 795 milioni di morti in bambini al di sotto dei 5 anni le malattie infettive hanno provocato circa 6 milioni di decessi (68%). Le percentuali più ampie riguardano le polmoniti (18%), la diarrea (15%), la malaria (8%). Nei neonati le cause di morte includono le complicazioni nelle nascite pretermine (asfissia, sepsi, polmoniti). Circa il 50% dei morti (4,294 milioni) si collocano in cinque nazioni: India, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Pakistan e Cina. 2) The Lancet 2010; 375: 1704 – 1720 Worldwide mortality in men and women aged 15-59 years from 1970 to 2010: a systematic analysis Rajaratnam J.K. et al. Molte ricerche studiano le cause di morte nell’età infantile e giustamente tendono a definire parametri in grado di formulare ipotesi per migliorare l’assistenza sanitaria. Risulta al contrario che la mortalità degli adulti sia un po’ meno considerata, ovviamente nell’ambito dei grandi numeri e delle strategie planetarie. In questo lavoro lo scopo degli autori è stato quello di calcolare una stima della mortalità negli uomini e nelle donne tra i 15 e 59 anni. Usando un particolare metodo di analisi statistica con lo scopo di evitare errori di interpretazione grossolani gli autori dello studio hanno identificato alcuni punti interessanti; per esempio le nazioni che nel 2010 hanno il rischio più basso di mortalità per le donne e per gli uomini, rispettivamente, sono Islanda e Cipro. Al contrario il più alto rischio di mortalità per gli uomini si colloca nello Swaziland, nello Zambia per il sesso femminile. Nell’arco di un quarantennio (1970-2010) un incremento della mortalità si è osservato fra gli adulti nell’area subsahariana, a causa dell’epidemia di AIDS. Crescita della mortalità fra gli adulti anche nelle aree correlate alla vecchia Unione Sovietica. Al contrario molto forte il declino della mortalità fra le donne nell’Asia del Sud. Questi dati possono essere considerati talora come aggiornamenti poco significativi, quasi curiosità, nella realtà geopolitica, ma al contrario rappresentano un tentativo di approccio globale al problema. La prevenzione di morte prematura negli adulti è di grande importanza, non inferiore a quanto si deve fare per la prevenzione nell’età pediatrica. Ne deriva una base strategica per l’impostazione di politiche igienico-sanitarie e per scelte territoriali di intervento in grado di fornire indicatori sull’efficacia delle azioni da intraprendere o da evitare. 3) J cell Physiol 2010; 9999: cancer stem cells: a stride towards cancer cure? Sengupta A, Cancelas JA. Gli sviluppi della ricerca oncologica dimostano il ruolo importante che possono avere le cellule staminali nell’evoluzione metastatica. In sostanza la teoria della cancer stem cell si basa sull’esistenza di una popolazione di cellule responsabile dell’evoluzione iniziale del cancro, fRom bENCH to bEDSIDE 1) The Lancet, early online Publication 2010 - doi:10.1016/S0140-6736 Global, regional, and national causes of child mortality in 2008: a systematic analysis Black R. E. et al. 19 della stabilizzazione evolutiva in grado di accumulare mutazioni e pertanto di resistere ai trattamenti chemioterapici. Dal postulato iniziale si sono ottenute varie dimostrazioni che identificano questa rara popolazione cellulare dotata della capacità di iniziare l’evoluzione neoplastica. Nella leucemia mieloide i dati hanno ricevuto notevoli supporti, mentre meno chiaro si presenta il problema quando trattiamo tumori solidi (soprattutto ruolo del microambiente, nicchie cellulari, attivazione dell’espansione neoplastica). Questa revisione del problema tratta in modo utile e sintetico le evidenze che supportano la teoria della cellula staminale cancerosa, mettendo in luce alcune apparenti contraddizioni e la posizione della comunità scientifica, talora scettica sulla possibilità di ricondurre a questa teoria una visione unitaria per la genesi dei tumori. Senza dubbio un argomento per specialisti ma dalle consistenti ricadute culturali sul tema della cancerogenesi, ancora ben lungi dall’essere risolto malgrado ottimismi di maniera. 20 4) n engl J Med 2007; 357:266-281. Vitamin d deficiency Holick, M.F. Ai nostri giorni “ripescare” un lavoro pubblicato nel 2007 sembra quasi una sorta di modernariato bibliografico. Errore. Esistono articoli che conservano un ruolo operativo per lungo tempo, in funzione del messaggio che lanciano o dei concetti che vengono rivisitati. Si pensava di conoscere molto, forse tutto, sulla vitamina D ma le cose stanno cambiando.Nell’articolo di Holick viene riassunto il quadro complessivo della fisiopatologia della vit. D e del suo ruolo in diverse condizioni patologiche. Il contesto si è ravvivato partendo dall’osservazione che la maggior parte dei tessuti e delle cellule possiedono recettori per la vit. D e che alcuni hanno il complesso pool chimico che forma il macchinario enzimatico che permette al nostro corpo di convertire la forma circolante di vit. D nella variante chimica attiva (1,25-diidrossivitamina D). Sembra ormai acquisito il ruolo di questa molecola nel diminuire il rischio di diverse malattie croniche, compreso il cancro e alcune forme di autoimmunità. Ma l’estensione del ruolo biologico si amplia sia nell’ambito dell’infettivologia sia in quello delle malattie cardiovascolari. Di particolare interesse sembra il ruolo svolto dalla vit. D nella regolazione di alcune fasi della risposta immunitaria. Per esempio grazie ad alcuni recettori che possono essere attivati da lipopolisaccaridi o in corso di infezione tubercolare coinvolgendo i macrofagi, un’adeguata presenza di vit. D consente di modulare la risposta linfocitaria con segnali che coinvolgono i linfociti T e la sintesi delle immunoglobuline. G. L. HANNo CoLLAboRAto IN QUESto NUmERo Prof. Gabriele Rumi Unità di Allergologia Complesso Integrato Columbus dell’Università Cattolica del Sacro Cuore Roma Prof. Giuseppe Luzi Immunologo Clinico Prof. associato di Medicina Interna Prof. Alesssandro Amici Direttore UOC Urologia - Ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina - Roma Prof. Augusto Vellucci Specialista in Malattie Infettive Medico Responsabile del Servizio Check-Up BIOS S.p.A. Dr.ssa Anna Simonetta Battiato Medico specialista in Scienza dell'Alimentazione Prof. Alessandro ciammaichella già Primario Medico ENOLOGIA LA PREVENZIONE DEDICATA ALLE DONNE La bIoS S.p.A. di Via D. Chelini, 39, con esperienza pluridecennale nel campo della radiologia e della prevenzione si occupa da sempre della diagnostica senologica. Grazie a questa esperienza offre alle donne una struttura mutidisciplinare dedicata alla senologia per realizzare un percorso completo, diagnostico e terapeutico per le malattie della mammella. Il cancro della mammella rappresenta un rischio statisticamente alto: in Italia colpisce una donna su dieci e circa il 25% ha meno di cinquant’anni di età. Con una diagnosi precoce e un intelligente controllo del rischio si può cogliere la malattia allo stato iniziale con elevata probabilità di guarigione. Esistono protocolli di controllo che utilizzano strumenti e metodi aggiornati per acquisire dati in grado di fornire un inquadramento corretto. L’ecografia, eseguita con sonda ad alta definizione da uno specialista, particolarmente esperto in senologia, a completamento della visita senologica dopo i 20 anni, o della mammografia, dopo i 40 anni. Inoltre presso la BIOS S.p.A., è possibile eseguire: La visita senologica curata da uno specialista senologo, una volta l’anno, a partire dai 25-30 anni. L’agobiopsia, prelievo sotto guida ecografica di cellule e frammenti di tessuto eseguiti su indicazione del senologo da parte di un patologo dedicato, per definire la natura di un nodulo. Un eventuale intervento chirurgico sarà eseguito dai nostri Specialisti, a livello di esclusiva eccellenza. Ogni necessario trattamento adiuvante diretto e coordinato dall’equipe multidisciplinare. La radiologia, diretta dal Prof. V. Di Lella, consente: La mammografia, riconosciuta, ormai da tutti gli operatori del settore, come il miglior mezzo per la prevenzione delle patologie al seno, da eseguire una volta l’anno, dopo i 40 anni. L'accesso al Servizio avviene con una telefonata al CUP bios di via D. Chelini, 39 tel. 06 809641.